Addio cosa nostra

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Addio Cosa Nostra..txt Pino Arlacchi. Addio Cosa Nostra. La vita di Tommaso Buscetta. Rizzòli. a GIovanni Falcone e Paolo Borsellino. INTRODUZIONE. L'autore di questo libro si è più volte interrogato sulle origini della vicenda che si è conclusa con la sua pubblicazione. Ha deciso infine che Addio Cosa Nostra non è nato nel luglio 1993, in seguito all'autorizzazione agli incontri con Buscetta ricevuta dalla competente commissione del Ministero dell'Interno. Il volume è stato in realtà concepito molto tempo prima. In una limpida mattina del luglio 1984, in una stanza del Tribunale di Palermo, Giovanni Falcone mi annunciò che i miei studi sul fenomeno mafioso, da lui considerati fino allora come la fonte di ispirazione principale delle sue indagini, erano errati in un punto cruciale: nella categorica esclusione dell'esistenza della mafia come società segreta. Pur avendo colto alcuni aspetti fondamentali della evoluzione della mafia negli anni '70 e '80, quali il più stretto rapporto con la politica e la sua identificazione con le forze di mercato, avevo mancato di mettere a fuoco, secondo Falcone, la presenza di una «sostanza nascosta che animava e rendeva intelligibili fatti e dinamiche profonde del mondo della mafia. Questa «sostanza» aveva un nome: Cosa Nostra. Una fonte» di eccezionale portata - della cui esistenza non dovevo neppure lontanamente accennare a chicchessia - glielo aveva rivelato. La mia risposta fu che la letteratura scientifica sul tema - in Italia e negli Stati Uniti - era pressoché unanime nell'escludere l'esistenza della «mafia» intesa in quei termini. E che non avevo fatto altro, nelle mie ricerche, che attenermi a tale valutazione. Lo avvertii di stare in guardia dalle sue fonti", le quali erano forse più smaliziate di quanto lui pensasse, ed insinuai che esse potessero essere influenzate, nel loro modo di vedere e raccontare il mondo della mafia, dall'alluvione di miti, stereotipi e superstizioni su Cosa Nostra prodotta dal successo mondiale del libro e del film Il Padrino. Falcone replicò con un sorriso e con una facile profezia. Il sorriso si riferiva alla sua personale padronanza degli strumenti di accertamento della verità a disposizione di un giudice istruttore. La profezia fu che, una volta diventate pubbliche per effetto della cessazione del segreto istruttorio, le «carte a sua disposizione mi avrebbero convinto che mi ero sbagliato, assieme a tutti i miei illustri colleghi, sulla definizione della natura stessa della mafia. L'incontro si concluse con una scommessa che mi impegnava a riscrivere, nel caso di sconfitta, il mio volume su La mafia imprenditrice pubblicato pochi mesi prima. Né la lettura del testo della celebre deposizione di Tommaso Buscetta né le interminabili, successive discussioni con Giovanni Falcone circa la struttura di Cosa Nostra mi convinsero della necessità di cambiare angolazione nello studio del fenomeno. Mi ero persuaso, nel frattempo, che sia Falcone che Paolo Borsellino e gli altri investigatori del pool'antimafia si fossero lasciati un po' troppo suggestionare, nell'affrontare la questione della formula organizzativa di Cosa Nostra, dalle concezioni del grande giurista siciliano Santi Romano che considerava la mafia come un vero e proprio «ordinamento giuridico alternativo» a quello dello Stato. La mia opinione era che l'universo delle regole e delle istituzioni politiche» interne a Cosa Nostra non fosse altro che una specie di superficiale sovrastruttura. Un paravento ingannevole tramite il quale venivano trasmesse al popolo delle cosche ed alle famiglie meno potenti le decisioni assunte dai poteri forti nelle sedi reali del governo della mafia. Sedi che si trovavano al di fuori della Commissione regionale e delle Commissioni provinciali di Cosa Nostra. La quale, in altre parole, esisteva ed operava come sodalizio segreto, ma non era da prendere troppo sul serio. Gli occhiali del sociologo e dell'economista andavano quindi tenuti ben saldi Pagina 1


Addio Cosa Nostra..txt sopra il naso, anche se qualche nozione di diritto penale e costituzionale era forse necessaria per orientarsi nel ginepraio delle logiche e dei conflitti interni più complicati. Ho impiegato sette anni per ammettere di avere commesso un errore di superbia intellettuale, prima ancora che di analisi applicata. Nella primavera del 1991 il prefetto Parisi, capo della polizia italiana, autorizzò una serie di colloqui tra il sottoscritto e il mafioso pentito» Antonino Calderone, che si trovava in procinto di scomparire stabilendosi in un altro paese, sotto un'altra identità. Fu solo nel corso degli incontri con Calderone che mi resi conto di quanto fossero importanti dal punto di vista scientifico le acquisizioni raccolte da Falcone e dagli altri inquirenti che avevano avuto a che fare con i cosiddetti pentiti. Dovetti riconoscere che il territorio di studio ritenuto ormai esplorato e conosciuto nelle sue caratteristiche di base possedeva una dimensione di complessità ulteriore. Che andava indagata a fondo, pena l'impossibilità di interpretare alcuni degli eventi di più acuta emergenza: le guerre di mafia, i conflitti tra famiglie, le punizioni e le condanne ai trasgressori delle norme interne, gli omicidi di autorità pubbliche, la logica delle relazioni di collusione e corruzione con le autorità politiche e giudiziarie. I colloqui con Calderone dai quali è nato il volume Gli uomini del disonore, pubblicato la settimana precedente la strage di Capaci e presentato al pubblico da Paolo Borsellino cinque giorni dopo la scomparsa di Falcone - mi hanno consentito di giungere all'appuntamento con Tommaso Buscetta provvisto di una più acuta consapevolezza della complessità del terreno di ricerca, nonché ansioso, naturalmente, di ascoltare dal la viva voce di un protagonista di vertice il racconto della storia recente della mafia siciliana. Al centro di questa storia si colloca Cosa Nostra, una setta segreta nata in Sicilia oltre un secolo addietro con il nome di «Carbonari» e poi di «Beati Paoli», che è riuscita a sopravvivere a tutti i cambiamenti mantenendo nascosta fino al 1984 la propria identità. I siciliani e gli italiani conoscevano degli individui e dei piccoli gruppi di potere che venivano chiamati «mafiosi». Più volte, nei documenti giudiziari dell'epoca successiva all'unificazione italiana, sono state messe sotto accusa varie «associazioni di malfattori» ed «associazioni per delinquere» etichettate sotto il nome di «mafia» e «mafie». Ma non è mai venuta alla luce, prima che Buscetta decidesse di parlare» a Falcone, la fisionomia di un'unica società criminale, con riti di iniziazione, norme e statuti nata nella Sicilia Occidentale denominata «Cosa Nostra» e trapiantata in altre regioni italiane e all'estero fin dall'inizio del '900. Gli italiani non hanno mai conosciuto l'architettura nascosta della mafia per via dell'alto livello di segretezza che la setta criminale è riuscita a mantenere nel tempo. Grazie alle sue complicità politiche e alla cultura di rispetto e protezione sociale che ha circondato fino a qualche anno fa gli uomini d'onore. Grazie all'efficacia delle punizioni contro i «traditori», gli accusatori o i pentiti» ante litteram. Ma un ruolo importante nella perpetuazione del silenzio su Cosa Nostra è stato giocato anche da una certa forma di «cecità» delle istituzioni che ha impedito di afferrare il significato di quegli «squarci» della cortina di segreto che si sono pure verificati negli ultimi decenni. Ancora prima che Leonardo Vitale, mafioso della famiglia di Altarello di Baida, rivelasse agli inquirenti nel 1973 il rituale, la gerarchia e la composizione della cosca cui egli stesso apparteneva, e venisse perciò letteralmente preso per pazzo e rinchiuso in manicomio, è esistito almeno un altro consistente strappo del tessuto dell'omertà mafiosa. Mentre ultimavo il presente lavoro mi è capitato di leggere un documento di straordinario interesse. Si tratta della confessione di un medico di Castelvetrano, Melchiorre Allegra, che si presentò in un ufficio di polizia nel 1937 e dichiarò di far parte di una associazione criminale «molto potente, che comprendeva molta gente di tutte le categorie sociali, non escluse le migliori, i cui componenti erano chiamati "uomini d'onore". Questa associazione... era proprio quella che in Sicilia si chiamava "mafia', da molti conosciuta in maniera, però, assai vaga perché nessuno, tolti quelli che Pagina 2


Addio Cosa Nostra..txt vi appartenevano, poteva con sicurezza affermarne l'esistenza». Il medico descrisse il suo ingresso nella setta, avvenuto nel 1911 secondo modalità sostanzialmente identiche a quelle illustrate dagli odierni collaboratori della giustizia, ed elencò gran parte degli uomini d'onore da lui personalmente conosciuti, a Palermo e nella Sicilia occidentale. La descrizione di Allegra del microcosmo criminale è perfettamente coincidente con quella effettuata sia da Vitale che da Buscetta che dai «pentiti» successivi. E fu pure pubblicata, a firma di Mauro De Mauro, sul quotidiano «L'Ora" di Palermo nel gennaio 1962. Ma ciò non dette luogo, neppure allora, ad alcuna conseguenza. L'umana avventura di Tommaso Buscetta consente di comporre un quadro della storia post-bellica di Cosa Nostra, della sua natura, della sua articolazione gerarchica, del «senso» delle sue relazioni interne, molto più dettagliato ed approfondito rispetto ad ogni fonte precedente. il lettore ha a sua disposizione gli stessi elementi conoscitivi che hanno quasi «stregato» Giovanni Falcone durante i suoi colloqui con l'ex uomo d'onore. Il microcosmo di Cosa Nostra qui rappresentato differisce per molti versi da quello dipinto da Antonino Calderone, o da quello descritto da altri mafiosi pentiti» nei documenti giudiziari. La mafia di Tommaso Buscetta è innanzitutto ordine, regola, diritto, giustizia. Un insieme di codici e di valori legati ad una speciale contingenza storica e geografica che ad un certo punto vengono stravolti, rovesciati, dall'emergere di una forza sotterranea: la volontà di potenza e di ricchezza di una élite di demoni inesorabili, che si appropriano con il terrore e con la frode di ogni spazio, di ogni potere, di ogni privilegio. E la mafia-impresa che prevale sul la mafia-ordinamento giuridico ? E lo spirito del capitalismo primitivo che si impone sull'etica mafiosa ? La discussione è aperta. Il lavoro che il lettore ha di fronte è il risultato dei colloqui dell'autore con Buscetta e dello studio delle sue testimonianze davanti al l'autorità giudiziaria. Il tutto è stato poi elaborato secondo un metodo già usato per la stesura de Gli uomini del disonore. Non si tratta perciò della semplice trascrizione del contenuto delle conversazioni tra l'autore e Buscetta, né della riproduzione delle dichiarazioni di quest'ultimo al giudice Giovanni Falcone. Si tratta dell'esposizione delle idee, delle esperienze e dei fatti salienti dell'esistenza di uno dei maggiori mafiosi contemporanei, così come essi sono emersi nel corso di un confronto con le domande, le curiosità, le inclinazioni e le idiosincrasie di uno studioso del fenomeno mafioso. Siamo quindi ben lontani, anche questa volta, dall'ingenua illusione di spiegare una volta per tutte «che cos'è veramente la mafia» attraverso il racconto di una storia individuale, e secondo una formula espressiva che rifletta il «vero» registro linguistico e comunicativo di un uomo d'onore. La scelta della prima persona invece della terza è solo un modo per conferire immediatezza al racconto. PINO ARLACCHI. Roma, 21 aprile 1994.

Addio Cosa Nostra. La vita di Tommaso Buscetta. ADDIO COSA NOSTRA. Non sono un pentito. E non sono una spia, né un informatore, né un criminale che prova piacere a infrangere le leggi e sfruttare gli altri. Non mi considero una spia perché parlo in pubblico, davanti alla legge e alla gente, e non di nascosto. Non sono un informatore perché non ho venduto le mie dichiarazioni, come fanno i confidenti con la polizia. Quando ho deciso di parlare, ho chiesto solo che garantissero sicurezza e protezione ai miei familiari. E non sono un pentito, nel senso che questa parola ha assunto per molti, soprattutto in Italia e che non cessa di infastidirmi. La prima cosa che ho dichiarato al giudice Falcone il giorno in cui ho iniziato la mia collaborazione, nel luglio del 1984, è proprio questa. Quello stesso giorno consegnai al giudice un mio appunto, che lui trascrisse sotto forma di dichiarazione verbale: «Sono stato un mafioso e ho commesso degli Pagina 3


Addio Cosa Nostra..txt errori» si legge nel testo della mia deposizione «per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la giustizia, senza pretendere sconti né abbuoni di qualsiasi tipo. Invece, nell'interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano. Sono parole molto impegnative. Parole che ho pronunciato dieci anni fa e alle quali mi vanto di avere tenuto fede fino a questo momento. Parole gravi, in cui ammetto i miei errori. Tutti e senza con questo voler minimizzare le mie colpe. Più volte, nella mia carriera di mafioso, ho infranto le leggi civili e penali; ho fatto contrabbando, ho corrotto uomini e funzionari pubblici, ho organizzato il gioco d'azzardo e per questi crimini ho pagato con molti anni di carcere. Ma non ho mai trafficato in droga, né usato violenza per denaro, nonostante le accuse della polizia e le condanne penali che ho ricevuto. Ho parlato e parlo. Parlo per le ragioni che chi vorrà leggere queste pagine potrà condividere o no, ma confido che in ogni caso capirà. Non perché mi sia «pentito»: questa e una parola che mi ha sempre urtato, e ancora oggi mi fa rabbia. Mi è stata affibbiata così, per comodità e superficialità; non è stato fatto, se non da pochi uomini, il minimo sforzo per cercare di comprendere la verità e la complessità delle cose, né per rendersi conto fino in fondo delle mie motivazioni. Di che cosa mi sarei pentito? Non l'ho ancora capito. Io ho rinnegato, ho disconosciuto un'istituzione nella quale ho creduto e che ho servito con lealtà e disinteresse. Non mi sono pentito di nulla. Il pentimento contempla una richiesta di perdono. Io non ho chiesto perdono a nessuno. Non ho neppure chiesto un perdono generale alla società per i danni che le ho recato con le mie attività di mafioso. Forse un giorno lo farò, ma finora non l'ho fatto E una mia scelta. E allora perché appiopparmi questa etichetta logora e imprecisa? Chi parla di Buscetta pentito dovrebbe specificare quando, dove e davanti a chi sono comparso per chiedere perdono. Non mi sono mai presentato in un tribunale a dire: «Signor Presidente, mi pento di tutti i peccati che ho commesso come membro di Cosa Nostra». Non sono un pentito nel senso morale e religioso della parola. Non rinnego tutto me stesso e tutto il mio passato. Non sono un pentito: sono solo un uomo stanco e tormentato che - arrivato a un certo punto della vita, a una certa maturazione della sua esperienza e della sua capacità di giudizio - si è reso conto di che cosa è diventata la mafia e si è convinto ad aiutare la giustizia a smantellarla. La mia mentalità è cambiata in molti punti, ma la mia personalità è rimasta la stessa. Non credo di avere sbagliato tutto. Penso che molti comportamenti e idee della Cosa Nostra in cui ho creduto siano ancora validi, validissimi. Sono gli altri, i Corleonesi, che li hanno stravolti e distrutti. Non sono un pentito e anche i rapporti con la fede, con Lui, sono un mio fatto personale. Non mi piace parlarne in pubblico, ma sono costretto a farlo per quest'equivoco del «pentito» che si batte il petto e si dispera nel momento in cui trae vantaggio dalla protezione dello Stato. Ho sempre creduto. Ho ricevuto i sacramenti e da molti anni vado anche a messa. Quando ero in carcere in Italia, e anche qui, in America dove ora sono libero. La domenica, se non vado a trovare mia figlia e se non succede niente di straordinario, vado volentieri a messa. Non ho grande considerazione nei confronti dei preti, della Chiesa, del Vaticano, ma sono religioso. Tutti i miei figli hanno ricevuto un'educazione religiosa e sono praticanti. Sono molto riconoscente a Dio perché credo che mi abbia sempre aiutato nei momenti più difficili della mia vita turbolenta. Lui non mi ha mai abbandonato, è stato sempre con me. Non so se voi siete atei o credenti, ma per quanto mi riguarda posso assicurare Pagina 4


Addio Cosa Nostra..txt che c'è un Ente superiore a noi che ci segue. Io l'ho sentito sempre accanto a me. L'assistenza divina è fondamentale per chi crede. E a Lui risponderò degli errori gravissimi che ho commesso nella vita. Dei Comandamenti che ho infranto. Parlare di questi comportamenti è per me fonte di grande turbamento, soprattutto a causa dei miei figli. Non voglio che si ricordino di loro padre come di una persona spregevole. Ma come di un uomo che ha fatto scelte e commesso sbagli molto gravi, dei quali ha risposto e risponderà. Le motivazioni di questi sbagli, però, non sono state meschine né frutto di aberrazione, in quanto hanno avuto a che fare con idee e ideali e non con i soldi o la sporcizia dell'anima umana. Mi rendo conto che quanto sto per affermare è in contraddizione con la mia fede religiosa, ma non sarei sincero fino in fondo se non aggiungessi che, secondo me, in particolari circostanze, un uomo ha il diritto di uccidere. Nel caso di un'oppressione permanente e grave, che rende impossibile la vita di un individuo, oppure di una minaccia insopportabile per la dignità di un uomo e della sua famiglia, non c'è altra strada. E assurdo, e criminale, uccidere per capriccio, o perché qualcuno ti ruba il posto al parcheggio, o per denaro. Questo lo può fare una bestia. Ma se esistono motivi seri, se si umilia la mia famiglia e non si può mettere in condizione di non nuocere chi le fa del male, io sarei pronto a uccidere. Per difesa e per senso di giustizia. Lo dico con il cuore, lo farei anche per un amico se lo vedessi infelice a causa di un'ingiustizia dalla quale non è capace di difendersi. Abbiamo il diritto di vivere nella dignità, liberi come siamo nati. Non si può essere tutta la vita succubi di qualcuno. La pensavo così allora e PURTROPPO COSl' la penso ancora. Ma a Cosa Nostra ho voltato le spalle per sempre e la mia decisione non ha avuto niente a che vedere con un meschino calcolo di interesse né con lo scopo di ingraziarmi la magistratura e la polizia. Del resto in quel luglio 1984, a parte la garanzia di proteggere la mia famiglia, queste istituzioni non avevano molto da offrirmi. Certo avrebbero potuto rinchiudermi in un carcere ordinario, in mezzo ai detenuti comuni, dove sarei morto nel giro di pochi giorni o sarei stato costretto a uccidere e a rimanere in prigione per sempre. Verissimo, ma posso giurare che quell'alternativa non aveva per me grande significato, perché a quei tempi di vivere mi importava poco o nulla: avevo appena tentato di suicidarmi per liberare moglie e figli della mia presenza ed ero VIVO per caso e di malavoglia. Ero stanco e amareggiato. Al capolinea. Ma con un fardello enorme, pesantissimo. Che non sapevo ancora a chi consegnare. Chi ne avrebbe riconosciuto e capito il contenuto? Ero in mezzo al caos, come già mi era capitato nella mia vita, ma senza più la voglia di sfidare la sorte, di combattere e di vincere. Alla fine del tunnel questa volta non vedevo nulla. I miei cari erano lontani e non sapevo niente di loro. Gli uomini di Cosa Nostra- amici e nemici avevano cessato di esistere per me come entità concrete. Erano anch'essi lontani. Erano diventati fantasmi, ricordi allucinanti e tristi. Nel luglio del 1984, però, il mio disgusto nei loro confronti non si era ancora mutato in fiducia e attaccamento per gli ex avversari. Già altre volte avevo pensato di collaborare, ma il mondo della giustizia dello Stato mi era sempre apparso distante, astratto, infido, a tratti incomprensibile. E tale mi appariva ancora. Ero solo. L'unico punto fermo era dentro di me e consisteva nel bisogno di sbarazzarmi di un peso diventato ormai insopportabile per le mie forze. E proprio allora, quando avevo toccato il limite estremo dello sconforto, si verificò l'imprevisto: l'incontro con due uomini fuori del comune, il cui modo Pagina 5


Addio Cosa Nostra..txt di fare mi ha riportato gradualmente sulla strada della riscossa e della volontà di vivere. Parlo del dottor Gianni De Gennaro e del giudice Falcone. Il primo era un giovane vicequestore che mi colpì perché si comportò con me, durante tutto il terribile viaggio tra il Brasile e l'Italia, proprio all'opposto di come mi aspettavo. Stavo malissimo. Ho rischiato di morire nel corso del tragitto, sia per la stricnina ingerita nel tentativo di suicidarmi sia per il curaro con il quale ero stato strappato alla morte. De Gennaro si preoccupò delle mie sofferenze, non fece alcuna pressione e non cercò in alcun modo di indurmi a collaborare né di estorcermi confidenze. E stato spesso scritto che fu lui a convincermi a confessare. Non è vero. De Gennaro mi dette l'impressione di una persona integra e ricca di umanità, che mi rispettava al di là dell'etichetta di mafioso e che non approfittava del fatto che mi trovassi in disgrazia. Mi piaceva il tono della sua voce, la sua personalità. Fu la prima persona a cui dissi che intendevo collaborare con lo Stato. Giovanni Falcone mi era invece noto per la «pessima» reputazione che godeva all'interno di Cosa Nostra, il che mi predisponeva favorevolmente nei suoi confronti. Lo avevo già incontrato qualche tempo prima, a Brasilia: Ci eravamo scambiati alcune rapide battute e a una sua domanda avevo replicato che mi sarebbero occorsi diversi giorni e notti per rispondere e che comunque «non ero suo nemico». I suoi occhi ebbero un lampo: aveva colto il segnale. Quell'episodio fu molto importante: avevo trovato una persona del campo opposto con la quale potevo intendermi anche senza parlare. Quando me lo vidi di nuovo davanti, nell'estate del 1984, in quella stanza della questura di Roma, fui subito colpito dalla sua gentilezza e dal suo interesse profondo e genuino, per le cose che cominciavo a rivelare. Era sempre serio e controllato. Nel suo sguardo leggevo una sete di conoscere ogni cosa, anche i minimi dettagli, del pianeta che promettevo di descrivergli. Falcone prima di tutto desiderava capire. Non era il burocrate annoiato e distratto, che ti sta di fronte solo il tempo necessario per ottenere la conferma o meno di un fatto o di un nome. Era sempre attento e disponibile, pronto a captare il significato di quei gesti, di quelle allusioni, di quelle metafore difficili che gli uomini di Cosa Nostra usano per spiegare e comunicare. Ci siamo incontrati per quattro mesi. Per lui non c'erano orari né altri impegni. Non guardava mai l'orologio. Metteva a verbale tutto di persona, a mano. Ricordo la sua penna e la diligenza della sua scrittura. Ho ammirato quell'uomo. Era lo Stato come dovrebbe essere e cioè superiore a Cosa Nostra. Non siamo mai potuti diventare amici. C'era troppa distanza tra un grande giudice e un ex capomafia in disarmo, entrambi palermitani, per giunta, e proprio per questo diffidenti, di poche parole, introversi. Ci siamo sempre dati del lei e ci siamo rispettati moltissimo. Qualche uomo politico ha voluto insinuare che tra me e lui si fosse stabilita un'amicizia, una specie di intesa: le mie dichiarazioni sarebbero diventate influenzabili e io una specie di rubinetto che Falcone poteva aprire e chiudere a suo piacimento. Mi sarei sentito orgoglioso, estremamente onorato se avessi avuto un amico come il giudice Falcone. Ma non fu così. Quattro mesi di interrogatori nell'84 e poi altri duetre incontri negli Stati Uniti, fino al 1989, non sono stati sufficienti a dare vita a un'amicizia. Ci siamo parlati qualche volta per telefono ma non ci siamo scambiati biglietti d'auguri né scritto lettere. C'è stata soltanto una stima grande e sincera, tra uomini che si rendono conto della partita che stanno giocando. Tra noi il solo punto di disaccordo è consistito nella mia riserva a deporre su Pagina 6


Addio Cosa Nostra..txt qualsiasi cosa riguardasse i rapporti tra Cosa Nostra e i politici. Fin dai nostri primi colloqui, Falcone mi ha spinto a dichiarare tutto quello che sapevo a tale proposito. Mi fa rabbia, per questo, sentirlo accusare di collusione o di eccesso di prudenza nei confronti dei politici. Non nutriva alcun timore per le conseguenze che ne sarebbero derivate, anche contro di lui, se avessi deciso di aprire questo capitolo del discorso. Era un puro di cuore e un uomo di legge, e pertanto profondamente ingenuo. Ho tenuto duro, anche per proteggerlo dai terribili effetti che lo avrebbero colpito se avessi detto allora quello che ho detto poi. Riuscite a immaginare cosa sarebbe successo se avessi dichiarato dieci anni fa di essere al corrente degli incontri di Andreotti con i capi di Cosa Nostra? Probabilmente avrei fatto la fine di Leonardo Vitale: sarei finito in manicomio. E con me forse anche il giudice Falcone, che a quell'epoca non era ancora famoso e influente. Non c'era neppure stato ancora il maxiprocesso. Falcone era considerato un giudice serio e coraggioso, ma lavorava in periferia, era tagliato fuori dalle grandi cose della politica e della giustizia. Nel luglio del 1984 mi sono fidato di queste due persone, correndo rischi perché le conoscevo appena. Per mia fortuna non mi sono sbagliato. De Gennaro e Falcone si sono sempre dimostrati interlocutori disinteressati e leali, ai quali non tanto io quanto l'Italia intera deve essere grata. I VECCHI TEMPI Cosa Nostra del passato, quella della mia giovinezza e dell'età adulta, fino agli anni '60 se si vuole fissare una data, non era l'entità perversa di oggi. Si basava su princìpi positivi, su concetti di bontà, di onestà e di giustizia che mi hanno affascinato e continuano ad attrarmi. Quando affermo che la mia valutazione di Cosa Nostra è cambiata radicalmente, ma che il mio modo di essere, il mio carattere sono rimasti gli stessi intendo dire che, nel corso degli anni, la mia personalità si è plasmata intorno a comportamenti che derivano da quei concetti. Gli anziani, i vecchi mafiosi che mi hanno educato e spiegato le tradizioni di Cosa Nostra quando avevo meno di vent'anni, mi hanno detto che essa era nata per difendere i deboli dai soprusi dei potenti e per affermare i valori dell'amicizia, della famiglia, del rispetto della parola data, della solidarietà e dell'omertà. In una parola, il senso dell'onore. Sto parlando degli anni '40. Questi vecchi avevano allora settanta-ottant'anni e facevano perciò riferimento a situazioni di più di un secolo fa, ma tutta la prima parte della mia vita si è ispirata a queste idee nelle quali ho creduto con tutte le mie forze, alle quali ho giurato fedeltà e che per me hanno ancora un significato. Esse a ben guardare non sono caratteristiche esclusive del comportamento mafioso, ma sono ancorate alla dignità dell'uomo. Per un Tommaso Buscetta che aveva venti-trent'anni, Cosa Nostra era qualche cosa di bellissimo. Era tutto: era lo strumento per far acquistare dignità e orgoglio all'uomo calpestato, alla vittima delle angherie dei ricchi e dei malfattori. Uno strumento non innocuo e imbelle, fatto solo di belle parole, di buone intenzioni e nobili sentimenti, ma una lama tagliente, micidiale, inflessibile che, accanto all'onestà e all'onore posava su un altro pilastro: quello dell'obbligo assoluto al silenzio e alla segretezza. Il mistero che circondava la propria organizzazione, i propri membri, le proprie strategie, i propri rapporti con la politica e il potere, ha dato una forza enorme a Cosa Nostra. Forse più della stessa violenza. Altrimenti non si sarebbe arrivati fino a oggi, dopo secoli di esistenza, senza conoscere praticamente nulla di questa società segreta. La violenza gratuita e subdola, l'inganno, il doppio gioco sono venuti dopo. I piatti freddi di odio, di tradimento e di uccisione immotivata di persone sono stati serviti negli anni '70 e '80 con i soldi della droga e degli appalti, con la corruzione degli antichi valori e soprattutto con l'ascesa di Totò Riina, l'uomo più malefico della storia di Cosa Nostra. Ho deciso di collaborare con lo Stato per impedire che altri continuino a credere nella dignità e nell'onore di Cosa Nostra: questi valori sono stati seppelliti da una montagna di vittime innocenti e dalla ferocia che oggi regna sovrana. Pagina 7


Addio Cosa Nostra..txt Ho deciso di collaborare anche perché le mie dichiarazioni sarebbero servite alla giustizia dello Stato per aprire le prime brecce nel muro della segretezza di Cosa Nostra, quel muro che protegge gente scellerata che ha assassinato i miei figli e sterminato i miei amici e parenti infrangendo una delle regole più antiche del genere umano, valide e rispettate anche nella Cosa Nostra di una volta: la regola che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Invece di rispondere con la vendetta personale e con gli omicidi, ho reagito così. E in questo modo credo di avere provocato alla mafia danni ancora maggiori. I miei cari sono stati ammazzati nel 1982, quando ero ancora un mafioso potente e prestigioso. Anzi, sono morti proprio per questo. Grazie alla mia posizione, ero in grado di scatenare una controffensiva violenta sia sul piano di una guerra di mafia, sia su quello della vendetta individuale contro gli assassini dei miei congiunti. Se avessi ascoltato i consigli di Gaetano Badalamenti avrei potuto, per esempio, sequestrare e uccidere il figlio di Michele Greco, quello che fa il regista e che il padre ha fatto diventare uomo d'onore nonostante non ne abbia la stoffa. Oppure ammazzare il figlio di Luciano Liggio o i figli di Totò Riina. Ma tutto questo mi fa semplicemente orrore. Provo vergogna soltanto a pensare a un'eventualità come questa. Ritengo di essere più intelligente dei miei nemici, anche perché so controllare i miei impulsi animali. Come ho detto, quando sono stato estradato in Italia, nel 1984, avevo davanti a me il carcere e se ci fossi andato, sarei stato un assassino terribile. Per difendermi, avrei ucciso a uno a uno tutti quelli che supponevo fossero stati contro Bontade, Inzerillo e i miei amici. Tutti i Corleonesi che mi fossero venuti a portata di mano e che avessi ritenuto responsabili del massacro dei miei parenti e di altri innocenti. Li avrei giocati d'anticipo. Non avrei aspettato che fossero loro a darmi la caccia. Ho scelto invece di collaborare con le autorità. Da assassino potenziale sono diventato un accusatore, il testimone di una vicenda tragica, una persona assetata di giustizia e non di sangue. Credo sia stata la scelta migliore, in quanto ho visto punire dalla legge scritta le persone che avrei potuto ammazzare con le mie mani. Riina, Liggio, Calò. Non li odio neppure più, questi personaggi, i signori assassini dei miei figli. Se avessi ora il potere di decidere direttamente cosa fare di loro, e li avessi qui davanti, assieme agli esecutori materiali di quei crimini non torcerei loro un capello. Li guarderei e poi ritornerei con il pensiero ai miei figli. Forse verserei qualche lacrima pensando al loro viso, al loro sorriso di quand'erano piccoli. Ma dopo chiederei perdono a Dio per i loro assassini. Perché Riina e gli altri dovranno rispondere a Lui di quello che hanno fatto ai miei cari. Nel frattempo, ne stanno rispondendo agli uomini. Stanno pagando per i crimini che hanno commesso. Con il carcere e l'ergastolo, che anche per i mafiosi stanno diventando in Italia una cosa seria e dura. E importante pagare, espiare in prigione a poco a poco. E una cosa più dura della pena di morte. Vivo negli Stati Uniti, dove è ancora in vigore la pena capitale. Ma io sono contrario, perché sono più cattivo. La sentenza di morte è troppo poco. Per chi è colpevole, è una liberazione. Io conosco bene il carcere e so cosa significa passare anni dietro le sbarre subendo umiliazioni tutti i giorni. Se si viene da un mondo dove si conoscono soltanto soprusi, non significa niente: si continua a soffrire, a chinare la testa. Ma se si è sempre comandato, se si è stati potenti, potentissimi, fino al punto di decidere della vita e della morte degli altri, la vita carceraria è la peggiore delle punizioni. Per Liggio e Riina sarebbe troppo bello essere uccisi. Hanno violato tutte le leggi. Pagina 8


Addio Cosa Nostra..txt Quelle dello Stato, quelle di Cosa Nostra, quelle del Vecchio e del Nuovo Testamento: le leggi che l'uomo ha stabilito da quando è sulla terra. Devono pagare con il carcere duro e a vita. E lo stesso vale per Pippo Calò. Non merita di essere ucciso. Sarebbe troppo facile e superficiale liquidare così la faccenda. Pippo Calò era la persona più qualificata per difendere la vita dei miei figli, per alzarsi in piedi nella riunione della Commissione in cui è stata presa quella terribile decisione e opporsi con tutte le sue forze. Perché Calò aveva visto nascere i miei figli, li aveva tenuti in braccio, li aveva visti crescere. Doveva alzarsi e dire: «No. Cerchiamo lui. Ma questi poveri ragazzi no. Perché non c'entrano con il padre né con Cosa Nostra. Sono estranei. Posso testimoniarlo perché li conosco bene. Sono contrario». E invece è stato zitto. Ha dato il suo consenso a una decisione che lui stesso sapeva infame. Per vigliaccheria e pochezza. Per disonore. Non si sono comportati così soltanto nei miei confronti: in seguito hanno fatto anche peggio. Anzi, devo riconoscere che in confronto agli altri mi hanno usato un trattamento di riguardo. Hanno massacrato i miei parenti, ma hanno risparmiato le donne. Quando in pizzeria hanno ucciso i miei nipoti e mio genero, hanno lasciato viva mia figlia che stava alla cassa. Quello che, qualche anno dopo, sono stati capaci di combinare a Contorno è inaudito. E inaudito che un cugino di sua moglie, un poveraccio che faceva il netturbino, sia stato ammazzato perché aveva ospitato una donna in fuga, incinta di otto mesi. Con Mannoia, poi, hanno superato i nazisti. Nessuno poteva pensare che sarebbero arrivati al punto di uccidergli la sorella, la madre, la zia. Nonostante fossi stato colpito anch'io, sono rimasto sbigottito quando l'ho saputo. Potevo anche supporre che cercassero di uccidergli il padre, ma quelle donne no. La parola «mafia» è una creazione letteraria. I veri «mafiosi» sono chiamati semplicemente «uomini d'onore». La loro associazione segreta si chiama, appunto, «Cosa Nostra». Questa è nata in tempi lontani e si è sviluppata a causa della mancanza di una giustizia pubblica. Gli uomini d'onore e la gente che li ha circondati, anche quella che non ha niente a che fare con la mafia, si sono abituati a considerare la giustizia e la legge di Cosa Nostra come qualcosa che sta al di sopra di quelle dello Stato. Molti uomini di Cosa Nostra se ne infischiano della politica e dei partiti. Ci sono uomini d'onore che fanno politica, ma non sono mai stati molto numerosi quelli che vi si sono impegnati attivamente. Fin dall'inizio, ovviamente, si sono sostenuti i partiti del governo e osteggiati i comunisti, ma il mafioso in quanto tale non è politico e non si appassiona alle idee politiche. Non ha colore, sceglie secondo la convenienza del momento. Cosa Nostra, tuttavia, si è sviluppata anche come una forza che tendeva a difendere la Sicilia. L'unica idea realmente sentita dagli uomini d'onore è quella sicilianista. La si sente molto vicina, congeniale. I vecchi di Cosa Nostra mi hanno detto che l'associazione degli uomini d'onore è nata anche per proteggere la Sicilia. Perché noi siciliani ci siamo sentiti trascurati, abbandonati dai governi stranieri e anche da quello di Roma. Cosa Nostra, per questo, faceva la legge nell'isola al posto dello Stato. L'ha fatta in diverse epoche storiche, anche quando non si chiamava Cosa Nostra. Io so che una volta essa si chiamava «I Carbonari», poi si è chiamata «I Beati Pagina 9


Addio Cosa Nostra..txt Paoli» e solo in un terzo momento «Cosa Nostra». Oggi Cosa Nostra, oltre che deviata è superflua. Non c'è bisogno del suo intervento. C'è lo Stato che difende i cittadini, riconoscendo loro diritti e imponendo doveri. Parlo dello Stato della gente perbene, non di quello dei corrotti o dei conniventi con la mafia. Ma ai tempi della mia giovinezza lo Stato, l'unico Stato riconosciuto, purtroppo eravamo noi. La giustizia ufficiale è diventata più «giusta» rispetto ai vecchi tempi di Cosa Nostra. Oggi non ha senso pensare di difendersi da soli o di ricorrere agli uomini d'onore per essere protetti. C'è lo Stato che lo fa. Un tempo però, e neanche tanto lontano, l'autorità pubblica non lo faceva. O meglio, lo Stato difendeva solo i ricchi. E i poveri non potevano disporre di avvocati, né di Stato, né di leggi a loro favore. Avevano Cosa Nostra che li difendeva, e bene, nell'anonimato. Da giovane ero orgoglioso dell'anonimato di Cosa Nostra, del suo modo discreto di intervento. Non si faceva il bene per esibirsi di fronte agli altri. Se si doveva difendere qualcuno, lo si faceva in silenzio, e talvolta senza che lo stesso interessato lo sapesse. Solo perché le cose dovevano andare in un certo modo. Quell'aria di importanza che ci davamo, la considerazione e il rispetto che tutti ci tributavano, derivavano dal fatto che noi mafiosi avevamo il diritto di occuparci dei fatti degli altri, della società. Venivamo sollecitati a farlo. Eravamo autorità che si sentivano investite del dovere di mantenere l'ordine, sia nella vita pubblica che in quella privata. Che cos'era, d'altra parte, lo Stato negli anni '40 e '50 in quella terra nella quale sono nato? Lo Stato italiano si era dimenticato dell'esistenza della Sicilia. Nell'isola si viveva male, malissimo, specialmente nelle zone dell'interno. Ricordo bene la volta che andai a trovare Genco Russo, il celebre mafioso di Mussomeli, in provincia di Agrigento. Sì, proprio lui: oggi posso dire di aver conosciuto quello che fu per molti anni un esponente della Democrazia cristiana oltre che un mafioso perché ho sciolto la mia riserva di parlare sui rapporti di Cosa Nostra con la politica. Ebbene, quando sono andato a casa sua, l'ho trovato che dormiva con il mulo dentro casa. Non era un contadino o un povero bracciante. Era un proprietario, un benestante per quelle zone. E per giunta mafioso. Ma anche lui teneva il mulo dentro casa. E vicino al mulo ricordo che c'era un gabinetto che non era un gabinetto perché non c'era né porta né altro. Era una di quelle pietre che hanno un buco in cima e un tappo di pietra che ne copre lo scarico. Genco Russo è andato, di fronte a me, al gabinetto. Mentre parlava, si è seduto su quella pietra e ha fatto i suoi bisogni. Rimasi allibito. Questo era Genco Russo e questa era la civiltà che ho conosciuto nella mia terra. Quando uscii dalla sua casa mi accorsi che tutto il paese era fatto così. Non c'erano servizi igienici nelle case. Le donne portavano fuori i vasi con gli escrementi e li rovesciavano in buche scavate davanti alle abitazioni, oppure per strada, come nel Medioevo. Nessuno si preoccupava della Sicilia e della sua gente. La giustizia dello Stato italiano esisteva solo sulla carta. Per questo, per le necessità di tutti i giorni c'eravamo noi, con la nostra legge basata sulla tradizione e con la nostra giustizia rozza, alla buona, ma efficace. Con il nostro modo di pensare e di agire che era quasi uguale a quello della popolazione. Anche i rappresentanti dello Stato e gli uomini politici la pensavano così. E ci cercavano e ci ossequiavano. Non solo perché gli procuravamo voti, ma perché ci sentivano come loro pari. Pagina 10


Addio Cosa Nostra..txt Dei collaboratori preziosi, perché potevamo intervenire senza tanti impicci in qualunque tipo di situazione. Non avevamo leggi e codici scritti da rispettare: all'occorrenza le facevamo noi le regole e le leggi. I nostri tribunali erano veloci e le nostre sentenze erano inappellabili. SONO STATO UN UOMO D'ONORE. Sono stato un uomo d'onore influente e riverito, ma il mio rapporto con Cosa Nostra non è sempre stato rose e fiori. Non mi è mai piaciuta, ad esempio, negli uomini d'onore la loro ristrettezza mentale, la loro ipocrisia in materia di rapporti sessuali, la loro diffidenza nei confronti di tutto ciò che è nuovo e diverso dal loro modo di vivere, la loro incultura e ignoranza spaventose. La mentalità mafiosa è insuperabile se si vogliono raggiungere determinate cose, ma per il resto c'è il vuoto intellettuale e umano. L'ignoranza significa che a parte la pratica dell'omertà- che consiste nel non far trapelare nulla al di fuori dell'associazione - non esiste più niente. Per questo mi sentivo a disagio dentro Cosa Nostra. Alla fine di ogni discorso si arrivava regolarmente allo stesso punto: siamo uomini d'onore, apparteniamo a Cosa Nostra. Siamo omertosi e di qui non si passa. Punto e basta. La città di Palermo degli anni del dopoguerra era insopportabile per un giovane irrequieto come ero io. Avevo vent'anni quando, nel 1948, me ne andai per la prima volta in America Latina. Sono emigrato con moglie e due figli, e non per bisogno, ma per curiosità ed esuberanza. Da allora fino al 1970, quando compii quarantadue anni, sono andato avanti e indietro tra la Sicilia e il Brasile, l'Argentina, il Messico, il Canada e gli Stati Uniti, dove ho vissuto per sei anni. Ho soggiornato per brevi periodi in Venezuela, in Paraguay e in tanti altri posti che neppure ricordo. Ho imparato bene lo spagnolo e il portoghese e mi arrangio con l'inglese. Lo scarso trasporto che ho avuto e ho per la mentalità e lo stile di vita degli americani mi ha impedito di appassionarmi alla loro lingua. I mafiosi della famiglia cui appartenevo disapprovavano la mia irrequietezza, la mia disinvoltura nel cambiare compagnie femminili, il mio scarso attaccamento all'ordinaria amministrazione della famiglia, ai loro riti e alle loro consuetudini, ma avevano bisogno della mia opinione, della mia capacità di analizzare le situazioni difficili, del mio intervento nelle controversie più intricate. Avevano bisogno, come si dice oggi, del mio carisma. In verità, ho cominciato ad avere presto dubbi sulla reale natura della società segreta di cui facevo parte. Si potrebbe anche dire che, senza rendermene conto, ne ho avuti sin dalla nascita dei miei primi figli, che non ho indirizzato, come ha fatto il novantanove per cento dei miei ex amici, sulla strada della mafia. Tutt'altro. I miei figli, tutti i miei figli, sono persone a modo e perbene, che vivono vite normali e svolgono attività normali. Uno dei miei dispiaceri più grandi consiste nel fatto che per alcuni di loro il peso di portare il mio cognome continua a farsi sentire. Nonostante potessi apparire, quarant'anni fa, come un mafioso perfetto, ho inculcato nei miei primi figli l'idea che la massima umiliazione per un uomo consiste nel finire in carcere. Loro sono cresciuti con questo insegnamento. Non li facevo avvicinare dagli uomini di Cosa Nostra. Tenevo i miei familiari lontano da loro, e io stesso evitavo di frequentarli al di fuori delle scadenze, diciamo così, associative. Cercavo di non stringere rapporti di comparaggio con loro. Non invitavo a casa nessun uomo d'onore, eccetto Pippo Calò e Salvatore Greco, e questo era ritenuto molto strano perché i mafiosi non fanno altro che stare assieme, anche con i propri familiari, dalla mattina alla sera. La loro vita sociale è quasi tutta dentro il «piccolo mondo antico» di Cosa Nostra. Quando era ospite a casa mia, Pippo Calò si lamentava del fatto che non usavamo bere vino. Pagina 11


Addio Cosa Nostra..txt L'altro uomo d'onore ben conosciuto da mia moglie e dai miei figli è stato Salvatore Greco, il quale, guarda caso, non aveva l'apparenza del mafioso. Era piccolo, minuto, educato. Per questo veniva chiamato «Cicchiteddu», uccellino. Non parlava con atteggiamento arrogante, «sgarrista». Sembrava una persona come tutte le altre, gentile, discretamente istruita, un po' dimessa. Avrebbe potuto agevolmente fare il latitante in qualunque città italiana. Eppure è stato uno dei più grandi uomini d'onore che ho conosciuto. Insomma, a ben vedere i mafiosi in fondo non mi piacevano. Non mi piaceva la loro mentalità, anzi, per meglio dire, la mia stessa mentalità. Ma ormai dovevo stare al gioco. Mi comportavo perciò secondo quanto mio padre mi aveva detto quando aveva subdorato che frequentavo ambienti di malavita: «E una cosa che non mi fa piacere. Ormai che ci sei, però, comportati bene. Restaci con onore». Non volevo, tuttavia, che i miei figli ricalcassero le mie orme. Desideravo per loro un futuro di sicurezza e di tranquillità. Perché, nonostante in quel periodo in Cosa Nostra ottenessi soltanto successi e gloria, ero ben consapevole di quanto questi fossero fragili ed effimeri. L'uomo d'onore è un individuo forte, che deve essere capace di affrontare le avversità con le sue forze. Deve essere pronto a sopportare il carcere, il pericolo, il dolore fisico. Ma nello stesso tempo dipende da fatti esterni, da imprevisti come una foglia secca dipende da una folata di vento. Basta un niente per far crollare la sua posizione e la sua reputazione: se tre o quattro persone, tutte insieme, si fossero messe a dire che avevo un difetto, o che qualcuno dei miei familiari aveva delle colpe, oppure che avevo (senza saperlo) le corna o che ero andato a letto con la moglie del commissario di polizia, tutta la mia gloria si sarebbe dissolta. La mia potenza sarebbe crollata. Il mafioso vive nel terrore di essere giudicato. Ma non dalla legge degli uomini, bensì dalla maldicenza interna a Cosa Nostra. Il timore che qualcuno possa parlare male di lui è continuo. Teme di essere chiamato a discolparsi di atti considerati incoerenti con la condotta di un uomo d'onore. E non si tratta solo delle sue azioni personali, ma anche di quelle di parenti e amici stretti. La sua vita e quella dei suoi congiunti devono essere al di sopra di qualunque critica. La sua protesta di non poter rispondere delle azioni di un fratello o cognato che non conosce le regole di Cosa Nostra conta ben poco. La responsabilità di far comportare il fratello o l'amico secondo i codici mafiosi ricade sulle sue spalle. LA «MASCHERA» DI TRAFFICANTE Già negli anni '60 cominciavo dunque a rendermi conto che Cosa Nostra non si ispirava ai principi di onestà e dirittura morale cui avevo creduto, e che la protezione e la salvaguardia degli affari propri, il sostegno reciproco nella difesa di interessi economici e di potere erano il vero cemento dell'edificio. La spia di tutto ciò era costituita dal ricorso sempre più abituale alla violenza per risolvere conflitti interni. All'inizio degli anni '60, poco prima dello scoppio della crisi tra i fratelli La Barbera e il resto della Commissione, decisi di andar via da Palermo e di stabilirmi a Milano. Pertanto quando scoppiò la prima guerra di mafia io mi ero già messo da parte in quanto disapprovavo i nuovi metodi che avevano preso piede tra le famiglie come la gramigna in un campo non arato. La slealtà, il tradimento, il desiderio smodato di potere che si erano impadroniti un po' di tutti mi avevano fatto riflettere sul mio futuro all'interno di Cosa Nostra. Non volevo essere coinvolto in vicende che ritenevo disgustose. Fu proprio in quella circostanza che mi colpì per la prima volta una delle maledizioni più gravi e implacabili che mi ha accompagnato per tutto il resto della mia vita, rovinandone i momenti più felici e rendendola simile alla fatica di Sisifo: la fama di mafioso violento e spietato, di boss internazionale della droga. Pagina 12


Addio Cosa Nostra..txt Il mio carattere forte e orgoglioso aveva creato attorno a me un mito che non aveva alcun riscontro nella realtà. Proprio mentre cominciavo a distaccarmi da Cosa Nostra, maturando le prime perplessità e incertezze, la mia reputazione di capomafia cresceva agli occhi della stampa, della polizia e (fatto ancora più incredibile) presso la stessa malavita. Ero citato in occasione dei fatti di mafia più disparati che si verificavano in Sicilia e altrove; mi venivano attribuiti poteri e influenze che non mi ero mai sognato di avere. All'interno del carcere, quando vi finii, ero trattato con timore e deferenza da detenuti, guardie e direttori. La mia naturale scontrosità non otteneva altro effetto che di accrescere la fama sinistra che mi circondava. Essa veniva scambiata, nel mio stesso ambiente, per potere mafioso derivante da affari illeciti e da delitti che non avevo mai commesso, ed era perfettamente inutile che tentassi, forzando la mia indole riservata, di convincere chicchessia che non ero il mostro che venivo definito in pubblico. Il mio tentativo naufragava miseramente perché qualunque interlocutore si metteva a sorridere quando ascoltava le mie proteste di innocenza. Ma sfido chiunque a provare che ho commesso uno qualsiasi dei crimini dei quali sono da tempo accusato ingiustamente. L'indubbio prestigio di cui ho sempre goduto mi è stato tributato dagli altri senza che io abbia fatto nulla per creare intorno a me quell'aureola leggendaria. Questa, in realtà, mi ha procurato solo guai e sofferenze, che ho potuto sopportare solo grazie alla mia forza di carattere. Ho sempre avuto una doppia identità personale. Sono stato un mafioso «tradizionale», un uomo d'onore protagonista delle vicende di Cosa Nostra in Sicilia dagli anni '40 in poi. Ma sono anche stato un cittadino del mondo, consapevole che questo gira da solo e non comincia e finisce con il giuramento a Cosa Nostra. La mia «mobilità» era insolita per un mafioso di quell'epoca. Gli uomini di Cosa Nostra sono una fauna stanziale. Non si muovono volentieri dal loro territorio, dal loro regno. Anche quando sono ricchissimi e potrebbero andarsene in giro per il mondo a scialare, a godersi i loro profitti, rimangono legati al loro quartiere, alla loro strada, alla loro città. Un personaggio come me, che ogni quattro-cinque mesi scompariva per andare nel Nord o all'estero, insospettiva i parrucconi della mafia. Quel mio perenne andirivieni era dettato da voglia di vita e di evasione, ma per gli altri - polizia, giornali, Commissione antimafia, popolo della malavita aveva una sola spiegazione: la droga. Dai tempi del mio primo arresto a Roma nel 1958, per contrabbando di sigarette, fino a quando ho incontrato il giudice Falcone sono stato oppresso da questa «maschera», da questa etichetta falsa e ingiusta che mi ha provocato arresti, condanne e maltrattamenti in diversi paesi. La «maschera» si è rafforzata con il passare del tempo e negli anni '70 è diventata una vera e propria ossessione. Verso il 1973, 74, quando ero in carcere, mi venivano chiesti in continuazione consigli e informazioni a proposito del traffico di droga. Io rispondevo di non avere consigli da dare perché non avevo mai «fatto» la droga, suscitando reazioni di incredulità del tipo: « Perché non vuoi dirlo? A me ne puoi parlare senza problemi. Lo sai. Se non ne parli a me, a chi allora ne puoi parlare?». «A te lo direi senz'altro» ero costretto a ribadire «ma non posso suggerirti nulla perché non conosco gente che compra droga.» Non conosco gente che vende la droga. Ignoro come si versano in banca i soldi della droga e non conosco le banche adatte. Neppure quando facevo il contrabbando di sigarette mi sono trovato a lavorare con le banche per pagare i carichi o noleggiare le navi. I miei affari non raggiungevano quel livello di guadagni. Fu Giovanni Falcone a sfatare una volta per tutte la leggenda di Buscetta trafficante. Dopo avermi incriminato per traffico di stupefacenti, stralciò la mia posizione e mi disse che non dovevo più preoccuparmi né dell'imputazione né della mia Pagina 13


Addio Cosa Nostra..txt «fama» al riguardo, perché anche gli uscieri del tribunale di Palermo si erano convinti che non avevo a che fare con la droga. Dei traffici illeciti conosco solo, come ho detto, il contrabbando di tabacchi e quello di latte in polvere, che ho fatto tra l'America del Sud e quella del Nord. Non ho mai voluto saperne di droga. Il traffico dell'eroina e della cocaina è un affare maledetto. I soldi della droga si portano dietro una maledizione e svaniscono con la stessa rapidità con la quale sono arrivati Non ho mai fatto il ricettatore. Mi vergognerei a pensarlo. Non ho mai rapinato, né fatto il ladro, eccetto che da giovanissimo. Non ho mai avuto possedimenti immobiliari consistenti. Le risorse che mi hanno consentito di vivere senza diventare mai ricco sono state quasi tutte lecite. In primo luogo avevo fratelli benestanti sui quali ho potuto contare in ogni momento critico della vita. Poi ho avuto amici ricchi, e uno di questi è Totò «Cicchiteddu» il quale non aveva bisogno di lavorare con la droga o con le sigarette perché stava bene di famiglia. Per non parlare poi di Francis Turatello, che arrivò al punto di darmi il dieci per cento dei profitti delle sue bische clandestine di Milano. Ho gestito inoltre una casa da gioco a Palermo che andava molto bene e ho giocato, con discreta fortuna, nei casinò. Mi è capitato, inoltre, di fare buoni affari e di mettere in piedi laboratori per la lavorazione degli specchi (la professione di famiglia), società per il commercio del burro, pizzerie, aziende agricole. Non ho accumulato ricchezze perché non ho saputo fare bene i miei calcoli. Non ho mai risparmiato e non sono mai stato molto attaccato ai soldi. Ma soprattutto non mi sono soffermato un momento a pensare, negli anni della mia giovinezza, che un giorno anch'io sarei diventato vecchio. Credevo che sarei rimasto giovane per tutta la vita. Allora usavo dire tra me e me: «Domani è un altro giorno». Come si spiega allora che diverse polizie e numerosi magistrati, per non parlare dei giornali di mezzo mondo, si siano convinti che ero «il boss dei due mondi», «il re dell'eroina", «un grande capo del narcotraffico»? Parte della risposta si trova nella mia biografia e nel mio carattere. L'altra parte nella scarsa conoscenza che si aveva della mafia. Le autorità inquirenti non sapevano praticamente niente di Cosa Nostra e dei suoi traffici negli anni in cui ero un giovane mafioso, e anche dopo. Non voglio ingigantire il valore della mia collaborazione e di quella degli altri che sono venuti dopo di me. Bisogna ammettere, però, che il contributo dei cosiddetti «pentiti» è consistito soprattutto nel rendere più precisa la conoscenza dei singoli personaggi e dei singoli fatti di mafia. Prima si procedeva a tentoni. Si commettevano errori elementari, di nomi, di date e di anni. In un rapporto di polizia, che Falcone mi mostrò per chiedermi conferma del suo contenuto, c'era scritto, ad esempio, che solo dopo il 1962, data di nascita della prima Commissione antimafia, i maggiori capimafia di Palermo avevano deciso di istituire una propria «Commissione» per disciplinare la vita interna della mafia prevenendo i conflitti di sangue e tranquillizzando l'opinione pubblica. Ma la Commissione di Cosa Nostra esisteva già dal 1957 e nel momento in cui quel rapporto veniva scritto (nel 1963) Si era appena sciolta in seguito ai dissidi interni e alla repressione poliziesca! E quando non si sapeva come si erano svolti certi fatti o non si conosceva l'importanza reale di un certo personaggio, si procedeva per deduzioni, per approssimazioni e qualche volta addirittura per invenzioni. La stampa poi è arrivata al punto di attribuirmi perfino un arresto (mai avvenuto) nel centro di New York con una valigia contenente 80 chili di eroina! SONO NATO A PALERMO. Sono nato a Palermo, nel luglio 1928, da genitori palermitani, ultimo di diciassette figli. Ho conosciuto solo dieci dei miei fratelli e sorelle perché quando sono venuto al mondo sei erano già morti. Mio padre e mia madre non erano più giovani, avevano entrambi quarantaquattro anni. Pagina 14


Addio Cosa Nostra..txt Nei miei ricordi di adolescente ritrovo mio padre già vecchio a sessant'anni. Vecchio nel vero senso della parola: non lavorava più, camminava lentamente per strada, si muoveva con calma e aveva il modo di parlare saggio e distaccato di chi ha visto già passare le vicende più importanti della vita. I sessant'anni di allora significavano molto di più di quelli di oggi. Anche con i miei fratelli e sorelle c'era una notevole differenza di età. La mia infanzia è perciò trascorsa in mezzo a persone adulte, distanti, gravi. A mano a mano che i miei fratelli si sposavano, la famiglia si rimpiccioliva e io venivo accudito dalle sorelle rimaste in casa. Non mi è mai mancato nulla, ma non ho avuto la possibilità di vivere l'età spensierata e incosciente dei miei coetanei. Ho ricevuto un'educazione rigida e mi sono dovuto abituare molto presto a una condizione che sarebbe poi ricorsa spesso nella mia vita: la solitudine. Pur vivendo in una famiglia numerosa, mi trovavo sovente a giocare da solo, a stare con me stesso, a pensare e ripensare Ero circondato da gente severa. Nei miei ricordi di scuola spicca un maestro dall'espressione austera, che veniva in classe in giacca, cravatta e occhiali. Sua moglie insegnava nella stessa scuola e tutte le mattine li vedevo arrivare sottobraccio, impettiti e rigidi come due signori inglesi. Ispiravano rispetto, onestà e serietà di comportamento in noi ragazzi. L'impronta che ho ricevuto nella primissima parte della mia vita, fino ai tredici-quattordici anni, ha plasmato per sempre il mio carattere. Ma anche la ribellione al mondo troppo severo degli adulti ha influenzato notevolmente il mio temperamento. Sono ancora oggi un impasto di serietà e di irrequietezza. Il bisogno di misurarmi e di scontrarmi con le regole oppressive della mia famiglia e della società non mi ha bloccato ma, al contrario, mi ha fatto maturare più in fretta. Non ho conosciuto i sogni della fanciullezza e dell'adolescenza. Sono stato precoce. A otto anni ho avuto la mia prima esperienza sessuale. A quattordici avevo un'amante. A diciassette mi sono sposato. A diciotto ero padre. A venti avevo due figli ed ero già emigrato la prima volta. Nella mia vita mio padre è stato una figura fondamentale. L'ho amato molto. Da lui non ho mai ricevuto uno schiaffo né una punizione fisica: mi puniva con lo sguardo. Nonostante fosse un carattere all'antica, severo e di poche parole, aveva uno sguardo dolce e malinconico che si posava su di me facendomi sentire tutto il peso della marachella appena compiuta. Se n'è andato molto presto. A sessantanove anni, quando io ne avevo venticinque, lasciandomi un grande vuoto. Se n'è andato all'improvviso, senza una malattia. Era domenica. Ero appena rincasato dopo aver pranzato a casa dei miei genitori con mia moglie e i figli, quando mi raggiunse mio cognato per dirmi che mio padre era morto. Per me fu uno shock molto forte. Pensai comunque che se n'era andata una persona felice e in pace con se stessa. Una persona che - grazie a uno strano episodio che aveva raccontato più volte a noi figli - era venuta a conoscenza molto tempo prima del momento preciso in cui la sua ora sarebbe scoccata. Mi diceva mio padre: «Figlio mio, se supero i sessantanove anni, chissà quando morirò! Probabilmente andrò per i settantanove. Parlava di quella data dei sessantanove anni perché quando era al fronte, durante la guerra del 1915, 18, in un momento di tristezza per la lontananza dalla famiglia, si era appartato in un angolo di una baracca per raccogliersi nei suoi pensieri. Arrivò allora un vecchietto che assomigliava a san Giuseppe e chiese l'elemosina ai militari presenti senza ricevere un solo centesimo. Quando arrivò vicino a mio padre, questi gli donò tutta la paga che aveva appena riscossa. E il vecchio gli disse: «Perché mi dai tutti i tuoi soldi, figliolo?». «A me non servono.» «Ti sbagli. A te servono, perché morirai a sessantanove anni.» Dal momento che mio padre non era sicuro di ricordare se si trattava di sessantanove o di settantanove, si era Pagina 15


Addio Cosa Nostra..txt convinto che, se avesse superato la prima scadenza, la sua resa dei conti sarebbe arrivata dieci anni più tardi. Era un uomo molto serio, sobrio e di indole pacifica. Beveva e fumava poco, non gridava, non alzava mai la voce. Si alzava alle 5 del mattino, anche di domenica, e la sera andava a letto prestissimo. Ogni mattina alle 8 era al lavoro, a cinquecento metri da casa, nella sua piccola fabbrica: un laboratorio per la lavorazione degli specchi che impiegava una quindicina di operai. Mio padre era partito da zero, da semplice lavorante che si mette in proprio e a poco a poco espande la sua attività sulla base della puntualità, della qualità della lavorazione e della reputazione di serietà della ditta. Nonostante avesse la responsabilità di dirigere il lavoro di altre persone, non girava armato né protetto da nessuno. Non c'è traccia, nella mia famiglia di origine, di violenza o di preoccupazioni e discorsi collegati a fatti di sangue o di malavita. Né i parenti di mio padre, né quelli di mia madre avevano mai avuto problemi con la giustizia né rapporti di alcun tipo, neppure indiretti, con la mafia. Nessuno dei miei fratelli possedeva armi o era stato imputato di qualche reato. Soltanto mio fratello Vincenzo fu incarcerato, perché mio stretto congiunto, per cinque anni prima di arrivare al processo, dove venne assolto con formula piena. La fabbrica di mio padre, nella quale lavoravano inizialmente anche i miei fratelli, non doveva temere né estorsioni, né ricatti, né imposizione di guardiani e. A quei tempi non si sapeva neppure cosa fosse quello che oggi viene chiamato «il racket delle estorsioni». Mio padre non mi fece mai alcun accenno a problemi del genere. La sua condizione, d'altra parte, era quella di un benestante e non di un individuo facoltoso, ricco, in vista, che deve difendersi dai malintenzionati e circondarsi di protezioni. Mio padre era un tradizionalista. Il lavoro e la famiglia erano tutto per lui. La sua massima soddisfazione era il pranzo domenicale, con tutti i figli e nipoti riuniti intorno alla tavola, ciascuno al posto che gli era stato assegnato da lui, che sedeva sorridente a capotavola. Ricordo che c'era molta allegria e non si vedevano ombre in agguato nel futuro. I pranzi duravano a lungo, fin oltre le 4 del pomeriggio e se dopo una certa ora qualcuno di noi cominciava a protestare chiedendogli di lasciarci andare a vedere la partita, lui replicava divertito e fintamente scandalizzato: «Ma non vi vergognate di andare a vedere tutti quegli uomini con i pantaloncini corti? Volete andare a vedere le gambe degli uomini! ». Con i figli era molto generoso. I miei fratelli avevano tutti la motocicletta. Nella Sicilia degli anni '30 e '40 per un giovane scapolo possedere una motocicletta era il massimo e ricordo quanto invidiavo i fratelli, perché ero troppo piccolo per guidarla. A un certo punto mio padre impiantò una nuova fabbrica in provincia di Agrigento, destinata ai figli maschi. Poi, dopo la guerra, ne aveva donata una a ognuno di loro, impoverendosi e andandosene subito dopo in pensione. Così, quando cominciai a diventare grande, il benessere della mia famiglia era notevolmente diminuito e fui presto costretto a procurarmi da solo le cose che desideravo. Della professione paterna mi è rimasta la capacità di lavorare i vetri che ho imparato fin da bambino, trotterellando in fabbrica dietro al papà e ai fratelli maggiori. Con la molatura e l'argentatura degli specchi me la sono sempre cavata bene. Ho frequentato le scuole fino alla seconda media. Sono stato bravo nello studio e sotto questo profilo non ho mai dato problemi ai miei genitori, anche se verso la fine delle elementari ho cominciato a marinare la scuola. Mio padre non se n'è mai accorto, anche perché sulla pagella i voti, compreso quello di condotta, erano buoni. Non sono mai stato rimandato a settembre né bocciato. Da bambino sono stato un discreto fascistello, un piccolo balilla infervorato del duce che faceva continuamente il saluto romano. Avevo costretto mio padre a comprarmi la divisa e sfidavo in questo modo i miei Pagina 16


Addio Cosa Nostra..txt familiari, che erano contrari al fascismo, ma non per ragioni politiche. Erano persone misurate, che detestavano l'esibizionismo, il fanatismo, la sbruffoneria dei fascisti. Pensavano che il regime non avrebbe portato niente di buono. E non si sbagliavano. Quando scoppiò la guerra interruppi gli studi e dopo non li ho più' ripresi. La mia scuola, nel frattempo, era diventata la strada, la banda dei coetanei con cui condividevo le avventure più rischiose. I miei primi contatti con la malavita risalgono proprio a quegli anni. Contatti con i contrabbandieri di quartiere, con i ladruncoli che rubavano generi alimentari per rivenderli a quelli che facevano la borsa nera oppure direttamente alla gente. La chiusura delle scuole mi aveva lasciato molto tempo libero. Mi recavo nella fabbrica di mio padre e poi scomparivo con la scusa di andare a fare qualche commissione. Oppure uscivo di casa di nascosto, la notte. Mi calavo dalla finestra e andavo a rubare ai tedeschi, i quali avevano un grande accampamento nei pressi di Villa d'Orléans. Rubare ai tedeschi mi esaltava. Li odiavo profondamente perché li vedevo padroni della mia città, della mia terra. Non sono stato un patriota del calibro di Luciano Liggio, il quale ha dichiarato di avere sventato un colpo di Stato per amore della Repubblica, ma nel mio piccolo soffrivo nel vedere calpestata la nostra dignità da questi invasori crudeli e spietati. I tedeschi si divertivano a eccitare la nostra invidia - non avevamo quasi niente da mangiare - mettendosi a mangiare burro e marmellata di fronte a noi. Rubavo loro benzina, marmellata, burro, pane, salame. Facevo parte di un gruppetto di ragazzi molto svegli e lesti di mano. Ero spericolato. Se ci si appostava nei pressi di un deposito di fusti di carburante e il mio amico cominciava a dire: «Aspetta. E pericoloso. Se la sentinella si gira e fa un paio di passi, ci vede e ci spara. E poi c'è il riflettore che ogni tanto si gira da questa parte...», io mi arrabbiavo e replicavo: «Stai facendo troppa filosofia. Va bene. Ho capito. Devo andare a prenderla io la tanica! » . Ci andavo davvero e nessuno mi vedeva. Era come se fossi guidato da una mano, dall'aiuto di una provvidenza. In tutte le cattive azioni della mia vita non sono mai stato scoperto da un testimone oculare. Questa invincibilità accresceva il mio prestigio e quando tornavo da una missione pericolosa mi vantavo dicendo: «Dove voi non riuscite ad arrivare, arrivo io. Perché sono più bravo e più abile di voi!». E poi facevo bene a cazzotti. Ero molto alto per la mia età: a quindici anni ero uno spilungone, in quanto ero alto come oggi. Il contrabbando, la ricettazione, la borsa nera dei tempi della guerra erano una questione di contatti, di rapporti. Giorno dopo giorno, la mia conoscenza delle reti della malavita di Palermo si allargava. Conoscevo chi comprava la benzina, chi vendeva il pane, chi sapeva come trovare il burro. Rivendevo gran parte del ricavato dei miei furti e mi ritrovavo perciò con i soldi in tasca. Un'altra parte la portavo a casa mia. Soprattutto generi alimentari introvabili come il pane bianco o il burro. I miei familiari erano all'oscuro di queste mie attività e rimanevano di stucco quando arrivavo a casa con il salame, la marmellata o un panetto di burro da 100 grammi che mio padre, nonostante non gli mancassero i mezzi finanziari, non era riuscito a trovare a nessun prezzo. Lui era un gran galantuomo. Mi riteneva il bambinello di sempre. Non immaginava che suo figlio quindicenne avesse una doppia vita. Pagina 17


Addio Cosa Nostra..txt Anche perché io nascondevo tutto. Anche se avevo denaro mio, continuavo a chiedere a mio padre, per non destare sospetti, i 20 soldi o la mezza lira per le mie spese personali. Ma l'indipendenza economica dalla famiglia mi inorgogliva come poche altre cose. Mi sentivo un uomo maturo, potente, che poteva fare a meno della protezione di chiunque altro. A quindici anni, nel 1943, seguendo un impulso che mi esaltava, mi unii a un gruppo di giovani palermitani che andava a Napoli per combattere contro i tedeschi. Eravamo una banda di una cinquantina di persone eterogenee. C'erano parecchi piccoli malviventi, gente di malaffare che voleva approfittare della situazione di disordine per rubacchiare di qua e di là. Altri volevano semplicemente vivere l'avventura e soprattutto sparare, provare la sensazione di avere un'arma da fuoco in mano da usare contro qualcuno, contro un nemico. Alcuni viaggiarono a piedi da Palermo a Napoli, altri in macchina, arrampicati su una «Topolino». In questo gruppo io conoscevo bene due individui, che poi ho saputo essere uomini d'onore incaricati da Cosa Nostra di collaborare con le truppe alleate: Enzo Castellani e Nicola Giacalone, che già conoscevo perché aveva lavorato nella fabbrica di mio fratello. Siamo rimasti due-tre mesi dalle parti di Napoli, compiendo azioni di sabotaggio e tendendo imboscate ai tedeschi. Abbiamo sparato in abbondanza perché a un certo punto nel gruppo erano comparse diverse armi. Forse provenivano dai partigiani, forse dagli Alleati, non saprei. Ricordo solo che ero felice, anche perché ero il più giovane della comitiva. Siamo tornati a Palermo come degli eroi. Avevo il petto gonfio d'orgoglio. Ero sopravvissuto a uno scontro con i tedeschi. Avevo difeso la mia terra. Mi sentivo un essere superiore. Ma per la mia famiglia fu soprattutto un sollievo rivedermi, in quanto ero scomparso senza avvertirli e loro non sapevano più dove fossi andato a finire. Dimostrai subito dopo, rendendomi utile a loro, quanto fosse valida l'esperienza che avevo fatto. Data la mia conoscenza delle strade, dei modi per comunicare tra una parte e l'altra dell'Italia - il paese era tagliato in due - fui in grado di rintracciare e di riportare a casa un mio fratello che era rimasto prigioniero dei tedeschi nei pressi di Bologna. La mia reputazione presso i ragazzi che frequentavo crebbe considerevolmente dopo il viaggio a Napoli. Cominciarono ad avvicinarsi a me degli uomini d'onore che mi permettevano di parlare con loro. Erano conversazioni brevi, nel corso delle quali mi sentivo osservato e giudicato da questi uomini cauti e misteriosi che sapevano esprimersi per allusioni, sfumature, sottintesi anche quando si parlava degli argomenti più banali. E difficile spiegare in che cosa consista un colloquio «omertoso». Posso solo dire che la mia fantasia si accendeva in quell'atmosfera di complicità che subito, fin dai primi cenni di saluto, si creava all'avvicinarsi di questi individui. Dopo ognuno di questi incontri rimaneva in me una vaga eccitazione e un'inquietudine che si trasformò presto in un intenso desiderio di appartenere a quel mondo incantato che intravedevo dietro i modi sfuggenti e cortesi dei miei interlocutori. LA FAMIGLIA DI PORTA NUOVA. Siamo intorno al 1946, 48, prima del soggiorno in Argentina e della nascita del mio secondo figlio. Il mio ingresso in Cosa Nostra avvenne su presentazione di un certo Giovanni Andronico, un uomo d'onore della famiglia di Porta Nuova che faceva il verniciatore di mobili e con il quale entrai in contatto attraverso il mio lavoro di artigiano degli specchi. Andronico fu più preciso di quelli che mi avevano contattato prima. Pur continuando a mantenersi sulle generali, esplorò con maggiore attenzione i miei atteggiamenti nei confronti della polizia, dei carabinieri e dei giudici. Cercò di conoscere meglio le ragioni che mi avevano spinto, così giovane, alla missione «patriottica» di Napoli. Pagina 18


Addio Cosa Nostra..txt Saggiò prudentemente i miei orientamenti in materia di morale familiare e di solidarietà tra uomini di rispetto. Mi propose infine come possibile membro alla famiglia di Porta Nuova. La famiglia di Porta Nuova seguì la prassi usuale di Cosa Nostra in tema di ammissione e aprì una vera e propria istruttoria sul mio conto e su quello della mia famiglia. Furono raccolte informazioni presso le altre famiglie del palermitano, a ciascuna delle quali venne inviato un biglietto con il mio nome. Questa prassi aveva lo scopo di accertare che non vi fossero controindicazioni al mio ingresso nella consorteria. Le risposte sarebbero arrivate, a voce, al rappresentante. Il mio curriculum personale, dal punto di vista mafioso, non presentava alcuna pecca. Non avevo litigato con alcun uomo d'onore, né la mia condotta era stata in alcun modo disonorevole o incerta. Anche i miei familiari erano a posto: dal punto di vista della moralità, in quanto non vi erano mai state corna né offese d'onore; e sotto il profilo delle relazioni con Cosa Nostra, in quanto mio padre e i miei fratelli non avevano ricevuto torti né offeso uomini d'onore e non si erano mai rivolti alla giustizia dello Stato tramite denunce o querele. Fui accettato dopo la tradizionale cerimonia del giuramento, durante la quale vennero illustrati i principi su cui si basa Cosa Nostra e le norme di comportamento cui attenersi. Mio padrino fu lo stesso Andronico, che mi punse il dito con uno spillo prima di bruciare il santino. La famiglia di Porta Nuova non era molto numerosa. Eravamo circa venticinque, provenienti da diverse categorie sociali. C'erano i benestanti e i professionisti assieme agli artigiani, ai commercianti, agli operai. Ma la gente di condizione modesta era la maggioranza. Ricordo quattro personaggi di rilievo: Giuseppe Trapani, concessionario per la Sicilia della birra Messina poi diventato assessore al comune di Palermo per la Democrazia cristiana; un noto avvocato di nome Tommaso Marchesano, eletto al Parlamento nel 1948 per i monarchici; il dottor Nino Maggiore, titolare di una clinica per la cura delle malattie mentali; e l'onorevole Andrea Finocchiaro Aprile, il famoso capo separatista. Gli ultimi due erano persone degnissime, dai tratti signorili e di grande bontà d'animo. Dalla data del mio ingresso all'inizio degli anni '80, le dimensioni della mia famiglia mafiosa non sono molto mutate. Porta Nuova non si è allargata negli anni '70 COME quasi tutte le altre famiglie. Si è mantenuta una forte selezione. In trentacinque-quarant'anni non sono state ammesse più di una trentina di persone. Quanto è bastato per compensare i morti e gli emigrati. Al momento del mio ingresso, il capo della famiglia, «il rappresentante» come si dice in Cosa Nostra, era Gaetano Filippone, un uomo di cui ho molto ammirato la condotta, un mafioso che non si è mai arricchito. Filippone aveva un piccolo orto dove coltivava cavoli e melanzane e a settant'anni andava in giro in autobus come un individuo qualunque. Mi resi ben presto conto che appartenere a Cosa Nostra significava soprattutto godere dell'appoggio e della solidarietà degli altri uomini d'onore. Ciò era gratificante, utile nelle mille piccole contingenze, problemi e fastidi della vita, ma non significava molto di più. Il fatto di essere uomo d'onore non portava soldi. Il nostro intervento negli affari, sia leciti sia illeciti, era ben poca cosa in confronto a quello che si può osservare oggi. Non c'erano a quei tempi - e non ci saranno neppure nei due decenni successivi, se si eccettua il contrabbando di sigarette - quelle attività in grado di coinvolgere vaste schiere di uomini d'onore facendone diventare alcuni ricchi e potenti. Non c'erano le estorsioni a tappeto. Non era facile «spremere» denaro dai ricchi attraverso taglieggiamenti e sequestri, perché quasi tutti erano protetti da altri uomini d'onore. Non c'era il traffico della droga, non c'erano gli appalti pubblici, le truffe e le rapine in grande stile che hanno preso piede dopo il 1970. Pagina 19


Addio Cosa Nostra..txt La famiglia di Porta Nuova deteneva una «guardianìa», proteggeva cioè l'Impresa Cassina incaricata della manutenzione delle fogne per conto del comune di Palermo. Ma si trattava semplicemente di evitare che le pietre che coprivano i pozzetti venissero rubate nella fabbrica dove venivano prodotte. Siccome tale cantiere si trovava nel territorio della mia famiglia, il rappresentante (Gaetano Filippone) mandava suo figlio a dormire nel cantiere stesso in cambio di uno stipendio da parte dell'impresa. L'immediato dopoguerra non fu un'epoca di business per la gente di Cosa Nostra. Fu invece un'epoca di politica, di grande politica. Come ho già detto, l'uomo d onore non ama la politica: egli è un opportunista e sta con chi comanda. Ma nel periodo che va dal 1945 al 1947, 48 molti capi di Cosa Nostra si infatuarono dell'idea separatista. Perfino una persona tranquilla e riservata come Gaetano Filippone si infiammò per qualche tempo e seguì Finocchiaro Aprile nel movimento indipendentista. Si trattò di una breve stagione, durante la quale si pensò seriamente di distaccare la Sicilia dall'Italia e di farne uno Stato a sé, collegato agli Stati Uniti e con uomini d'onore ai posti di comando. Poi Cosa Nostra ritornò nell'alveo e riprese a sostenere, come aveva sempre fatto, gli uomini e i partiti del governo. SALVATORE GIULIANO. Fu nel 1947 che ebbi l'occasione di conoscere personalmente il più famoso uomo d'onore di quel tempo: Salvatore Giuliano. Tutti hanno pensato a lui come a un bandito che a un certo punto entra in contatto con la mafia, e magari diventa mafioso, per poi scontrarsi con gli uomini d'onore. Non è vero. Salvatore Giuliano era uomo d'onore fin dall'inizio, apparteneva alla famiglia di Montelepre e il suo rappresentante si chiamava Salvatore Celeste. Giuliano era un mito, una leggenda, e non solo per i giovani mafiosi come me. Egli combatteva, in mezzo alle montagne, una guerra difficile e senza speranza per il grande ideale dell'indipendenza della Sicilia. Devo dire la verità: quando seppi che l'avrei incontrato provai una forte emozione. Ero in compagnia di alcuni mafiosi della famiglia di Salvatore Greco, che era più anziano e conosciuto di me. Aveva ventiquattro anni e io diciannove. Ci siamo incontrati a Palermo, in un deposito di vino di proprietà di Giuseppe Gibbisi, «soldato» della famiglia di Corso dei Mille, e di Filippo Vassallo, vicecapo della famiglia di Palermo centro. Gibbisi era stato padrino di battesimo della mia prima moglie. Loro due garantivano la sicurezza della riunione grazie a un servizio di sorveglianza all'esterno del magazzino. Entrammo nel deposito. Ai due lati, appoggiate alle pareti, c erano botti enormi che lasciavano un passaggio non molto ampio. In fondo alla sala c'erano uno slargo e un grande tavolo sul quale pendeva una lampada elettrica. Proprio sotto il cerchio di luce vidi un uomo giovane e bello. Bellissimo oserei dire. Era più alto di me, indossava una giacca di velluto e un berretto insolito, non da campagna, ma di quelli che possono servire a nascondere un po' il volto. Salvatore Giuliano era disarmato e cordiale. Mi sembrava quasi emanare una luce speciale, tutta sua. Posso ancora oggi rivederlo nella mia memoria con grande nitidezza: l'immagine di quella sera non è stata sbiadita dal tempo trascorso. Dopo che gli fui presentato come uomo d'onore dai padroni di casa, cominciò a parlare. Fu subito evidente che i discorsi non erano il suo forte. E neppure la lingua italiana. Parlava solo il dialetto stretto del suo paese, molto diverso da quello della città di Palermo. Fu di poche parole. Disse solo che sarebbe stato molto onorato se il gruppo di Totò Greco si fosse unito a lui per combattere assieme per la grande causa comune. Pagina 20


Addio Cosa Nostra..txt Poi rivolse anche a me lo stesso invito. Aveva parlato in tono serio e pacato. Non aveva tentato di eccitare gli astanti con discorsi esaltati del tipo: «Li ammazzeremo tutti perché useremo bombe e mitra!». Rimanemmo tutti in silenzio e molto impressionati. Il mio primo impulso fu di partire subito con lui, quella sera stessa, nonostante avessi moglie e figli. Ma preferii tacere e detti la precedenza a Totò Greco, il quale, con molta deferenza e gentilezza, rispose a nome della sua gente declinando l'invito. «Abbiamo troppi guai interni. Siamo in lotta con i nostri cugini Greco e abbiamo molti problemi con la giustizia. A causa di questa lotta non possiamo inguaiarci ancora di più facendo altre azioni armate. Rimaniamo convinti che l'idea indipendentista è valida, validissima, e la sosterremo al massimo. Ma non possiamo prendere le armi.» Furono parole molto sagge, che contenevano anche una implicita valutazione circa il futuro della causa di Giuliano e dei separatisti. I miei ardori bellicosi si raffreddarono rapidamente, e seguii a ruota la posizione di Totò Greco. Giuliano non si adombrò e rimase ancora un pO' a chiacchierare con noi. Mi colpì il suo odio profondo per i carabinieri. Li riteneva responsabili del fatto che il suo destino di bandito fosse senza ritorno. Era consapevole della tragedia della sua vita: non poter sperare in un processo dal quale uscire assolto. Sulla storia di Salvatore Giuliano e sulle vicende successive alla sua morte si sono dette molte cose sbagliate. Una delle menzogne più gravi è che sia stata Cosa Nostra, dopo averlo sostenuto in un primo momento, a decretarne la fine. Posso affermare con certezza che non fu Cosa Nostra a tradire e uccidere Giuliano. Furono alcuni uomini di Cosa Nostra che si prestarono a questo scopo e che furono poi puniti con la morte per tale ragione proprio da Cosa Nostra. Singoli personaggi mafiosi, neppure famiglie. Traditori come Nitto Minasola di San Giuseppe lato, Domenico Albano di Borgetto e Gaspare Pisciotta, che hanno agito contro la volontà e all'insaputa delle rispettive famiglie. In seguito le famiglie di Montelepre e di Monreale, all'interno delle quali si erano annidati molti traditori, finirono sciolte, un po' per contrasti interni, un po' sotto la pressione del giudizio negativo di tutte le altre famiglie siciliane. Da allora, e fino all'inizio degli anni '80, non c'è più stata una famiglia a Montelepre. La prova che Cosa Nostra nel suo insieme fu contraria all'uccisione di Giuliano è che fu proprio Cosa Nostra a decidere di vendicarlo. Nitto Minasola venne eliminato dalla famiglia di San Giuseppe lato. Minasola, tra l'altro, si era accordato con Pisciotta per far finire dentro la caserma dei carabinieri del mio quartiere, invece che a Montelepre, un camion che trasportava- nascosti dentro ceste di frutta - alcuni ragazzi di Giuliano reduci da un'operazione. Io stesso fui incaricato di sparare a Domenico Albano, il cassiere della banda Giuliano che aveva gestito il denaro dei sequestri di persona distribuendolo tra carcerati e avvocati e poi l'aveva tradito. Verso i primi anni '60 rimasi chiuso per tre giorni dentro un camion parcheggiato davanti a casa sua aspettando inutilmente che uscisse. Per vendicare Giuliano si tentò con ogni mezzo di uccidere Gaspare Pisciotta in carcere. Egli non fu avvelenato, come tutti hanno pensato, dalle guardie carcerarie con la stricnina nel caffè. La stricnina lui la prese dallo zucchero, non dal caffè. Era quello l'unico modo per ucciderlo. Non c'erano infatti altre possibilità perché Pisciotta faceva assaggiare alle guardie e a suo padre (che stava in cella con lui) i cibi e le bevande prima di ingerirle. Furono tutti uccisi per vendetta mafiosa, e non per impedir loro di rivelare ciò che sapevano. Pagina 21


Addio Cosa Nostra..txt Quasi nessuno di loro, infatti, fu eliminato subito dopo l'assassinio di Giuliano, che avvenne nel 1950. Si aspettarono quattro anni per punire Pisciotta. Minasola fu ammazzato nel 1960, dieci anni dopo Giuliano, e altri seguirono la sua sorte nello stesso periodo. Non furono le famiglie di Cosa Nostra a volere Giuliano morto, ma gli uomini politici, gli stessi che lo avevano illuso con i discorsi e con gli accordi sull'indipendenza della Sicilia. Si sbarazzarono di Giuliano per mezzo di alcuni uomini d'onore a lui vicini. Le uniche critiche che ho ascoltato nell'ambiente di Cosa Nostra riguardo a Salvatore Giuliano furono le lamentele di Vincenzo Rimi di Alcamo perché la polizia indagava sulla sua famiglia a proposito di una serie di sequestri di persona commessi dalla banda Giuliano e la disapprovazione generale per l'incidente di Portella della Ginestra, avvenuto il primo maggio del 1947. Parlo di «incidente» perché fu accertato che Giuliano non era presente a Portella e non aveva dato l'ordine di sparare contro donne e bambini inermi per uccidere, ma solo per intimidire, spaventare gli organizzatori comunisti. Non so per quale motivo - molto probabilmente per errore - accadde quello che accadde, e per questa ragione il prestigio di Giuliano presso gli uomini d'onore calò considerevolmente. Erano state massacrate persone che non avevano fatto del male a nessuno e ciò era contrario ai principi e alla mentalità degli uomini d'onore di quel tempo. Spero di avere reso chiaro un concetto al quale tengo molto. Quando si usano espressioni come «La mafia ha appoggiato Giuliano e poi se n'è sbarazzata», oppure «I politici si sono serviti di Cosa Nostra per eliminare Giuliano», spesso si presuppone qualcosa che a quel tempo ancora non c'era. Nel 1947, '48 o '50 le informazioni non circolavano così rapidamente come oggi. Le diverse famiglie di Cosa Nostra non parlavano lo stesso linguaggio e non avevano gli stessi interessi. Si era più isolati. Non era affatto scontato che noi a Palermo fossimo al corrente di che cosa pensasse la famiglia di Partinico a proposito di Scelba, di Mattarella o di Giuliano, anche se Partinico dista soltanto 20 chilometri. Non c'era modo di controllare con rapidità che cosa accadesse in un'altra provincia. C'era molta più autonomia. Ogni famiglia stava, per così dire, per conto suo. E anche i singoli mafiosi. Non c'era la Commissione provinciale. Tutto si basava su contatti e visite tra uomini d'onore, soprattutto tra i capi delle famiglie dell'interno che si recavano a Palermo per conferire con quelli della città e su una rete di conoscenze e di amicizie molto fitta. Qualche volta si tenevano anche vere e proprie riunioni tra i principali capifamiglia, ma raramente si raggiungeva un accordo. I rappresentanti, inoltre, erano di solito persone di età avanzata, la metà delle quali non si presentavano alle riunioni perché erano ammalate o perché c'era troppa strada da fare. Niente garantiva, inoltre, che le eventuali decisioni prese venissero in seguito fatte proprie dalla totalità delle famiglie e da tutti i membri di ogni singola famiglia. Il capo, però, veniva eletto e quelli maggiormente in vista avevano già cominciato a riunirsi più spesso per discutere sui problemi comuni. Anche quando dico che Cosa Nostra sosteneva Giuliano e aveva deciso di vendicarlo, mi riferisco a un'opinione generale delle famiglie che si era formata per gradi, attraverso consultazioni e discussioni approfondite e Sl'era poi consolidata in un orientamento costante. Non mi riferisco affatto a una singola riunione nel corso della quale sia stata presa una decisione definitiva in questo senso. AMERICA LATINA, PRIMA TAPPA:1949, 51. Nel 1949 emigrai in Argentina assieme a mia moglie e ai miei due figli. Il terzo nacque lì, a Buenos Aires, nel 1950. Decisi di lasciare Palermo assieme a un mio fratello, che aveva sposato la sorella di mia moglie e che era partito qualche mese prima di noi. Al nostro arrivo ci fece trovare già pronta una casa comoda e grande, a Temperley, un sobborgo di Buenos Aires. Non andai in Argentina per problemi con la giustizia in quanto ero ancora del tutto incensurato. Pagina 22


Addio Cosa Nostra..txt E non sono emigrato per migliorare una situazione finanziaria precaria. Allora non mi trovavo in condizioni economiche particolarmente brillanti, ma non stavo neppure male. Mia moglie proveniva da una famiglia benestante. Suo padre era stato proprietario di parecchie carrozzelle, e mio padre e gli altri miei fratelli non mi facevano mancare nulla. Anzi, prima che partissi mi diedero abbastanza denaro da poter mettere in piedi un'attività produttiva tutta mia. A quei tempi non si andava nell'America del Sud per sopravvivere, ma per sfondare. L'Argentina era un paese straordinario, vivace, più ricco della Sicilia e dell'Italia. Tutto costava pochissimo e la gente era felice. Si andava al mercato per comprare della carne e con il prezzo corrispondente a un chilo di essa in Sicilia, si poteva tornare a casa con mezzo vitello. Impiantai una fabbrica per la lavorazione degli specchi. Un piccolo laboratorio, con una decina di operai, situata in via Belgrano. La mia idea era di cominciare producendo specchi, un prodotto sicuro. Ma in confronto all'Italia la domanda di specchi era molto ridotta. Gli argentini non tenevano molti specchi in casa. Forse avevano un piccolo specchio in bagno, ma quasi nient'altro. Passai poi ad altri prodotti: portaritratti di legno ricoperti di vetro, anche di vetro colorato: blu, rosso, dorato. Ho realizzato anche immagini sacre da appendere sopra i letti. Purtroppo, anche la richiesta di questi prodotti non raggiunse il livello che avevo sperato. La fabbrica non andava male: mi consentiva di vivere discretamente e di mantenere la famiglia senza problemi, ma i guadagni non erano quelli che mi ero prefisso di raggiungere. La qualità della vita a Buenos Aires era, in compenso eccezionale. Quella città, con i suoi spazi grandiosi, le sue strade, i suoi alberi e i suoi viali immensi, larghissimi mi affascinava. Vagabondavo per ore senza una meta precisa, gustandomi la vista della gente, dei palazzi, delle vetrine. Mi piaceva in modo particolare una zona molto bella e elegante, chiamata Palermo. Ero tifoso di una squadra di calcio e diventai amico di un italiano, un certo Pizzuto, assieme al quale mi iscrissi a un club sportivo dove si giocava anche a tennis. Uscivo molto spesso la sera. Da solo, perché mia moglie preferiva rimanere a casa con i bambini. Lei non stava male in Argentina: lì c'era sua sorella, che aveva a sua volta dei figli, e la lontananza dalla Sicilia non era difficile da sopportare. La sera non vedevo l'ora che la cena in famiglia terminasse per poter scappare in centro a divertirmi. Andavo al cinema, a vedere le compagnie di rivista spagnole che venivano in tournée, oppure al teatro lirico, il Colón, a godermi le opere. Verso la fine del 1950 mio fratello decise di rientrare in Italia con la famiglia. Le vendite dei nostri prodotti non andavano secondo le aspettative, e io decisi di tentare di nuovo, di cambiare ancora una volta. Vendetti la fabbrica e ci trasferimmo in Brasile, a San Paolo, dove impiantai un'altra azienda che chiamai «Conca d'oro» Questa volta producevo solo specchi e vetri. Ebbi successo. La fabbrica lavorava a pieno ritmo e i profitti erano più che soddisfacenti. Il Brasile, inoltre, si rivelò un paese piacevole almeno Li... quanto l'Argentina. Apprezzavo l'allegria e la gioia di vivere di quella popolazione. La mia azienda si trovava in rua do Gasometro, nei pressi della stazione di San Paolo, dove arrivava la gente dall'interno. Gente molto povera, ma non misera, non in preda alla disperazione, capace di sorridere e di sopportare l'indigenza senza amarezza. Com'era diversa da noi siciliani! Imparai rapidamente il portoghese. Respirare quell'aria mi faceva bene. La mia anima si liberava dalle scorie tristi che avevano cominciato a sedimentarsi sul fondo della mia coscienza. Pagina 23


Addio Cosa Nostra..txt Dopo qualche anno trascorso in America Latina, senza più contatti con gli uomini d'onore, iniziai a sentirmi più libero e leggero, più spontaneo quando manifestavo i miei sentimenti: mi ero allontanato dalla mentalità arcigna di Cosa Nostra. Ogni tanto ripercorrevo qualche episodio della mia vita a Palermo e mi tornavano in mente i discorsi «omertosi» dei miei amici e maestri, il loro culto ossessivo della reticenza e del mistero anche a proposito delle cose più innocenti. Dopo essere entrato nella società segreta mi ero, infatti, reso conto che dietro i modi circospetti degli uomini d'onore non c'era niente di particolarmente importante. La mia fantasia aveva creato una realtà fittizia, che era scomparsa non appena avevo lasciato la Sicilia. Mi rendevo conto che all'interno di Cosa Nostra c'era - l'ho già detto - una grande ignoranza e individui che non avrebbero potuto guidarmi nella vita perché troppo rozzi e incolti. L'unica cosa che sapevano raccomandare era il silenzio: non far sapere a nessuno i fatti e i misfatti di mafia. Ma non avevo bisogno che me lo insegnassero loro. Il mio carattere era di natura schivo e riservato. Ero già da tempo un uomo segreto. Cosa Nostra mi aveva deluso. Non aveva tutto quel potere che mi ero immaginato che avesse. Era invece un ambiente minato, dove bisognava stare sempre in guardia perché se un confratello si metteva in testa di accusarmi era la mia parola contro la sua e occorreva difendersi e dimostrare di avere ragione anche quando le cose erano evidenti. Riflettevo, a quei tempi, sulla mia posizione rispetto agli uomini d'onore che avevo lasciato in Sicilia. Io ero uno di loro, ma ero anche estremamente diverso. Conducevo un esistenza che non era consona allo stile mafioso. Non ero contento del mio ambiente e volevo migliorare la mia posizione. Non ero allineato agli altri nei gusti, diciamo così, culturali. E anche nel modo di vestire: non indossavo la sciarpa e il berretto alla siciliana, vestivo più modernamente e portavo scarpe sportive. Parlavo di musica e di opera perché fin dall'età di dodici-tredici anni frequentavo il teatro dell'opera. Loro non sapevano neppure cosa fosse la lirica. I miei confratelli al massimo andavano al cinema per vedere i film con i gangster, oppure quelli con Tom Mix. Quando ero in Brasile - nei locali all'aperto dove si cenava, si chiacchierava, si faceva amicizia con gli sconosciutl'e Si ballava fino a tardi - riandavo con la memoria in mezzo a quell'atmosfera gaia e spensierata, a certe serate in Sicilia quando si andava in campagna, in gruppo. Solo maschi, solo uomini d'onore, a «fare uno schiticchio», un banchetto lungo e impegnativo a base di carni arrostite durante il quale si beve molto ma non bisogna mostrarsi ubriachi e occorre mostrarsi allegri e disponibili allo scherzo, ma rimanere sempre in guardia e attenti alle sfumature e ai doppisensi dei discorsi e delle battute. Che stress! Che modo angusto e faticoso di divertirsi! In quei momenti mi sentivo come scampato a una disgrazia, felice di essere via, lontano migliaia di chilometri da quella gente. Ma questa situazione felice durò poco: mia moglie non voleva rimanere in Brasile. Dopo che sua sorella era tornata in Italia cominciò a sentire un'acuta nostalgia della Sicilia e a soffrire per un problema che potrà sembrare curioso a chi ha una mentalità diversa, ma che continuò a crescere fino a renderle insopportabile vivere a .San Paolo. Il problema consisteva nel significato della parola «Buscetta» nella lingua brasiliana. Il mio cognome coincide con un termine volgare che indica l'organo sessuale femminile. Mia moglie era perciò la «signora buscetta». Veniva derisa un po' da tutti per questo. Quando il suo cognome veniva pronunciato in un certo modo, lei diventava subito rossa, scappava e, quando rientrava a casa era un inferno. Continue scenate e pianti che avevano un solo obiettivo: dovevamo tornare in Sicilia. Alla fine del 1952, stanco delle sue proteste e dopo aver aggiunto senza grandi Pagina 24


Addio Cosa Nostra..txt risultati una «h» al mio cognome (che divenne «Buschetta»), vendetti la fabbrica e imbarcai la famiglia sulla nave per l'Italia. Tornato a Palermo, rientrai, inevitabilmente, nei ranghi di Cosa Nostra. Ormai è un fatto noto a tutti: non si esce da quella compagnia se non si viene espulsi o uccisi. Mio fratello Vincenzo, il fratello-cognato con il quale avevo condiviso l'esperienza argentina, mi convinse a lavorare nella sua azienda. Ma sorsero subito problemi a causa della mia qualifica di uomo d'onore. Il mio posto di lavoro era meta di un fitto pellegrinaggio di gente che veniva a cercarmi per le più diverse ragioni o che passava da lì solo per salutarmi. Vincenzo protestava ribadendo il concetto che quello era un luogo di lavoro e che tutto quel via vai costituiva una perdita di tempo per me e per quelli che mi stavano vicino. Mi voleva molto bene, ma detestava i personaggi equivoci che si presentavano in casa sua. Vincenzo era un individuo semplice e onesto, un lavoratore, abituato a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte e non sopportava il fare arrogante e supponente dei mafiosi. Quel modo di camminare, di salutare, di sedersi, di farla da padroni in ogni circostanza. Cercavo di giustificarmi, ma lui tornava a battere sul fatto che il tempo e il luogo di lavoro erano sacri e dovevano essere rispettati, anche dai malviventi miei amici. A un certo punto dissi basta e mi dedicai a un'altra attività: il contrabbando di sigarette, che cominciava allora a rifiorire grazie ai collegamenti creati dalla malavita francese e italiana tra alcuni porti franchi del Mediterraneo come Tangeri e la Jugoslavia e i mercati di consumo finale. Non si trattava di grandi affari, ma le prospettive di guadagno erano per me più che buone, al punto che concepii il progetto di investire i profitti del contrabbando in un'impresa lecita da costituire assieme a un altro dei miei fratelli: una fabbrica di specchi a Termini Imerese, nei pressi di Palermo, dove avremmo sfruttato una situazione di mercato molto favorevole. Il progetto andò in porto e verso la metà degli anni '50 l'azienda era già in funzione. Penso che questa fabbrica dovrebbe esserci ancora anche se quel mio fratello è morto nel 1970. In ogni caso, questa esperienza imprenditoriale si concluse per me nel 1958 a causa del mio arresto a Roma per contrabbando. Nel corso degli anni '50 ho fatto, in sostanza, tre cose: il contrabbando, il gioco d'azzardo e il produttorecommerciante di vetri e cristalli. In quel periodo la mia reputazione di mafioso cresceva parallelamente all'età, ma nella testa mi era rimasta l'Argentina. E verso il 1955 mi imbarcai nuovamente, a Genova, per tornare in quel paese. La famiglia non mi seguiva, questa volta. Facevo parte di una squadretta di giovani uomini d'onore che viaggiavano clandestinamente, decisi come me a evadere per qualche tempo dalla Sicilia: Antonino Camporeale, membro di Porta Nuova; Salvatore Prester, della famiglia di Palermo centro; Bernardo Diana, divenuto poi il vice di Stefano Bontade; Giuseppe Schiera, sottocapo della famiglia di Pagliarelli, ucciso diversi anni dopo. Dal momento che i miei compagni erano senza passaporto e solo uno di noi aveva il biglietto di viaggio, dormivamo in cinque nella stessa cabina. Il problema principale divenne ben presto quello di nutrirsi, perché sulla nave si potevano comprare solo pochissimi generi commestibili. Tavolette di cioccolato, caramelle, biscotti, ma niente pane né altri alimentari. Al mattino facevamo il breakfast tutti assieme perché non c'erano i posti assegnati, ma per il pranzo e la cena c'era un numero che corrispondeva a un certo posto a un dato tavolo. Oltre alla fame, un altro elemento di disagio era costituito dal doverci destreggiare con le conquiste femminili che avevamo fatto e che non ci trovavano mai in sala da pranzo. Ciascuno di noi, allora, faceva in modo di far rivelare alla rispettiva partner qual'era il suo turno dei pasti, in modo che se questa rispondeva di essere stata assegnata al primo turno, le rispondeva subito: «Peccato! Io sto al secondo!». Pagina 25


Addio Cosa Nostra..txt E viceversa. Quando la nave passò da Santos, in Brasile, si unì a noi Antonio Minore. Sì, Totò Minore, il famoso capomafia di Trapani che allora aveva più o meno la mia età. Minore era ricco di suo e non aveva mai avuto bisogno di lavorare. A San Paolo aveva posseduto un albergo che funzionava come rifugio per tutti i clandestini che passavano da quelle parti. E ne passavano tanti, perché si sapeva benissimo che in quell'albergo non si pagava. A un certo punto Minore lo aveva regalato e si era poi imbarcato con noi per l'Argentina per puro spirito d'avventura. Non fu però un soggiorno molto fortunato. Il giorno del nostro sbarco a Buenos Aires ci fu un colpo di Stato contro Perón e trovammo la città in preda a disordini. Andammo a dormire a casa del titolare della mia ex fabbrica di vetri, dove ci fermammo per tre-quattro mesi tentando di avviare una qualche attività. Ma non era facile, anche a causa dei numerosi divieti imposti dalla mentalità e dalle regole di Cosa Nostra. Avremmo potuto guadagnare molti soldi rubando o organizzando la prostituzione, ma non ci passò neppure per la testa. Giri di contrabbando di rilievo non ce n'erano. Incontrammo alcuni uomini d'onore che si trovavano lì da qualche anno, ma era gente isolata, che non contava nulla e lavorava in pace e tranquilla come tutti gli altri emigrati. A parte me e uno che sapeva fare il meccanico, gli altri del gruppo non conoscevano alcun mestiere. In ogni caso, non trovammo nulla da fare. La situazione interna argentina, poi, era sempre inquieta e i miei compagni non avevano documenti e non potevamo andare in giro per Buenos Aires senza rischiare di essere fermati dai militari per essere identificati. Quindi da clandestini ritornammo in Italia. LUCKY LUCIANO, LA 'NDRANGHETA E IL CONTRABBANDO. Poco tempo dopo essere rimpatriato dall'Argentina, intorno ai primi del 1956, incontrai a Palermo, all'Hotel Sole, una personalità di primo piano in Cosa Nostra, un uomo che ho molto rispettato: Lucky Luciano. Era stato espulso diversi anni prima dagli Stati Uniti, nonostante fosse stato condannato a cinquant'anni di carcere. Si era trattato di un premio perché aveva collaborato con le autorità durante la seconda guerra mondiale. Attraverso la mafia italo-americana, che controllava il sindacato degli scaricatori, Luciano aveva garantito la sicurezza dei porti statunitensi dai sabotaggi dei tedeschi. Ma lui mi confidò qualcosa di più. Mi parlò del contributo che aveva dato allo sbarco alleato in Sicilia. Mettendo a disposizione la sua influenza su Cosa Nostra siciliana, in modo che l'operazione avvenisse senza spargimento di sangue. E infatti gli americani in Sicilia si sono fatti una bella passeggiata. L'incontrai insieme ad altri uomini d'onore (tra i quali un certo Giacinto Mazara) che me lo presentarono come tale. Mi trovai davanti un uomo tra i cinquantacinque e i sessant'anni di età, buono e gentile, di alta statura, sul metro e ottanta, dai modi pacati e paterni. Portava gli occhiali, era elegante e distinto. Con al polso un orologio prezioso, tempestato di brillanti. Notai l'orologio, ma ciò che mi colpì sopra ogni altra cosa fu la sua aria triste, la malinconia che lo avvolgeva come una nebbiolina. Non conosceva l'allegria. Allora e in seguito non lo vidi mai allegro o sorridente: era come se non avesse mai avuto un attimo di felicità in tutta la sua vita. Chi come me l'aveva già visto in fotografia, l'aveva definito come un uomo brutto, sgraziato. Era in realtà un uomo dall'aspetto gradevole, dotato di un'attrattiva speciale, indefinibile. Si stava volentieri in sua compagnia, anche se parlava un pessimo siciliano in quanto aveva lasciato l'isola ancora bambino. Era molto umano. Dal suo rientro in Italia in poi, le cose per lui non andarono bene. Pagina 26


Addio Cosa Nostra..txt Era arrivato nel 1946, era rimasto pochi mesi ed era ripartito per Cuba, un posto dove poteva incontrarsi con i suoi amici americani. Sembra che lì abbia avuto degli screzi con un figlio o un nipote del dittatore Batista. Ma anche il governo americano osteggiava la sua permanenza a Cuba, per cui fu costretto a ritornare definitivamente in Italia l'anno dopo. Si era stabilito in un primo tempo a Palermo e poi a Napoli, per ordine delle autorità di polizia. Era una persona schiva, che conduceva una vita ritirata. Quando mi trovavo dalle parti di Napoli e andavo a fargli visita, lo trovavo sempre a casa, in compagnia di una donna che poi è morta, oppure all'ippodromo, dove giocava. Era tutto casa e corse di cavalli. Non si era mai sposato e non aveva figli. Aprì diversi negozi tra Napoli e Palermo. Commerciò in confetti, in articoli sanitari e in altri prodotti. Alle corse dei cavalli perdeva molto denaro, ma non se ne preoccupava più di tanto perché riceveva molti soldi dagli Stati Uniti. Contrariamente a quanto si è detto, Luciano non si inserì mai in alcun traffico di Cosa Nostra siciliana. Aveva già troppi problemi e non voleva cercarsene altri. Inoltre, già allora vigeva il principio che i fatti di Cosa Nostra americana erano ben distinti dai nostri. Luciano non si interessava ai nostri affari anche perché non ne aveva bisogno, era ricco e poteva permettersi di non pensare più a come guadagnare, ad accumulare. Si interessava, invece, alle questioni di «politica interna» (chiamiamola così) della mafia. Ma solo per le grandi problematiche e se gli veniva chiesto di farlo: mai di sua iniziativa. Era di poche parole, ma se veniva affrontato un argomento che riguardava gli equilibri, i problemi di Cosa Nostra, si apriva, parlava, esprimeva il suo pensiero. Ricordo bene il suo intervento, nel 1956, nell'operazione che portò alla costituzione di una serie di famiglie mafiose in Calabria. Luciano agì come tramite tra le famiglie di Cosa Nostra siciliana e quelle americane per ottenere il beneplacito della prima riguardo a tale iniziativa Prima di allora, le uniche famiglie di uomini d'onore calabresi non si trovavano in Calabria, stavano nell'America del Nord. E fu da lì che arrivò l'impulso a «farle» anche oltre lo Stretto. Intendiamoci bene, in Calabria c'era la 'ndrangheta, un'entità autonoma da Cosa Nostra, che non era organizzata per famiglie e nella quale non c'erano uomini d'onore. Un'entità sui generis, dal nostro punto di vista, a causa della sua scarsa serietà nel reclutamento e della sua segretezza molto bassa, quasi inesistente. Noi di Cosa Nostra avevamo sempre mantenuto le distanze, cercando di non avere a che fare con quelli della 'ndrangheta: non li consideravamo uomini d'onore, anche se loro si autodefinivano in questi termini, oppure «uomini di rispetto» o in altri modi simili. Li ritenevamo poco seri. Gente che era capace, dopo due bicchieri di vino, di attribuire la qualifica di 'ndranghetista al capo delle guardie del carcere, mentre noi prima di ammettere qualcuno in famiglia, svolgevamo indagini fino a due generazioni indietro su tutti i componenti, maschi e femmine, della parentela più stretta del candidato. E poi parlavano troppo. Gli 'ndranghetisti non erano capaci di mantenere il segreto su nulla. Anche se al loro interno non c'erano dei delatori che andavano a riferire i fatti loro alla polizia, questi diventavano pubblici rapidamente, andavano sulla bocca di tutti. Per questo li snobbavamo, reputandoli pari ai napoletani sul piano della affidabilità e della «omertosità». In ogni caso, un importante uomo d'onore americano di origine calabrese, Albert Anastasia, allora capo della famiglia Gambino di New York, dette mandato a un certo Jo Ida, rappresentante di un'altra famiglia degli Stati Uniti e anch'egli calabrese, di venire in Italia a organizzare famiglie mafiose in Calabria. Negli Usa la gente di diverse province e regioni si era mescolata fin dai primi tempi dell'emigrazione. La famiglia Gambino, per esempio, era stata formata da elementi che provenivano Pagina 27


Addio Cosa Nostra..txt da Palermo, ma presto aveva cominciato ad accogliere anche molti calabresi, tra cui appunto Anastasia, diventato addirittura rappresentante. Dal momento che in Italia risiedeva un esponente di Cosa Nostra americana del calibro di Lucky Luciano, Ida si rivolse innanzitutto a lui. Luciano, poi, contattò a sua volta un maturo uomo d'onore di Palermo, Gioacchino Pennino, chiedendogli di recarsi in Calabria assieme a lui per esaminare sul posto la questione. Luciano incaricò Pennino e non me, che gli ero più amico, perché ero troppo giovane. Pennino mi chiese comunque di accompagnarlo in Calabria a una riunione durante la quale Ida, presente lo stesso Luciano, espose le intenzioni sue e di Albert Anastasia. Pennino rispose che il tema era troppo impegnativo perché potesse decidere da solo: ne avrebbe parlato in Sicilia consultando alcuni dei capi più influenti (era il 1956 e la Commissione ancora non esisteva). Il nullaosta al progetto arrivò dopo qualche tempo e quasi subito nacquero in Calabria un paio di famiglie nuove, ma non si andò avanti per molto, a causa della morte di Anastasia e della guerra di mafia a Palermo del 1962, 63 che bloccarono lo sviluppo di altre iniziative in Calabria. Ricordo i nomi di alcuni 'ndranghetisti che divennero importanti uomini d'onore. Per la zona tirrenica, Paolo De Stefano e Mommo Piromalli. Per la zona jonica, Antonio Macrì. Ho conosciuto da vicino Piromalli in occasione del processo di appello che ebbi nel 1979 a Catanzaro. Era lui che si occupava della giuria, nel senso di «aggiustare» il processo spiegando bene, in privato, le ragioni di noi imputati ai membri del collegio giudicante. Il nostro intervento ebbe un effetto visibile e duraturo sugli uomini della 'ndrangheta. La lezione siciliana fece sì che essi agissero come mafiosi. Divennero veri uomini d'onore, senza rendere palese ai loro amici 'ndranghetisti che appartenevano a Cosa Nostra, la quale, da allora in poi, controllò e usò la gente della 'ndrangheta a suo piacimento. Le teste di ponte calabresi di Cosa Nostra risultarono molto utili, negli anni, anzi nei decenni successivi, per tessere numerosi affari illeciti. La Calabria fu usata intensamente e proficuamente per le trafile del contrabbando di sigarette. Era nato quel contatto sicuro, quel rapporto di fiducia con gli 'ndranghetisti che era fondamentale per la buona riuscita dei traffici. I quali andarono bene finché ci fu questa fiducia. Poi, quando questa venne meno, nel 1967, Ci fu la strage del mercato ortofrutticolo di Locri originata appunto da uno «sgarro», da una scorrettezza in un affare di sigarette. Nel corso degli anni '50, e soprattutto nella seconda metà, mi dedicai con buoni profitti al contrabbando di sigarette. Si costituivano società tra uomini d'onore e si mettevano insieme i capitali necessari per acquistare dai fornitori un determinato quantitativo di casse che venivano poi sbarcate in un punto della costa siciliana o calabrese. Rivendevamo quindi la merce ai distributori più piccoli, i quali si incaricavano di farla arrivare nelle strade, ai consumatori. A quei tempi acquistavamo solo parte del carico di una nave perché nessuna famiglia, nessun gruppo di uomini d'onore associati potevano disporre del denaro sufficiente a pagare l'anticipo necessario per ottenere un carico intero. Le navi erano di proprietà dei fornitori francesi e assieme a noi di Cosa Nostra, al nostro livello, lavoravano diversi altri membri della malavita comune di Palermo. A differenza dei nostri «fratelli» americani, che erano in grado di finanziare e di dirigere - ai tempi del proibizionismo - tutto il traffico di alcol all'ingrosso senza ricorrere a gente esterna a Cosa Nostra, noi siciliani controllavamo solo una parte modesta del commercio illecito dei tabacchi. Oggi, con tutte le cifre che si fanno sui guadagni della mafia e sul suo potere di comandare sul resto della criminalità, tutto ciò può sembrare incredibile, ma negli anni '50 nel contrabbando i non affiliati a Cosa Nostra facevano la parte del leone. Ai fornitori principali non importava molto chi fosse l'acquirente di una partita di sigarette e c'erano parecchie squadre di grossisti come noi che operavano in modo autonomo. Pagina 28


Addio Cosa Nostra..txt C'erano i «caprioti», malavitosi del rione «Il Capo» che si trova nei pressi del Tribunale; c'erano un paio di squadre di contrabbandieri professionisti che provenivano dai quartieri vicini al porto; c'era perfino una squadra composta da confidenti della guardia di finanza o della polizia che noi chiamavamo «gli spioni» e che lavoravano molto bene. A dire il vero, quasi tutti questi concorrenti lavoravano meglio delle squadre di Cosa Nostra, perché avevano un giro di affari più grande e realizzavano profitti notevolmente maggiori. Essendo ottimi marinai avevano la disponibilità e la capacità di gestire i pescherecci e le barche che occorrevano per trasbordare le casse dalle navi alla terraferma. Erano in grado di pagare in contanti le partite prenotate e ottenevano perciò prezzi di favore. Scaricavano da soli e smerciavano da soli, fino al singolo pacchetto, il contenuto delle casse. Noi uomini d'onore dovevamo invece ricorrere agli equipaggi dei pescherecci, alle squadre degli scaricatori e a quelle dei rivenditori. E non disponevamo, come ho già accennato, di molti capitali freschi per contrattare con i fornitori da una posizione di forza. Anche tra le stesse squadre di Cosa Nostra c'era molta concorrenza. E c'era pure una specie di tacito accordo a non ricorrere alla violenza se non in casi estremi. Gli «spioni» venivano tollerati perché facevano i loro affari senza interferire nei nostri, si tenevano alla larga dai nostri uomini e non potevano perciò fornire alla polizia molte informazioni sui nostri movimenti. Nel marzo del 1958 fui arrestato per la prima volta: a Roma, con l'imputazione di associazione per delinquere e contrabbando di sigarette. Avevo organizzato una spedizione in Sicilia trattando con Pasquale Molinelli, un francese che operava a livello internazionale. Le sigarette dovevano arrivare alle coste palermitane dal porto franco di Tangeri e i miei soci ne avrebbero curato lo sbarco. Molinelli inviò a Roma un suo corriere, un certo De Val, con il quale dovevo perfezionare gli ultimi dettagli sulle modalità di consegna della merce. Ma la guardia di finanza aveva intercettato le telefonate tra me e Molinelli e anche la polizia era al corrente di quanto stava bollendo in pentola. Andai alla Stazione Termini a prendere De Val'e lo accompagnai a casa di Wanda Persichini, la mia «fidanzata» romana, per farlo incontrare anche con gli altri miei soci. Lì fummo tutti arrestati e condotti in carcere. Tre anni più tardi fui prosciolto per insufficienza di prove da quelle imputazioni. Negli stessi anni '50 si cominciò a parlare di droga, ma sui giornali e nei rapporti della polizia. All'interno di Cosa Nostra se ne parlava poco o niente perché il coinvolgimento degli uomini d'onore nel mercato degli stupefacenti era quasi inesistente. I traffici di quel tempo consistevano in quantità che si misuravano in grammi: non ho mai sentito parlare, allora, di grandi partite o di tonnellate. Non so se esistesse un canale di grande traffico tra la Francia e gli Stati Uniti con siciliani impegnati nel ruolo di corrieri o di distributori. Tuttavia posso affermare con certezza di non avere conosciuto persone di Cosa Nostra che in quegli anni si occupassero di droga all'ingrosso. Le operazioni antidroga e gli arresti che venivano effettuati erano perciò molto gonfiati. Quando fui arrestato a Roma, venne a interrogarmi un certo Charles Siragusa, un poliziotto molto noto dell'antidroga americana. Siragusa era conosciuto nel nostro ambiente perché si diceva che si fosse fatto fregare molti soldi dai trafficanti FRANCESI in un'operazione «coperta»: lo avevano bidonato incassando il denaro senza poi consegnare la merce. Devo dire, a onor del vero, che è possibile che in Sicilia qualche uomo d'onore trafficasse di nascosto la droga, ma la segretezza in questo caso era spontanea e non derivava da un divieto esplicito. Fino al 1957 non c'era una Commissione che potesse deliberare e anche dopo non fu mai presa una decisione a tale proposito. Il divieto di trattare droga di qualsiasi genere era invece in vigore nelle famiglie americane e veniva fatto rispettare con estrema severità. La pena per chi lo infrangeva era la morte. Nel 1965, appena arrivato negli Usa, una delle prime cose che ho sentito dagli Pagina 29


Addio Cosa Nostra..txt uomini d'onore di quel paese è stata: «Qui non si traffica droga». Fino a che non sono andato via da lì, nel 1970, ho sentito più volte ribadire questo concetto. Le famiglie americane ormai vivevano bene. Non avevano problemi e non volevano attirare l'ira della polizia e del governo facendosi trovare invischiate in questioni di droga. Credo che tale divieto sia stato rispettato anche negli anni successivi e dalle generazioni più giovani, perlomeno fino alla morte di Carlo Gambino. Cosa Nostra americana non aveva mai trafficato in droga. Chi lo aveva fatto lo aveva fatto per conto proprio, nascostamente, rischiando non tanto la galera quanto la vita. Conosco solo un episodio di mafiosi siciliani che hanno cercato di introdurre droga negli Stati Uniti. Angelo La Barbera, verso i primi anni '60, andò in Messico dove si trovava un carico di eroina proveniente dalla Francia e da lì tentò di inviarlo in America senza dirlo a nessuno di noialtri. Si trattava di un quantitativo che all'epoca sembrava enorme: una quindicina di chili. Ma non riuscì a farlo entrare negli Usa perché Carlo Gambino, il capo della Commissione americana, gli mandò un messaggio estremamente chiaro: «Io ti rispetto e ti voglio bene, ma se hai intenzione di far entrare droga negli Stati Uniti, sarò costretto ad ammazzarti». Non credo che La Barbera sia riuscito, in quella particolare occasione, a introdurre in America quella partita di eroina. So per certo, tuttavia, che un piccolo canale di traffico tra la Sicilia e quel paese è comunque esistito in quegli anni e si è rafforzato dopo il 1963, come conseguenza della prima guerra di mafia. Prima di allora, gli uomini d'onore che si stabilivano negli Stati Uniti erano pochi e non c'erano grandi difficoltà ad accettarli come membri delle famiglie locali. Dopo il 1963 molti emigrarono in America e non fu possibile inserirli nelle famiglie dei luoghi di arrivo. Alcuni uomini d'onore siciliani pensarono, inoltre, che non era necessario inserirsi a tutti i costi in Cosa Nostra americana e così scelsero luoghi diversi dai soliti per operare più liberamente. I Cuntrera-Caruana, ad esempio, se ne andarono in Canada, dove non erano obbligati a rendere conto dei loro affari se non a qualche propaggine della famiglia newyorkese dei Bonanno. In Canada c'erano perciò molte opportunità per lavorare con la droga. Per i Cuntrera non fu un grande problema mantenere tutto ben nascosto: aprirono un canale di importazione di eroina dall'Italia che divenne via via sempre più consistente, con Giuseppe Bono come punto di riferimento principale. Sulla scia dei Cuntrera-Caruana si sono mossi poi altri, come il gruppo dei Ganci, dei Lamberti e altri. Il processo della «Pizza Connection» ha mostrato, molti anni più tardi, come tutto il traffico venisse gestito da uomini d'onore immigrati dalla Sicilia negli Usa che non facevano assolutamente parte delle famiglie americane, fatta eccezione per uno dei capi, tale Salvatore Catalano, membro della famiglia Bonanno. E possibile, quindi, che Cosa Nostra statunitense fosse in qualche modo a conoscenza di queste attività, oppure che esse si svolgessero con la collaborazione occulta di singoli mafiosi americani, i quali ufficialmente facevano finta di non saperne niente. E molto difficile per me affermare con certezza qualcosa su questo argomento. Durante il processo che ho ricordato sono stato molto combattuto. Da un lato, ero al corrente del divieto della Commissione circa il commercio di droga; dall'altro sapevo che la mafia degli Stati Uniti era perfettamente in grado di controllare se poi il traffico avveniva ugualmente e aveva tutti i mezzi per interromperlo, punendo adeguatamente i responsabili. Se ciò non è avvenuto, forse vuol dire che alcuni esponenti della mafia americana erano a conoscenza del traffico e lo «coprivano» in cambio di una percentuale sugli affari. JOE BONANNO E LA NASCITA DELLA COMMISSIONE. Ma torniamo agli anni '50 e precisamente a quel 1957 nel quale si colloca un avvenimento molto importante nella storia di Cosa Nostra in Sicilia: la visita di Joe Bonanno, rappresentante della famiglia americana i cui membri più importanti erano originari, come lui stesso, di Castellammare del Golfo. Bonanno era un capo di grande prestigio, che ho sempre ammirato molto e faceva Pagina 30


Addio Cosa Nostra..txt parte della Commissione nazionale di Cosa Nostra degli Stati Uniti. Distinto, elegante, dotato di una dialettica non comune, Bonanno non aveva dimenticato le sue radici. Nella famiglia di cui era capo la lingua italiana era accettata e benvenuta, anzi, era preferita all'inglese. Qualche settimana dopo il suo arrivo in Italia, ricevetti un invito per un pranzo ufficiale in suo onore. Mi dissero che Bonanno desiderava conoscermi e che l'appuntamento era al ristorante Spanò, dove mi recai alla data stabilita. Tengo a precisare il luogo dell'incontro perché su questo episodio si è molto ricamato, nella relazione della prima Commissione antimafia, dove si è scritto che avevamo tenuto una riunione ad alto livello all'Hotel delle Palme con all'ordine del giorno il traffico di eroina con gli Usa, fino alle farneticazioni che ho letto di recente in un volume che dovrebbe essere stato scritto da una persona seria. In questo libro - una specie di «Storia della mafia» piena di errori e inesattezze, a partire dalla mia stessa data di nascita - si scrive a un certo punto che la riunione (mai avvenuta) all'Hotel delle Palme, cui avrebbero partecipato, oltre a Bonanno, altri capi di Cosa Nostra americana, aveva lo scopo di convincere noi «a una amichevole spartizione» (non si capisce di cosa) «in conseguenza della chiusura della base cubana». Immagino si voglia alludere a un presunto ruolo svolto da Bonanno nel traffico della droga. Ebbene, lo ripeto ancora una volta: sono convinto che Joe Bonanno non abbia mai commerciato in stupefacenti. Lo ribadisco anche in questa occasione e anche se sono consapevole che ciò non farà piacere alle autorità americane, le quali non hanno mai potuto sopportare queste mie affermazioni. Ma il mio primo obbligo è la sincerità con me stesso e verso la verità dei fatti. Joe Bonanno, come altri capi di Cosa Nostra Usa che ho conosciuto, era troppo intelligente per esporsi ai rischi che comporta la droga. Aveva l America in mano, era amico personale di giudici e di personalità altolocate, i traffici di droga non avevano alcun senso per uno come lui, capace di fare i traffici di Borsa. La riunione da Spanò non aveva perciò niente a che vedere con la droga, né con spartizioni e accordi di business illecito. Si trattava solo di un pranzo in grande stile: stile Cosa Nostra, con tante portate e tanta gente. Spanò era un ristorante sul mare, il migliore della città e per tale occasione Cosa Nostra lo aveva in pratica requisito. L'Hotel delle Palme non c'entrava se non per il fatto che Bonanno vi alloggiava e vi riceveva gente. Anzi, dal momento che si era sparsa la voce della presenza di un importante personaggio americano, la polizia sorvegliava l'albergo e non pensava che ci saremmo riuniti da un'altra parte, in un ristorante come Spanò, per esempio. E ciò rese più sicuro e tranquillo l'incontro. Al pranzo erano stati invitati influenti uomini d'onore palermitani e trapanesi. I fratelli Badalamenti, Salvatore Greco «Cicchiteddu», i La Barbera, Gioacchino Pennino, Cesare Manzella, Rosario Mancino, Filippo e Vincenzo Rimi, Antonio Minore e altri. Bonanno era in compagnia di altri uomini d'onore americani, tra i quali lo stesso Lucky Luciano - che parlò pochissimo, come suo solito - e Carmine Galante, che fu poi ucciso, nel 1979, in un ristorante di Brooklyn. L'incontro non aveva uno scopo preciso. Ci eravamo riuniti semplicemente per festeggiare Bonanno, che era un personaggio molto noto e che ci era molto caro. Un certo entusiasmo supplementare, a dire il vero, nasceva dal fatto che da entrambe le parti c'era l'intenzione di riallacciare i contatti. Joe Bonanno si sentiva un po' investito di un ruolo diplomatico, in quanto le relazioni tra Cosa Nostra americana e Cosa Nostra siciliana si erano di fatto interrotte intorno al 1950. Prima di allora, il titolo di uomo d'onore veniva accettato senza problemi negli Stati Uniti. Se qualcuno di noi si trasferiva lì, bastava che portasse con sé una lettera del proprio rappresentante che facesse riferimento - in modo «coperto» e allusivo, Pagina 31


Addio Cosa Nostra..txt ovviamente - alla sua appartenenza a Cosa Nostra perché venisse accolto in una famiglia americana. A partire da tale data però, queste lettere non vennero più accettate e la gente che proveniva dalla Sicilia aveva maggiori difficoltà a entrare nelle famiglie americane. Bonanno affrontò con molto garbo questo argomento con «Cicchiteddu» e Gaetano Badalamenti. Ero seduto vicino a lui, ero molto giovane e ascoltavo la conversazione senza perdere una parola. Fu come se fossi stato avvolto da un incantesimo. Lui, Joe Bonanno, si rivolgeva spesso a me, guardandomi negli occhi e divertendosi a stuzzicarmi con domande alle quali non osavo rispondere per la soggezione e l'emozione che mi avevano invaso. Attribuiva tutta questa importanza a un ragazzo di nemmeno trent'anni perché Lucky Luciano gli aveva parlato molto bene di me e per la buona reputazione che godevo in Cosa Nostra, appannata soltanto dalla mia irrequietezza, già nota e manifesta, in materia di donne. Alcuni giorni dopo decisi di inviare a Bonanno un segno della mia ammirazione: gli feci recapitare al suo albergo un carrettino siciliano che avevo scelto tra i migliori che si costruivano a Palermo. Il pranzo fu lunghissimo. Durò mezza giornata, le portate si susseguirono senza sosta e si arrivò all'ora di cena. Molti di noi mangiarono a più non posso, ma Bonanno no. Era un uomo sobrio, parco e molto ben educato. Ma non si mostrò distaccato. Era pienamente partecipe. Non aveva perso il calore umano che derivava dal fatto di essere nato in Sicilia e mostrava di apprezzare sinceramente l'atmosfera di affetto e di deferenza con cui lo circondavamo. Fu pertanto più facile affrontare i temi del disaccordo tra le due Cosa Nostra. La frattura si era creata per gradi per via di un loro progressivo atteggiamento di minore apertura nei nostri confronti e per via di certe pratiche degli americani che noi non condividevamo: il divorzio e l'usura in particolare. Loro ammettevano il divorzio, noi no. Noi pensavamo che se avevamo scelto una donna, l'avevamo sposata e l'avevamo fatta diventare la madre dei nostri figli, ce la dovevamo tenere per sempre. Mi rendo conto che su questo punto al di fuori degli ambienti di Cosa Nostra siciliana c'è molto scetticismo. Ma vi garantisco che è così e nessuno meglio di me lo può affermare, visti i guai che ho passato a tale proposito. Gli uomini d'onore, soprattutto quelli della mia giovinezza, credevano veramente in queste cose. Grandi capi mafiosi come Vincenzo Rimi non hanno mai tradito la moglie. L'anomalia consisteva piuttosto nel comportamento del sottoscritto, il quale, al la data del pranzo da Spanò, era già stato sospeso per sei mesi da Cosa Nostra per via delle sue numerose relazioni extraconiugali. Un altro importante punto di contrasto con i nostri colleghi americani consisteva nel fatto che loro praticavano largamente l'usura. Non so come adesso stiano le cose, ma posso dichiarare con sicurezza che fino al 1980 un uomo d'onore non poteva prestare denaro a interesse a un altro uomo d'onore e neppure a un estraneo. L'usura era assolutamente proibita e perciò dissentivamo profondamente dal comportamento troppo «commerciale» degli americani: li accusavamo, infatti, di avere deviato dai princìpi basilari di Cosa Nostra. C'era poi un problema di carattere più generale, che aveva a che fare con tutto il loro comportamento nei nol stri confronti. Con il passare del tempo, avevano cominciato a trattarci come i cugini poveri. Quando un uomo d'onore siciliano emigrava in America veniva accettato subito, è vero, nelle famiglie locali. Era trattato con cortesia e gli venivano riconosciuti tutti i suoi diritti, ma poi finiva per essere collocato in una posizione a parte, un po' marginale. Sulla carta era uguale a loro, ma di fatto veniva guardato dall'alto in basso, come uno che pretende più di quello che gli spetta. La verità era che i mafiosi italo-americani provenivano da esperienze durissime. Avevano condotto una vita piena di sacrifici prima di raggiungere il successo, il potere e i soldi. Pagina 32


Addio Cosa Nostra..txt Avevano salito anche loro il calvario di stenti e di umiliazioni degli immigrati italiani. Quando erano arrivati negli Stati Uniti, molti di loro avevano dormito in baracche per uomini e le loro mogli in quelle per donne. Adesso erano ricchi e potenti, ma non avevano dimenticato il loro passato. Erano consapevoli di aver vinto una lotta molto aspra e consideravano una grande conquista la posizione che avevano raggiunto. Volevano, di conseguenza, che chiunque arrivasse negli Stati Uniti, anche se già uomo d'onore, si facesse strada da solo, si conquistasse anche lui un posto in quella giungla senza trovarsi la strada già spianata. E per questo motivo che, dopo i saluti e i convenevoli di rito, lasciavano i nuovi arrivati a sbrigarsela da soli. Gli uomini d'onore siciliani non capivano questo comportamento e lo consideravano un'espressione di freddezza o, addirittura, un tradimentdei canoni principali di Cosa Nostra. Anche quelli che si inserivano nelle famiglie degli Stati Uniti non erano contenti. Tutto era troppo formale. Non era affatto scontato, per esempio, che un soldato dovesse conoscere personalmente il suo rappresentante. La distanza tra i due era enorme. In Sicilia, il rappresentante era uno di noi, con il quale ci incontravamo spesso, anche al di fuori della vita di Cosa Nostra. In America c'era una gerarchia strutturata come nell'esercito. Il soldato aveva contatti solo con il suo capodecina, che trasmetteva poi i problemi al capofamiglia. Sono convinto che Carlo Gambino è morto senza conoscere tutti i soldati della sua famiglia. Il territorio, poi, creava un'altra differenza. Gli spazi a disposizione di una famiglia americana erano immensi. Tutta New York, che ha una popolazione più numerosa dell'intera Sicilia, era divisa tra cinque famiglie. Tutta Palermo e provincia - poco più di un milione di abitanti veniva contesa da una cinquantina di famiglie. Per non parlare poi delle distanze: occorrevano ore di automobile per scambiarsi una visita tra soldati o per mettersi d'accordo su una data operazione. I contatti e le conoscenze personali erano più difficili. Tutto questo faceva perdere l'entusiasmo di sentirsi fratelli e affievoliva la solidarietà I nostri colleghi erano diventati gradualmente più isola ti, erano obbligati a esprimersi sempre più spesso in inglese, si erano lentamente americanizzati. E così la possibilità di dialogare tra i due continenti si era a poco a poco indebolita. L'arrivo di Joe Bonanno poteva servire a riallacciare un dialogo. Non credo che Bonanno sia venuto in Sicilia con questo scopo a nome di Cosa Nostra degli Stati Uniti. Era stata una sua iniziativa personale conforme a un suo modo di pensare e di concepire la situazione di Cosa Nostra. Tutti noi eravamo consapevoli, in ogni caso, del significato di quell'evento. Fu lui che ci parlò del problema dell'americanizzazione un po eccessiva di Cosa Nostra. Ci disse che non vedeva di buon occhio la perdita delle nostre tradizioni e che si batteva in ogni occasione perché i fratelli americani Si riavvicinassero a noi siciliani, che rappresentavamo, in fin dei conti, la madrepatria. Ci descrisse l'esperienza delle famiglie di New York e ci suggerì di creare in Sicilia una Commissione analoga a quella degli Stati Uniti, dove era stata istituita venticinque anni prima in seguito a una guerra di mafia molto sanguinosa rivelandosi presto assai utile. La Commissione avrebbe avuto responsabili formali e modi di procedere vincolanti. Nel caso di un conflitto, le parti si sarebbero potute spiegare e avvicinare meglio l'una all'altra. Se fosse sorto un qualunque problema, un conto sarebbe stato parlare con quattro, cinque o dieci persone autorevoli scelte a caso, un conto con la pluralità dei rappresentanti di Cosa Nostra. Bonanno prospettò la nascita della Commissione come uno strumento di moderazione e di pace interna. Soprattutto nel caso delle sentenze di morte nei confronti di uomini d'onore. Pagina 33


Addio Cosa Nostra..txt Prima di uccidere un membro di Cosa Nostra si sarebbe potuto discutere tra più persone, ascoltare diverse campane e seguire un criterio di massima invece di passare subito all'esecuzione, come era invece accaduto in tanti casi. Il criterio che fino a quel momento vigeva in Cosa Nostra siciliana era stato troppo soggettivo. Era stato il singolo rappresentante a giudicare il proprio soldato e i decreti di morte erano diventati troppo facili. La decisione di spegnere la vita di un uomo d'onore doveva essere presa dalla Commissione nel suo complesso, che se ne sarebbe assunta la piena responsabilità. Quanto sto descrivendo è una sintesi di fatti che sono maturati per gradi, grazie al tatto e alle capacità di alcuni di noi. Ma non voglio annoiarvi esaltando le doti mie e dei miei amici di allora. E solo per spirito di servizio nei confronti della verità che faccio ogni tanto precisazioni di questo tipo e per evitare di semplificare troppo le cose, come in certi film o in certi libri pieni di deformazioni delle vicende di Cosa Nostra. Quei film dove una riunione conviviale come quella da Spanò viene rappresentata con Joe Bonanno e gli altri seduti intorno a un tavolo con i sigari accesi e con un presidente che dà la parola e magari un segretario che mette tutto a verbale. Riunioni dove si fanno lunghi discorsi, si delibera a proposito di traffici di droga e si prendono decisioni per alzata di mano. Le riunioni alle quali ho partecipato nella mia vita sono consistite in piccoli gruppi di quattro, cinque, dieci persone che Si trovavano assieme e discutevano senza ordini del giorno, come la gente normale che si scambia opinioni e punti di vista su un qualsiasi problema. Le decisioni maturavano poi a poco a poco, dopo che ci si era resi conto di tutti gli aspetti di una questione e si erano ascoltati diversi pareri. Non c'è mai stata quella solennità, quella formalità che si vede nei film. Anche durante il pranzo da Spanò è andata così. Si parlava per piccoli gruppi, senza una regola stabilita e discorsi roboanti già preparati. Ogni tanto due o tre persone si alzavano e si appartavano per proseguire una discussione, altre tre o quattro se ne andavano perché avevano da fare e ritornavano più tardi. I lm di mafia ci hanno abituati a immaginare un Joe Bonanno che a un certo punto si alza in piedi e tutti tacciono mentre lui comincia a dire: «Signori miei, è meglio che voi fate la Commissione come l'abbiamo fatta noi. Sono stato incaricato di dirvelo dal Capo dei Capi degli Stati Uniti...». Mi viene da ridere, certe volte, quando vado al cinema e trovo scene di questo genere. In quel pranzo Bonanno accennò al problema della Commissione a un paio di noi che gli stavamo vicini e poi ad altri quel giorno stesso e ne accennò certamente ad altri ancora nel corso di qualche visita che lui fece o ricevette all'Hotel delle Palme. Ma l'argomento era sempre affrontato con estrema discrezione, buttato qua e là nei discorsi e non ripetuto come una recita. Si cominciava a parlarne, si andava avanti per un po' e poi si passava a un altro argomento. Mezz'ora dopo si ritornava sulla questione, oppure vi si alludeva più tardi, aggiungendo qualche riflessione, modificando qualche considerazione. Il fatto è che gli uomini d'onore molto difficilmente sono loquaci. Parlano una loro lingua, fatta di discorsi molto sintetici, di brevi espressioni che condensano lunghi discorsi. L'interlocutore, se è bravo o se è anche lui uomo d'onore, capisce esattamente cosa vuole dire l'altro. Il linguaggio omertoso si basa sull'essenza delle cose. I particolari, i dettagli non interessano, non piacciono all'uomo d'onore. Io stesso sono fatto in questo modo. Non sono abituato a parlare più di quanto è necessario per dire quello che devo dire. Nel corso della vita ho sviluppato una psicologia che non mi fa comunicare facilmente e in modo spontaneo con gli altri. E che mi fa detestare chi si esprime in modo prolisso e sopra le righe. Quando ero nella mafia, non avevo bisogno di gridare: «Io voglio quella cosa per questa e quella ragione, perché è giusto che io l'abbia e per questi motivi e Pagina 34


Addio Cosa Nostra..txt così via...». Mi bastava dire, con tono pacato: «Mi farebbe piacere se questa cosa si verificasse». Punto e basta. Mentre per altri occorrono cinquanta ore di ragionamenti e di colloqui, per me il discorso era concluso con quella frase. E finivo poi con l'ottenere quello che l'altro non otteneva dopo cinquanta ore di spiegazioni inutili. Ma torniamo al pranzo con Bonanno. La sua proposta piacque subito a tutti. Sembrava un buon sistema per ridurre la paura e i rischi che corrono tutti i mafiosi. Non c'era mai stata una Commissione in Sicilia: se ci fosse stata si sarebbe riprodotta in America fin dall'inizio, fin dalla fondazione delle prime famiglie degli Stati Uniti. Non bisogna dimenticare che la mafia negli Usa è stata fondata dagli immigrati siciliani. E figlia di Cosa Nostra siciliana. La Commissione degli Stati Uniti non c'era fino agli anni '30 e fu creata ex novo per impedire gli omicidi a catena che dissanguavano le famiglie e attiravano l'attenzione delle forze dell'ordine. Qualche tempo dopo l'incontro da Spanò, un gruppo di noi (Gaetano Badalamenti, all'epoca vicecapo della famiglia di Cinisi, Salvatore Greco «Cicchiteddu», vicecapo di Ciaculli e il sottoscritto, soldato di Porta Nuova) prese l'iniziativa di attuare concretamente quanto suggerito da Joe Bonanno. Rispetto alla situazione americana, tuttavia, dovemmo apportare una serie di cambiamenti. Negli Usa c era una sola Commissione che si riuniva a New York e dirigeva tutti gli States. Da noi ci sarebbe stata una Commissione per ciascuna provincia della Sicilia in CUI fossero presenti famiglie di Cosa Nostra. Ogni Commissione provinciale sarebbe rimasta autonoma rispetto alle altre, anche a quella di Palermo. Proponemmo poi l'istituzione del mandamento e cioè di una circoscrizione comprendente il territorio di tre famiglie contigue che avrebbero eletto un unico responsabile per la Commissione. In questo modo essa sarebbe risultata composta di un numero ragionevole di elementi (16, 17 invece di 48, 51) facilitando così l'efficacia e la prontezza nelle decisioni. L'idea della Commissione regionale, o interprovinciale, arrivò molti anni dopo, nel 1975 da Pippo Calderone. Ma a quei tempi, nel 1957, era impensabile partire immediatamente con un organismo regionale. Mettere d'accordo tutte quelle teste di siciliani era un'impresa al di sopra delle possibilità di chiunque. Anzi, già mettere d'accordo le sole famiglie di Palermo era un compito estremamente difficile. Un altro cambiamento rilevante da noi proposto rispetto alla situazione americana fu quello di inviare nella Commissione provinciale di Palermo soldati e non capifamiglia o consiglieri. Negli Usa tutti i rappresentanti delle famiglie di ogni città erano membri della Commissione nazionale, la quale si riuniva al completo una volta ogni cinque anni. Nel tempo che intercorreva tra una «seduta» plenaria e l'altra, la Commissione si riuniva lo stesso, ma con la partecipazione delle sole cinque famiglie di New York. Queste invitavano alle riunioni i rappresentanti delle famiglie di altre città, se erano coinvolte in controversie o problemi che dovevano essere discussi con urgenza. Il ruolo di capo veniva assegnato di volta in volta, secondo un turno stabilito dai rappresentanti delle cinque famiglie newyorkesi. La nostra innovazione poteva apparire curiosa, perché sembra logico che un organismo di rappresentanza debba essere costituito da chi già rappresenta qualcosa. Ma noi volevamo evitare che troppo potere si concentrasse nelle mani delle stesse persone. Consideravamo inoltre il fatto che la distanza tra un uomo d'onore soldato e uno Pagina 35


Addio Cosa Nostra..txt consigliere, rappresentante o vicerappresentante, in Sicilia non era mai stata molto grande. Appartenere a Cosa Nostra implicava l'essere uomini d'onore: questa era la base di tutto. Si potevano poi inventare gerarchie, cariche, commissioni, ma all'interno di una famiglia si respirava un'aria di eguaglianza perché tutti sentivamo di far parte di una élite molto speciale. L'autorità del rappresentante veniva accettata di buon grado e si obbediva ai suoi ordini senza discutere. Ma gli ordini dovevano basarsi sui princìpi dell'associazione: non potevano essere stravaganti o assurdi. Il rappresentante era un uomo d'onore che si assumeva la responsabilità di dirigere una famiglia, ma stava molto vicino ai soldati. Il rappresentante era quello che doveva farsi carico dei problemi di tutti: un insieme di seccature e di obblighi senza una contropartita soddisfacente. Non si riceveva una ricompensa per fare il capo, il quale, più che il dirigente, era il servitore della famiglia. Se il capo faceva il muratore, per esempio, poteva capitargli di dover interrompere un lavoro di intonacatura per stare a sentire le lamentele di un fratello della famiglia. E per questo che non ho mai accettato l'incarico di rappresentante, come un paio di volte mi è stato effettivamente proposto: sarei stato costretto a rinunciare ai viaggi fuori Palermo, alle gratificazioni, alle scappatelle e alle altre attività che a quel tempo mi stavano più a cuore. Nella storia di Cosa Nostra ci sono stati singoli soldati ben più influenti e prestigiosi dei loro rappresentanti. Un modesto esempio è costituito forse dal sottoscritto il quale, pur essendo ampiamente conosciuto e rispettato nell'ambiente malavitoso, non ha mai ricoperto cariche formali. Ma il caso più famoso è senza dubbio quello di Vincenzo Rimi di Alcamo, mafioso tra i più grandi, considerato come il leader morale di tutta Cosa Nostra siciliana degli anni '50 e '60. Rimi era un semplice soldato della famiglia di Alcamo, un contadino semianalfabeta dotato di un'intelligenza eccezionale e di una saggezza quasi filosofica. Il suo carisma era tale che essergli amico veniva considerato, nei circoli mafiosi, come uno degli onori più alti. Un'ultima differenza tra la Commissione siciliana che stavamo istituendo e quella degli Stati Uniti consisteva nel fatto che noi ci sarebbe stato, da noi, il titolo di capo della Commissione stessa. In seguito creammo un coordinatore nella persona di Salvatore Greco «Cicchiteddu», che da molti veniva definito un «capo». Egli era, in realtà, una specie di segretario che si preoccupava solo di fissare data e luogo di ciascuna riunione. La nostra proposta di eleggere solo soldati nella Commissione fu accettata dalla maggioranza degli uomini d'onore più autorevoli, ma dispiacque a diversi altri. Sorsero e si diffusero numerosi malumori, ma ormai la decisione era stata presa e non si tornò indietro. Alcuni capifamiglia si dimisero addirittura dalla loro carica per candidarsi, come semplici soldati, al ruolo di rappresentanti del proprio mandamento in Commissione. Ma altri furono irremovibili. Non ci fu verso di farli desistere dal cedere il passo per il posto nella Commissione provinciale. Fummo costretti ad accettare questa infrazione alla regola generale per non far fallire il progetto cui tenevamo moltissimo, e la prima Commissione di Cosa Nostra a Palermo risultò composta da dodici soldati (Giuseppe Bartolino, Giuseppe Chiaracane, Salvatore Greco, Calcedonio Di Pisa, Salvatore La Barbera, Francesco Sorci, Mariano Marsala, Antonino Salomone, Cesare Manzella, Giuseppe Panno, Mario Farinella, Mario Di Girolamo) e da quattro capifamiglia (Nino Matranga, Mariano Troia, Salvatore Manno, Lorenzo Motisi). Nel marzo 1959 fui arrestato per la seconda volta. Mi trovavo a Taranto per affari che riguardavano il contrabbando di tabacchi. Avevo organizzato una specie di società con i cugini Giuseppe e Vincenzo Savoca, due uomini d'onore che si incaricavano del trasporto per mare e della vendita all'ingrosso della merce, e con Gaetano Scavone, un mafioso che si trovava sotto osservazione per essere ammesso in Cosa Nostra, che doveva occuparsi delle operazioni di scarico. Pagina 36


Addio Cosa Nostra..txt Vincenzo Savoca svolgeva il compito più difficile, che consisteva nel consegnare sera per sera il carico ai venditori al minuto, convocandoli in un luogo stabilito dopo aver vinto l'opposizione dei concorrenti i quali cercavano con ogni mezzo di impedirgli di entrare in contatto con i piccoli compratori. Scavone era responsabile del reclutamento delle ciurme di scaricatori e di trasportatori, nonché degli appuntamenti con le navi dei fornitori. Anche lui se la cavava molto bene, perché era una persona seria e prudente, che non faceva sapere a nessuno né la data né il luogo in cui dovevano avvenire gli sbarchi. A un certo punto si profilò un ottimo affare nel Napoletano, una zona dove si lavorava molto più tranquillamente che a Palermo in quanto non c'erano problemi di assorbimento della merce. La richiesta era tale, e le trafile del contrabbando erano così ben ramificate, che qualsiasi quantitativo veniva smaltito nell'arco di una stessa giornata. Giuseppe Savoca si recò in un porto franco della Iugoslavia per prelevare le sigarette. Scavone partì per Taranto per organizzare la squadra che avrebbe dovuto scaricare la merce dal battello alla terraferma, nonché il manipolo di autisti che l'avrebbero trasportata fino a Napoli. Vincenzo Savoca rimase a Palermo in quanto - data la facilità di smercio nel mercato napoletano - non avrebbe avuto nulla da fare in quella operazione. Anch'io mi trovavo a Palermo, dove una mattina ricevetti una telefonata da parte di un certo Giuseppe Grasso, un malavitoso non uomo d'onore che sapeva tutto del contrabbando e che non perdeva occasione per professare grande amicizia nei miei confronti, nonostante io non ricambiassi affatto le sue attenzioni. Grasso mi consigliò di recarmi subito a Taranto in quanto aveva saputo che alcuni malviventi locali avevano intenzione di rubare la nostra merce. Era gente ignorante, che non sapeva ne chi fosse il sottoscritto né cosa fosse la mafia. Sapevano che sarebbero sbarcate sigarette e si erano organizzati per rubarle. Andai a Taranto e mi incontrai con Grasso che si trovava lì da qualche tempo. Grasso non mi lasciò più solo e mi portò in giro facendomi conoscere i personaggi più in vista della malavita locale. La mia impressione fu che egli avesse in realtà già risolto il problema del tentativo di furto ai miei danni, ma che volesse farmi toccare con mano il favore che mi aveva fatto e sfoggiare le sue entrature in loco. La sera dello sbarco volli essere sul posto, nonostante la mia presenza non fosse più necessaria. I capi della mala tarantina mi avevano dato le più ampie assicurazioni circa l'assenza di pericoli per il carico, ma intendevo comunque vigilare affinché tutto si svolgesse nella massima tranquillità. Giuseppe Grasso, pur facendo parte di un'altra combriccola di contrabbandieri, non volle lasciarmi e si mise perfino a scaricare le casse assieme agli altri. Dopo che la merce fu interamente scaricata e stipata sui camion diretti a Napoli, imboccammo un sentiero in terra battuta lungo circa 5 chilometri che conduceva alla strada statale. Il sentiero era molto stretto e consentiva il transito di un solo veicolo. Ero assieme a Scavone e Grasso a bordo di un'automobile dietro l'ultimo camion, quando mi accorsi che questo si era fermato improvvisamente. Sostammo anche noi, aspettando che ripartisse. Pensavamo a una fermata volontaria in quanto non avevamo visto alcun automezzo arrivare dalla direzione opposta, e i due autocarri di testa avevano proseguito nella loro marcia. Di lì a poco spuntarono due carabinieri, diventati poi quattro, che ci intimarono di scendere dall'auto. Obbedimmo, ma facemmo in modo di creare un po' di trambusto per sbarazzarCi delle armi. I carabinieri ci fecero allineare sul fianco dell'autovettura, con le mani alzate, e non ci chiesero i documenti né ci rivolsero domande. Restammo a mani in alto per quasi un'ora perché non ci consentivano di abbassare le braccia. Quando, non potendo più sopportare la sofferenza fisica, stavo per abbassarle anche a rischio che mi sparassero, arrivò un colonnello seguito da un folto gruppo di militari. Ci chiese le generalità e, quando si rese conto che eravamo tutti residenti a Palermo, domandò agli agenti che ci avevano fermato cosa ci stava a fare il camion bloccato davanti alla nostra macchina. Pagina 37


Addio Cosa Nostra..txt Loro risposero di avergli intimato l'alt allo scopo di fermare la nostra automobile, ma che una volta avvicinatisi alla cabina di guida per consentirgli di proseguire non vi avevano trovato nessuno in quanto gli occupanti erano fuggiti. L'ufficiale ordinò a quel punto di controllare il carico dell'autocarro. La risposta non si fece attendere: «sigarette» . Il colonnello ebbe un gesto di stizza e rimproverò in modo aspro i subordinati perché lo avevano svegliato nel cuore della notte per un volgare affare di contrabbando. Si alterò tanto che non consentì ai suoi di effettuare le formalità del nostro arresto, ma chiamò la guardia di finanza che fu ben lieta di portarci in galera, dove trovammo Giuseppe Savoca, che era stato catturato in città dopo la fuga dal camion che ci precedeva. Dopo una decina di giorni ci raggiunsero dentro anche i componenti del battello dal quale avevamo sbarcato il carico e che era proseguito alla volta di Palermo. Erano stati arrestati nel corso della navigazione. Non c'è che dire: una vicenda all'insegna della fortuna! Arrivati in prigione, ci informarono che eravamo stati presi perché le forze dell'ordine stavano cercando disperatamente una banda di maniaci sessuali che assaltavano le coppiette di innamorati che si appartavano in macchina. Al danno si aggiunsero così la vergogna e la beffa. Noi, gente di Cosa Nostra, uomini d'onore con tanto di giuramento, eravamo stati scambiati per un gruppo di stupratori! Fu per questa ragione che, un paio di settimane più tardi, quando vedemmo arrivare nel nostro stesso carcere quella banda di depravati appena catturati dalla polizia, rendemmo loro la vita impossibile. DOLCE VITA CON GIOACCHINO PENNINO. Fui rilasciato alla fine del 1959, dopo sei mesi di detenzione preventiva. E tornai a Palermo. Ma la Palermo della seconda metà degli anni '50 e dell'inizio dei '60 mi stava stretta. Mi sentivo soffocare. Viaggiavo in continuazione verso il Nord, Milano, la Costa Azzurra per fare la bella vita nei casinò, nei locali notturni, nei ristoranti di lusso sfruttando largamente il fascino del malavitoso, dell'uomo con la pistola con attrici e cantanti famose. Famosissime. A Milano ero in stretto contatto con Joe Adonis, un uomo d'onore americano che si era stabilito lì e che aveva interessi nell'industria del divertimento. Frequentavo i salotti e corteggiavo donne della buona società anche assieme a persone al di sopra di ogni sospetto, tra cui poliziotti di grosso calibro che in seguito hanno fatto carriera. Mia moglie non si lamentava per le mie assenze diventate ormai frequentissime. Il suo interesse si era concentrato sui figli, ai quali non facevo mancare nulla, dati i mezzi di cui disponevo. I miei genitori e i miei fratelli si erano molto preoccupati per i miei arresti, ma dopo la mia scarcerazione allentarono gradualmente le loro pressioni perché ritornassi a lavorare a tempo pieno con loro nel business degli specchi. Ormai sbarcavo il lunario in maniera magnifica. Guadagnavo molto bene con il gioco d'azzardo: a Saint Vincent, a Montecarlo, a Venezia, a Sanremo, a Campione. E perfino a Palermo, dove gestivo, in società con altri uomini d'onore, una casa da gioco all'interno del Circolo della stampa. La polizia non interveniva. Ma non perché fosse corrotta: non abbiamo mai sborsato una lira per pagare gente della questura. C'era una specie di tacito accordo. L'atteggiamento dei funzionari della polizia si basava sul buon senso: per un paio di mesi chiudevano un occhio e lasciavano sfogare i giocatori. Si giocava, infatti, per un periodo limitato, a ridosso delle feste natalizie, dai primi di novembre all'Epifania. I giocatori non mancavano perché il Circolo godeva di un'ottima reputazione e la nostra gestione garantiva un'estrema serietà. Chi frequentava la nostra bisca semiclandestina poteva essere sicuro di non mescolarsi a gente di malaffare, di non essere truffato e di non venire coinvolto con assegni scoperti e crediti inesigibili. La Palermo bene, i liberi Pagina 38


Addio Cosa Nostra..txt professionisti, i giornalisti, la gente facoltosa, gli uomini politici affluivano numerosi ricordo tra gli altri Ernesto di Fresco - e i nostri guadagni erano molto alti. Avevamo impiantato due roulettes e due tavoli di Chemin de fer, i quali da soli fruttavano il 10 per cento di ogni puntata. Guadagnavamo tanti soldi che pensammo di sovvenzionare con una parte di tali profitti gli uomini d'onore più indigenti. Dal momento che questa casa da gioco si trovava all'interno del Circolo della stampa, sotto il Teatro Massimo, incontravamo abbastanza spesso giornalisti. Ricordo di avere conosciuto in quella sede Mauro De Mauro, il cronista dell'«Ora» di Palermo scomparso nel 1970. De Mauro non frequentava la nostra bisca anche perché era un tenace avversario della mafia ed era noto negli ambienti di Cosa Nostra perché ne parlava molto male nei suoi articoli. Non è facile dimenticare De Mauro. Non era precisamente ciò che si definisce un bell'uomo. La bisca continuò a funzionare a pieno ritmo fino al lo scoppio della prima guerra di mafia e anche dopo, in verità. Anche dopo la mia fuga all'estero, nel 1963. La casa da gioco continuò a essere gestita da altri uomini d'onore, i quali mi inviavano di tanto in tanto una quota dei profitti. Parlare del gioco d'azzardo e di quel periodo della mia vita significa rievocare una persona a me molto cara: Gioacchino Pennino. Considero Pennino uno dei miei maestri, un uomo che ha influito profondamente sullo sviluppo della mia personalità. Intelligente, saggio, sereno, sempre pronto ad aiutare gli altri, mi è stato molto vicino e mi ha aiutato a non commettere parecchi errori grazie al suo ascendente e alla sua maggiore età (venticinque anni più dei dei miei). Non aveva figli e mi confidava ogni suo pensiero e segreto. La nostra amicizia era basata anche sul fatto che avevamo in comune due difetti: il gioco e le donne. Frequentavamo assieme i campi di tiro al piccione, ma non per sparare, bensì per scommettere in società. Pennino era molto signorile nei modi e nei tratti, e amava sia il suo prossimo sia le bestie. Aveva un cane brutto fino all'inverosimile, cieco da un occhio, zoppo e con i denti in fuori. Pennino lo coccolava come un figlio, arrivando al punto di telefonare per sapere come stava quando ci trovavamo fuori Palermo. Quando gli rinfacciavo questo suo attaccamento a un animale così disgraziato, replicava dicendo che lo amava proprio perché era brutto. Secondo lui il cane era consapevole di esserlo e la sua fedeltà era perciò garantita. Pennino era sicuro che nessuno avrebbe mai potuto sostituirlo come suo padrone. Eravamo inseparabili. Fu con Pennino che cominciai a girare per i campi di tiro a volo e i casinò più rinomati e a giocare da professionista. Il posto più sfortunato era Bologna, dove perdevamo regolarmente, forse a causa della posizione del campo di tiro. Le vincite di maggior rilievo le abbiamo ottenute a Saint Vincent. Alloggiavamo al Grand Hotel Billia, dove io arrivavo con la donna del momento e lui con la moglie. Tutti ci riverivano non in quanto mafiosi ma come giocatori di alto livello. Il gioco che Pennino preferiva era il Trente et Quarante. Ricordo che durante le prime esperienze assieme a lui, al Casinò di Venezia, puntai 5000 lire e vinsi circa un milione di allora. Pensate quanto vinceva lui, che puntava da 100 a 500.000 Lire per volta. Una sera la cassa del casinò fu costretta a pagarlo con ricevute, poiché aveva esaurito il denaro contante. Gioacchino Pennino non aveva molta dimestichezza con la matematica, ma la sua rapidità e precisione di calcolo quando scommetteva erano impressionanti. Persi i contatti con Pennino durante la mia lunga permanenza all'estero degli anni '60. Lo rividi nel 1970. Era quasi cieco e molto invecchiato, ma il suo spirito era intatto. Desiderava di poter tornare a giocare con me come ai vecchi tempi. Non mancò di farmi avere sue notizie negli anni successivi, e nel 1972 fummo detenuti assieme all'Ucciardone. Pagina 39


Addio Cosa Nostra..txt Lo incontrai per l'ultima volta nel 1980. Era molto stanco. Sono sicuro che se fosse ancora vivo non apprezzerebbe il mio comportamento successivo al 1984, e questo mi rattrista. LA COMMISSIONE, ENRICO MATTEI. E MAURO DE MAURO L'importanza della Commissione aumentò senza sosta dal momento della sua creazione fino alla guerra di mafia. Si affermò gradualmente il principio che ogni questione che rivestisse rilevanza strategica per Cosa Nostra dovesse essere discussa al suo interno. Il rappresentante della famiglia manteneva la sua autonomia nella borgata di competenza e aveva il diritto di essere informato di qualunque misfatto commesso in tale territorio, ma ogni dissidio interno di una certa gravità e ogni controversia con altre famiglie che potesse provocare azioni armate dovevano essere messi subito all'ordine del giorno di un'apposita seduta della Commissione. Anche il principio che le deliberazioni della Commissione erano inappellabili e dovevano essere eseguite a ogni costo, sia pure a distanza di anni, venne alla fine accettato dal popolo di Cosa Nostra. Si discusse anche e si tentò di realizzare (senza grande successo, in verità) un riordino generale delle affiliazioni alle famiglie consentendo ai componenti legati da stretti vincoli di sangue sparsi in diverse famiglie mafiose di confluire nella medesima unità. Poteva capitare, infatti, che due fratelli o due cugini di primo grado si trovassero ad appartenere a due famiglie differenti, e ciò creava disagio nei rapporti sia tra i singoli uomini d'onore sia tra le stesse famiglie. Non fu possibile concretizzare questa esigenza perché una tale concessione - se si fosse spinta oltre un certo punto - avrebbe danneggiato l'equilibrio di molte famiglie. Si sarebbero creati clan interni, formati da gruppi di fratelli, di cugini, di nipoti, che si sarebbero «mangiati» le famiglie, potendo disporre in ogni occasione di una maggioranza precostituita. Eravamo disposti ad accettare la regola secondo la quale al decesso di un membro di una famiglia potesse seguire l'immissione di un suo fratello o parente stretto appartenente a un'altra famiglia. Si poteva anche autorizzare la presenza di un paio di fratelli o di cugini, o di un padre e di qualche figlio nella stessa unità. Ma la presenza di tre, quattro o addirittura cinque fratelli di sangue nella stessa borgata era cosa ben diversa. La famiglia sarebbe scomparsa e le regole interne sarebbero diventate superflue. Non ci sarebbe più stato bisogno di votazioni per eleggere rappresentante e consigliere né di riunioni. Le famiglie a quei tempi non erano numerose come sono diventate dopo gli anni '70 e '80. Si trattava di gruppi di quindici, venti, trenta uomini d'onore. Una famiglia che ne contasse cinquanta-sessanta era considerata fuori della norma, sproporzionata. Un'anomalia da guardare con preoccupazione e da ridimensionare invitando i suoi dirigenti a restringere i criteri di ammissione. Erano questi i temi di cui si discuteva nella prima Commissione provinciale di Cosa Nostra a Palermo. Non si parlava né di delitti «eccellenti», né di appalti né di politica fatta eccezione per quando ci si trovava a ridosso delle elezioni. A dire il vero, in quegli anni un delitto eccellente, anzi eccellentissimo, Cosa Nostra lo eseguì. Mi riferisco alla scomparsa di Enrico Mattei, il presidente dell'Eni, avvenuta nel famoso incidente aereo dell'ottobre 1962. Mi rendo conto che sto rivelando un segreto e sono consapevole delle conseguenze che ne deriveranno. Ma devo mantenere fede all'impegno che ho preso dopo la strage di Capaci. Ho intenzione di raccontare tutto quello che ho omesso di riferire nel corso delle deposizioni davanti a Giovanni Falcone, tra cui ciò che so a proposito del caso Mattei e del caso De Mauro. Fu Cosa Nostra siciliana, in una seduta della sua prima Commissione, a decretare la morte di Enrico Mattei. Ciò mi consta personalmente in quanto avevo molti amici che sedevano nella Commissione e che mi riferivano il contenuto delle discussioni. Il piano per eliminare Mattei mi fu illustrato da Salvatore Greco «Cicchiteddu» e da Salvatore La Barbera, che faceva parte della Commissione ed era il capo del Pagina 40


Addio Cosa Nostra..txt mio mandamento. Mattei fu ucciso su richiesta di Cosa Nostra americana perché con la sua politica aveva danneggiato importanti interessi americani in Medio Oriente. A muovere le fila erano molto probabilmente le compagnie petrolifere, ma ciò non risultò a noialtri direttamente, in quanto arrivò Angelo Bruno, della famiglia di Filadelfia e ci chiese questo favore a nome della Commissione degli Stati Uniti. La questione venne trattata in Commissione e non ci furono opposizioni di rilievo. Non emersero posizioni di «neutralità» rispetto a una richiesta così impegnativa. Tutti volevamo contribuire a rinsaldare i legami con gli americani. Le uniche discussioni riguardarono le modalità dell'attentato e gli uomini d'onore che si sarebbero assunti il compito di attuarlo. Si pensò di non usare armi da fuoco né di ricorrere ad azioni spettacolari che avrebbero potuto rivelare la matrice «mafiosa» del fatto. Se avessimo ucciso Mattei mentre si trovava al ristorante o durante una manifestazione pubblica, tutti avrebbero pensato alla mafia. Occorreva pertanto studiare un metodo per eliminarlo del tutto inusuale per noi e tale da fare in modo che l'episodio rimanesse avvolto nel mistero più fitto. Salvatore Greco «Cicchiteddu» si assunse il compito di organizzare materialmente l'attentato. Egli, a sua volta, si consultò con Stefano Bontade. Ma per eseguire un progetto così impegnativo c'era bisogno di coinvolgere diversi personaggi di spicco. Allora «Cicchiteddu chiese la collaborazione di Antonio Minore, Bernardo Diana e Giuseppe Di Cristina, il quale, provenendo da Riesi, nei pressi di Catania, poteva fornire gli appoggi necessari. Ricordo che Stefano Bontade mi chiese di accompagnarlo un paio di volte a Catania. In quelle occasioni lo vidi contattare alcuni elementi locali di Cosa Nostra, tra cui Salvatore Ferrera, detto «Cavadduzzu». Durante le nostre prime visite soggiornammo in albergo. Successivamente, come mi raccontò Bontade, questi fece altre visite in forma clandestina. Il contatto con Mattei fu stabilito da Graziano Verzotto, un uomo di potere che rappresentava l'Agip in Sicilia e militava nella Democrazia cristiana. Verzotto non era informato, ovviamente, del progetto di Cosa Nostra, ma era molto legato a Di Cristina. Che i due fossero strettamente collegati mi risulta direttamente perché verso il 1973, 74 sono stato in carcere assieme a Di Cristina e lui mi parlò della sua amicizia con Verzotto. Anzi, Di Cristina mi confidò che nutriva qualche riserva su di lui, in quanto lo riteneva un personaggio ambiguo, amico sia di Cosa Nostra sia della polizia. Penso che fu proprio Verzotto, o lo stesso Di Cristina, a presentare a Mattei un gruppo di giovanotti della mafia (quelli che ho nominato prima più Stefano Bontade) che lo portarono a caccia- sapevamo che Mattei aveva una passione per questo sport - nei dintorni di Catania il giorno prima della sua morte. Di Cristina procurò l'accesso a una riserva privata dove accompagnare Mattei. L'aereo di quest'ultimo fu manomesso durante questa battuta di caccia. Esisteva, ovviamente, una vigilanza che doveva essere elusa. Ma la vigilanza di quei tempi non era quella di oggi: consisteva in un paio di guardie che passeggiavano su e giù nei pressi dell'aereo. La battuta di caccia aveva lo scopo di rassicurare Mattei a proposito delle intenzioni della mafia nei suoi confronti. E uno degli espedienti classici di Cosa Nostra: quando si deve compiere un'esecuzione, la vittima deve essere avvicinata da un amico che dissipa i suoi sospetti, la tranquillizza, la rende più accessibile e ne facilita così l'eliminazione. Mattei sapeva benissimo con chi si incontrava e con chi andava a caccia. Era un uomo spregiudicato e audace, a cui piacevano le cose rischiose e fuori della norma. Si riuscì a illuderlo di godere della protezione della mafia e a non preoccuparsi, di conseguenza, di rafforzare la vigilanza intorno a sé e al suo aereo. Non conosco i dettagli dell'attentato e non credo che altri li conoscano, fatta Pagina 41


Addio Cosa Nostra..txt eccezione ovviamente per gli esecutori. Non sono in grado di affermare se è stata usata una bomba o qualche altro sistema. Quel gruppo di giovanotti, una volta ricevuto l'incarico, hanno agito in completa autonomia, secondo lo stile di Cosa Nostra, senza essere cioè tenuti a render conto ad alcuno dei mezzi impiegati per portare a termine il progetto. Ho rivelato uno dei segreti meglio conservati di Cosa Nostra. Devo solo aggiungere che anche il rapimento di Mauro De Mauro, il giornalista dell'«Ora» di Palermo scomparso nel 1970, è stato effettuato da Cosa Nostra. De Mauro stava indagando sulla morte di Mattei e aveva ottime fonti all'interno di Cosa Nostra. Stefano Bontade venne a sapere che De Mauro stava avvicinandosi troppo alla verità - e di conseguenza al ruolo che egli stesso aveva giocato nell'attentato e organizzò il «prelevamento» del giornalista in via delle Magnolie. De Mauro fu rapito per ordine di Stefano Bontade, che incaricò dell'operazione il suo vice, Girolamo Teresi. La scomparsa di De Mauro non suscitò alcun commento all'interno di Cosa Nostra. Era stato «spento» un nostro nemico e si dette per scontato che il triumvirato che reggeva allora l'associazione in luogo della Commissione provinciale, formato da Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, avesse autorizzato l'azione. IL REGNO DEI DISCORSI INCOMPLETI. Ho parlato di uno «stile Cosa Nostra» a proposito delle modalità con cui venne eseguito l'attentato a Mattei. Non è un particolare di poco conto. Il fatto che Salvatore Greco e gli altri da lui coinvolti, una volta ricevuto dalla Commissione il mandato di eliminare il presidente dell'Eni, abbiano goduto di piena libertà e autonomia nelle fasi successive del piano comporta tutta una serie di conseguenze. La frammentazione dell'informazione è una delle regole più importanti. Cosa Nostra è segreta non solo verso l'esterno, nel senso che nasconde agli estranei la sua esistenza e l'identità dei suoi membri, ma anche al suo interno: essa scoraggia la conoscenza completa dei fatti e crea ostacoli alla circolazione delle informazioni. Se mi venisse chiesto qual è la base principale del potere di Cosa Nostra esiterei nel rispondere: «la violenza»; «la possibilità di togliere la vita altrui». Rimarrei incerto tra la violenza e la segretezza. Quest'ultima è davvero fondamentale e si esprime in forme molteplici. Permea il comportamento e la mentalità degli uomini d'onore fino nei particolari più insignificanti della vita di tutti i giorni. La segretezza impone di reprimere la curiosità circa i fatti illeciti, sui quali non è permesso fare domande. Implica il tenere nascosto un canale particolare grazie al quale si può influire sui giudici, sulla polizia, sul mondo politico. Significa una forma mentis improntata alla riservatezza, al silenzio e alla reticenza. Tutte queste particolarità si possono spiegare con un modo di essere, con una cultura di tipo omertoso, ma ci sono anche ragioni di ordine pratico. Se qualcuno mi sta parlando di un tizio che è latitante, entrambi dobbiamo stare ben attenti a non fare riferimento al luogo in cui questi si trova o a circostanze che consentano di risalirvi. Sono io stesso che non devo voler sapere, e che devo scoraggiare l'altro dall'entrare nei dettagli circa il nascondiglio del latitante, perché costui può sempre venire catturato dalla polizia e il sospetto circa l'informazione che ha portato al suo nascondiglio colpirà chiunque ne sia stato al corrente. Nel caso dei rapporti con le istituzioni legali bisogna invece «mantenere l'esclusiva». Il contatto con l'uomo politico o con il magistrato deve passare attraverso il canale obbligato della persona che lo conosce. E per suo tramite che si deve ottenere un certo favore e talvolta chi lo chiede non sa neppure chi sia la personalità alla quale l'uomo d'onore si rivolgerà per «aggiustare» un processo, ottenere una concessione, un'autorizzazione, un'assunzione. Il mafioso è estremamente geloso dei propri contatti con la gente che conta e il diritto a mantenere per sé questo tipo di relazioni viene riconosciuto anche dai membri della sua stessa famiglia. Io non sono mai stato al corrente di tutte le «amicizie» dei miei compagni della Pagina 42


Addio Cosa Nostra..txt famiglia di Porta Nuova e neppure delle più importanti. Non c'è mai stato alcun obbligo di mettere a disposizione di tutti il proprio patrimonio di aderenze. Tutto questo si accompagna alle altre caratteristiche, come la scarsa loquacità e la tendenza ad omettere certe parti dei discorsi, e finisce con il produrre tutta una serie di compartimenti stagni che a loro volta interrompono la continuità di un'informazione e di un racconto. Il mafioso è incolto ma non è stupido. E perfettamente consapevole che, mettendo saracinesche di qua e di là, una notizia non riesce ad attraversare tutto l'universo di Cosa Nostra. Ho insistito molto con il giudice Falcone su questo punto. Cosa Nostra è il regno dei discorsi incompleti. Nessun uomo d'onore conosce tutte le verità dei fatti di Cosa Nostra. Perfino Totò Riina, che sa tutto sulle cose più segrete, può incontrare qualche difficoltà in questo campo. Se Riina ordina di uccidere Masino, può anche non sapere chi andrà ad ammazzarlo. Può non saperlo perché non gli interessa, è vero. Ma nessuno, d'altra parte, è interessato a farglielo sapere, né glielo farà sapere spontaneamente, tanto per il gusto di dirlo. Solo se nella squadra dei killer è stato incluso un giovane alla sua prima esperienza, che ha avuto il battesimo del fuoco e del quale si vuol far risaltare il coraggio si riferirà al capo della sua presenza, a omicidio avvenuto. Altrimenti si starà zitti. Se il capo vuol conoscere l'identità dei partecipanti all'azione, ne dovrà fare esplicita richiesta e molto probabilmente verrà accontentato; ma dovrà motivare la sua domanda con un argomento ben fondato, che giustifichi questa infrazione alle regole. Nell'ambiente mafioso le domande non sono ben viste. Anche adesso che non faccio più parte di Cosa Nostra, ho l'abitudine di non rivolgere mai domande alle persone che mi stanno intorno. E un'abitudine radicata. Se qualcuno mi vuole parlare di un dato argomento, me ne parla. Altrimenti non saranno certo le mie domande a indurlo a confidarsi. E una forma mentis acquisita, che talvolta sorprende anche me stesso quando analizzo i miei comportamenti. E ciò che vale per le domande vale per i commenti, le valutazioni e le chiacchiere. Meno se ne fanno, più si viene apprezzati. Se incontro un amico che sta andando all'aeroporto e poi ne incontro un altro, per quale ragione devo andare a dirgli che il primo amico stava andando a prendere l'aereo? Nessuno me l'ha chiesto, e dicendolo metterei in giro un'informazione in più sul mio amico, un'informazione che non mi riguarda e che un giorno (non si sa mai) potrebbe danneggiarlo. Bisogna rivelare il meno possibile anche sulle proprie intenzioni e sui propri orientamenti, anche quelli più generici. Ricordo che nella Cosa Nostra dei miei tempi veniva censurato perfino il fatto che un uomo d'onore andasse a comprare il giornale e si mettesse a leggere un servizio di cronaca nera. Perché dare la possibilità a un estraneo, magari a un poliziotto, di sapere che si era interessati a una certa notizia? L'uomo d'onore previdente legge il giornale, certo, ma lo fa comprare da un altro e lo sfoglia in un angolo, o a casa sua, in privato, senza pubblicità. Cosa Nostra è piena di segreti. Non esiste un uomo d'onore che possa raccontare dalla A alla Z lo svolgimento di un fatto, a meno che lui non lo abbia vissuto in prima persona. L'abitudine a frammentare l'informazione è tale che se ci si trova in quattro, cinque o sei persone e si comincia a conversare, arriverà un momento nel quale uno dei presenti chiederà permesso agli altri e si apparterà con me. Magari solo per dirmi che ha appena mangiato pasta e fagioli, oppure per comunicarmi qualcosa di più importante. Ma il suo comportamento è dettato dal fatto che gli altri uomini d'onore - anche se gente in regola, a posto, saggia - non devono ascoltare quanto vuole riferirmi. Non bisogna perciò meravigliarsi se oggi vengono alla luce rivelazioni di fatti Pagina 43


Addio Cosa Nostra..txt sconosciuti agli stessi uomini d'onore che sono stati al vertice di Cosa Nostra. Io non sapevo assolutamente nulla a proposito dei rapporti con la massoneria successivi al 1970 descritti da alcuni collaboratori della giustizia che hanno fatto parte di Cosa Nostra. Ho sempre saputo pochissimo di banche e riciclaggio di denaro sporco. Tutto ciò che so delle riunioni con Andreotti è quello che ho appreso da Badalamenti, il quale mi ha rivelato un fatto segretissimo. Nessun uomo d'onore parla di ciò di cui sa che non deve parlare. Ho vissuto per cinque anni nella stessa cella con Gaspare Mutolo senza che lui mi parlasse delle sue cose e senza che io gli confidassi le mie Il traffico della droga è una delle attività più segrete. E perfettamente plausibile che un uomo al quale il mafioso è legato da un sincero affetto, non sia al corrente che quest'ultimo è coinvolto in un giro di droga. Il traffico di droga- l'ho spiegato al giudice Falcone e lo rispiego adesso - è un lavoro astratto, che non lascia tracce. Ai vertici della trafila, naturalmente. Non ci si alza alle 7 e mezza del mattino, ci si veste, si va a lavorare timbrando un cartellino e si esce alle 6 di sera per tornare a casa. Il traffico di droga è un investimento di capitale dove non si vede niente. Nessuno vede la merce tranne chi effettivamente produce, confeziona o spedisce la droga. Un affare di droga può nascere da due o tre persone sedute in un ristorante dove uno dice: «Va bene. Nel prossimo carico metti 5 chili (oppure 10 o 20) per me». L'altro annuisce, scrive un numero di conto che passa all'interlocutore e dopo un paio di giorni su un deposito di una banca svizzera o di un altro paese viene accreditata una data somma. Dopo un paio di settimane, su un altro conto di un'altra banca viene depositata una somma più grande. Punto e basta. In altri casi, un affare di droga può nascere addirittura senza che ci siano i soldi. E sufficiente la parola di un uomo d'onore, che dichiara di associarsi a una data operazione investendo una certa cifra; il resto si svolge sulla fiducia. Ma è proprio per questo che tutto è così riservato, segreto. Il traffico di droga è così facile che sono moltissimi a voler associarsi. Allora per non essere infastiditi dalle richieste di compartecipazione, bisogna prima di tutto non far sapere in giro che si opera in quel settore. Quando ero in carcere, avrei potuto lavorare senza problemi con la droga e diventare ricco. Mi sarebbe bastato dire: «Desidero 5 chili per me alla prossima spedizione». Non avrei saputo né come la droga sarebbe partita, né come e da dove sarebbero arrivati i soldi. Avrei avuto l'assoluta certezza, però, che questi sarebbero arrivati. Qualcuno avrebbe pagato. Anche nel caso di un incidente come la perdita o il sequestro della merce. Ma non ho mai voluto sfruttare la mia posizione di preminenza a questo scopo E non rimpiango affatto questa scelta. A proposito della droga, voglio aggiungere una considerazione. Dal momento che l'intero affare è circondato dalla segretezza e le informazioni sono frammentate e la fiducia è così importante, non c'è modo sicuro di controllare la correttezza del comportamento di quelli che maneggiano la merce. Talvolta si verificano perciò fatti inspiegabili - sparizioni poco convincenti di quantitativi anche di una certa consistenza- e scoppiano liti furibonde. Nessuno vuole riconoscere che la partita andata persa è quella di sua spettanza. Una volta ho detto alle forze dell'ordine che, se vogliono rendere la vita impossibile ai trafficanti, non devono far sapere che è stato effettuato un certo sequestro. Il gruppo criminale colpito dal sequestro verrà gettato nel caos. Nessuno crederà alla parola dell'altro, alle giustificazioni che verranno avanzate e ognuno accuserà l'altro di essersi appropriato della merce e di non essere stato ai patti. Ho impiegato la metafora dei discorsi incompleti anche per indicare che, in realtà, sono pochi gli eventi che restano coperti dal segreto totale. Il vero problema sono i dettagli. Pagina 44


Addio Cosa Nostra..txt Il come, dove, chi e perché. Infatti, molti uomini d'onore che collaborano con la giustizia finiscono con lo smarrirsi. Si perdono quando arrivano ai particolari di un fatto: conoscono solo una parte del discorso, messa insieme prendendo un pezzetto di qua e uno di là. Di conseguenza è difficile, per la magistratura, far partire le indagini. Salvo quando il pezzetto che si conosce è vicino al cuore della verità. E la continuità può venire dedotta e poi ricercata come prova. Ho dichiarato al giudice Falcone: «Pippo Calò mi ha riferito che Ciancimino è nelle mani dei Corleonesi». Gliel'ho detto in dialetto siciliano. Era tutto quello che sapevo, perché Calò non aveva aggiunto altro nel momento in cui si era confidato e io non potevo fargli altre domande. Per Falcone, tuttavia, questa frase fu un'illuminazione, che gli servì per connettere, per ragionare e per approfondire la cosa in un momento successivo. La segretezza, a dire il vero, ha anche un'altra funzione. Non serve soltanto ad accrescere il potere, serve anche a proteggere gli innocenti e gli stessi congiunti degli uomini d'onore. Cosa Nostra è una faccenda maschile, di uomini adulti e ben sperimentati. Un mondo che non ha niente a che fare con le donne, con le mogli, con i figli e i parenti. O meglio, che non aveva niente a che fare con questi ultimi. Da questo momento userò l'imperfetto per parlare di questo argomento. Perché i Corleonesi hanno fatto carta straccia di questo principio. Ai miei tempi, un uomo d'onore poteva trovarsi nella situazione di dover temere per la propria vita e questo era tutt'altro che infrequente. Ma non era concepibile che dovesse preoccuparsi per la vita della moglie o dei figli. Se uno di loro era uomo d'onore, d'accordo, il rischio coinvolgeva anche lui. Altrimenti si poteva stare tranquilli, sicuri che in nessun caso la vita degli altri sarebbe stata messa in pericolo. Si aveva cura di non coinvolgere gente estranea nei nostri conflitti. La segretezza dell'appartenenza a Cosa Nostra era da sola sufficiente a garantire che un eventuale contrasto tra due uomini d'onore non sarebbe venuto a conoscenza dei parenti stretti. Non ci sono mai state faide in Cosa Nostra. In piena guerra di mafia - nel 1962, 63 - mia moglie usciva tranquilla a fare la spesa. I miei figli andavano regolarmente a scuola. I miei fratelli e i miei genitori non erano minacciati da nessuno. E lo stesso valeva per i congiunti degli altri uomini d'onore. Loro leggevano sui giornali o ascoltavano alla televisione che era in corso una lotta cruenta all'interno della mafia di Palermo, ma non gliene importava molto perché la consideravano una cosa che non li toccava direttamente. Alcuni di loro sapevano che il loro padre, fratello, figlio, cugino era mafioso, nel senso di uomo di rispetto o di uno che aveva un conto aperto con la giustizia. Le mogli si accorgevano che il marito era mafioso per la gente che frequentava, i processi, i riguardi che gli altri gli dimostravano. Ma non sapevano molto di più e questo non era una stranezza o motivo di vergogna perché la città era piena di persone simili al loro congiunto. Altri non conoscevano neppure il lato mafioso della personalità del loro caro. Fare il mafioso non era, a quei tempi, una professione. Ogni uomo d'onore continuava di regola a vivere e a lavorare come gli altri. A meno che non fosse latitante o in guerra con altri uomini d'onore, conduceva una vita assolutamente normale. Mi rendo conto che molti non ci crederanno, e sosterranno che la mafia ha sempre ucciso donne e bambini, ma all'epoca in cui militavo in Cosa Nostra e fino al l'avvento dei Corleonesi non si faceva del male a nessuno che si trovasse al di fuori della cerchia degli uomini d'onore o che, ovviamente, non minacciasse i loro interessi. Non ce n'era ragione, perché tutti gli estranei ignoravano l'esistenza di Cosa Nostra e quindi non potevano essere coinvolti nelle sue faccende. Anche nel famoso caso di Serafina Battaglia, la donna che accusò i Rimi, il padre di Salvatore Contorno e altri di avere fatto uccidere suo marito, uomo d'onore della famiglia di Alcamo, si è rispettata la regola di non toccare le donne. E nel caso della Battaglia, i Rimi erano, per giunta, innocenti. Pagina 45


Addio Cosa Nostra..txt Tutti sapevamo che non c'entravano con l'omicidio Leale. I miei parenti sapevano che ero mafioso, ma non hanno mai saputo nulla, neppure alla lontana, circa Cosa Nostra. Uno dei miei fratelli andò dal giudice Terranova e gli disse candidamente che sì, io mi incontravo con persone che si «annacavano» (che si davano arie da mafiosi), ma che ero un giovane bravo e serio. La mia prima moglie non ha immaginato neppure lontanamente quanto fossi immerso nella vita della società segreta. Secondo lei, le mie assenze da casa e da Palermo erano spiegate dalla mia tendenza a cercare altre donne. Oggi non credo di potermi vantare molto per questo, ma sono obbligato a confessare che neppure a Cristinae cioè alla donna che ho amato e che amo più profondamente di ogni altra persona della mia vita - ho rivelato di essere uomo d'onore prima del 1984, quando ho iniziato a collaborare con la giustizia italiana. Le ho taciuto per tredici anni un fatto fondamentale come questo. Potete crederci o no, ma è così. Cito questo episodio solo per ribadire che la mentalità «omertosa» non è uno scherzo. GLI UOMINI POLITICI CHE HO CONOSCIUTO. Anche il collegamento con la politica è stato uno strumento fondamentale della forza di Cosa Nostra. Da quando sono diventato uomo d'onore fino a oggi, non ho riscontrato grandissimi cambiamenti in questo campo. Mafia e politica sono sempre andate a braccetto, in Sicilia come a Roma. E stato dopo il 1970 che i politici sono diventati a mano a mano più dipendenti, più subalterni e timorosi di Cosa Nostra, che aveva cominciato a spadroneggiare anche sui propri amici. Negli anni '50 e fino all'inizio degli anni '70, quasi tutti i più importanti uomini politici siciliani, fatta eccezione per comunisti e fascisti, erano in contatto con noi. Anche alcuni di quelli che sono stati ministri e sottosegretari. Mi hanno accusato di raccontare cose riferite da altri. Bene. Adesso voglio parlare soltanto di quei politici che ho conosciuto personalmente. A partire dai ministri: ho conosciuto personalmente Franco Restivo, ministro dell'Interno; Giovanni Gioia, più volte ministro e Attilio Ruffini, ministro della Difesa. Il primo l'ho incontrato a casa di Antonino Mineo, capofamiglia di Bagheria e compare dello stesso Restivo. Quando mi fece conoscere Restivo, Mineo fece un'eccezione perché di solito non presentava un parlamentare così importante ad altri uomini d'onore. Sono stato testimone di parecchie lamentele nei confronti di Mineo in relazione ai suoi rapporti con Restivo. Ricordo che, dopo il mio ritorno a Palermo dal Brasile nel 1972, in stato di arresto, trovai un estremo disagio tra gli uomini d'onore. Tutti i grossi calibri della mafia erano stati catturati nottetempo e inviati al confino di polizia in isole sperdute come Linosa, l'Asinara e altre. Tutti tranne uno: Antonino Mineo. Gaetano Badalamenti era furioso per questo e lo sentii esclamare: «Ma guarda un po' questo pezzo di merda di Mineo! Si è salvato anche dal confino in virtù del suo compare!». Con Attilio Ruffini a causa del suo carattere estroverso ci davamo del tu. Il contrario di Giovanni Gioia, un altro ministro legato a noi, che aveva un carattere glaciale e che era genero di un uomo molto potente, Gaspare Cusenza, presidente della Cassa di risparmio, senatore, rettore dell'università. Ruffini era nipote di un cardinale molto importante. Quello che dichiarò che i guai della Sicilia venivano dal Gattopardo, da Danilo Dolci e dalla mafia. Il cardinale se ne intendeva di mafia. Ho sentito ripetere più volte che Luciano Liggio, quando era latitante, è stato ospitato da un cardinale. Ma non posso dire se si trattava del cardinale Ruffini o di un altro. Certo è che la residenza di un cardinale è l'ultimo posto dove la polizia andrebbe a cercare un uomo d'onore. Ma è meglio lasciare perdere questo discorso. Pagina 46


Addio Cosa Nostra..txt Stiamo parlando di politica e di mafia. Se potessi dare un consiglio agli uomini di buona volontà che cercano di combattere Cosa Nostra, direi di non fermarsi di fronte a nulla. Di fare guerra a tutte le entità collegate alla mafia. Anche alla massoneria. E di lasciare in pace la Chiesa. Tra gli esponenti politici che ho conosciuto personalmente prima del 1963, anno in cui ho lasciato l'Italia, ci sono stati: Michele Reina, Rosario Nicoletti, Ernesto di Fresco, Giuseppe Cerami, Margherita Bontà, Franco Barbaccia, Mario D'Acquisto. Tutti democristiani di fede fanfaniana e tutti gravitanti intorno a Giovanni Gioia, capo di quella corrente in Sicilia. A questi bisogna aggiungere Bartolomeo Romano, deputato democristiano del quale noi ricordo l'appartenenza di corrente, che abitava all'inizio di corso Calatafimi e aveva un figlio avvocato, e Giuseppe Guttada-lro, deputato monarchico, nonché capo della famiglia di Corso Calatafimi. I Guttadauro erano persone molto facoltose in quanto erano tra i maggiori esportatori di agrumi dell'isola. Il terzo fratello Guttadauro, Egidio, frequentava assieme a me e Pennino il campo di tiro al piccione di Mondello. Nei primi anni '60 entrai in contatto con Michele Reina. Era stato da poco costituito l'Ente Provincia, di cui sarebbe divenuto presidente. Reina era allora un giovanottino alle prime armi in politica. Era intimo di Salvo Lima, che conoscevo già da alcuni anni. Nei nostri incontri non si parlò mai esplicitamente di mafia. Facevamo discorsi elettorali: un terreno di conversazione che a lui interessava molto, in quanto sapeva di avere a che fare con una «personalità» influente, in grado di «portare» parecchi voti e molto considerata dal suo capocorrente. Diversi anni dopo, nel marzo 1978, mi trovavo in carcere quando appresi che era stato ucciso. Quando ci conoscemmo, Rosario Nicoletti era giovanissimo. Anche lui, come Reina, era una promessa della Dc palermitana e orbitava intorno a Lima. Conoscevo anche il padre di Nicoletti. Era ingegnere in municipio, addetto a un ufficio tecnico che si occupava di costruzioni, al quale Lima si rivolgeva per favori. Mi trovavo in Brasile, all'inizio degli anni '80, dopo la morte del generale Dalla Chiesa, quando seppi che Nicoletti si era suicidato. Margherita Bontà era sostenuta alle elezioni da Vincenzo Nicoletti, capofamiglia di Partanna-Mondello. Era un personaggio molto utile, perché sapeva a chi rivolgersi a Roma per ottenere delle licenze e cose simili. Mi aiutò a ottenere dal ministero per il Commercio con l'estero le licenze di importazione del burro che interessavano una società che avevo costituito a Milano assieme a persone che non avevano niente a che fare con la mafia. Non era parente dei Bontade di Santa Maria di Gesù, i quali sostenevano persone diverse da lei. Don Paolino Bontade, padre di Stefano, era un monarchico ostinato. Continuava ad appoggiare candidati monarchici - tra cui un certo Gioacchino Arcuri - quasi venti anni dopo la fine della monarchia. Ernesto di Fresco godeva invece dell'appoggio di Salvatore Buffa, vicecapo di una famiglia poi scomparsa e assorbita in quella di Ciaculli. Era la famiglia di Via Giafar, alla quale apparteneva anche il padre di Salvatore Contorno. Come tutti gli altri, di Fresco aderiva alla Dc ed era candidato al consiglio comunale. I suoi rapporti personali con Lima non erano molto buoni. Lima non lo stimava più di tanto e lo considerava superficiale e presuntuoso. Il legame di di Fresco con Cosa Nostra era particolarmente forte e tale da fargli assumere quasi la veste di nostro candidato «ufficiale». Lo conoscevo bene, anche al di fuori del canale Dc-Cosa Nostra. Di Fresco era proprietario di sale cinematografiche e accanito giocatore di carte e veniva spesso nella nostra bisca presso il Circolo della stampa. Ho saputo che è stato arrestato qualche anno fa, poco dopo avere accolto, in qualità di presidente della Provincia di Palermo, il papa in visita in Sicilia. Giuseppe Cerami era il candidato di Pietro Loiacono, allora vicecapo della Pagina 47


Addio Cosa Nostra..txt famiglia di Santa Maria di Gesù. Cerami fu prima consigliere comunale e poi senatore per diverse legislature. Conoscevo Cerami perché prima di dedicarsi alla politica a tempo pieno, aveva fatto l'avvocato. Era molto vicino a noialtri, ma non era uomo d'onore. D'altra parte non avrebbe potuto esserlo in quanto c'era un doppio impedimento al suo ingresso in Cosa Nostra. Cerami era figlio di un agente di custodia e ciò era sufficiente a precludergli l'ammissione. Come se non bastasse, il suo vero padre era un altro uomo, il quale aveva avuto una relazione extraconiugale con sua madre. E Cosa Nostra non accetta al suo interno figli non legittimi. Franco Barbaccia costituisce per me una nota dolente, in quanto è stato mio grandissimo amico fino al 1984. Barbaccia aveva sposato la nipote di Gioacchino Pennino, il carissimo amico e compagno di gioco d'azzardo nell'Italia del Nord. E riduttivo descrivere Pennino in questi termini. Già nel 1984, quando negai di fronte a Falcone che Pennino fosse uomo d'onore e dissi che lo conoscevo solo come compagno di scommesse al tiro al volo di Mondello, il giudice si mise a ridere e mi chiese se avevo voglia di scherzare. Pennino a Palermo era una piccola potenza. Era capofamiglia del quartiere Brancaccio e casa sua era un luogo di riunione e di incontro tra tutti i politici che ho elencato e gli uomini d'onore. Anzi, devo dire che i soli altri luoghi a me noti come punti abituali di incontro tra politici e capimafia erano il municipio e la casa di Salvo Lima. Tra i frequentatori del club Pennino c'era anche Mario D'Acquisto, allora molto giovane, ma che già ricopriva un incarico di potere presso l'ente dell'Acquedotto. Barbaccia era il mio candidato fisso - assieme a Giuseppe Trapani, consigliere della mia famiglia e assessore municipale - a tutte le elezioni comunali. Barbaccia godette sempre di notevole successo, nonostante non fosse un politico «di piazza», nel senso di una figura nota per i suoi discorsi o per le sue apparizioni pubbliche. Barbaccia non aveva bisogno di propaganda: contava su sostenitori sicuri e discreti, che lo inviarono prima in municipio con un numero di voti di preferenza superiore a quello ottenuto dallo stesso sindaco e poi al Parlamento nazionale. Franco Barbaccia era l'otorinolaringoiatra del carcere di Palermo e io, quand'ero detenuto, lo vedevo ogni lunedì, giorno in cui egli veniva a visitare gli ospiti dell'Ucciardone. Fu suo zio, Pennino, a presentarmelo, negli anni '70, come uomo d'onore della famiglia di Cinisi, guidata da Gaetano Badalamenti. Può sembrare strano che Barbaccia, nato a Godrano, nel territorio di un'altra famiglia, fosse stato «combinato» a Cinisi. E prassi di Cosa Nostra, infatti, che i nuovi membri vengano inclusi nelle famiglie dei luoghi di nascita o di residenza. L'ammissione di Barbaccia aveva avuto luogo, però, durante il periodo in cui le famiglie erano ufficialmente sciolte e cioè negli anni successivi al 1963. Ma Badalamenti aveva fatto il furbo e non aveva sciolto la propria, aggregando a questa Franco Barbaccia e tenendo nascosta la notizia. Data la posizione di quest'ultimo, si voleva evitare che fosse subissato di richieste di favori da parte degli uomini d'onore detenuti. Ho letto sul giornale che Barbaccia è stato arrestato l'anno scorso per i suoi legami con la mafia. Fu Barbaccia uno dei primi «fratelli» di Cosa Nostra che mi parlò, negli anni '70, dei rapporti tra Salvo Lima, i cugini Ignazio e Nino Salvo e l'onorevole Andreotti, riferendosi a una colleganza molto stretta di tipo politicoelettorale. Questi sono alcuni degli uomini politici che ho conosciuto e che ricordo in modo particolare. Ce n'erano anche altri, che non ho incontrato personalmente, come Salvatore Aldisio e Giovanni Matta, che venivano votati da Cosa Nostra. Prima di loro c'erano stati ancora molti altri esponenti politici collegati a Cosa Nostra o addirittura uomini d'onore. Abbiamo avuto nelle nostre file anche un presidente del Consiglio. Mi riferisco a Vittorio Emanuele Orlando, della cui appartenenza a Cosa Nostra mi hanno parlato, in diverse occasioni, parecchi uomini d'onore. Negli anni '50 e '60 (ma pure dopo, anche se non mi risulta direttamente, data Pagina 48


Addio Cosa Nostra..txt la mia assenza dall'Italia tra il 1963 e il 1972) Cosa Nostra sosteneva in primo luogo la Dc, ma consentiva ai suoi membri di votare per i partiti moderati, che allora erano il partito monarchico, quello liberale e i repubblicani, mentre era rigorosamente vietato votare per i partiti di sinistra (comunisti e socialisti) e per i fascisti. Non si era obbligati a sostenere un determinato candidato, in quanto ciascun uomo d'onore poteva scegliere liberamente la persona che più gradiva nel l'arco delle formazioni politiche consentite. Ovviamente, i maggiori consensi della gente di Cosa Nostra andavano ai candidati che erano uomini d'onore. A quell'epoca, sia nel consiglio comunale che in quello provinciale di Palermo erano presenti numerosi uomini d'onore, e ricordo che una volta nel consiglio provinciale fu messa in votazione una mozione contro la mafia che fu approvata all'unanimità. Subito dopo, quasi la metà dei consiglieri corsero da noi per giustificarsi. Non AVEVANO potuto fare a meno di votarla, ci dissero, perché in caso contrario avrebbero attirato sospetti su di loro. Lo stesso criterio valeva anche nel caso degli uomini d'onore presenti nel governo regionale e nazionale. L'appartenenza a Cosa Nostra e la fedeltà alle regole della democrazia venivano conciliate permettendo ai politici «nostri» di pronunciarsi in pubblico secondo gli orientamenti del proprio partito o del governo. Perdonavamo loro anche le dichiarazioni «di facciata» contro la mafia e le votazioni a favore delle misure antimafia, le quali a quel tempo erano per la verità piuttosto rare. Eravamo disposti a riconoscere i doveri connessi alla loro carica ufficiale perché sapevamo che non avrebbero osato tradire il giuramento di obbedienza a Cosa Nostra, il cui interesse doveva essere tenuto presente subito dopo, quando si dovevano prendere decisioni concrete. I ministri e i deputati uomini d'onore dovevano stare ben attenti a difendere gli interessi di Cosa Nostra in ogni occasione che non rischiasse di portare alla luce la loro fedeltà segreta. Con i fascisti non volevamo avere a che fare a causa dell'eredità del prefetto Mori, che veniva considerato malissimo dalla gente di Cosa Nostra. Era una ruggine antica quella contro Mori e il fascismo. Li detestavamo e quando si voleva offendere qualcuno gli si diceva: «Cornuto e fascista». La campagna di Mori, si diceva, era cominciata dopo che un capomafia aveva detto a Mussolini durante una sua visita in Sicilia: «Duce, tu comandi a Roma e io comando qua». Mussolini aveva inviato poco dopo il «prefetto di ferro» che era passato sulla Sicilia come una ruspa. Una ruspa di terrore contro tutti quelli che erano sospettati di appartenere alla mafia. Colpevoli o innocenti, Mori li faceva arrestare in blocco. Praticava il terrore autorizzato dallo Stato e colpiva molta gente perbene, la quale cominciò a pensare: «Questo qui non sta combattendo la mafia. Sta combattendo noi». Il malcontento di questa gente contro la politica del fascismo rese la mafia più forte e l'aiutò a risorgere subito dopo la caduta del regime. All'epoca di Mori, numerosi esponenti di Cosa Nostra fuggirono in Francia e in Tunisia, dove formarono alcune famiglie e da dove rientrarono vivi e vegeti riprendendo il loro posto e le loro abitudini al ritorno della democrazia. Il rappresentante della mia famiglia negli anni '20 era un certo Carlo Brandaleone, che riparò in Francia assieme a Finocchiaro Aprile. Quando Brandaleone tornò dall'esilio, trovò il suo posto occupato da Gaetano Filippone. Egli accettò la situazione e si accontentò della carica di consigliere della famiglia. Brandaleone è importante perché due suoi figli, Giuseppe e Ferdinando, entrarono in politica, diventarono assessori del comune e della provincia e furono sempre legatissimi a Salvo Lima, oltre che a me. Ferdinando Brandaleone era un soldato di Porta Nuova che nutriva per me una vera e propria venerazione ed era nello stesso tempo un fedelissimo di Lima. Dove c'era l'uno, compariva l'altro. Sto parlando del periodo che va dalla fine degli anni '50 alla vigilia della Pagina 49


Addio Cosa Nostra..txt prima guerra di mafia. Nella politica locale, i nostri due punti di riferimento principali erano Salvo Lima e Giovanni Gioia, segretario della Dc. Ho conosciuto Lima e l'ho incontrato diverse volte. In municipio, quando era sindaco di Palermo e anche a casa sua. Era un piacere andarlo a trovare, ma non mi trattenevo a lungo perché si trattava di visite di cortesia e lui era sempre impegnatissimo nelle faccende politiche. Lima viveva per la politica. Salvo Lima era strettamente collegato a noi e a Palermo tutti lo sapevano. Era figlio di un uomo d'onore (che mi pare si chiamasse Vincenzo) appartenente alla famiglia di Palermo centro, guidata da Angelo La Barbera. Non ho mai saputo, invece, di un'appartenenza formale di Lima stesso a Cosa Nostra e questo non mi meraviglia in quanto non mi è mai stato presentato come uomo d'onore. Nella sua vita privata esisteva, inoltre, url'ostacolo insormontabile a essere ammesso nella società segreta. Tra noi non si e potuta sviluppare una vera amicizia. Gli ambienti cui appartenevamo erano, tutto sommato, distanti. Non ci davamo del tu, ma ci sono stati rispetto reciproco e sincera cordialità. Io consideravo Lima in base alla sua carica ufficiale: era il sindaco della mia città. Lui mi considerava un grande capomafia. I nostri rapporti assomigliavano a quelli tra due istituzioni e avevano pertanto un certo sapore di ufficialità. Non mi sorpresi perciò quando, verso il 1961 o 1962, prima di recarsi negli Usa come componente di una delegazione del comune di Palermo, Lima mi disse che desiderava incontrare qualche importante autorità mafiosa d'oltreoceano. Convenimmo assieme che era necessario osservare un certo protocollo. Scrissi allora per lui una lettera formale di presentazione indirizzata a Joe Bonanno e Charles Gambino, i capimafia di New York. Quando ritornai dal viaggio e andai a trovarlo nel villino di Mondello, dove abitava d'estate, mi ringraziò per l'accoglienza calorosa che aveva ricevuto dagli uomini d'onore americani. Non ho mai versato una sola lira per i favori che gli ho chiesto e una volta, quando tentai di disobbligarmi inviandogli una busta piena di banconote, mi oppose un rifiuto categorico. Lima aveva interessi alquanto consistenti negli affari edilizi e negli appalti del comune. Il famoso Ciccio Vassallo, il carrettiere che diventò uno dei costruttori più affermati della città, era solo una facciata dietro la quale c'era lui: Lima. Ma il tenore di vita di quest'ultimo fu sempre modesto, senza ostentazioni e lussi vistosi. La sua era la vita di un uomo politico, di un sindaco che non ha tempo da dedicare all'agiatezza. Lima conosceva la mia passione per la lirica e mi mandava spesso in omaggio un blocchetto di biglietti per tutta la stagione palermitana. Era un uomo intelligente e serio. Parlava pochissimo, come un vero figlio di un uomo d'onore e manteneva regolarmente gli impegni che prendeva. Nei miei confronti si è comportato bene. Ci fu un momento nel quale ero interessato a una modifica del piano regolatore della città. Avevo acquistato, in società con Salvatore La Barbera, un terreno in una zona contrassegnata come area verde e premevo perché ne venisse cambiata la destinazione trasformandola in area edificabile. Lima esaudì la richiesta, consentendoci di realizzare un considerevole profitto dall'incremento di valore del terreno, subito rivenduto al costruttore Moncada, membro della famiglia di Palermo centro. Il gesto di Lima a nostro favore comportò uno scontro con Vito Ciancimino, assessore ai Lavori pubblici della sua giunta. Nonostante appartenessero alla stessa corrente della Democrazia cristiana, tra Lima e Gioia da un lato, e Ciancimino dall'altro, non c'era accordo. Ciancimino era già allora un corleonese invadente e prevaricatore che faceva gli affari suoi e tendeva a non prendere in considerazione gli interessi e le posizioni degli altri. Pagina 50


Addio Cosa Nostra..txt In conclusione, non ho un ricordo negativo di Salvo Lima. Quando lo rincontrai, molti anni dopo, nel 1980, assieme a Nino Salvo, fui contento di rivederlo. Ho fatto votare per Lima, Gioia, Ruffini, Barbaccia e altri alle elezioni per il Parlamento nazionale. Non posso essere più preciso perché sono passati parecchi anni ed era Giovanni Gioia che a ogni elezione ci suggeriva i nomi dei candidati che meritavano il nostro appoggio. E poi il mio interesse per la politica è sempre stato relativo. Non sono mai stato iscritto a un partito. Non ho mai fatto una vera campagna elettorale per nessun candidato e non ho esperienza diretta della politica quotidiana. La politica non mi ha mai attirato e gli uomini politici non mi sono mai piaciuti: per il loro opportunismo, la loro mancanza di parola, la loro leggerezza nei confronti dei princìpi che dichiarano di seguire. Agli occhi di un uomo d'onore qual'ero negli anni di cui sto parlando, essi apparivano gente infida, di moralità scadente. Un esempio per tutti. All'inizio degli anni '60 avevo un amico impegnato nella vita pubblica e che ricopriva una posizione preminente. Questo tale un giorno scoprì sua moglie a letto con un suo cugino. Ebbene, lui fece finta di nulla. Non reagì in alcun modo, né contro la moglie né contro il cugino. Eppure poteva farli ammazzare da Cosa Nostra. Fece come se niente fosse e continuò imperterrito a salire i gradini della sua carriera, perché questa era l'unica cosa che gli interessava. Non mi ritengo un retrogrado, un moralista facile, di quelli che esaltano oltre misura la fedeltà della donna, l'onore della famiglia, e cose del genere. Sono convinto, tuttavia, che un uomo pubblico come il mio amico avrebbe dovuto tenere un contegno più virile, mostrandosi perlomeno capace di dire alla moglie: «Addio, bella mia. Abbiamo finito. Sparisci dalla mia vita». Niente: lui doveva fare carriera in politica e nulla doveva disturbare la sua scalata al potere. Ecco, questo è ciò che penso degli uomini politici. Camminerebbero sul cadavere della propria madre pur di raggiungere i loro scopi. La mia impressione sarà sbagliata. Anzi, lo è di sicuro. Ma la mafia di quei tempi mi sembrava una cosa più seria. Le sue regole non erano forse congeniali al modo di pensare delle persone perbene, ma erano dei punti fermi. Andavano rispettate e chi le infrangeva moriva. Il nostro rapporto con la politica era un matrimonio di convenienza. Ma c'erano anche posizioni di principio realmente sentite e condivise, come l'anticomunismo. La Democrazia cristiana si serviva della mafia perché questa portava voti al partito, e la mafia si serviva della Dc per gli scopi personali dei suoi aderenti. Io volevo che un terreno passasse da area verde ad area di costruzione e poi votavo per chi mi aveva avvantaggiato. Oltre a questo, su un piano più vasto, c'era la psicosi del comunismo. A quel tempo il comunismo per noi poveri ignoranti significava Stalin e l'invasione dell'Italia da parte dell'Armata Rossa. Noi mafiosi temevamo questa eventualità: desideravamo che il comunismo stesse lontano dalle nostre terre ed eravamo schierati con la Dc anche per questa ragione. Anche allora avevamo quelli che oggi vengono definiti «referenti politici nazionali. Se escludiamo i parlamentari e i ministri siciliani che erano uomini d'onore per giuramento o che gravitavano comunque intorno a noi mafiosi, c'erano pure leader di primo piano che non erano siciliani e non avevano contatti permanenti con noi, ma che ci appoggiavano e si incontravano con noi a causa dell'anticomunismo. C'era un accordo politico molto solido tra la mafia e la Dc. Se non ci fosse stata quella Giulietta esplosa a Ciaculli nel 1963, la guerra di mafia sarebbe finita e Cosa Nostra avrebbe continuato a prosperare tranquilla all'ombra della Dc per tutto il decennio. Eravamo anticomunisti, è vero. Pagina 51


Addio Cosa Nostra..txt Ma non nel senso di intervenire attivamente contro il Partito comunista. I comunisti si sono arrabbiati per molti anni con noi mafiosi. Era una loro linea politica, che aveva le sue ragioni. Ma sbagliavano quando dicevano che i mafiosi stavano combattendo i comunisti. Gli uomini d'onore non si intromettevano negli scioperi e nelle manifestazioni. Ho già riferito della disapprovazione generale per il comportamento della banda di Salvatore Giuliano a Portella della Ginestra. So che nell'entroterra dell'isola, nelle zone agricole, c'erano interessi mafiosi che difendevano la proprietà contro le proteste dei contadini. Ma a Palermo c'erano molti operai dei cantieri navali che erano uomini d'onore e scioperavano assieme agli altri senza che le famiglie di appartenenza avessero niente da obiettare. La famiglia dell'Acquasanta gestiva la mensa dei cantieri e nessuno si intrometteva nelle questioni interne e nell'attività sindacale di quella fabbrica. Eravamo intimamente contro il comunismo anche per via del nostro filoamericanismo. Non c'era una sola famiglia di Cosa Nostra che non avesse gente negli Stati Uniti a causa dei parenti dei suoi uomini che vi erano emigrati. Molto spesso si favoleggia a proposito di relazioni internazionali segrete dei mafiosi e si dimentica che le cose sono più semplici e hanno a che fare con l'emigrazione all'estero. L'America era per noi come una seconda patria. Forse solo la mia situazione era anomala, in quanto né mio padre né mia madre avevano parenti oltreoceano . Non accettavamo nelle nostre file elementi comunisti o che avessero parenti comunisti. Ma non lottavamo contro i comunisti, in quanto, in base al principio che il mafioso non ha colore, non esercitavamo pressioni contro chi aveva deciso di votare per loro. Il mafioso non è un animale politico. Lo definirei un «democratico neutrale", perché è contro ogni forma di dittatura, ma senza impegno di partito. Non minacciavamo legnate nei seggi elettorali perché qualcuno aveva intenzione di votare comunista. Se sapevamo che qualcuno aveva un orientamento di sinistra dichiarato, lo lasciavamo in pace. Lo ignoravamo. Le nostre pressioni durante le campagne elettorali si rivolgevano a chi sapevamo già orientato verso i partiti di centro. Gli dicevamo: «Sappiamo che sei repubblicano. Ci farebbe piacere se tu votassi per un nostro amico che è candidato nel tuo partito». Solo in occasione del Governo Milazzo, un governo regionale di tipo autonomista, alla fine degli anni '50, una parte di Cosa Nostra decise di appoggiarlo esplicitamente. Però si trattava giusto di un gruppo di uomini d'onore. Molto influenti, è vero, ma non ci fu unanimità nell'associazione. A me, per esempio, non importava in alcun modo di sostenere Milazzo e mi tenni in disparte da tutta l'operazione. Ci fu, negli anni del dopoguerra, un capo comunista, Girolamo Li Causi, che condusse contro di noi una serie di campagne furibonde. Lo detestavamo, ma in fondo lo prendevamo con filosofia e lo lasciavamo fare. Tanto, le sue idee facevano presa soltanto su quelli che erano già convinti. Non lo consideravamo un serio pericolo: la gente vedeva di buon occhio Cosa Nostra e le sue denunce potevano sembrare puntuali e precise a chi stava fuori dalle questioni di mafia, ma noi constatavamo che erano basate su dati errati. Li Causi non conosceva i personaggi di Cosa Nostra e ne parlava senza centrare l'argomento. Il famoso scontro che ebbe nella piazza di Villalba con Calogero Vizzini non fà testo. Li Causi lo aveva provocato in casa propria e Vizzini era una figura stimata e rispettata non solo all'interno di Cosa Nostra, ma anche dalla gente perbene. Nonostante Li Causi e qualche altro leader comunista ci attaccassero continuamente nei comizi e in Parlamento, non tentammo mai di ucciderli. A quei tempi, idee di questo genere non ci passavano neppure per la testa. A nessuno di noi, sotto il fascismo, era venuto in mente di assassinare il Pagina 52


Addio Cosa Nostra..txt prefetto Mori, né quando era in Sicilia, né quando fu messo a riposo. Nessuno pensava di ammazzare un'autorità dello Stato o della politica. E neppure, come ho detto, di eliminare una persona estranea a Cosa Nostra che non avesse commesso errori imperdonabili. E non venivano in mente, queste idee, neppure a Li Causi e ai suoi compagni di partito, i quali circolavano senza scorta per tutta la Sicilia arringando le folle e tenendo riunioni e comizi. Nessuno si permetteva di infastidirli o di minacciarli. MAPPA DI COSA NOSTRA ALL'INIZIO DEGLI ANNI '60. Alla vigilia della guerra di mafia del 1962, 63 la mappa dei gruppi di Cosa Nostra sparsi nell'isola non era così fitta di riferimenti come oggi. I personaggi più noti all'esterno della consorteria erano Calogero Vizzini e Genco Russo. Di Vizzini si diceva che fosse il Capo dei Capi e Russo veniva considerato il suo successore. Le cose non stavano così. Il primo era senza dubbio una figura di rilievo, cui era utile rivolgersi in quanto uomo influente e rispettato, ma non era il Capo dei Capi. Sia perché c'erano altri capimafia altrettanto e più importanti di lui, sia perché la carica di Capo dei Capi, dentro Cosa Nostra, non è mai esistita. Genco Russo era un mafioso della provincia di Caltanissetta che - se devo essere chiaro e sincero - aveva molto più rispetto per me di quanto io ne nutrissi per lui. Sono stati i giornali, e con loro la polizia e la Commissione antimafia, a gonfiare il personaggio. Da un posto come Caltanissetta o Agrigento non c'era la possibilità di comandare né di influenzare Cosa Nostra siciliana. E neppure da un posto come Bisacquino, un paesino sperduto che si trova al confine tra la provincia di Palermo e quella di Agrigento, dove è nato un individuo considerato un grande mafioso del tempo che precede la seconda guerra mondiale: Vito Cascio Ferro, l'uomo che si vantò di avere ucciso con le proprie mani Joe Petrosino - il poliziotto italo-americano assassinato in piazza Marina, a Palermo, nel 1909 - e che fu incarcerato molto a lungo, credo fino alla morte, per questo omicidio. Un equivoco colossale dato che Cascio Ferro non era che un ciarlatano. Non era neanche uomo d'onore. Era solo uno sciocco, un signor nessuno che veniva deriso dalla gente di Cosa Nostra perché si era preso la condanna all'ergastolo senza sapere niente dell'omicidio Petrosino, senza averci avuto nulla a che fare. I vecchi mafiosi mi parlavano di lui con disprezzo perché lo consideravano un impostore. Quando mai si è visto un uomo d'onore che si vanta in pubblico di un omicidio? E di un omicidio mai commesso! Sarebbe un'azione contraria all'ABC del comportamento mafioso. Mi parlavano con disprezzo di Cascio Ferro sebbene avesse reso un favore a Cosa Nostra accollandosi l'eliminazione di Petrosino, il quale, invece, era stato ucciso da un uomo d'onore di Palermo, Giuseppe Palmigiano, che ho conosciuto personalmente e che era soldato della famiglia di Palermo centro. Il fratello di Palmigiano, Ernesto, era consigliere della stessa famiglia. Il suo rappresentante gli aveva ordinato di uccidere Petrosino e lui l'aveva fatto. La richiesta era venuta da Cosa Nostra americana. Mi sembra anche di ricordare che quest'ultima aveva fatto viaggiare sulla stessa nave di Petrosino una persona incaricata di indicarlo agli uomini d'onore di Palermo. Cosa Nostra non ha una vera e propria testa, ma un centro di gravità collocato tra Palermo e Trapani. Per importanza Trapani viene subito dopo Palermo. E da queste località che sono venuti i capi veramente potenti di questo secolo: Andrea Fazio da Trapani, Vincenzo Rimi da Alcamo, Salvatore Greco «Cicchiteddu» da Palermo, Luciano Liggio e Totò Riina da Corleone. Vincenzo Rimi stava talmente a cuore a Cosa Nostra che la revisione del suo processo costituì una delle principali condizioni dell'appoggio al golpe Borghese del 1970. Ancora alla fine degli anni '70, Andreotti si incontrava con gli uomini d'onore per discutere la questione dei processi contro Vincenzo e Filippo Rimi. La forza di Trapani e Palermo è andata costituendosi nel tempo e deriva forse Pagina 53


Addio Cosa Nostra..txt dal fatto che il centro di irradiazione di Cosa Nostra è situato in queste province. Tutte le maggiOri famiglie del resto della Sicilia si sono formate infatti dopo il riconoscimento da parte di Palermo o di Trapani, oppure per trapianto. Anche le famiglie che si sono costituite a Napoli, in Francia, negli Stati Uniti e in Venezuela- nonché la decina presente a Milano - hanno avuto bisogno di un permesso, oppure sono state fondate dai gruppi palermitani e trapanesi. Dopo la nascita della Commissione provinciale di Palermo, seguita poi da quella di Trapani e delle altre province, la trafila di autorizzazione è diventata ancora più formale. All'inizio degli anni '60, le famiglie mafiose più in vista del Trapanese oltre ai Rimi, ai Minore di Paceco - un centro molto vicino al capoluogo - ai Buccellato di Castellammare del Golfo, erano quella di Mariano Licari, mafioso di notevole ascendente, a Mazara del Vallo, e quella di Benedetto Zizzo, a Salemi. I Salvo di Salemi sono emersi più tardi, durante gli anni '70, ma più in conseguenza del loro potere economico che per la loro reputazione di uomini d'onore. Al di fuori di Trapani e Palermo, si segnalavano i gruppi di Villalba e Mussomeli e l'insediamento mafioso di Riesi, in provincia di Caltanissetta, governato dal padre di Giuseppe Di Cristina, un eccellente uomo d'onore. Allora a Catania Cosa Nostra era quasi inesistente. C'erano già i Calderone e il loro zio Saitta. C'erano i Ferrera, guidati da Salvatore Ferrera detto «Cavadduzzu», ma contavano poco. «Cavadduzzu» veniva a Palermo intorno alla fine degli anni '50 a elemosinare qualche cassa di sigarette da Bernardo Diana, il quale gliele concedeva e poi «Cavadduzzu» non le pagava. Per quanto riguarda la provincia di Palermo, è interessante notare come Corleone non fosse, allora, un centro mafioso di gran nome. La famiglia di Corleone non era particolarmente forte, né aggressiva. Era una famiglia mafiosa che vivacchiava in provincia come tante altre, che si faceva i fatti propri, che non faceva parlare di sé e che non destava alcuna preoccupazione. La nomea di Corleone è cresciuta a causa di Luciano Liggio e del nucleo di persone che lo circondavano. Dal momento in cui questo gruppo di sanguinari ha cominciato a gravitare su Palermo e a inserirsi nelle faccende delle famiglie più importanti, è cominciata l'ascesa dei cosiddetti Corleonesi, i quali non sono una famiglia come le altre, ma uno schieramento che solo in piccola parte ha a che fare con i mafiosi originari di Corleone. Camporeale, un centro della provincia di Palermo, era dominato da Vanni Sacco e dai suoi figli. C'erano poi la famiglia di Bagheria, guidata per mezzo secolo da Antonino Mineo, quella di Nené Geraci a Partinico, la famiglia di San Giuseppe lato, il cui capo era Antonino Salomone, la famiglia di Mario Farinella di San Mauro Castelverde e altre dislocate nei paesi e nei villaggi della provincia. Altre famiglie di rilievo, che una trentina di anni fa risiedevano negli immediati dintorni di Palermo - che oggi sono compresi nella stessa città erano i Greco, divisi nei due ceppi di Ciaculli e di Croceverde-Giardini; quella di Cinisi, governata allora da Cesare Manzella e con i Badalamenti che ancora non ricoprivano cariche; quella dei Di Maggio di Passo di Rigano; quella di Salvatore Manno di Boccadifalco, dove si trovava il vecchio aeroporto di Palermo; quella di Mariano Troia di San Lorenzo; quella di Nino Matranga a Resuttana; quella di Vincenzo Nicoletti a Partanna-Mondello; quella di Giuseppe Panno di Casteldaccia. Tra le altre famiglie cittadine, oltre a Porta Nuova e Palermo centro, spiccavano quella dell'Uditore capeggiata da Pietro Torretta, quella dell'Acquasanta e diverse altre, tra cui quella di Nino Sorci a Villagrazia, quella di Santa Maria di Gesù, il cui capo era Paolino Bontade, padre di Stefano. Quest'ultima famiglia era già in vista, ma non aveva ancora il peso che ha assunto negli anni '80. La notevole reputazione di Santa Maria di Gesù dipendeva allora non tanto dalla notorietà esterna del suo rappresentante degli anni '60, Paolino Bontade, che noi, al contrario, consideravamo un uomo privo di carisma, quanto da quella del suo capo precedente, Andrea Messina, uomo di grande ascendente molto amico di Vincenzo Rimi e quasi sconosciuto agli inquirenti e alla stampa. Messina era un esportatore di agrumi e risiedeva per gran parte dell'anno in Pagina 54


Addio Cosa Nostra..txt Germania. Tornava a Palermo di tanto in tanto, in occasione delle feste e in estate. Messina si era recato in Germania giovanissimo, parlava tedesco ed era il punto di riferimento di tutti gli uomini d'onore che andavano in quel paese. Come ho già accennato, Cosa Nostra non era in quell'epoca un'associazione di gente ricca. Di essa facevano parte uomini di tutte le categorie sociali e le persone facoltose erano poche. C'erano alcuni aristocratici un po' decaduti. I Greco erano possidenti da più generazioni, i Rimi e i Buccellato avevano terre e bestiame, Pietro Torretta stava bene, Mariano Troia e Nino Matranga erano benestanti. I La Barbera stavano diventando ricchi. Ma Salvatore Greco «Cicchiteddu», Liggio, Rosario Mancino, Totò Riina e parecchi altri capi non lo erano. E poi c'erano quelli in posizione intermedia - impiegati, piccoli proprietari, modesti negozianti, artigiani - che stavano davanti a una pletora di operai, venditori ambulanti e gente dai mille mestieri. Cosa Nostra rispecchiava, insomma, le differenze sociali del mondo esterno, ma il rispetto reciproco e il senso di appartenere a una schiera di uomini superiori livellava e accomunava tutti. I soldi non erano la base di tutto, come accade adesso. Non era obbligatorio arricchirsi per mantenere la propria posizione di uomo di rispetto. Un tizio poteva essere un capomafia riverito e stimato da tutti senza sfoggiare terreni e palazzi. La corruzione della mentalità degli uomini d'onore è cominciata negli anni '70, con la droga e i Corleonesi. Ogni occasione è stata ritenuta buona per accumulare denaro; ogni amicizia è stata finalizzata a questo scopo. Prima di allora si entrava in rapporti con i potenti, ma non si ambiva a sostituirli. Se il conte Cassina o il barone La Motta assegnavano la guardianìa dei propri terreni o dei propri cantieri agli uomini d'onore, questi si sentivano appagati. Se un grosso imprenditore edile cedeva un subappalto a una piccola azienda mafiosa, il titolare di questa non pensava di prendersi tutto l'appalto e magari anche l'amicizia politica da cui questo era arrivato. Come ho detto non c'erano le estorsioni a tappeto. La prima volta che ho sentito parlare di estorsioni generalizzate è stato intorno al 1975, 76, quando stavo in carcere . Si lasciava che la gente facesse la propria vita. Negli anni '50 e '60 gli uomini d'onore controllavano già diverse attività economiche: i mercati generali di Palermo, la macellazione della carne, il commercio del pesce, la distribuzione e l'estrazione dell'acqua potabile e per l'irrigazione. Ma, più che controllare, gestivano questi affari. I proprietari dei chioschi al mercato ortofrutticolo erano tutti mafiosi da tempo. Era un fatto vecchio e risaputo. Non c'è mai stata la «conquista dei mercati generali» da parte della mafia. Gli uomini d'onore che commerciavano la frutta e gli ortaggi non avevano cacciato nessuno dai chioschi. Erano lì da decenni ed erano legittimi proprietari. Come quasi tutti i proprietari dei pozzi d acqua. Dico «quasi», perché si diceva che alcuni pozzi che prima erano pubblici fossero stati requisiti dai mafiosi in tempi non molto lontani. In ogni caso, quella dei pozzi d'acqua era una faccenda delicata. Una cosa tipicamente mafiosa, anche se c'erano proprietari dei pozzi che non erano uomini d'onore e che venivano talvolta combattuti da Cosa Nostra. Questi pozzi erano collocati a poca distanza l'uno dall'altro e, quando l'acqua di uno cominciava a scarseggiare, era facile attribuire questo fatto al tiraggio eccessivo di un pozzo confinante. Se il proprietario di quest'ultimo, a differenza del primo, non era un uomo d'onore, scoppiava invariabilmente una lite che arrivava poi davanti al rappresentante della famiglia. A quei tempi, non era affatto scontato che l'intervento del capo fosse sempre e Pagina 55


Addio Cosa Nostra..txt comunque favorevole al suo soldato. La mentalità prevalente non era di opprimere o di sfruttare, ma di lasciare vivere in pace, per quanto possibile, le persone perbene estranee a Cosa Nostra. Il padre di Salvatore Greco deteneva una guardianìa presso una tenuta confinante con la sua e di proprietà di una persona estranea alla mafia. Entrambe le tenute si trovavano a Ciaculli e contenevano un pozzo per estrarre dell'acqua. Alla morte del padre di Greco, il proprietario non mafioso avrebbe potuto benissimo non confermare l'incarico al figlio Salvatore, se nel frattempo vi fossero state le solite liti a causa dei pozzi. L'incarico fu invece rinnovato e neppure in seguito vi fu alcuna lamentela per comportamenti prevaricatori dei Greco. Prima degli anni '70, Cosa Nostra giocava soprattutto in difesa. Farne parte garantiva una protezione formidabile contro i soprusi, le minacce e le incertezze della vita, ma non comportava vantaggi economici significativi, a parte quella solidarietà interna, quella fiducia negli affari alla quale ho già accennato. Un uomo d'onore è tenuto a dare fiducia a un suo «fratello,>. In particolari attività questo fatto può diventare importante. Se fossi stato un membro indigente della famiglia di Porta Nuova, sarei potuto andare da Pino Trapani, distributore all'ingrosso di birra e «fratello» mafioso, e dirgli: «Non ho lavoro, e non ho soldi da anticipare per comprare la tua birra. Puoi darmi della birra da portare in giro per venderla?». «Quanti camion te ne occorrono?» sarebbe stata la sua risposta. Così facendo, Trapani non avrebbe compiuto un azzardo. La sua esposizione sarebbe stata garantita dalla dignità del «fratello» che chiedeva il favore. La solidarietà tra uomini d'onore, indipendentemente dall'appartenenza a una data famiglia, era intensissima. Costituiva un modo di proteggersi dalla giustizia dello Stato e da tutte le evenienze negative. Questa solidarietà si esprimeva anche in una rete di contatti che abbracciava l'intera Sicilia e tutti i luoghi dove si trovavano uomini d'onore. Grazie alla rete di amicizie e di collegamenti tra i suoi aderenti, Cosa Nostra era impareggiabile nel raccogliere informazioni. Se un giorno avessi avuto la necessità di contattare, «avvicinare» - secondo il nostro modo di esprimerci una persona residente in un qualsiasi villaggio della Sicilia, anche il più sperduto, non avrei dovuto fare altro che recarmi sul posto. Da solo, se conosciuto personalmente dai miei interlocutori; accompagnato da un «fratello» anche appartenente a una famiglia diversa dalla mia, qualora non fossi già in contatto. Giunto sul posto, sarei stato accolto dal capo della famiglia che avrebbe organizzato un pranzo in mio onore, al termine del quale avrebbe ascoltato attentamente le mie richieste. La risposta, nella maggior parte dei casi, sarebbe stata espressa con estrema modestia: «Datemi un po' di tempo e vi farò sapere». Una volta che fossi partito, il rappresentante locale avrebbe riunito la sua piccola famiglia e avrebbe chiesto a ciascuno dei presenti se conosceva la persona che desideravo avvicinare o se avesse idea di come raggiungerla. Quasi sicuramente avrebbero individuato il canale giusto e da quel momento si sarebbero dedicati con il massimo impegno alla riuscita del favore che avevo chiesto. Questo modo di agire ha fatto sì che, nella Sicilia di quei tempi, non venisse celebrato alcun processo di mafia in Corte d'assise senza che i giurati popolari non fossero avvicinati da Cosa Nostra o da elementi collegati a essa. Era molto improbabile che un singolo giurato non avesse uno zio, un fratello, un padre, un cugino, un nipote che non fosse in contatto con un uomo d'onore o con un elemento a lui strettamente collegato. Non faceva molta differenza che il giurato provenisse da Riesi o da Catania. Si riusciva sempre a raggiungere un giudice popolare. E non c'era alcun bisogno di intimidirlo. Poche volte ho sentito parlare di intimidazioni. Si raccomandava e si condizionava. Non si minacciava né si ricattava. Si agiva tramite la persona più vicina al giurato. Pagina 56


Addio Cosa Nostra..txt Si individuava quella alla quale non poteva dire di no. Fino all'inizio degli anni '60 eravamo vere e proprie autorità pubbliche. Facevamo rispettare i contratti e le leggi. Chi si riteneva danneggiato in un qualche suo interesse si rivolgeva a noi invece che alla polizia o ai tribunali. L'uomo d'onore - si trattasse di un carico di merce non pagata, di un prestito non restituito, di un furto o di una truffa - risolveva una controversia nel giro di poche settimane invece che in parecchi anni - o addirittura mai -; e questo era dovuto al fatto di possedere, in primo luogo, le informazioni giuste. Se UIl soldato o il capodecina di una certa famiglia ricevevano l'incarico di rintracciare gli autori del furto di un'automobile, sapevano già a chi rivolgersi. Conoscevano i ladri e i ricettatori di quel dato rione e si davano da fare per recuperare l'automobile. Se il furto riguardava merce che nel frattempo era stata già venduta e la persona che chiedeva il favore al mafioso godeva di notevole influenza nei suoi confronti, allora il mafioso costringeva il ladro a farsi restituire la refurtiva e poi chiedeva al suo cliente di sborsare una piccola cifra e di regalarla all'autore del furto. I ladri, a quei tempi, erano quasi tutti morti di fame. Il mafioso non chiedeva un compenso, né tratteneva una percentuale sul valore dei beni recuperati. L'individuo che aveva ricevuto il favore gli sarebbe rimasto grato e obbligato per il futuro. All'uomo d'onore non sarebbero mancate le occasioni di chiedere a sua volta un piacere alla persona beneficata. L'intervento del mafioso veniva sollecitato da tutti e il suo potere cresceva in base al numero delle richieste che gli pervenivano e al successo del suo operare. Queste attività conferivano molta popolarità ad alcuni uomini d'onore, che così diventavano noti alla polizia. Ma si è sempre trattato di una piccola parte delle migliaia di fratelli mafiosi che operavano in silenzio, immersi nella società come pesci nell'acqua. Negli anni '80 il potere dell'uomo d'onore si è basato sulla forza. Ma all'epoca di cui stiamo parlando si fondava sulla sua capacità di servire la gente, sulla sua reputazione di persona capace di «aggiustare» le situazioni degli altri e di intercedere in loro favore anche presso i poteri pubblici. All'inizio degli anni '60 ero noto a Palermo come una persona alla cui porta si poteva bussare tranquillamente per chiedere aiuto nella soluzione di una lite, nella ricerca di un impiego, per ottenere la concessione di una licenza. A un certo punto per me era diventato quasi un problema uscire di casa la mattina: trovavo decine di persone ad aspettarmi fuori dall'uscio. C'è stato perfino qualche poliziotto che è venuto da me a chiedermi il piacere di fargli ottenere l'appartamento in una casa popolare. LA GUERRA DI MAFIA 1962, 63. La guerra di mafia del 1962, 63 fu un evento che vissi intensamente a causa dei miei rapporti con i fratelli La Barbera e perché la sua origine principale è da ricercare in una delle regole che avevo stabilito assieme agli altri promotori della Commissione: il divieto di cumulare la carica di capofamiglia con quella di membro della Commissione stessa. Diversi rappresentanti non tolleravano l'idea di permettere che un semplice soldato sedesse nella Commissione per conto di tre famiglie e fra costoro c'era Angelo La Barbera, capo di Palermo centro e uomo d'onore tra i più noti del tempo. Poiché la sua opposizione poteva danneggiare il nuovo equilibrio che avevamo raggiunto, fui incaricato di convincerlo a non sabotare la Commissione mettendosi a capo di una fazione di dissidenti. Non era facile trattare con Angelo La Barbera. Anche il dialogo, la semplice conversazione con lui costituivano un problema a causa del suo carattere altezzoso e della sua arroganza. Secondo il suo modo di vedere, era inammissibile che ci si intromettesse nelle faccende interne della sua famiglia. Gli illustrai allora i vantaggi della Commissione e cercai di indurlo a dimettersi da capofamiglia per assumere l'incarico di capomandamento nella Commissione: la sua influenza sarebbe aumentata notevolmente, in quanto il mandamento da lui rappresentato avrebbe incluso, oltre a Palermo centro, famiglie prestigiose quali Porta Nuova e Borgo, i cui capi avevano già dato il proprio assenso alla sua eventuale nomina. Pagina 57


Addio Cosa Nostra..txt Quando terminai di parlare Angelo La Barbera si mise a ridere: «Ma chi credi di convincere con le tue belle parole? Mi vorresti far lasciare la guida di Palermo centro per diventare una Tecie di pupo in quella Commissione che si riunisce ogni mese per ficcare il naso negli affari di tutti!». «Non si tratta di "ficcare il naso" come dici» ribattei irritato. «La Commissione serve a evitare gli equivoci e gli incidenti. E utile a Cosa Nostra perché protegge gli uomini d onore dalle ingiustizie interne. E uno strumento di pace. Ed è stata accettata ormai quasi da tutti. Anche dai fratelli di Trapani. Non capisco perché ti rifiuti di ragionare! » «Senti, facciamo così. Dal momento che insisti tanto, e sei mandato pure da parecchi altri, possiamo aggirare l'ostacolo. Tu sai che nella mia famiglia c'è mio fratello Salvatore che è capodecina e mi sta creando non pochi grattacapi. Nominate lui capomandamento, così me lo tolgo dai piedi» concluse La Barbera con quel suo tono sarcastico che mi innervosiva terribilmente. Salvatore La Barbera entrò così a far parte della Commissione, ma suo fratello continuò a manifestare il proprio scetticismo nei confronti di una novità che non accettava e non capiva. Con il passare del tempo, tuttavia, la Commissione diventò sempre più influente e autorevole, e Angelo La Barbera fu costretto a rendersi conto, infine, di quanto era stato sciocco a rifiutare un incarico divenuto molto più importante di quello da lui ricoperto. Le sue battute si colorirono di rabbia. Il suo risentimento, allora, si rivolse contro di me e suo fratello, il quale, nel giro di poco più di un anno, era diventato un punto di riferimento imprescindibile per ogni decisione da prendere nel nuovo organismo. Nel frattempo anche le mie quotazioni erano salite. Pur non facendo parte della Commissione, ne ero stato uno degli artefici. La strettissima amicizia che mi legava a Salvatore La Barbera e Totò Greco «Cicchiteddu» mi garantiva informazioni tempestive e dettagliate su ogni avvenimento di rilievo. Angelo La Barbera cominciò a sfidare apertamente le decisioni della Commissione e più di una volta accusò il fratello di ingerenza indebita nelle questioni interne di Palermo centro. Quando mi incontrava, nel bar accanto alla società di autonoleggio gestita da Salvatore, mi riempiva di lamentele nei confronti del fratello e dei miei amici in Cosa Nostra. Quando gli screzi con Salvatore si intensificarono, Angelo cambiò bar e cominciò a trascorrere le sue giornate in un altro locale, in piazza Politeama, rimproverandomi perché non assecondavo questa sua preferenza. Era diventato un incubo. La sua sola presenza ormai mi dava la nausea e cominciai a cercare un pretesto per sbarazzarmi di lui. L'occasione si presentò quando pervenne in Commissione una lagnanza che proveniva da un importante costruttore, Salvatore Moncada, uomo d'onore sui generis di Palermo centro. Dico sui generis perché secondo me Moncada era un ignorante. Non capiva nulla di questioni di Cosa Nostra e si occupava solo del suo lavoro. Ma proprio per questo il costruttore era una buona preda per Angelo La Barbera, suo capofamiglia, che aveva assieme al fratello una società per la fornitura di materiali edili. Moncada si lamentava perché i La Barbera (in realtà il solo Angelo, in quanto Salvatore partecipava in misura minima ai profitti della società) lo sfruttavano pretendendo di essere i soli fornitori dei suoi cantieri e praticando prezzi molto più alti di quelli di mercato. Era una tipica questione da affrontare in sede di Commissione, perché riguardava una controversia interna a una famiglia e ne coinvolgeva personalmente il rappresentante, il quale per questa ragione non poteva fare il giudice di se stesso. La protesta di Moncada arrivò tramite Francesco Sorci, capomandamento di Villagrazia di Carini. Sorci era molto interessato a sostenere la lamentela di Moncada, perché si trovava in cattive acque dal punto di vista finanziario. Pagina 58


Addio Cosa Nostra..txt Aveva capito che il costruttore voleva liberarsi completamente dei La Barbera ed era pronto a cadere nelle braccia di chiunque fosse forte quanto loro. Sorci sapeva che, se Moncada fosse riuscito a liberarsi dei La Barbera, per lui sarebbe stato come una manna dal cielo e sosteneva con forza le sue richieste che consistevano nel mantenere invariate le forniture di materiali effettuate fino a quel momento con la società dei La Barbera, ma con i prezzi ridotti a quelli vigenti sul mercato, e lasciando libero il costruttore di assegnare altre commesse a chiunque fosse di suo gradimento. La richiesta era ineccepibile. Moncada aveva ragione. Cosa Nostra riconosceva senza riserve la libertà ai suoi associati di mettersi in affari tra loro e con elementi estranei. Non si poteva obbligare un uomo d'onore a comprare e vendere nulla da chicchessia. La libera iniziativa era pienamente accettata, salvo che non urtasse contro interessi consolidati di altri uomini d'onore o che si svolgesse in settori «disonorevoli» come l'usura o la prostituzione. La Commissione tendeva a non intervenire nella sfera degli interessi economici, a meno che non si verificassero litigi come quello in corso o nel caso occorresse mettere ordine in affari illeciti di vasta portata come il contrabbando tra Napoli e Palermo. Totò Greco mi aveva informato della grossa questione che si stava affrontando in Commissione e io feci il possibile, intervenendo presso alcuni capimandamento miei amici, perché fosse finalmente colpita la tracotanza di Angelo La Barbera. Trovai il terreno già arato. Le passate insolenze di quest'ultimo nei confronti della Commissione avevano indispettito la maggioranza dei suoi membri, i quali aspettavano soltanto un'occasione come quella per dargli una lezione. Pensavo che Angelo La Barbera non avrebbe accettato il verdetto dell'organismo e prevedevo anche che la Commissione, da parte sua, non sarebbe mai tornata sulle proprie decisioni e avrebbe stabilito una punizione adeguata per il ribelle. Fu indetta una riunione per discutere il caso e Angelo La Barbera ricevette tramite il fratello Salvatore un formale invito a essere presente. Angelo rifiutò di partecipare motivando il suo diniego con la scusa di non conoscere le ragioni di quella riunione e lasciando così Salvatore in uno stato di grave imbarazzo. Incontrai Angelo e tentai di indurlo a riflettere sulla situazione pericolosa che andava creandosi intorno a lui. L'incontro si trasformò quasi subito in uno scontro, nel corso del quale fui costretto ancora una volta a difendere l'autorità della Commissione. In ogni caso, insistetti energicamente con lui perché cercasse di ottenere un altro appuntamento nel quale esporre le sue ragioni e mi adoperai per convincere i miei amici in Commissione a invitarlo ancora una volta. Il mio scopo consisteva solo nel farlo scendere dal piedistallo di superbia sul quale si era collocato e renderlo più innocuo e più umano. Facevo tutto questo per amicizia nei confronti di suo fratello Salvatore e per compassione per lo stesso Angelo. Non desideravo la sua morte, i cui passi sentivo avvicinarsi dopo ogni suo rifiuto di riconoscere l'autorità della Commissione. Alla fine la riunione fu indetta e si risolse in un completo fallimento per Angelo La Barbera. Egli si ribellò subito, non appena gli furono prospettate le prime richieste inerenti il caso Moncada, ripetendo caparbiamente che non permetteva che negli affari della sua famiglia si intromettesse nessuno. Scattò allora una delibera della Commissione che gli ingiungeva di dimettersi da capo della famiglia di Palermo perché la carica era incompatibile con l'appartenenza del fratello alla Commissione. Angelo lasciò l'assemblea fingendo di accettare in parte la volontà espressa dall'organismo. Dichiarò infatti che si riservava di decidere assieme al fratello chi dei due si sarebbe dovuto dimettere e che avrebbe comunicato nel più breve tempo possibile alla Commissione il risultato di tale consultazione. Questa scelta di Angelo La Barbera fu foriera di tragici eventi. Una volta allontanatosi dalla riunione, Angelo propose al fratello di dimettersi dalla Commissione e di muoverle guerra assieme a lui. Secondo lui era un organismo composto da veri buffoni. Pagina 59


Addio Cosa Nostra..txt Per incredibile che possa sembrare, lo stesso Angelo, conoscendo l'amicizia che ci legava, chiese al fratello di propormi di associarmi a loro in questa guerra che sarebbe dovuta iniziare colpendo Totò Greco, definito «il capo dei buffoni». Dopo avere registrato il rifiuto e lo sconcerto del fratello, Angelo si decise a chiedermelo personalmente. Gli risposi quello che meritava, e cioè che era un pazzo e che se avesse anche solo accennato ad attuare quanto mi aveva proposto, avrebbe dovuto colpire me per primo, perché sarei stato suo feroce avversario. Angelo rimase interdetto dalla veemenza della mia reazione e per il momento si calmò. Ma la mente di suo fratello Salvatore era ormai sconvolta: da un lato egli non voleva inimicarsi la Commissione dall'altro si rendeva conto che anche le proprie dimissioni da quella assemblea non sarebbero state sufficienti a salvare Angelo dalla morte certa verso la quale si era avviato. Nel tentativo di stare un po' da solo per cercare una soluzione, Salvatore La Barbera partì per un viaggio senza informarmi della sua decisione di allontanarsi. Nello stesso giorno in cui Salvatore partì, il 26 dicembre del 1962, due fucilate uccisero un membro della Commissione, Calcedonio Di Pisa, mentre usciva da una rivendita di tabacchi gestita dal capo della sua famiglia, la famiglia della Noce. La Commissione si riunì subito e vennero formulate e vagliate varie ipotesi sull'accaduto. La prima si riferiva a una controversia avvenuta poco tempo prima tra me e Di Pisa. Il quale, avvalendosi di quella direttiva per il riordino dell'appartenenza alle famiglie che consentiva il trasferimento di un parente nella famiglia di un congiunto, aveva chiesto che un uomo d'onore di Porta Nuova, Rosario Anselmo, passasse nella sua. Io mi ero opposto e avevo fatto sapere a La Barbera che disapprovavo il comportamento di Di Pisa. Ero contrario al trasferimento perché Anselmo era stato offeso e deriso da un membro della famiglia della Noce che si era rifiutato di acconsentire che sua sorella lo sposasse. Da qui un mio conto in sospeso con Di Pisa che avrebbe potuto costituire un movente per l'omicidio. Questa ipotesi venne scartata perché ritenuta troppo debole e se ne affrontò un'altra. Gaetano Filippone, nipote del mio vecchio capo, era entrato in disputa con Di Pisa per l'acquisto di un palazzo in stato fallimentare. La lite era diventata violenta in quanto Filippone - mio intimo amico e fratello della mia stessa famiglia - aveva avviato per primo le trattative con il proprietario del palazzo. Di Pisa era subentrato in un secondo momento come fattore di disturbo e da qui la reazione di Filippone. Si era sparsa la voce che c'erano addirittura alcuni testimoni che avevano visto Filippone sporgere le canne del fucile fuori dal finestrino di un'automobile per sparare a Di Pisa. Si cominciò allora a verificare questa pista e nel frattempo io partii per il Nord e per l'estero. Non facevo parte della Commissione, non ero rappresentante di una famiglia e non ero pertanto obbligato a stare in loco per discutere e indagare. Prima di partire ero andato da Totò Greco, latitante nella tenuta di Nino Sorci, e lo avevo informato della mia intenzione di andarmene. Gli avevo lasciato i miei numeri di telefono di Milano, dicendogli che in caso di necessità non avrebbe dovuto fare altro che chiamarmi e io sarei rientrato immediatamente. Mi recai in Olanda e poi mi fermai a Milano, dove avevo costituito una società per l'importazione del burro con due soci settentrionali, uno dei quali diceva di essere nipote di Guglielmo Marconi, l'inventore della radio. Non ricevetti alcuna chiamata e la mia permanenza a Milano si protrasse per dieci-quindici giorni. Si era nelle prime settimane del gennaio 1963 e un giorno incontrai Gerlando Alberti, noto uomo d'onore e mio caro amico che si trovava in compagnia di Salvatore Catalano, mafioso della famiglia di Ciminna, cugino dell'uomo d'onore appartenente alla famiglia Bonanno. Dopo esserci scambiati i saluti, Alberti domandò rivolgendosi a Catalano: «Salvatore, perché non dici a Masino del gran casino che sta succedendo a Pagina 60


Addio Cosa Nostra..txt Palermo?». «No, no. Non posso. L'ho detto a te ma non avrei dovuto.Ti ho confidato una cosa che non dovevo dirti. Perciò ti avevo pregato di tenertela per te. Non lo dico per sfiducia nei confronti di Masino, ma si tratta di un segreto del quale non dovevo parlare. Potrebbero chiamarmi a rendere conto di questa scorrettezza e sapete bene quanto mi potrebbe costare» rispose Catalano preoccupato. «Conosco bene Masino e mi fido ciecamente di lui. Non rivelerebbe mai una confidenza che potrebbe mettere nei guai un amico e un fratello. E anche tu lo conosci e sai bene che è una persona seria. Digli quello che sai, e non avere paura» insistette Alberti. «Va bene» sbottò Catalano liberandosi di un grave peso. «Le cose stanno così. Salvatore La Barbera è stato convocato a una seduta della Commissione. Lui ci è andato tranquillamente, senza pensare che poteva succedergli qualcosa, ed è stato ammazzato sul posto. Adesso stanno cercando te, Masino, e anche Angelo La Barbera per farvi fare la stessa fine. Loro pensano che tutti e tre siete responsabili della morte di Calcedonio Di Pisa.» Rimasi allibito. Pensai che fossero impazziti. Oppure che Catalano stesse scherzando. Ma la sua faccia era seria e tradiva la paura delle conseguenze che potevano derivare dalla rivelazione appena fatta. Com'era possibile - pensai - che nessuno mi avesse avvertito, neppure Totò Greco che aveva la possibilità di rintracciarmi? E perché condannarmi senza darmi la possibilità di difendermi, di discolparmi davanti a loro, di spiegare la mia posizione? La Commissione non era stata concepita proprio per evitare di prendere decisioni avventate e di colpire, come in questo caso, una persona innocente? «Ho capito. Devo tornare subito a Palermo. Mi presenterò davanti alla Commissione e li obbligherò a toccare con mano la grande fesseria che hanno intenzione di fare. Ti ringrazio in ogni caso, Salvatore, di avermi avvertito. Per quanto ti riguarda, puoi stare tranquillo. Farò finta di non sapere niente» affermai congedandomi. «Non andare a Palermo per nessuna ragione» insistettero i miei interlocutori. «Rimani qui e nasconditi fino a quando le cose non si saranno chiarite. Non diremo a nessuno che ti abbiamo visto. Ma non tornare a Palermo. Ti uccideranno. L'hanno deciso e non perderanno la faccia rimangiandosi la decisione.» Partii immediatamente con il primo volo disponibile e atterrai a Catania. Gerlando Alberti non mi lasciò andare da solo e mi seguì, da vero amico qual'era sempre stato. All'aeroporto incontrammo due soldati della mia famiglia che avevamo avvertito per telefono del nostro arrivo e che ci portarono in macchina a Palermo. Qui mi incontrai con gli amici più stretti della famiglia, i quali mi confermarono le parole di Catalano e tentarono di farmi desistere dall'idea di affrontare la Commissione. Vidi anche Gioacchino Pennino, il quale fu dello stesso parere degli altri miei amici. Questo giro di ricognizione aveva uno scopo preciso. Volevo accertare fino a quale punto Totò Greco - il mio fraterno amico Totò Greco, segretario della Commissione - era coinvolto nella condanna emessa contro di me. La risposta di Pennino fu che Totò era il solo uomo d'onore che non aveva perso la testa nel clima isterico che si era creato dentro Cosa Nostra in conseguenza dell'assassinio di Di Pisa. Secondo Pennino Totò era molto titubante di fronte alle accuse che mi venivano rivolte, ma anche lui aveva commentato in modo sfavorevole la mia partenza dopo la morte di Di Pisa. Totò Greco sosteneva che in un'occasione precedente mi ero comportato diversamente. Quando era stato ucciso Giuseppe Riccobono mi trovavo a Rimini, in ferie, Pagina 61


Addio Cosa Nostra..txt assieme allo stesso Totò Greco e mi ero precipitato con lui a Palermo per fare in modo che la Commissione vendicasse adeguatamente la morte di un uomo d'onore. In base a questa valutazione, Totò sospettava che il disinteresse da me mostrato per le conseguenze dell'omicidio di Di Pisa fosse dovuto al fatto che avevo qualcosa da nascondere. Il discorso di Pennino fu come un fiammifero acceso nella notte. Mi fece intravedere una lontana possibilità di uscire vivo da una vicenda estremamente ingarbugliata. A ciò si aggiunse presto un altro spiraglio. Appresi che era venuta meno una delle prove contro di me per la faccenda Di Pisa. Era stato accertato che la controversia tra quest'ultimo e Filippone per comprare il palazzo in stato fallimentare si era risolta a favore di Filippone. Era così venuto a mancare il movente per l'omicidio. Non c'era ragione da parte di Filippone - e da parte mia, in quanto notoriamente molto legato a lui - per uccidere Di Pisa. Spedii Pippo Calò da Totò Greco per fargli fissare nel più breve tempo possibile un incontro con la Commissione. La seduta fu convocata per il giorno seguente. Avevo chiesto una riunione a scadenza ravvicinata perché non volevo dare il tempo alla gente della mia famiglia di organizzarsi a mio sostegno. Da diversi segnali avevo dedotto che sarebbero stati tutti al mio fianco se avessi deciso di muovere guerra alla Commissione. Ma sarebbero stati anche decimati in uno scontro impari, senza speranza, nel quale non volevo coinvolgerli. Contavo di poter provare la mia innocenza. Nessuno meglio di me poteva sapere quanto ero estraneo all'omicidio in questione. Avevo pensato e ripensato, prima di comparire davanti alla Commissione, alle argomentazioni che avrebbero potuto usare contro di me e mi ero preparato le obiezioni. Quando me li vidi tutti di fronte esordii dicendo: «Vi ringrazio per avermi consentito di venire qui davanti a voi. Vi ringrazio anche per il tempo che avete deciso di spendere per ascoltare le parole di un uomo d'onore che conoscete da parecchi anni e che vi dimostrerà di non avere agito male. Prima di esporvi le mie ragioni, intendo premettere che non sono armato. Sono venuto qui senza un'arma addosso contrariamente alle mie abitudini, che molti di voi conoscono. Ho anche dato disposizioni alla famiglia di Porta Nuova perché non reagisca in alcun modo se Tommaso Buscetta non ritorna da questa seduta. Sono certo che non prenderete una decisione così grave se non sarete sicuri della mia colpevolezza. Vi conosco uno per uno e so che non siete persone superficiali e influenzabili, che agiscono d'impulso». Proseguii affermando di non avere dato ascolto alle pressioni di chi mi aveva sconsigliato di presentarmi lì. «Ho subìto la penosa esperienza di vedere gente piangere nel momento di salutarmi prima di arrivare qui. Ciò mi ha amareggiato in quanto ha significato il fallimento degli sforzi fatti per creare questa Commissione. Essa doveva essere fonte di deliberazioni sagge, apprezzate dalla gente di Cosa Nostra, e non diventare una minaccia per chi è sicuro di comportarsi correttamente. Sono stato tra i fondatori della Commissione. Continuo a credere che essa serva per evitare sbagli gravi e che ci si debba presentare davanti a essa senza timore di dire la verità. La prova di ciò è la mia presenza qui davanti a voi. «Penso di avere diritto in base a ciò che sono stato in Cosa Nostra prima dello scorso dicembre - a discolparmi dalle accuse e dai sospetti che nutrite. Sono pronto a rispondervi. Accetterò il vostro verdetto, qualunque esso sia, da uomo d'onore quale sono sempre stato e ritengo di essere.» Terminai di parlare fissandoli bene a uno a uno. L'espressione di alcuni di loro non prometteva nulla di buono per i miei argomenti. Ma colsi come una luce negli occhi di Totò Greco che ebbe l'effetto di rinfrancarmi. Pagina 62


Addio Cosa Nostra..txt Mi elencarono una serie di circostanze che, secondo loro, inchiodavano Salvatore La Barbera alla colpa di avere commesso l'assassinio di Di Pisa. Avevano accertato che Salvatore era partito da Palermo verso le 5 del pomeriggio, in treno. Ciò era molto sospetto in quanto, prima di allora, non aveva mai usato il treno per andare a Roma. C'era la testimonianza di un soldato della famiglia di Pennino che aveva visto La Barbera in stazione accompagnato da due uomini d'onore. Salvatore, inoltre, si era allontanato senza avvisare il resto della Commissione, com'era dovere di un capomandamento. Poco prima di partire, infine, lo stesso si era scontrato con Di Pisa durante una seduta della Commissione, e la lite aveva avuto origine in una posizione da me assunta e sostenuta con energia da Salvatore. Siccome tutti sapevano che il migliore amico di Salvatore La Barbera ero io, la responsabilità di quanto era accaduto era stata estesa a me, perché creduto complice, o perlomeno al corrente, dei piani di Salvatore. Non potevo difendere Salvatore dalla prima parte delle imputazioni perché non avevo argomenti da opporre, ma venni informato che i due uomini d'onore visti assieme a lui nel momento della partenza avevano smentito di averlo accompagnato. Ero comunque in grado di controbattere validamente al resto delle accuse. Ma in realtà ero molto travagliato. Da un lato ripensavo alle intenzioni di muovere guerra alla Commissione espresse da Angelo La B,arbera, e mi domandavo se Salvatore non avesse alla fine capitolato schierandosi con il fratello. E senza dirmi nulla. Dall'altro, pesava la mia fiducia incondizionata in Salvatore: egli non poteva essersi lanciato in un'avventura così sconsiderata senza avvertirmi. Invece di rispondere, fui io a rivolgere una domanda alla Commissione: «Fratelli uomini d'onore. Non mi pare che abbiate molto contro di me. Se non volete condannare come i tribunali che stanno fuori di qui, e cioè senza prove e in modo forzato, tanto per indicare un colpevole, dovete trovare chi ha ucciso davvero Calcedonio Di Pisa. Adesso consentitemi una domanda. Che fine ha fatto Salvatore La Barbera?». Dovevo uscire dalla stretta in cui mi trovavo e dimostrare di non conoscere quanto mi era stato riferito a Milano. «Sei qui per discolparti e non per accusare! Sei sospettato di avere ammazzato Di Pisa per vendetta. Per motivi tuoi, dei quali non vuoi parlare perché hai paura della nostra reazione!» gridò Nino Matranga, agitandosi sulla sedia. Osservai di nuovo la scena. Totò Greco, Nino Salomone, Francesco Sorci e qualche altro stavano facendo segni di disapprovazione nei confronti di Matranga. «Se avessi temuto la vostra reazione, non sarei tornato da Milano e non vi avrei chiesto di ascoltarmi. A questo punto, però, devo chiedere a Totò Greco se in questo momento sono un uomo d'onore nel pieno dei suoi diritti o se sono "posato"», (cioè sospeso dalla propria appartenenza e dai propri obblighi a Cosa Nostra,) ribattei con voce calma. «Non sei posato. Sei un uomo d'onore a tutti gli effetti e ti stiamo trattando come tale» rispose Greco un po' imbarazzato. «Se è così, non è vero che mi state trattando correttamente. E non permetto a Matranga di rivolgersi a me in questo modo. Sono gli sbirri che parlano così e non certo gli uomini d'onore.» Scandii bene le ultime parole e Matranga avvampò per la rabbia. «Basta. Fermiamo qui la lite! Non consento che si prosegua con questo andazzo. Masino, smettila di usare queste espressioni. Qui non ci sono sbirri. Adesso cerchiamo di proseguire in pace. Invito tutti a stare calmi. La Commissione deve ragionare a mente fredda» ammonì Totò Greco riportando il silenzio nella stanza. «E venuto il momento di dirvi che giuro sul mio onore di non avere partecipato all'uccisione di Di Pisa. Giuro che non ho saputo nulla di preparativi o di progetti al riguardo e non ho mai saputo niente neppure del viaggio di Salvatore La Barbera. Se non credete a queste dichiarazioni, uccidetemi qui e subito! Dopo vi accorgerete che non avete risolto nulla.» Mi sfogai guardando in direzione di Pagina 63


Addio Cosa Nostra..txt Totò Greco e delle altre persone che ritenevo amiche. I loro volti tradivano disagio e incertezza. Pensai che l'incontro fosse sul punto di concludersi, ma Mariano Troia, compare di Matranga e persona altrettanto sgradevole, prese la parola: «Che cosa hai fatto a Milano? Ti sei occupato del tuo lavoro dalla mattina alla sera, oppure hai trovato il tempo di fare anche altre cose?». «Stavo lì per lavorare e non per divertirmi. Ma non capisco cosa c'entra questa domanda con le cose serie di cui ci stiamo occupando» ribattei irritato. «Ci puoi dire in quale albergo hai dormito? Siamo curiosi di saperlo. Così quando andiamo a Milano noialtri, sappiamo dove passare la notte» continuò Troia, guardandosi intorno e ammiccando maliziosamente ad alcuni degli astanti. «Guarda che ho capito dove vuoi arrivare, e potrei non risponderti, o risponderti come merita una domanda del genere. Ma non sono venuto qui per litigare, bensì per confrontarmi con uomini d'onore miei pari. Visto che sei così interessato, ti dico che ho dormito dove mi è capitato, in case di amici e in alberghi. E ti avverto che quello che ho fatto di notte non è affare né tuo né di nessuno.» Era chiaro che avevo di fronte un sicuro nemico. Dal momento che non erano riusciti a incastrarmi sulla questione dell'omicidio del capomandamento, Troia voleva mettermi in cattiva luce insinuando che mentre i fratelli di Cosa Nostra erano in subbuglio a causa di un fatto gravissimo, io me la spassavo lontano tra alberghi e donne. «Masino ha ragione. Le faccende di letto sono cose personali. Se non si tratta di comportamenti immorali, sono questioni che non devono interessare gli uomini d'onore» obiettò Totò Greco. E aggiunse: «Credo in pieno alla tua parola, Masino. E sono sicuro che tutti i presenti la pensano come me. L'accusa che ti è stata rivolta è infondata. Non hai alcuna responsabilità per l'assassinio di Di Pisa». Mi sentii rivivere. Sentii l'ossigeno ritornarmi nei polmoni e fui preso da un intenso trasporto per gli uomini che mi stavano davanti, per Cosa Nostra e per quello che significava. Ma Greco proseguì: «Ora ti devo porre, a nome della Commissione, una richiesta. Cerca Angelo La Barbera e fallo scomparire dalla faccia della terra. Sei il più capace di scovarlo, perché quel verme si trova sicuramente fuori Palermo, nei posti che tu conosci meglio di chiunque di noi». Il sangue mi salì agli occhi. Ero stato perdonato solo perché potevo rintracciare Angelo La Barbera. I miei discorsi, i miei diritti di uomo d'onore in realtà non erano stati presi in considerazione. Mi volevano usare per proseguire nella loro stupida vendetta contro la gente sbagliata. «Non accetto la vostra richiesta. Anche se è un ordine, mi rifiuto di eseguirlo. Se è vero quanto ha appena detto Totò Greco, e cioè che non mi credete colpevole dell'omicidio di Di Pisa, allora non devo fornire alcuna prova di fedeltà. Non devo scontare alcuna punizione. Non andrò a cercare La Barbera! » dissi con voce alterata, e notai che parecchie facce si rabbuiavano. Proseguii rincarando la dose: «Mi rifiuto di fare come dite perché non siete credibili. Avete condannato a morte Salvatore La Barbera senza alcuna prova seria. Avete agito con una leggerezza che non è degna di uomini d'onore. E mi avete accusato usando lo stesso metro. Adesso volete eliminare Angelo La Barbera senza alcuna giustificazione! In un altro momento sarei stato felice di accettare un incarico come questo perché, come tutti sapete, ho sempre detestato Angelo. Ma vi ripeto che non eseguirò quanto mi chiedete! A costo di finire ammazzato qui, come il mio amico Salvatore! ». Scoppiò un pandemonio. Si alzarono tutti in piedi gesticolando e urlando, e alcuni mi vennero quasi addosso per insultarmi più da vicino. Salvatore Greco si mise in mezzo e mi tirò in disparte. «Sei impazzito? L'aria di Milano ti ha stravolto il cervello! Non puoi parlare così a gente come questa. Ti rendi conto che sei di fronte alla Commissione di Cosa Nostra? E gente che ti Pagina 64


Addio Cosa Nostra..txt può schiacciare come una nocciolina per molto meno di quello che hai detto! Chiedi scusa immediatamente, altrimenti non sarò in condizione di salvarti.» Non avevo mai visto Totò Greco così preoccupato. «I pazzi siete voi perché vi rifiutate di ragionare e avete commesso una grandissima ingiustizia uccidendo Salvatore. Tu sai bene quanto eravamo amici. Lui non mi ha mai parlato della sua intenzione di sbarazzarsi di Di Pisa. Lo volete capire o no che i La Barbera non c'entrano? Se vi è rimasto un pizzico di intelligenza, chiudete questo capitolo e battete altre strade» replicai con voce via via più calma, confidando nel raziocinio di Totò, il quale dette segno di essere d'accordo e mi chiese, dopo avere scambiato un cenno d'intesa con gli astanti, di uscire dal la stanza e di aspettare fuori. Dopo pochi minuti, mi chiesero di rientrare. Totò Greco mi comunicò il verdetto dell'assemblea: da quel momento in poi dovevo ritenermi espulso da Cosa Nostra assieme a tutta la mia famiglia, considerata responsabile del mio comportamento. La punizione nei miei confronti derivava dalla mia disobbedienza a un preciso ordine della Commissione. Era la soluzione più bizzarra e imprevedibile che la vicenda potesse avere. E anche molto dannosa per la mia posizione. Non mi restava altro da fare che organizzare una riunione e tentare di spiegare ai miei fratelli quanto era successo. Feci così, e invitai i convenuti a non reagire, a non imbarcarsi in colpi di testa e ad accettare la decisione sperando in un chiarimento che sarebbe arrivato dai fatti. La loro rabbia fu grande. L'espulsione comportava la cessazione di ogni rapporto con Cosa Nostra. Implicava il divieto di menzionarla nelle conversazioni con altri uomini d'onore, ai quali non si doveva neppure rendere un saluto negli incontri per strada. Il capofamiglia di Porta Nuova, Gaetano Filippone, si dimise. Io insistetti perché non venissero indette le elezioni, in quanto questo sarebbe stato interpretato come una sfida dalle altre famiglie. Poco tempo dopo questa riunione, mi allontanai nuovamente da Palermo. Mi recai in diversi posti e durante i miei spostamenti appresi che la Commissione si era intestardita nella ricerca di Angelo La Barbera e aveva diramato una richiesta in tal senso a tutte le famiglie siciliane. A Roma incontrai Angelo e gli feci subito le condoglianze per la morte del fratello però, dopo le prime frasi di circostanza, lui mi disse che aveva intenzione di uccidere tutti i membri della Commissione e mi chiese di seguirlo nell'impresa. «Ti ho già proposto questa cosa tempo fa e non mi hai voluto ascoltare. Adesso io mi trovo senza fratello. Tu ti trovi senza un caro amico e senza più seguito in Cosa Nostra perché ti hanno sciolto la famiglia, e senza futuro, perché quegli imbecilli non cambieranno mai idea. Se mi aiuti a distruggerli, vendicherai la memoria di Salvatore e tornerai a essere forte come prima» argomentò Angelo cercando di fare leva sul mio risentimento. «Nella Commissione ci sono alcuni imbecilli. E vero» risposi. «Ma ci sono anche molti veri amici che non mi sento di tradire o di combattere.» «Che begli amici! Prima ti ammazzano l'amico e poi ti cacciano da Cosa Nostra! Va bene. Se ti rifiuti di capire, vuol dire che farò da solo» replicò Angelo in tono beffardo e con un po' di ragione. Evitai di proseguire il discorso su quell'argomento e lo condussi su un punto che mi stava molto a cuore: «Senti, Angelo. Parlami chiaramente. Che cosa aveva a che fare Salvatore con Di Pisa?» «Niente. Come me, del resto. Non ero neppure a Palermo quel giorno» rispose Angelo senza la minima esitazione. Mi sembrò sincero. Chiesi allora ai presenti (tre uomini d'onore della famiglia di Palermo centro, tra cui i due che avevano accompagnato Salvatore in stazione) di spiegarmi perché quest'ultimo era partito per Roma. La loro risposta- per me che conoscevo già i particolari - fu esauriente. Pagina 65


Addio Cosa Nostra..txt Salvatore se n'era andato perché voleva stare da solo e riflettere sulla decisione da prendere a proposito dell'incompatibilità tra la sua carica e quella del fratello. Aveva anche chiesto ai due uomini d'onore che erano andati con lui fino al treno di non fare parola con nessuno, neppure con Angelo, del suo viaggio. Pensai ancora una volta che questa decisione era costata molto cara al mio amico. Cercai senza molta convinzione di persuadere Angelo a presentarsi davanti alla Commissione e spiegare tutto e alla fine ci separammo senza avere raggiunto alcun accordo. Angelo La Barbera se ne andò tranquillo pur sapendo che ero a conoscenza della sua presenza a Roma. Si fidava di me. Era consapevole che il giorno in cui gli fossi diventato nemico lo avrebbe saputo. Non tentai più di rivederlo Mentre mi congedavo da lui, avevo avuto l'impressione che la sua frustrazione più che dalla perdita del fratello fosse provocata dal colpo che essa aveva inferto al suo prestigio. Alcuni giorni dopo lessi sul giornale che era saltata in aria la casa di Totò Greco. Qualcuno aveva parcheggiato un'autobomba davanti all'ingresso. Contemporaneamente, era esplosa un'altra bomba nei pressi della casa di Giovanni Di Peri, sottocapo della famiglia di Villabate. Rimasi interdetto: l'attentato alla residenza di Totò Greco non aveva senso, perché tutti sapevano che Totò era scapolo e latitante e pertanto la casa non poteva essere abitata. Mi venne quindi il sospetto che la bomba fosse stata fatta esplodere solo per attirare l'attenzione della polizia. Rientrai subito a Palermo e andai a trovare Nino Sorci, poiché sapevo che così facendo avrei incontrato Totò Greco, il quale mi ricevette con molta cortesia, trascurando la mia condizione di espulso, ma mi rimproverò ancora una volta di non averlo aiutato nella caccia a La Barbera. «Pensa che questo pazzo» mi disse «è arrivato al punto di mettere una bomba nella mia casa vuota! Come se non sapesse che sono latitante! Lo ha fatto per fare casino. Per fare parlare i giornali e per farci arrivare addosso un'altra volta gli sbirri!» Totò era teso e agitato. Non era il momento di contraddirlo. Occorreva prima calmarlo e farlo riflettere bene su quanto stava succedendo. «Siamo in mezzo alla baraonda, Totò. Forse è meglio che mi fermi qui con te per un paio di giorni. Se sei d'accordo, possiamo riesaminare l'intera situazione e trovare una spiegazione e una via d'uscita.» Gli feci questa proposta, contando sulla mia reputazione di persona capace di ragionare bene sui problemi, i quali, durante la mia assenza, si erano moltiplicati. C'erano stati, infatti, numerosi omicidi alcuni dei quali erano stati ordinati dalla Commissione contro gente ritenuta seguace di La Barbera e altri effettuati in modo tale da essere attribuiti ad Angelo. Una di queste uccisioni mi riempì di tristezza. Era stato eliminato Bernardo Diana, sottocapo di Stefano Bontade. Diana era venuto con me in Argentina nel 1955 ed era un uomo molto ben considerato in Cosa Nostra per i suoi modi da gentiluomo. Eccone un esempio. Una volta Diana partecipò a un sequestro di persona ai danni dell'industriale oleario Taormina. Dopo che il riscatto fu pagato e l'ostaggio liberato, Diana, che era stato il guardiano di Taormina, non volle essere pagato dai suoi compagni. Era diventato troppo amico del sequestrato, il quale, dal canto suo, qualche tempo dopo gli chiese di fare da testimone al suo matrimonio. Per alcuni giorni rimasi assieme a Totò Greco, che mi fornì i dettagli degli ultimi avvenimenti. Esaminammo più volte, alla luce di varie ipotesi, quanto era accaduto. Totò si convinse ancora di più - nonostante la mia opinione contrariadella responsabilità di La Barbera. Gli feci presente che alcuni indizi potevano portare nella direzione dei tre capifamiglia che si erano rifiutati di dimettersi dopo la loro nomina a capimandamento. Si trattava di Matranga, Troia e Motisi, i quali si erano molto lamentati con alcuni loro colleghi che invece si erano dimessi per entrare nella Commissione. Pagina 66


Addio Cosa Nostra..txt La misteriosa spaccatura della mafia a Palermo poteva essere attribuita a loro. Ci lasciammo senza avere modificato i nostri rispettivi punti di vista. Subito dopo fui costretto a deludere le aspettative dei componenti della mia famiglia, i quali avevano sperato che i miei lunghi colloqui con Totò Greco avrebbero portato una schiarita nella loro posizione. Dovetti inoltre metterli in guardia dalle voci malevole che li accreditavano come seguaci occulti di Angelo La Barbera e dei suoi folli propositi di guerra. In quei giorni fui contattato da Leopoldo Cancellieri, che mi disse che Angelo La Barbera voleva un appuntamento con me. Corsi da Salvatore Greco e gli chiesi l'autorizzazione all'incontro, nonché la garanzia che in tale circostanza ad Angelo non venisse torto un capello. Totò in un primo momento mi negò il permesso, ma in seguito alle mie insistenze riunì la Commissione che diede il nullaosta all'appuntamento. Fissai l'incontro in casa di un uomo d'onore che era cognato di Carlo Gambino (il mafioso italo-americano) perché ne aveva sposato la sorella. I fratelli di Carlo Gambino venivano in Italia d'estate e soggiornavano in quella abitazione assieme ai parenti siciliani. Il cognato era capodecina della famiglia del Borgo, guidata da Cancellieri. L'appartamento si trovava in un palazzo di corso Olivuzza, al quinto piano del quale abitavo io stesso assieme a moglie e figli. Il luogo non era stato scelto a caso. Volevo mostrare a La Barbera che le sue parole sarebbero state ascoltate in un clima amichevole. La Barbera arrivò puntuale assieme a due altri uomini d'onore, Stefano Giaconìa e un consigliere della sua famiglia, un certo Accardi. Oltre a me e al padrone di casa, c'erano il mio ex rappresentante Gaetano Filippone, Gioacchino Pennino con il suo vice Rosario Mancino e il suo capodecina Pietro Davì, e Leopoldo Cancellieri con il suo vice. La Barbera non perse tempo. Iniziò una violenta filippica contro la Commissione e lanciò nuovamente le solite minacce di morte contro tutti i suoi membri. Poi aggiunse: «Sono tutti buffoni e in malafede. Altrimenti non avrebbero consentito ai tre capifamiglia, a Matranga, Troia e all'altro, di disobbedire alla regola che valeva per tutti gli altri. Perché non li hanno ammazzati, visto che si ribellavano? E perché mio fratello non è tornato vivo dalla seduta? Perché due pesi e due misure? Rispondimi, Masino. Rispondimi tu, che fai tanto il ragionatore e parli sempre di Commissione e di regole!». «Perché hai ucciso Bernardo Diana?» ribattei a bruciapelo. «Perché hai messo le bombe a casa di Totò Greco e di Di Peri?» La Barbera cambiò espressione. Divenne paonazzo e si mise a gridare: «Sono accuse infamanti! Non ho fatto niente di tutto questo! Confermo che voglio distruggere tutti quei farabutti della Commissione, ma non con le bombe. Nessuno si deve permettere di pensare che ho a che fare con le bombe e con la morte di Diana. Chi ha commesso quelle azioni è un cornuto e uno sbirro». Mi bastarono queste parole per capire che La Barbera stava dicendo la verità. Se fosse stato l'autore degli attentati, avrebbe detto che era stato giusto farli. Era troppo pieno di sé per darsi del cornuto e dello sbirro. In quel momento Cancellieri e Filippone ebbero l'idea infelice di chiamarmi da parte per suggerirmi di chiudere l'incontro perché sembrava una perdita di tempo. Non credevano a La Barbera. Ribattei irritato che loro lo conoscevano quanto me e che, se erano convinti già prima che avrebbe mentito, avrebbero dovuto cancellare l'appuntamento. Quando rientrai nella stanza dove si svolgeva l'incontro, vidi Angelo La Barbera, Giaconìa e Accardi in piedi. Angelo aveva la pistola in pugno e stava minacciando i presenti. «Chiunque fa una mossa è un uomo morto!» Accardi gli era vicino e cercò di farlo desistere, ma ricevette un violento spintone che lo fece cadere a terra. Allora La Barbera si rivolse a tutti noi. «Adesso me ne vado. Guai a chi prova a fermarmi. Giaconìa è imbottito di tritolo. Se vedo un movimento sbagliato, lo faccio saltare assieme a tutto il palazzo.» Pagina 67


Addio Cosa Nostra..txt Impazzii per la collera nei confronti di quell'incosciente criminale che non si preoccupava delle vite innocenti che metteva in pericolo. Non gliene importava niente dei miei bambini che stavano giocando sopra le nostre teste. Questo era il ringraziamento per averlo trattato da amico. Feci per scagliarmi contro di lui, ma fui bloccato da Pietro Davì che mi afferrò da dietro la schiena impedendomi ogni movimento. «Pazzo delinquente!» urlai a La Barbera che stava dirigendosi verso l'uscita assieme ai suoi uomini. «Ricordati che d'ora in poi non sarà più la Commissione ad ammazzarti. Sarò io che ti rintraccerò in qualunque parte del mondo tu vada a rifugiarti e ti ammazzerò come un cane! » Chiuso l'incidente, mi toccò il compito amaro di visitare Totò Greco per riferirgli quanto era accaduto. La sua reazione fu piena di sarcasmo. «Bravo, Masino. I miei complimenti. Hai chiesto il permesso di conferire con quel degenerato. Sei stato autorizzato, nonostante io fossi contrario fin dal primo momento. Ti sei visto con lui, e non solo non hai combinato nulla, ma hai rischiato di far saltare in aria un edificio con dentro uomini d'onore e famiglie di gente di riguardo, inclusa la tua. Ora chi ci va in Commissione a prendersi gli sberleffi? Ci va il tuo fedele amico "Cicchiteddu".» «Non ti chiedo di farmi da parafulmine, Totò» replicai. «Sono venuto per dirti che accetto l'incarico di uccidere Angelo La Barbera. Non voglio che si sappia, però. Non devi riferire nulla alla Commissione, né a nessun altro. Non mi fido. Anche perché sono convinto più che mai che le bombe e gli omicidi non provengono da La Barbera. Sono opera di qualcun altro. Stai molto attento, perciò. Finché non lo scopriremo, non potremo essere sicuri.» Il resto della vicenda credo sia noto. Qualche tempo dopo, il 24 giugno 1963, La Barbera fu gravemente ferito a Milano, ma non da me, che pure lo stavo cercando. Per me la storia con La Barbera si chiuse con il suo ferimento. Era inutile infierire su un individuo ormai fuori gioco, espulso dalla Commissione, abbandonato dagli amici, isolato. Angelo riuscì comunque a sopravvivere alla guerra del 1962, 63, ma fu cacciato nuovamente nel 1970. E interessante notare come Angelo La Barbera abbia coinvolto nella sua disgrazia anche la famiglia che comandava. L'espulsione del 1970 fu per lui definitiva e in quella circostanza si decise di cancellare dalla mappa di Cosa Nostra la borgata da lui controllata, che coincideva con il centro di Palermo. Quel territorio non doveva più avere una famiglia e i componenti rimasti, come Stefano Giaconìa, Ignazio Gnoffo e altri, furono aggregati in una decina della famiglia di Stefano Bontade. Nel 1978 quest'ultimo decise, in accordo con la Commissione, di concedere il diritto di autodeterminazione alla decina composta dagli ex membri di Palermo centro, consentendole di rioccupare il vecchio territorio. Gnoffo venne eletto rappresentante e fu poi ucciso nella guerra mafiosa del 1981. Giaconìa era stato strangolato tempo prima da Stefano Bontade, il quale non sopportava di vedere che egli aveva acquisito le stesse abitudini di Angelo La Barbera. Ma torniamo alle vicende palermitane. Il giorno seguente il tentato assassinio di La Barbera rientrai in Sicilia per risolvere la bega tra la mia famiglia e la Commissione. Il processo mafioso contro Porta Nuova fu «revisionato» e il provvedimento di espulsione fu ritirato. Tuttavia in quei giorni fui assalito da una profonda nausea per il mondo in cui vivevo. Cosa Nostra mi disgustava: il comportamento della sua gente era doppio e nessuno poteva essere sicuro della sincerità di un accordo, di un'amicizia, di una promessa. L'amico di oggi poteva essere l'aguzzino di domani. C'erano le regole e c'era la Commissione, ma le prime venivano violate sistematicamente e la seconda non era riuscita a consolidare la sua autorità Pagina 68


Addio Cosa Nostra..txt fino al punto da fornire tranquillità e protezione effettive a tutti gli uomini d'onore. Continuai a frequentarli, ma considerandoli più amici che «fratelli» mafiosi. Non avevo d'altra parte gente diversa alla quale legarmi. A trentacinque anni mi rendevo conto che il mio destino era ormai definito. Mi tenni fuori, in ogni caso, dalle discussioni interne a Porta Nuova circa il rinnovo degli incarichi. Non avevo voglia di immischiarmi in quelle trattative complicate, interminabili, che assorbivano i giorni e le settimane. In ogni caso, forse anche in seguito al mio distacco dalla vicenda, non si riuscì a eleggere un nuovo capo della famiglia. Quando partii dall'Italia, alcune settimane più tardi, la famiglia di Porta Nuova versava nella anomala situazione di non aver ancora nominato gli organi direttivi. Quasi per ironia della sorte, il mio distacco interiore da Cosa Nostra si verificava nel momento in cui la mia posizione era tornata a essere solida. Anzi, si era rafforzata perfino rispetto ai tempi precedenti la mia espulsione. Le vicende di quei terribili mesi del 1963 mostravano ogni giorno di più che avevo visto giusto nel non considerare valida la «pista La Barbera» (come si direbbe oggi). Ero stato l'unico a non cadere nel tranello diabolicamente messo in piedi dai capi ribelli di cui ho parlato prima, istigati da Cavataio, un malefico uomo d'onore della famiglia dell'Acquasanta. L'uccisione di due soldati appartenenti alle famiglie del «Borgo» e dei «cantieri navali» smascherò Pietro Torretta, rappresentante della borgata dell'Uditore, e con lui il gruppo guidato da Cavataio. Il duplice omicidio andò a segno, ma un terzo soldato che era in compagnia delle vittime sopravvisse e riferì alla Commissione chi ne erano gli autori. Se i fatti si fossero svolti secondo i piani degli attentatori, la colpa dell'accaduto sarebbe ricaduta su di me in quanto le vittime erano in lite con alcuni soldati della mia famiglia, dei quali avevo preso le difese. Matranga e gli altri avevano organizzato questo attentato proprio per colpire me, in quanto mi ritenevano il più pericoloso dei loro avversari in Cosa Nostra perché ero capace di contrastarli individuando le loro tattiche e perché mi consideravano l'ispiratore, l'eminenza grigia di Salvatore La Barbera, Totò Greco e Giuseppe Panno. Adesso era finalmente possibile ricostruire i retroscena di tanti fatti dolorosi che avevano gettato scompiglio nelle nostre file. L'origine della crisi stava nella perdita di potere che alcuni uomini d'onore avevano subìto con la nascita della Commissione. Troia, Cavataio e Matranga erano capi molto influenti e conosciuti. Prima dell'istituzione della Commissione, tutte le famiglie della Sicilia si rivolgevano a loro per qualsiasi problema si verificasse nella loro provincia o nel loro paese. Non c'era uomo d'onore dell'interno che venisse a Palermo e non si recasse da loro come prima tappa della sua visita. Erano gli arbitri, gli interlocutori privilegiati del resto di Cosa Nostra siciliana. La nascita della Commissione aveva fatto cessare tutto questo. La Commissione non proibiva ad alcuno di mantenere e coltivare amicizie e rapporti personali, ma era stata categorica nel riservare a se stessa il compito esclusivo di decidere sui conflitti gravi che scoppiavano all'interno delle famiglie e sui fatti di interesse generale che coinvolgevano la mafia nel suo complesso. Questi capi spodestati finsero perciò di accettare la nuova realtà, ma solo per preparare meglio il loro piano eversivo. Una guerra interna agli altri gruppi di Cosa Nostra avrebbe tra l'altro indebolito famiglie potenti quali Palermo centro, Ciaculli, Porta Nuova e rafforzato le loro. Era un progetto perfido e intelligente, che sarebbe anche potuto andare in porto. Totò Greco si era accorto che stava succedendo qualcosa alle spalle della Commissione, ma attribuiva questi malumori all'influenza di Nino Matranga, uomo sleale e maldicente, su Troia, e confidava di fare accettare, col tempo, le regole della Commissione, non sospettando che ci fosse altro oltre il rancore e il malcontento di quel gruppetto di vecchi mafiosi irriducibili. Angelo La Barbera che aveva lo stesso carattere dei dissidenti e ne aveva compreso le intenzioni lo attaccava e lo scherniva, suggerendogli più volte di Pagina 69


Addio Cosa Nostra..txt farli fuori tutti assieme in occasione di una seduta della Commissione. L'artefice della cospirazione, la vera mente del complotto era Michele Cavataio, rappresentante dell'Acquasanta. Non lo conoscevo bene. Avevo avuto a che fare con lui solo un paio di volte. Gli avevo chiesto, molto tempo prima, di ritirare una richiesta di «pizzo» a un imprenditore mio socio che stava costruendo un palazzo nella sua borgata. Cavataio si scusò spiegando che non era a conoscenza del nostro rapporto di affari e dispose subito che il mio socio non fosse infastidito. In quella occasione fu gentilissimo. Evidentemente non era ancora pronto per le imprese degli anni seguenti. Ci incontrammo una seconda volta per discutere una sua proposta di scambio di omicidi. Più precisamente, si sarebbe dovuta far sparire una persona nel territorio della sua famiglia e ucciderne un'altra nel territorio della mia. Non accettai perché i due casi non si equivalevano. L'omicidio da effettuare su sua richiesta nella mia borgata era collegato a una squallida questione di donne, mentre il soggetto da eliminare nella sua era colpevole di avere attentato, senza giusta causa, alla vita di un membro di Porta Nuova. Cavataio era perciò obbligato a riparare e non si trovava nella condizione di chiedere una cortesia in cambio. Non ebbi più l'occasione di incontrare Cavataio, ma comunque mi resi conto che si trattava di un individuo da tenere a bada e dal quale stare in guardia in ogni circostanza. La diffidenza che nutrivo nei suoi confronti mi ha salvato da una morte sicura. Cavataio era a conoscenza- tramite Troia e Matranga (Manno a un certo punto morì di cancro) dei conflitti che turbavano Cosa Nostra e che di volta in volta venivano discussi in Commissione. Sapeva dell'ultimatum ai fratelli La Barbera circa l'incompatibilità delle loro cariche e dell'attrito tra Calcedonio Di Pisa e Salvatore La Barbera. Era stato lui personalmente - accompagnato da Giuseppe Sirchia - a sparare a Di Pisa, calcolando che la colpa sarebbe ricaduta sui La Barbera e su di me. Nella prima fase del suo disegno tutto andò come aveva calcolato. Una serie di circostanze fortuite si erano accumulate contro i La Barbera e Cavataio poté godersi lo spettacolo delle famiglie che si dilaniavano e dei sospetti di tradimento e di doppio gioco che si insinuavano dovunque. Ma poi la fortuna gli voltò le spalle: il suo gioco demoniaco fu scoperto e arrivò il momento della resa dei conti. Tuttavia, pochissimo tempo prima di essere messi ufficialmente sotto accusa, Cavataio e i suoi fecero in tempo a far esplodere a Ciaculli il 30 giugno 1963 una Giulietta provocando una strage: sette morti tra le forze dell'ordine. Il clamore fu immenso e la polizia fece subito dopo quello che non aveva mai fatto: riuscì a catturare quasi tutti i principali esponenti di Cosa Nostra, ponendo fine a una guerra cruenta che aveva visto da un lato una Commissione ingenua e sprovveduta, e dall'altro un'agguerrita setta di prevaricatori che avevano agito in modo subdolo e fraudolento, mancando solo di poco l'obbiettivo. Il giorno della strage mi trovavo in compagnia di Totò Greco, Gerlando Alberti, Pippo Calò e altri in casa di Andrea Messina. Fin dal primo mattino sapevamo che c'era nell'aria qualcosa di grosso, che riguardava un'auto sospetta, ma non conoscevamo, ovviamente, il luogo e l'ora precisa dello scoppio. Poco tempo dopo la detonazione - che fummo in grado di udire distintamente dal posto in cui ci trovavamo - ci informarono che avevano perso la vita numerosi appartenenti alle forze dell'ordine. Prevedendo una reazione molto forte, quella stessa notte alcuni di noi decisero di allontanarsi dalla Sicilia. Mi recai a Milano assieme a Gerlando Alberti, Gianni Lallicata e Giuseppe Galeazzo. Tentai di convincere Alberti a seguirmi all'estero, ma lui non accettò perché riteneva di non avere sufficienti risorse finanziarie. FUGAIN MESSICO La repressione dopo l'attentato di Ciaculli colpì tutti i componenti della Commissione e tutti gli elementi di maggiore spicco di Cosa Nostra, eccetto Totò Greco, che emigrò in Venezuela, Antonino Salomone, che andò in Brasile, Gaetano Badalamenti e Francesco Sorci, che rimasero a lungo latitanti a Palermo. Furono tempi duri per Cosa Nostra. Pagina 70


Addio Cosa Nostra..txt La Commissione si sciolse e fu ricostituita soltanto nel 1970, dopo la conclusione del processo di Catanzaro, sotto forma di un triumvirato retto da Gaetano Badalamenti, Luciano Liggio e Stefano Bontade. La possibilità di fuggire all'estero mi venne offerta dai miei due soci nella ditta di importazione del burro che avevo messo in piedi a Milano. Erano due ricchi settentrionali che non avevano niente a che fare con la mafia, ma che ne subivano, diciamo così, il fascino. La società era nata su loro iniziativa. Sapevano dei miei agganci a Roma che mi consentivano di ottenere le licenze di importazione e mi avevano proposto di entrare in affari con loro. La cifra necessaria per la mia quota di capitale era tuttavia spropositata, troppo al di sopra delle mie possibilità: 250 milioni, mi dissero col massimo candore. Dovetti ammettere che non disponevo di un capitale del genere e spiegare che mi ritiravo dunque dal progetto. Impegnando tutto ciò che allora possedevo sarei potuto arrivare al massimo a 50 milioni. Mi avevano allora proposto di firmare cambiali a loro vantaggio per un importo equivalente alla differenza della mia quota di capitale sociale da versare. Rifiutai di nuovo, temendo di non poter onorare in futuro un debito così pesante, ma loro mi volevano a ogni costo e si impegnarono a non scontare le mie cambiali se i profitti della nostra attività non fossero stati sufficienti. Finii per firmare una montagna di cambiali. Dopo circa un mese fu convocata una riunione del consiglio di amministrazione della nostra ditta. E in quell'occasione i due milanesi mi chiesero a chi dovevano rivolgersi per entrare nella mafia. Mi dissero proprio così: «Senti, Masino. Ci puoi dire per cortesia come si fa a essere ammessi nella mafia? Siamo veramente interessati alla cosa». Naturalmente finsi di cadere dalle nuvole, e risposi che non capivo di cosa stessero parlando. Loro si misero a ridere, scherzando sul fatto che immaginavano i mafiosi come li avevano visti tante volte al cinema e cioè con la coppola, la giacca di velluto e gli stivali, mentre avevano davanti a loro un perfetto mafioso che vestiva come un figurino e si esprimeva in italiano. Aggiunsero inoltre che avevano scontato alcune mie cambiali sulla base di una nota informativa della banca che recitava testualmente«Firma solvibile, ma localmente ritenuto mafioso». Era per questa ragione che avevano scherzato, mi rivelarono alla fine, e si dichiararono onoratissimi di avermi come socio. Erano persone serie, che non parlavano a vanvera e non dimostravano simpatia a caso. Ne ebbi conferma in quei primi di luglio del 1963, quando dovetti ricorrere al loro aiuto. Dopo essere fuggito dalla Sicilia per evitare di venire arrestato, comunicai ai miei soci che intendevo espatriare. Non solo non si opposero avanzando timori per le conseguenze della mia assenza sugli affari della ditta, ma uno di loro mi offrì il suo passaporto per sostituirne la fotografia e mi voleva anche dare un assegno in bianco - la cifra l'avrei scritta io - collegato a un suo conto bancario americano. Era proprietario, infatti, di un'impresa di autotrasporti che faceva servizio tra il Nord e il Sud degli Stati Uniti. Lo ringraziai commosso, ma non accettai l'aiuto finanziario e neppure il passaporto. Gli dissi che mi trovavo in guai molto seri e che non intendevo coinvolgerlo per nessuna ragione. Allora si offrì di portarmi in Svizzera senza passaporto. Disponeva infatti di permessi speciali che evitavano l'obbligo di esibire il passaporto alle autorità di frontiera. Acconsentii. Varcammo la frontiera assieme in automobile. Lui e la moglie seduti davanti e io dietro, preoccupatissimo. Sua moglie cercò di rendere meno pesante l'atmosfera dicendomi che mi aveva creduto più coraggioso. Ma non immaginava quanto sarebbe potuta loro costare cara la mia compagnia se ci Pagina 71


Addio Cosa Nostra..txt avessero fermato. Per fortuna tutto andò liscio e non li rividi mai più. In Svizzera mi raggiunse la mia compagna, Vera Girotti, che mi portò un passaporto falso. Con lei decisi di partire per il Messico. Non ricordo bene qual'era il mio nome. Forse mi chiamavo Tullio Saraceno. Mi riesce difficile ricordare con precisione tutti i nomi che ho assunto da allora in poi, come mafioso e come collaboratore della giustizia. Ne ho cambiati più di dieci. Ricordo solo quelli più significativi, in quanto collegati a particolari vicende giudiziarie o personali. Andai in Messico perché un uomo d'onore di Palermo, Pietro Davì, mi aveva dato una lettera di presentazione per un fratello di Cosa Nostra napoletana che viveva lì. Si chiamava, o meglio era soprannominato, «Ciccillo il bancarottaro». Risiedeva a Città del Messico e faceva il «magliaro», vendeva cioè stoffe e vestiti fasulli, che sembravano autentici ma erano in realtà di carta e prendevano fuoco con grande facilità. Mi accorsi subito che Ciccillo era un poveraccio che aveva sposato una donna messicana e con le sue truffe doveva mantenere una famiglia di sette figli. Non era in condizione di ospitarci e finì che invece di essere aiutato fui io ad aiutare lui. Ci stabilimmo in un piccolo appartamento ammobiliato dove abitammo per alcuni mesi. Durante questo periodo venni a sapere che gli arresti in Italia erano continuati. Erano stati presi, tra gli altri, anche Pippo Calò, Gianni Lallicata e Giuseppe Galeazzo. La polizia sembrava impazzita. Sulla mia testa continuavano ad accumularsi i mandati di cattura. Mi avevano accusato perfino della strage di Ciaculli! Avevo conosciuto Vera Girotti qualche tempo prima al casinò di Saint Vincent ed era nata una storia dalla quale, proprio in Messico, seppi che stava per nascere un figlio. Mi ero portato dietro un po' di denaro, ma la mia situazione economica ben presto divenne critica. Non lavoravo. Detestavo rubare e rapinare. Non ero inserito nella società locale, non conoscevo nessuno. Il mio orgoglio mi impediva di chiedere aiuto in Sicilia o negli Stati Uniti, ai fratelli americani. Ma Vera era felice: aveva un temperamento avventuroso, appassionato e, al tempo stesso, irresponsabile. Per lei contava solo il fatto di stare con me e non le importava molto di tutto il resto. A un certo punto, fummo costretti a lasciare anche l'appartamento che avevamo affittato. Sui quotidiani messicani erano comparsi diversi articoli dedicati alla mafia in Italia illustrati, tra l'altro, da alcune mie fotografie che mi avevano tolto la copertura del falso nome. Il padrone di casa mi aveva riconosciuto e la polizia poteva rintracciarmi molto facilmente. Giunsi ben presto sull'orlo della disperazione: ero senza soldi, senza casa e con una donna incinta cui provvedere. All'inizio del mio soggiorno in Messico avevo ricevuto una certa somma da Carlo Gambino. Salvatore Catalano, l'uomo d'onore palermitano emigrato negli Usa e membro di Cosa Nostra americana, era al corrente della mia presenza in quel paese e aveva fatto sapere ai Gambino di New York che molto probabilmente mi trovavo in difficoltà economiche. Il capo della famiglia mi aveva al lora inviato 500 dollari e aveva incaricato lo stesso Catalano di portarmeli. Il messaggero dichiarò di avere speso 250 dollari per il viaggio e io rifiutai il resto della somma. «Grazie» gli dissi «ma non ho bisogno di elemosina. Puoi riportarti indietro i dollari. Restituiscili al signor Carlo Gambino con i miei ringraziamenti.» Questo episodio avrebbe avuto ripercussioni negative in futuro. Il mio rifiuto fu considerato uno sgarbo, un'offesa alla quale prima o poi si Pagina 72


Addio Cosa Nostra..txt sarebbe dovuto porre riparo. Ormai avevo quasi deciso di chiedere alla mia compagna di mettersi in contatto con l'ambasciata italiana e di farsi rimpatriare, quando per caso incontrai in strada un personaggio singolare, Giuseppe Catania, un palermitano che era emigrato dalla Sicilia molti anni prima e che in Messico lavorava nello stesso «business» di «Ciccillo il bancarottaro»: vendita di tessuti falsi. Catania mi disse che aveva visto la mia foto sul giornale e che era a mia disposizione nel caso mi servisse qualcosa. Aveva una stanza libera a casa sua, dove abitava assieme alla moglie e ai figli, e sarebbe stato felice di ospitarmi. Lì per lì rimasi perplesso per tanta generosità, ma poi pensai che a Città del Messico risiedevano pochissimi italiani e nessun siciliano. L'offerta di Catania poteva essere spiegata con il bisogno di alleviare il senso di isolamento e anche con una specie di omaggio alla mia persona da parte di un piccolo truffatore sperduto. Gli risposi che avevo con me una donna incinta che non era mia moglie e che potevo accettare la sua ospitalità solo per lei; io avrei dormito da un'altra parte. Accompagnai Vera a casa di Catania e l'accoglienza fu talmente calorosa che dopo una settimana anch'io mi trasferii da loro. L'ospitalità si rivelò sincera e disinteressata. Giuseppe Catania era veramente onorato di avermi a casa sua. Quando per Vera si avvicinò il momento del parto, egli prenotò la migliore clinica della città. Nel giugno del 1964 nacque Alessandra, la prima delle due figlie che ho avuto da Vera Girotti, e Catania fu il padrino di battesimo. Lo accompagnavo nei suoi giri in provincia per piazzare le «stoffe» e lui si faceva carico del mantenimento della mia famiglia. Quasi tutte le domeniche andavo a vedere la corrida e visitai Acapulco e le località stupende che circondano Città del Messico. Giuseppe Catania era un brav'uomo, ma anni dopo, verso il 1973, si trasformò nel mio accusatore, regalandomi la più pesante condanna penale della mia vita: otto anni di carcere, gran parte dei quali effettivamente scontati, per traffico di droga negli Usa. Le cose si svolsero così: Catania da magliaro si era trasformato in trafficante, era stato arrestato negli Stati Uniti e in cambio dell'immunità aveva detto che ero a capo di un'organizzazione che aveva trafficato 326 chili di eroina! L'effetto di questa sua denuncia mi raggiunse in Italia nel 1974. Mi trovavo già in carcere, dove scontavo i tre anni di reclusione che mi erano stati inflitti al processo di Catanzaro per associazione a delinquere. Il nuovo processo venne celebrato a Salerno e a niente valse il fatto che negli Stati Uniti le persone che erano state imputate con me per lo stesso reato fossero state nel frattempo assolte. La Corte mi condannò a una pena addirittura superiore a quella richiesta dal pubblico ministero. Non nutro rancore nei confronti di quel magliaro, anche se considero la condanna di Salerno come uno degli episodi più dolorosi della mia vita. CANADA, NEW YORK E COSA NOSTRA AMERICANA. Dopo la nascita di Alessandra cominciai a pensare che era giunto il momento di uscire dalla precarietà, di organizzare meglio il futuro. Verso la fine del 1964, assieme a Catania e alle nostre famiglie mi trasferii in Canada, a Toronto, dove lui contava di vendere porta a porta tovaglie ricamate vere, non fasulle, pagabili anche a rate. Ma ci scontrammo con una difficoltà insormontabile: le porte delle abitazioni erano quasi tutte chiuse durante il giorno, perché le donne canadesi lavoravano, e i figli piccoli andavano all'asilo o a scuola. Ogni mattina, marito e moglie uscivano di casa e non rientravano prima delle 5 e mezza - 6 quando ormai si poteva visitare un numero limitato di abitazioni. Decisi allora, sempre assieme a Vera e a Catania, di trasferirci negli Stati Uniti, dove conoscevo molti uomini d'onore di origine palermitana e dove potevo contare sul sostegno di Salvatore Catalano, con il quale ero rimasto in contatto durante il soggiorno messicano. Eravamo talmente in bolletta, che per pagarmi il biglietto dell'autobus da Buffalo a New York, Catania dovette impegnare l'orologio. Attraversammo la frontiera nel gennaio 1965, passando vicino alle cascate del Niagara. Arrivato a New York, mi erano rimasti in tasca 10 centesimi esatti: giusto il Pagina 73


Addio Cosa Nostra..txt costo di una telefonata urbana. Per fortuna Catalano era in casa al momento della chiamata e corse subito a prenderci in stazione. Ricordo che fu un problema incontrarci, perché non riuscivo a trovare il livello della strada con l'ascensore. Mi sentivo estremamente confuso e avevo inoltre una mano malconcia. Pochi giorni prima di partire, infatti, ero stato costretto a picchiare un canadese. Gli avevo dato tante bastonate da rompermi un paio di ossa della mano. Le cose si erano svolte così: il giorno di Natale ero andato a fare gli auguri a una vicina di casa, una vedova molto gentile con la quale Vera e io avevamo fatto amicizia. In casa di questa signora avevo incontrato un uomo con il quale avevo litigato qualche giorno prima: lo avevo visto nascondersi dietro casa mia, mi ero irritato e insospettito e lo avevo allontanato in malo modo. Feci finta di non conoscerlo e dopo il brindisi dissi al la donna: «Di nuovo buon Natale. Io vado. Tra poco arriverà Vera per farle gli auguri». Feci per dirigermi verso l'uscita, ma quell'uomo mi diede un violento spintone che mi ributtò seduto sul divano. «Perché fai questo?» gli dissi. «Siamo in casa di una donna sola. Una vedova. Non è il momento di comportarsi così. E poi me ne sto andando. Auguro anche a te buon Natale.» Mi alzai nuovamente, ma ricevetti un altro spintone. Questa volta ero più preparato. Mi sedetti sul divano e mi rivolsi con calma all'energumeno. «Ti avverto che mi stai facendo perdere la pazienza. Adesso mi alzo e me ne vado. Non ti azzardare ad avvicinarti.» Lui fece per venirmi incontro di nuovo e allora lo afferrai dal di dietro, lo sollevai in aria e lo portai fuori, sull'erba. Lo colpii a più non posso, a pugni e a calci, rovinandomi una mano. Lo mandai in ospedale quasi in fin di vita e anche per questa ragione dovetti andarmene dal Canada. Catalano ci portò a casa sua dove ci ospitò per qualche giorno. Ci separammo da Giuseppe Catania, che in seguito tornò in Messico. Ci stabilimmo in una modesta casetta di Queens e come primo lavoro feci il pizzaiolo in un locale di Long Island gestito da un certo Sparacino. Non ero contento né della paga né della mansione e allora mi rivolsi ai Gambino per ottenere un'altra occupazione. Avevo già chiarito con loro l'episodio dei 500 dollari che avevo rifiutati due anni prima. Un soldato di Carlo Gambino era venuto da me a lamentarsi per lo sgarbo che avevo commesso non accettando il loro aiuto, ma ero riuscito a dimostrare che il mio gesto non intendeva offenderli: era rivolto solo a salvaguardare la mia dignità di uomo d'onore che non permette a nessuno di fargli elemosine. Data la mia scarsissima conoscenza dell'inglese, l'unico lavoro che avrei potuto svolgere al di fuori del mondo delle pizze - mi dissero i Gambino - era quello del muratore. Mi ritrovai così a faticare come manovale in una impresa di costruzioni di proprietà di amici della famiglia Gambino, dove rimasi per quasi due anni. In questo periodo mi raggiunsero negli Stati Uniti, entrandovi illegalmente, mia moglie Melchiorra e i miei figli palermitani. Trovai per loro un appartamento a Brooklyn e da quel momento fino a quando mi trasferii in Brasile nel 1971, mi divisi tra due famiglie. Tra la fine del 1966 e l'inizio del 1967, grazie a un prestito ricevuto dai Gambino, acquistai una pizzeria. L'iniziativa sembrava presentare tutte le caratteristiche di un bidone, ma si rivelò in seguito una vera fortuna. Si trattava di un bugigattolo situato in una strada molto affollata, Pitkin Avenue, che valeva 10.000 dollari e poteva renderne 1500 alla settimana. Ma la zona era abitata quasi esclusivamente da neri e l'ostilità nei confronti di un proprietario bianco era quasi tangibile. Ebbi presto la sensazione di essere stato fregato, ma avevo contratto un debito Pagina 74


Addio Cosa Nostra..txt con i Gambino e dovevo condurre in porto l'impresa, quartiere nero o bianco che fosse. Dovevo resistere e trovare un modus vivendi con quella gente. L'unico modo per sopravvivere, e cioè per evitare i continui assalti che i malviventi neri facevano a negozi di ogni categoria, era diventare amico dei neri. E farmi rispettare, creando intorno alla mia figura una reputazione di persona capace di difendersi da sola, di reagire alle aggressioni. L'alone di amico dei Gambino, e cioè della mafia newyorkese, non serviva a molto in quel posto. L'autorità degli uomini d'onore italiani non si estendeva alla comunità nera, che dal punto vista malavitoso era organizzata per conto suo e, per quello che se ne sapeva, molto male. Non c'era un vero controllo della piccola criminalità. Ancora una volta ero obbligato a conquistare sul campo la nomea di uomo di rispetto. E nello stesso tempo dovevo farmi benvolere, dimostrando che non ero un nemico. Riuscii ad accattivarmi la simpatia della gente del rione grazie ai bambini. Ogni sera, al momento di chiudere il locale, invece di gettare nella spazzatura la pizza che era avanzata e che non avrei potuto vendere il giorno seguente, chiamavo i bambini che giocavano in strada e davo loro pizza e Coca-Cola gratis. Erano felici e mi furono molto utili di lì a poco, perché presero le mie difese in occasione di uno scontro che ebbi con alcuni ragazzi. Erano teppisti di quartiere che un giorno erano entrati nella pizzeria e avevano cominciato a fare gli spiritosi, maltrattando i camerieri e sputandomi in faccia non appena ero intervenuto. Allora avevo afferrato un attrezzo, una pala che serviva a mescolare il gelato, e li avevo colpiti con violenza, facendoli sanguinare. Pochi giorni dopo erano ritornati per chiedermi scusa; avevano sbagliato, mi dissero, perché avevano aggredito una persona che voleva bene ai piccoli neri. Non ebbi più problemi e la pizzeria andò a gonfie vele. Nel giro di pochi mesi estinsi il debito e cominciai a guadagnare così tanto che rivendetti il locale e comprai un'altra pizzeria, ma questa volta in una posizione centralissima: a Manhattan, nella 42esima strada. Il proprietario precedente - un ebreo - era riluttante a cedermi il locale perché, secondo lui, era un investimento in perdita. Ci avrei rimesso, a suo dire, molto denaro. Ottenni perciò la pizzeria a un prezzo molto conveniente e subito dopo mi resi conto che la ragione delle perdite consisteva nella incapacità del vecchio proprietario di controllare il personale, che rubava a più non posso. Sulle forniture, sugli incassi, sulle spese. Riorganizzai la bottega e i risultati furono immediati. Fui quasi sul punto di diventare ricco. Sul marciapiede di quella strada passavano ogni giorno migliaia e migliaia di persone e le mie pizze erano buone. I profitti di questo locale mi consentirono - siamo grosso modo nel 1968 - di acquistarne un altro, che feci gestire dai miei figli e che andò altrettanto bene. Nel giro di tre anni la mia situazione era cambiata radicalmente. Ero arrivato negli Stati Uniti senza una lira, con una convivente e una figlia a carico, inseguito da non so quanti mandati di cattura. Mi trovavo ora a non avere bisogno di niente. Ero agiato. Tranquillo. Non avevo debiti. Mi ero fatto raggiungere dalla mia prima famiglia e dai miei primi quattro figli, ai quali ero rimasto sempre affezionatissimo. Avevo insistito per farli venire negli Usa perché avevo finalmente la possibilità di far lavorare i maschi assieme a me. Avevo ora cinque figli che crescevano nel benessere e nella serenità. I più piccoli andavano regolarmente a scuola e parlavano inglese - beati loro senza alcuna difficoltà. Mi chiamavo Manuel Lopez Cadena, un'identità falsa che avevo assunto in Messico, e nessuno negli Usa si preoccupava di cercare Tommaso Buscetta. Quei sei anni negli Stati Uniti, dal 1965 al 1971, sono stati tra i più felici della mia vita. Nel corso di quegli anni, i miei contatti con Cosa Nostra siciliana non si interruppero mai. Pagina 75


Addio Cosa Nostra..txt Ricevevo molte informazioni, soprattutto tramite gli uomini d'onore che arrivavano dall'Italia e venivano in pizzeria ad aggiornarmi sugli avvenimenti siciliani. Essi mi confermavano che la mafia stava attraversando un periodo nero. La repressione continuava. Tutti i personaggi di maggior peso erano in carcere o latitanti, e molti si erano ridotti in miseria a causa della detenzione, degli avvocati e dei processi. Le prime scarcerazioni avvennero solo nel 1969 e nel 1970, dopo la conclusione dei processi di Catanzaro e di Bari. Un bel giorno entrò nella pizzeria in cui lavoravo Paolo Gambino, fratello di Carlo, il grande capo. Avevo già incontrato Paolo a Palermo. Fu cortese e affettuoso e a un certo punto mi disse: «Masino, perché non andiamo a cena fuori? Ci sono altri fratelli che ti vogliono conoscere e salutare». «Benissimo. Grazie» risposi. «Devi solo aspettare un momento che vado di là a cambiarmi.» Calcai un po' la frase in modo da fargli capire che andavo a mettere anche un certo «pezzetto di ferro» sotto la giacca. Conoscevo la prassi dei fratelli americani di invitare a cena gli immigrati clandestini per farli sentire meno isolati, ma avevo anche ben presente la storia dei 500 dollari che avevo rifiutato e quell'invito mi suonava un po' strano. Feci in modo che Paolo Gambino si convincesse bene che ero armato, ma non lo ero. Non avevo armi con me e mi stavo recando a un appuntamento di mafia dove avrei incontrato delle persone che avevano un conticino in sospeso con me... Salimmo in auto e ci dirigemmo verso il luogo della cena, che si trovava a una certa distanza da Brooklyn. Era già tardi: all'incirca le 10 di sera. Lungo il tragitto incappammo in una nebbia molto fitta. Gambino era alla guida e a un certo punto si fermò. «Cosa stai facendo?» gli chiesi. «Perché ti sei fermato?» «Devo fare pipì. Scusami. Faccio in un attimo.» «No. No. Non se ne parla. Tu non scendi dalla macchina. Ripartiamo.» «Guarda, Masino, che sono diabetico. Devo fare pipì Ma che ti prende?» replicò Gambino un po' sconcertato «Va bene. Se sei diabetico, fai pure pipì. Ma dentro l'automobile. E riparti subito, perché se resti ancora qui e provi a scendere, ti ammazzo. Ti faccio secco e me ne torno a casa.» Paolo Gambino fece una smorfia e ripartì. E fece davvero pipì dentro la macchina. Il resto del viaggio si svolse nel silenzio più assoluto. Ero tesissimo e preparato al peggio. Raggiungemmo un edificio accanto a una superstrada ed entrammo dalla parte posteriore del fabbricato. Non c'era molta illuminazione e le lunghe ombre che scorgevo ai lati del viottolo d'ingresso non promettevano nulla di buono. Gambino mi fece strada. Percorremmo un lungo corridoio, al termine del quale c'era una grande porta. In un salone illuminato e riccamente ammobiliato, davanti a una tavola imbandita, vidi scattare in piedi una congrega di uomini d'onore che si misero ad applaudire e lanciare messaggi di augurio e di benvenuto in italiano. Era una festa, organizzata con cura da diversi giorni, per celebrare il mio arrivo negli Stati Uniti. Carlo Gambino in persona aveva voluto farmi una sorpresa, riunendo gli uomini più rappresentativi della sua famiglia. Provai molta vergogna. A differenza del senatore Andreotti, il quale ha detto che a pensare male si fa peccato ma Sl'indovina sempre, questa volta avevo pensato male e per mia fortuna avevo sbagliato. Carlo Gambino mi fece sedere accanto a lui e chiese al fratello come mai avevamo fatto così tardi. Pagina 76


Addio Cosa Nostra..txt Paolo gli raccontò l'incidente e fu un tripudio di battute scherzose. Mi rilassai anch'io e rivelai loro che non ero neppure armato. Carlo mi guardò compiaciuto e rise di cuore. Poi si rivolse al fratello e gli disse: «Questo qui era senza revolver e ti ha fatto fare la pipì addosso. Ora chi te la lava la macchina?». Quindi si girò verso di me e mi fece un discorsetto. «Caro Masino, siamo tutti contenti di averti qui. Sappiamo chi sei e quanto vali come uomo d'onore. Qualunque cosa ti occorra qui in America, non devi fare altro che chiederla. Saremo a tua disposizione. Anzi, io personalmente sarò a tua disposizione. Tu conosci però le nostre regole. E sai che non puoi "lavorare" [in attività illegali), per conto tuo. Devi chiedere il permesso. E sai anche che non puoi qualificarti come uomo d'onore e discutere dei fatti nostri, in quanto sei un ospite. Un ospite di riguardo, ma sempre ospite. "So che sei molto forte e orgoglioso. Hai rifiutato un mio regalo perché lo hai considerato un'elemosina. Ma hai commesso un errore: era un segno di apprezzamento. Non farne altri. Volevo dirti queste cose perché ti stimo e ti voglio bene. Come tutti quelli che vedi qui questa sera. Persone che sono venute a farti festa, a nome delle quali ti consegno questo ricordo.» Mi dette una busta gonfia. La aprii. Era piena di banconote. La festa proseguì fino a notte inoltrata. Scoprii dopo che si trattava di una bella cifra: circa 10.000 dollari. Chi a questo punto si domanda per quale ragione temessi quell'incontro - dato che i miei interlocutori avevano già dimostrato, ospitandomi e prestandomi denaro, di nutrire fiducia e considerazione nei miei confronti non ha ancora capito nulla di Cosa Nostra. Della sua doppiezza e della continua tensione che circola al suo interno e che rende tutti insicuri. Incerti su tutto. Anche della propria vita. L'uomo che ti sta accanto ti può portare a una festa come alla tua tomba. L'amico più caro può essere il tuo assassino. Si vive in mezzo alla paura, allo stress. Quando sento la gente comune parlare di stress mi viene da ridere. Gli stress che ho dovuto subire in quarant'anni di mafia sono stati immensi. L'angoscia è continua e nasce dal fatto di non sapere. In Cosa Nostra c'è l'obbligo di dire la verità, ma c'è anche molta riservatezza. E la riservatezza, il non detto che imperano come una maledizione irrevocabile su tutti gli uomini d'onore. E rende profondamente falsi, assurdi, i rapporti. Un fatto come questo non è irreale, impossibile: può capitare per esempio che io mi veda con Salvatore Catalano e chiacchieri del più e del meno. Non c'è ombra di preoccupazione o di ambiguità nella conversazione. E una normale, banale chiacchierata tra amici. Come mille altre, in mille altre occasioni. Poco dopo incontro Gerlando Alberti, un altro amico, che mi dice dispiaciuto: «Salvatore Catalano mi ha riferito che ti stanno cercando per ammazzarti. E quando gli ho rimproverato di non avertelo detto, lui mi ha risposto: "Ma come fai a parlarmi così, Gerlando. Non potevo dire a Masino questa cosa! E ti prego di non farmi adesso il torto di andarglielo a riferire tu. Non puoi farmi questo, Gerlando!"». Non è fuori dalla realtà, illogico, ripugnante un comportamento come questo? Se uno vive nell'inganno è sempre in pericolo, perché non conosce le reali intenzioni degli altri. Non conosce i veri fatti e può morire senza sapere perché muore. Altri possono avere deciso che lui merita di morire per una colpa che non ha commesso o che non considera tale. Si può perdere la vita per una banalità, per un dettaglio trascurabile. La Commissione non mi aveva condannato a morte sulla base del solo fatto che non ero tornato a Palermo dopo l'uccisione di Di Pisa, mentre un anno prima, quando Pagina 77


Addio Cosa Nostra..txt avevano ammazzato Pino Riccobono, ero tornato? E anche per questa ragione che non ho voluto che nessun mio familiare entrasse in Cosa Nostra. Perché è intollerabile l'insicurezza che vi si respira: si possono avere dieci anni di gloria e poi, in un'ora, è finito tutto. Tante volte, quando ritorno con la memoria alle vicende che ho vissuto, mi viene in mente che forse tutto, dentro Cosa Nostra, è illusione. Gli uomini d'onore vivono in un mondo di spettri, di maschere. Un mondo di allucinazioni, di affetti evanescenti. Mi sono più volte chiesto come è possibile che un'amicizia durata venti-trent'anni come quella tra me e Pippo Calò, o tra me e Saro Riccobono possa svanire, dissolversi in un attimo, come se non ci fosse mai stata. Ho appena ricordato che negli anni '60 ero rientrato di corsa a Palermo perché era stato eliminato il fratello del mio amico Riccobono. Questi poi venne a trovarmi in carcere, verso la fine degli anni '70, e mi disse: «Aspetto a tia per sciarriarmi chi viddani» (Aspetto che tu esca dal carcere per fare guerra ai Corleonesi). Ebbene, nel 1981 Saro Riccobono si allea con i Corleonesi e si dichiara pronto ad attaccare chiunque, ma in primo luogo chi? Tommaso Buscetta! E sempre lui, all'inizio della guerra di mafia, che telefona aJoe Gambino, negli Stati Uniti e, parlando a nome dei Corleonesi, gli dice: «Non vi preoccupate per gli Inzerillo. Sappiamo che si sono rifugiati presso di voi dopo essere scappati da Palermo. Possono stare tranquilli. Purché ci diano Masino. A noi è Masino che interessa. Se ce lo danno, possono considerarsi salvi». Vent'anni di amicizia fraterna per sentirsi dire che devo essere ammazzato a ogni costo. Vent'anni di sentimenti e di affetti svaniti, come non fossero mai esistiti. E razionale tutto ciò? Qualche volta, quando rievoco episodi come questo ho l'impressione che sia stato tutto solo un sogno. C'era un soldato di Stefano Bontade che nutriva per lo stesso Riccobono una vera e propria venerazione. Lo considerava un dio, parlava soltanto di lui. Questo soldato si chiamava Emanuele D'Agostino e apparteneva alla stessa decina di Marino Mannoia. Un giorno D'Agostino incontra il suo idolo e gli confida che Bontade aveva detto loro di tenersi pronti per un'azione difficile. Bisognava uccidere una persona importante. Riccobono corre da Michele Greco e riferisce tutto. Poi ritorna e strangola con le sue mani D'Agostino. L'uomo che si rivolgeva a lui come se fosse Dio in terra. Io mi domando: è possibile una cosa del genere? E accaduta davvero o si tratta di un'allucinazione? E, se è avvenuta, chi può fidarsi dell'amico, del padre, del fratello? Quale valore si può attribuire ai sentimenti, alle regole, ai giuramenti, ai patti? Non è solo superficialità e orrore questo mondo di Cosa Nostra? Frequentavo i fratelli americani e con alcuni di loro avevo ottimi rapporti. Ma la distanza tra il mio, il nostro modo di fare da un lato, e il loro dall'altro, era incolmabile. Anche se le regole del nostro grande club erano le stesse e uguali erano le strutture e le apparenze, parlavamo ormai due lingue diverse. Mi sono accorto di questo a poco a poco. Al principio del mio soggiorno a New York non riuscivo a cogliere tante sfumature e tanti punti di divergenza. Mi sembrava che con il mio modo di ragionare potessi capire completamente la loro mentalità e il loro atteggiamento iniziale nei miei confronti confermò questa impressione. Solo in seguito sono riuscito a capire come sotto una stessa etichetta ci fossero in realtà due prodotti diversi. Loro erano diventati un'altra cosa. Le amicizie più serie le ho avute con i più vecchi, come Carlo Gambino eJoe Bonanno, che parlavano siciliano ed erano più vicini alla mia mentalità. I loro figli si erano molto americanizzati e ragionavano all'anglosassone, in termini di diritti e di doveri dell'individuo. Parlavano sempre dell'«individuo». Pagina 78


Addio Cosa Nostra..txt Era quasi una fissazione. Da noi in Sicilia questo «individuo» non esisteva. La «famiglia» veniva prima di tutto il resto. Anche della famiglia vera, quella di sangue. Gli americani ammettevano e praticavano il divorzio, ma su questo ero d'accordo con loro. In definitiva, i giovani di Cosa Nostra degli Stati Uniti non mi piacevano molto. Non comunicavo facilmente con loro, anche a causa della lingua. Loro non conoscevano l'italiano. Parlavano solo e unicamente l'inglese e il mio ha sempre lasciato a desiderare. Non l'ho imparato bene perché sono arrivato negli Stati Uniti che avevo già trentasette anni. Troppo tardi per imparare bene una lingua difficile come quella. Non ho mai avuto intenzione, inoltre, di stabilirmi a lungo in quel paese. Mi sentivo di passaggio: contavo di tornare in Italia da un momento all'altro, non appena fosse passata la piena della repressione antimafia e fossero stati «aggiustati» i processi a carico mio e dei colleghi palermitani. Nonostante frequentassi molto assiduamente il popolo di Cosa Nostra, non ho contratto in quegli anni amicizie particolarmente profonde. Facevo molta vita sociale con gli uomini d'onore americani, ma non approfondivo tali rapporti perché li ritenevo senza futuro e non apprezzavo il loro stile di vita. Gli Stati Uniti non mi sono mai andati a genio. Vivevo all'interno della comunità italiana, mangiavo all'italiana, ascoltavo musica italiana, vedevo film italiani e parlavo quasi solo italiano, anzi siciliano. Leggevo «Il progresso italo-americano», il cui proprietario era molto amico diJoe Bonanno e l'aveva accompagnato durante il viaggio in Sicilia del 1957. Conoscevo quel tanto di inglese «commerciale» necessario per mandare avanti la pizzeria- «Un bicchiere di Coca», «Una fetta di pizza con i peperoni» non sono espressioni difficili da imparare - e mi disinteressavo della vita pubblica e della società americana. Uscivo spesso la sera, con una delle due mogli - ma più spesso con Vera, che era più mondana - per andare alle riunioni con le famiglie dei fratelli. Una casa che ho frequentato più di altre è stata quella di Paolo Gambino. Un'altra è stata quella di Paul Castellano, il successore di Carlo Gambino ucciso in un ristorante di Manhattan nel 1985. Allora Castellano era capodecina. Si cenava assieme, oppure si prendeva il caffè, e poi si giocava a carte, gli uomini in una stanza e le donne in un'altra. In America giocavano anche le donne, ma tra di loro. Il tressette era stato abbandonato da tempo in favore di un gioco americano che gli assomiglia e si chiama pinnacolo. Ma a dominare erano il poker e la teresina. Non si puntavano grandi cifre. Anche in questo c'era moderazione. In una serata si potevano perdere o vincere 1000 o 2000 dollari al massimo. C'era molta allegria e si beveva whisky, ma senza esagerare. L'ubriachezza era proibita severamente come in Sicilia. La sbronza di una sera poteva essere considerata un evento eccezionale e venire perdonata, ma un'abitudine costante all'eccesso alcolico portava invariabilmente all'espulsione da Cosa Nostra. Un ubriaco non ha segreti e un mafioso deve conservare in ogni circostanza l'autocontrollo e il decoro personale. Non ho mai conosciuto, né in Sicilia né altrove, un uomo d'onore alcolizzato. C'erano molti punti in comune tra i mafiosi siciliani e quelli americani. Il più importante ovviamente consisteva nella matrice comune, che consentiva di dialogare senza ostacoli sulle questioni più importanti. C'era poi l'ignoranza, la mancanza di istruzione. I capi delle famiglie degli Stati Uniti erano arrivati in quel paese da bambini o giovanissimi, in condizioni di semianalfabetismo, nel senso che sapevano a malapena leggere e scrivere. E così erano rimasti. Avevano imparato l'inglese, ma non erano diventati più colti. Forse leggevano qualche giornale in più rispetto a noi, ma la differenza era minima. Pagina 79


Addio Cosa Nostra..txt Joe Bonanno era un'eccezione, perché aveva letto libri e parlava difficile. Qualcuno lo prendeva in giro per questo, dicendo che non capiva bene i discorsi che faceva. Il loro stile di vita era, come ho detto, molto diverso dal nostro. Sto parlando degli anni '60, quando la differenza tra la Sicilia e l'Italia, da una parte, e gli Usa dall'altra, era più grande di oggi. Gli uomini d'onore americani erano più aperti, si muovevano più facilmente al di fuori dei propri quartieri e del proprio gruppo. Ho già descritto le mie difficoltà a Palermo per il fatto che mi assentavo, che viaggiavo nell'Italia del Nord. I parrucconi di Cosa Nostra mi guardavano con sospetto perché erano di mentalità chiusa e arretrata. Gli americani facevano una vita più mondana. Uscivano spesso e avevano molti contatti con il mondo dello spettacolo. Alcuni capimafia come Joe Adonis e Frank Costello erano proprietari di locali notturni molto rinomati. Costello aveva il celebre «Copacabana» di New York. Tutti sanno che Frank Sinatra era amico di Carlo Gambino e c'è una fotografia che li mostra assieme. Ma ce n'erano altri, di artisti famosi italo-americani, in stretto contatto con Cosa Nostra. I fratelli americani mi hanno detto che negli anni '20 e '30 era normale per un uomo di spettacolo italo-americano appoggiarsi a Cosa Nostra. La discriminazione anti italiana era allora molto forte e i capimafia di allora proteggevano e davano lavoro agli artisti italiani. E non solo a loro. C'erano anche parecchi artisti americani protetti dai mafiosi italiani. Quando uno di questi cantanti o attori collegati a noi compariva in televisione, ricordo che il viso dei miei fratelli mafiosi si illuminava e si davano l'un l'altro gomitate commentando la sua esibizione e facendo il tifo per lui. Un'altra differenza di rilievo consisteva nelle condizioni economiche più floride della grande maggioranza degli uomini d'onore statunitensi rispetto a noi siciliani. Mentre buona parte dei mafiosi siciliani erano nullatenenti o si trovavano in una posizione economica mediocre, gli americani stavano tutti bene. Nessuno di loro era povero e anche quelli di condizione più modesta disponevano di più denaro rispetto a noi. Loro erano i parenti ricchi. Un mafioso americano medio corrispondeva a un mafioso siciliano ricco. La base della piramide sociale era molto piccola nella mafia degli Stati Uniti. Non c'erano tra loro operai, contadini, impiegati, venditori ambulanti, tassinari, individui che svolgevano mestieri umili, né disoccupati. Anche il più scadente di loro non lavorava sotto padrone, ma aveva un suo business pulito che poteva esibire alle autorità. Nella mafia degli Stati Uniti, inoltre, c'erano più possibilità di migliorare, di cambiare la propria situazione. Anche li Sl'usavano le raccomandazioni, ma queste facevano progredire chi le chiedeva. Se un soldato domandava al suo rappresentante di raccomandarlo per una cosa qualsiasi, questo fatto poteva essere l'inizio di un mutamento in meglio. A Palermo si facevano le raccomandazioni, ma solo per spostarsi da uno schifo di quartiere o da uno schifo di lavoro a un altro lavoro o un altro quartiere equivalenti. Gli uomini d'onore d'oltreoceano possedevano ristoranti, alberghi, negozi, imprese di costruzioni, di pompe funebri, di raccolta dei rifiuti. Guadagnavano bene già nella zona lecita. E in quella illecita guadagnavano ancora di più perché gestivano attività dove circolava molto denaro, come il gioco d'azzardo e l'usura. Anche loro non si accostavano al mondo della prostituzione il divieto di avere a che fare con lo sfruttamento delle donne era altrettanto valido che in Sicilia e Lucky Luciano soffri più di ogni altra cosa per l'accusa che a un certo punto gli fu rivolta di avere praticato il traffico delle bianche. La riteneva infamante, disonorevole al massimo grado, molto più dell'accusa di omicidio o di racket. A proposito del racket devo dire che, a quell'epoca, loro erano molto più avanti di noi siciliani. A Palermo l'estorsione a tappeto controllata da Cosa Nostra non è cominciata, come ho già accennato, prima della metà degli anni '70. Pagina 80


Addio Cosa Nostra..txt A New York era già un fatto generalizzato negli anni '60. I commercianti di Brooklyn, di Queens, di Manhattan invitavano in modo pressante gli uomini d'onore a intervenire, dietro pagamento, per proteggerli dalla piccola criminalità, dalle rapine che venivano eseguite soprattutto dalle bande dei giovani neri. E qui sorgevano parecchie difficoltà, in quanto la città era immensa e le famiglie non avevano modo di infiltrarsi nella malavita di colore. La quale agiva in modo caotico e imprevedibile, oltre a rimanere per gli italiani un vero e proprio mistero. Cosa Nostra americana non ha mai ammesso neri né ispanici tra le sue file. Molte punizioni venivano perciò eseguite in modo impreciso, colpendo quasi a caso e ciò faceva apparire gli interventi della mafia come atti di razzismo che peggioravano i rapporti - già pessimi per altre ragioni - tra neri e italiani. Anche nei rapporti con la politica notavo una differenza tra Cosa Nostra americana e quella siciliana. C'erano anche lì candidati alle elezioni, sindaci e deputati appoggiati dalla mafia, ma il contatto non era così continuo, quotidiano come da noi. Non ho mai saputo di politici degli Stati Uniti che fossero uomini d'onore e non ho visto collegamenti politici di livello alto, altissimo, come in Italia. Gli uomini d'onore d'oltreoceano non si interessavano così profondamente alla politica come molti di noi. Appoggiavano alcuni candidati e durante le elezioni si mobilitavano per farli votare. Ma poi tutto finiva lì. Le elezioni erano come in Italia, nel senso che i procedimenti erano simili, ma la gente non si appassionava. Non c'erano i comizi e la propaganda casa per casa. Le elezioni potevano svolgersi senza che ci si accorgesse di nulla. Già allora, negli anni '60, le battaglie tra i candidati si svolgevano in televisione. Ebbi anche l'impressione che i capi di Cosa Nostra americana si sentissero meno legati alle nostre tradizioni. Meno sicuri di quello che erano, e cioè dei mafiosi, delle persone superiori alle altre. Non guardavano al futuro con l'ottica della mafia. Non inculcavano, come in Sicilia, il verbo mafioso nei bambini non appena questi erano in grado di ragionare. Facevano studiare i propri figli e li indirizzavano verso il business pulito o verso le libere professioni. Non cercavano di tenerli dentro Cosa Nostra facendoli sposare con figli di altri mafiosi. Non tutti, naturalmente, si comportavano così. Talvolta anche all'interno di una stessa famiglia alcuni rimanevano nella mafia e altri no. I figli diJoe Bonanno non sono usciti dalla mafia, mentre un figlio di Carlo Gambino sì. E il padre non era affatto contrariato nel vedere che non aveva seguito le sue orme. La verità era che gli uomini d'onore nati in Sicilia e i loro figli si erano, alla fine, adattati bene alla società americana. Avevano trapiantato Cosa Nostra in un terreno fertilissimo. Avevano attraversato un lungo periodo di turbolenza negli anni '20 e '30 contro gli irlandesi, e poi al proprio interno. Ma avevano imparato a usare sempre meno la violenza. Un po' per timore di attirare l'attenzione delle autorità- le quali non scherzavano quando decidevano di usare le maniere forti - e un po' per la moderazione introdotta dalla Commissione creata negli anni '30 da Lucky Luciano. Quando arrivai a New York, mi spiegarono che il famoso Al Capone non era stato altro che un uomo d'onore di Cosa Nostra a capo della famiglia di Chicago. Ma Capone non era quello che sembrava. In realtà era meno importante, era meno autonomo come capo. Al Capone era più un paravento che un grande uomo d'onore. Dietro di lui c'erano gli uomini d'onore che contavano veramente e gli facevano fare quello che volevano: gli permettevano di organizzare il contrabbando di alcolici durante il proibizionismo, ma solo fin dove decidevano loro. Gli consentivano di stringere accordi con gli uomini politici e con i giudici di Chicago, ma questi accordi dovevano essere conosciuti e approvati dai veri capi Pagina 81


Addio Cosa Nostra..txt di Cosa Nostra, i quali sostennero Capone finché valutarono che era opportuno appoggiarlo e poi lo scaricarono quando non fu più in linea. La prova di questo è il fatto che Capone in carcere non venne protetto da nessuno: più volte gli altri detenuti lo presero a calci e a pugni. In materia di affiliazioni le famiglie americane non seguivano la stessa politica di Cosa Nostra siciliana. Loro consentivano l'ingresso anche ai non siciliani. Facevano parte della consorteria anche molti calabresi e napoletani, e tra i capi di maggiore peso Vito Genovese era napoletano. Frank Costello, Albert Anastasia e altri erano calabresi. In Sicilia non era consentito neppure a un catanese di entrare in una famiglia di Palermo e viceversa. Verso il 1930 Lucky Luciano - dovendo sostenere una guerra contro un gruppo molto numeroso, guidato da Salvatore Maranzano (quella che i giornali chiamarono «The Castellammarese War», la guerra dei castellammaresi, perché molti degli uomini d'onore che vi erano coinvolti provenivano da Castellammare del Golfo) inserì addirittura irlandesi ed ebrei dentro Cosa Nostra. Fu una mossa rivoluzionaria, tenuta nascosta per diversi anni, ma che scioccò molti vecchi uomini d'onore quando venne alla luce. Cosa Nostra era stata fondata negli Stati Uniti da mafiosi immigrati assieme agli altri, ma si era diffusa così rapidamente anche perché aveva protetto gli immigrati italiani dalle prepotenze di quelli che li avevano preceduti e in primo luogo dalle soperchierie degli irlandesi. I miei contatti più frequenti erano con i fratelli Gambino. Abitavano a Brooklyn e la casa di Carlo si trovava in una strada molto bella. Carlo era già vecchio a quel tempo e io andavo a trovarlo molto spesso. Con lui e con i suoi soldati mi sentivo più a mio agio che con altri. La famiglia Gambino era allora la più potente e numerosa di New York e c'era qualcosa al suo interno che mi ricordava vagamente Palermo. Alcune famiglie conservavano ancora, nonostante l'americanizzazione, deboli tracce delle loro origini. I Gambino erano, appunto, i palermitani. I Bonanno erano chiamati i castellammaresi. I Genovese erano i napoletani. Per tutti i cinque anni che ho trascorso a New York, sono stato attento a non immischiarmi troppo nelle questioni interne a Cosa Nostra del luogo. Non è stato facile, perché le controversie e i problemi erano appassionanti e venivano discussi continuamente durante i miei incontri con i fratelli. Un giorno, verso la fine del 1965, venne da me Carmine Galante, soprannominato «Lillo», uomo d'onore della famiglia Bonanno. Mi disse che il suo rappresentante, Joe Bonanno, voleva incontrarmi. Rimasi sorpreso, perché sapevo che Bonanno era scomparso nell'ottobre dell'anno prima e si nascondeva da qualche parte e anche perché lì per lì non compresi le ragioni di tale richiesta. Avevo conservato buoni rapporti con Joe Bonanno fin dai tempi del nostro incontro in Sicilia. Avevo un'opinione molto alta di lui. Lo consideravo un maestro. Dopo avere riflettuto un po', fui però obbligato a declinare I invito. Sospettavo che Bonanno mi proponesse di far da mediatore tra lui e Carlo Gambino, contando sui buoni rapporti che avevo con loro e non desideravo di venire coinvolto in una vicenda estremamente spinosa.Joe Bonanno era entrato in urto con la Commissione nazionale di Cosa Nostra, presieduta da Carlo Gambino, a causa della sua intenzione di stabilire una decina in California. Bonanno aveva già una decina in Canada, i cui capi erano i fratelli Cotrona e la Commissione non aveva ritenuto opportuno autorizzare un'ulteriore espansione di quella famiglia. Visto che Bonanno sembrava deciso ad andare avanti, la Commissione lo convocò per discutere del problema. Lui non si presentò, adducendo vari pretesti. Ma la Commissione fu irremovibile e pretese di nuovo la sua presenza. Contemporaneamente, Bonanno era stato chiamato davanti a un Gran Giurì federale, che gli aveva concesso l'immunità in cambio dell'obbligo di rispondere alle domande e di dire la verità. L'immunità significava che ogni sua risposta, qualunque fosse stata, non avrebbe potuto condurre a un'incriminazione: anche se avesse ammesso di avere fatto a pezzi qualcuno con le sue stesse mani, non sarebbe stato possibile perseguirlo. Pagina 82


Addio Cosa Nostra..txt Per un criminale qualsiasi ciò sarebbe stata una manna, una via di salvezza. Ma non per un uomo d'onore. Perché la prima domanda sarebbe stata: «Lei è mafioso?», e se Bonanno si fosse rifiutato di rispondere, o se avesse risposto il falso, e cioè che non lo era, gli avrebbero rifilato un anno di carcere per ogni domanda insoddisfatta. Fu così che Joe Bonanno fu «rapito». Scomparve per quasi diciannove mesi e non si presentò né davanti alla Commissione di Cosa Nostra né davanti al tribunale federale. I giornali scrissero che era stato sequestrato perché aveva intenzione di abusare del suo potere nominando il figlio Bill capofamiglia al suo posto, ma Bonanno non fu rapito da nessuno. Fu tutta una manfrina. Tanto è vero che tornò vivo e vegeto. Ma la sua famiglia, nel frattempo, si era quasi sfasciata e al suo posto era stato nominato un nuovo capo. Era una persona che conoscevo. Si chiamava Paolo Sciacca ed era molto vicino ai Gambino, i quali continuavano a espandere la loro influenza sulle altre famiglie. Non furono i Gambino, tuttavia, che architettarono il modo di sbarazzarsi di Joe Colombo. I Gambino rimasero a guardare e dettero una mano sottobanco. L'attentato a Colombo venne dall'interno della sua stessa famiglia e fu organizzato da Joe «Crazy» Gallo, un uomo d'onore un po' pazzo che voleva prendergli il posto. Joe Colombo era un personaggio bizzarro che era arrivato al vertice di una delle cinque famiglie di New York. Colombo era uno speculatore immobiliare, compare di Carlo Gambino, che si era montato la testa con la causa degli italo-americani. Diceva che erano discriminati a causa dell'etichetta di «mafiosi» che i giornali e la televisione gli avevano appioppato. Fondò un movimento per i diritti civili degli italo-americani che si proponeva di abolire la parola «mafia» perché considerata offensiva per tutti gli italiani che vivevano in America. Proprio lui che era un mafioso si batteva per questa causa Un giorno di giugno del 1971, ero con Paolo Gambi no. Entrammo in un caffè di Little Italy, a Manhattan, e leggemmo un manifesto che invitava tutti a partecipare a un meeting della Lega per i diritti civili in occasione del Columbus Day. La Lega era il movimento di Joe Colombo. Gambino guardò il cartello e commentò: «Eh, caro mio. Sei morto...». Compresi che i Gambino avevano abbandonato Colombo alla sua sorte e una settimana dopo - il 28 giugno Colombo fu sparato in piazza, proprio durante la manifestazione degli italo-americani. A sparargli fu un nero ucciso a sua volta subito dopo per impedirgli di parlare. Ricordo quella data perché, al momento dell'attentato a Colombo, non ero più negli Stati Uniti. Ero fuggito pochi giorni prima per evitare di essere arrestato per il reato di immigrazione clandestina. Qualche nuvola nel cielo sereno della mia permanenza negli Stati Uniti era cominciata a fare capolino già nel 1967, quando ero stato fermato dalla polizia a causa della mia identità messicana. Il nome che avevo assunto, Manuel Lopez Cadena, ero lo stesso di un pericoloso terrorista rosso che era ricercato attivamente anche negli Usa. Fui sottoposto a un minuzioso controllo e poi rilasciato dopo che venne accertata l'omonimia. Ma durante il fermo mi avevano preso le impronte digitali e in seguito la polizia americana accertò che queste erano identiche a quelle da me apposte in Argentina nel 1951, dove mi ero recato con il mio vero nome. Preciso che le mie impronte erano state prese in Argentina non perché avessi commesso qualche reato, ma perché in quel paese erano (e sono, credo) un mezzo normale per identificare le persone, riprodotto normalmente sulla carta d'identità. La polizia di frontiera, l'ufficio che si occupa dell'immigrazione illegale negli Usa, cominciò allora a cercarmi, ma riuscii a nascondermi. E facile scomparire negli Stati Uniti. Basta cambiare casa e non dare nell'occhio. Capita molto raramente di essere controllati per strada o in automobile, come Pagina 83


Addio Cosa Nostra..txt avviene invece in Italia. Trasferii la mia famiglia palermitana nel NewJersey, a quaranta minuti da New York, e ripresi a vivere normalmente. Nella primavera del 1970 ricevetti una telefonata da Salvatore Greco «Cicchiteddu». Mi disse che c'erano cose molto importanti da discutere e mi accennò a una connessione con i processi in corso contro di noi. C'era forse la possibilità di azzerare tutto. Totò mi chiese di partire di lì a poco per l'Italia e di fare una prima tappa a Monaco di Baviera. Partii nel giugno di quell'anno. Sostai in Germania, dove mi incontrai con Pippo Calderone, Gerlando Alberti, Giuseppe Di Cristina, lo stesso Totò Greco e altri. Poi andai a Milano e in Sicilia, a Catania, perché era in preparazione il cosiddetto «golpe Borghese e si richiedeva la nostra partecipazione . La storia del nostro coinvolgimento nel golpe è stranota. Qui vorrei solo ribadire che personalmente fui uno dei più scettici sulla serietà dell'iniziativa e le possibilità di riuscita. Valerio Borghese e i suoi mi parvero un'Armata Brancaleone di invasati e di mitomani che non avevano la minima idea di come si dovesse trattare con noi e che non sapevano neppure bene cosa fare. Terminato l'incontro di Catania, Totò Greco e io ripartimmo per Roma e poi per Milano, dove ci raggiunsero Pippo Calderone, Totò Riina e Gaetano Badalamenti. Lì un giorno ci fermò la polizia mentre eravamo in automobile tutti assieme (Greco, Badalamenti, Calderone, Alberti e io, che avevo assunto in quell'occasione il nome di Adalberto Barbieri). Era il 17 giugno del 1970: dopo un superficiale accertamento ci lasciarono andare facendosi così sfuggire uno dei più bei «colpi» dell'epoca. In seguito mi recai a Zurigo, dove continuammo a consultarci e a ragionare intorno al progetto di colpo di Stato . Alla fine mi stancai e me ne tornai negli Stati Uniti. «Cicchiteddu ripartì per l'America Latina e qualche TEMPO dopo venni a sapere che TUTTO era finito in nulla. Per giustificare il fallimento dell'operazione, gli organizzatori misero in giro la voce che il golpe, nonostante gli Stati Uniti fossero d'accordo, era stato impedito dalla presenza della flotta sovietica nel Mediterraneo. Non sentii più parlare di colpi di Stato fino al 1974 quando, durante la mia detenzione all'Ucciardone, fui testimone di uno strano episodio. Sia un oculista di Palermo che sapevo essere massone e che venne in carcere a visitarmi, sia il direttore dell'Ucciardone, Giovanni Di Cesare, mi dettero la notizia che nel giro di pochi giorni ci sarebbe stato un golpe. Un brigadiere dell'ufficio matricola mi avrebbe aiutato a infilarmi in un passaggio segreto che conduceva alla casa del direttore stesso. Successivamente sarei stato liberato. Non accadde nulla, ma tempo dopo seppi che anche in questo caso c'era stato un accordo tra massoneria e Cosa Nostra. La contropartita per la mafia consisteva sempre nella revisione dei processi. Alla testa del golpe questa volta c'era la massoneria e ricordo di un generale dell'esercito, in servizio a Palermo, che proprio per il golpe era in contatto con Salomone. IL BRASILE E CRISTINA. Tornato a New York, fui rintracciato e arrestato, nel 1970, per ingresso clandestino negli Usa. Mentre attraversavo il ponte di Brooklyn, la mia auto fu fermata, i due figli che erano con me vennero mandati a casa e io fui condotto in una stazione di polizia. Arrivarono alcuni funzionari per interrogarmi, ma con loro si presentarono altri personaggi che mi chiesero cosa facessi in quel posto, dal momento che mi sarei dovuto trovare da un'altra parte. Mi domandarono ironicamente se mi ero divertito durante il viaggio in Italia e come si mangiava in alcuni ristoranti nei quali ero effettivamente stato. Mi resi conto che quei signori erano al corrente di tutto e che ero stato seguito durante i miei movimenti in Italia e in Svizzera. Le autorità italiane, informate del mio arresto, chiesero l'estradizione. Ma questa sarebbe dovuta avvenire sotto forma di scambio tra me, da un lato, e un renitente alla leva per la guerra del Vietnam che aveva dirottato un aereo, Pagina 84


Addio Cosa Nostra..txt dall'altro. Il presidente della Corte che mi doveva giudicare, ricevuta la richiesta del Dipartimento di Stato, decise tuttavia di non accettare il baratto. Il sequestratore rischiava la pena capitale per un atto che era sì un reato, ma che nasceva da una presa di posizione morale che era eccessivo punire in modo così severo. Credo che le cose si siano svolte in questi termini. Non posso, tuttavia, esserne completamente sicuro: in quel processo non avevo un avvocato e non ero in grado di seguire tutte le articolazioni della procedura. La Corte decise infine che dovevo essere processato solo per il reato di ingresso clandestino negli Stati Uniti. Ritornai libero dopo circa tre mesi, dopo aver pagato una cauzione di 40.000 dollari. Fu +++mia moglie Melchiorra a racimolare la somma presso i miei parenti palermitani. Il denaro fu portato negli Stati Uniti da suo fratello, Mariano Cavallaro. A questo punto fui condannato a essere espulso dagli Usa e mi furono concessi alcuni mesi di tempo per scegliermi un paese nel quale andare a risiedere. Lasciai le pizzerie ai miei figli e mi misi a cercare un posto nel quale stabilirmi. Andai al consolato argentino e loro rifiutarono. Andai a quello del Paraguay e ottenni la stessa risposta. Decisi infine di tornare in Brasile. Avevo un bel ricordo della mia permanenza in quel paese nel 1951 e un mio conoscente, un certo Carlo Zippo, conosceva a sua volta un agente della polizia brasiliana, Guglielmo Casalini, che si offrì di farmi ottenere la cittadinanza di quel paese: il fatto di avervi soggiornato nel 1951 me ne dava il diritto. Fui comunque obbligato a entrare in Brasile, a Rio de Janeiro, nel giugno del 1971 con un ennesimo passaporto falso perché il consolato italiano di New York si era rifiutato di rilasciarmi il documento autentico. Il Brasile mi piacque di nuovo moltissimo. Mi buttai con entusiasmo nella vita di Rio deJaneiro, dove feci subito parecchie amicizie. Era gente estroversa, allegra, piena di vita, come quella che avevo conosciuto, da ragazzo, vent'anni prima. Avevo portato con me una cospicua somma di denaro e avevo intenzione di investire tutto in un'attività commerciale. Per un po' mi orientai verso il settore delle conserve di pomodoro, ma poi conobbi Cristina, la mia moglie attuale, che quasi senza che me accorgessi, indirizzò la mia esistenza su quello che posso solo chiamare un piano superiore. Prima di lasciare gli Stati Uniti la mia vita sentimentale si era semplificata. La Girotti se n'era andata per i fatti suoi. Era stanca di essere la signora Buscetta. Era stanca di vivere con me. Voleva essere Vera Girotti e basta. Acconsentì volentieri al mio desiderio di tenere con me le due figlie che avevo avuto da lei. In Brasile incontrai Cristina, una studentessa universitaria piena di brio, colta, intelligente e di ottima famiglia. Il padre era un importante avvocato civilista, specializzato in diritto del lavoro, impegnato politicamente e amico personale del presidente del Brasile. La conobbi in spiaggia, a Copacabana, nel luglio di quello stesso anno 1971. Fu un colpo di fulmine e pochi mesi dopo vivevamo già assieme. Né la differenza di età (sono più anziano di lei di ventidue anni), né la mia reputazione di fuorilegge, né le perplessità iniziali di suo padre furono sufficienti a ostacolare un rapporto di amore profondo e sincero, che ha dato alla mia esistenza una stabilità che non avevo mai conosciuto prima e non avrei mai raggiunto altrimenti. Cominciài a lavorare presso lo studio legale del mio nuovo suocero. Anzi, ne divenni socio e l'investimento si rivelò molto redditizio. Ero felice. Il Brasile mi sembrava il paradiso, il luogo in cui sarei vissuto per il resto dei miei giorni. Non pensavo neppure lontanamente di tornare in Italia, dove mi aspettavano una condanna per associazione a delinquere diventata definitiva e una serie di ordini di cattura per i reati più diversi, dalla strage all'omicidio, allo strangolamento di due persone. Pagina 85


Addio Cosa Nostra..txt Imputazioni che sarebbero cadute, ma quando tutto era ormai precipitato. Vivevo tranquillo, a San Paolo, sotto il nome di Tommaso Roberto Felice. Ero finalmente riuscito a liberarmi del mio cognome imbarazzante. Avevo assunto quello di mia madre durante un viaggio in Paraguay assieme a Cristina e a mio suocero. Ci eravamo fermati per un po' in quel paese ed eravamo stati ospiti dell'ex presidente Goulart, che si era rifugiato in Paraguay dopo un cambiamento di governo. Avevamo soggiornato in una fattoria di sua proprietà e avevamo festeggiato il suo compleanno con un churrasco, un banchetto all'aperto a base di carni alla griglia. La fotografia di quell'avvenimento faceva bella mostra nel salotto di casa nostra. Cristina aveva accolto le figlie del mio precedente matrimonio come se fossero state sue ed era nato Tommaso, il primo dei due figli che ho avuto da lei. Ma la nostra felicità durò poco. Intorno all'ottobre del 1972 venni arrestato e questa volta trascinai nella disgrazia molte persone innocenti. Cristina, i miei figli, suo fratello, entrambi i suoi genitori. Finirono tutti in prigione assieme a me. Senza mandato della magistratura e senza un'accusa precisa. Ma procediamo con ordine e facciamo un passo indietro. Quel Casalini che conoscevo come un funzionario della polizia brasiliana era in realtà un mercante di droga, ricercato dalle autorità statunitensi per un traffico tra la Francia e gli Usa. Casalini, forse perché messo da parte o truffato, aveva denunciato i suoi ex partner francesi alla polizia brasiliana. Questa lo aveva fatto parlare e poi aveva arrestato anche lui. Casalini aveva confessato le sue responsabilità e aveva rivelato il suo ruolo di riciclatore di denaro sporco. Ma non fu lui direttamente a mettermi nei guai: furono la mia sfortuna e la mia reputazione di grande mafioso, che continuavano a inseguirmi e raggiungermi nonostante i miei tentativi di fuggire da loro. Durante una perquisizione nell'appartamento di Casalini, la polizia trovò un libro sulla mafia italiana. L'onorevole Girolamo Li Causi aveva scritto l'introduzione al volume che consisteva in un documento della Commissione antimafia che ricostruiva le biografie di nove mafiosi di spicco, tra i quali c'ero anch'io. Le pagine che mi riguardavano erano sottolineate. I poliziotti domandarono a Casalini perché aveva segnato proprio quelle pagine e lui rispose che si riferivano a un famoso personaggio che in quel momento si trovava proprio lì, in Brasile. Il documento - un pessimo documento, pieno di errori e di falsità, che dà l'idea di quanto scadente fosse la conoscenza della mafia prima che arrivassero i collaboratori della giustizia - venne tradotto e io fui rintracciato e arrestato. Senza alcuna imputazione, in quanto Casalini non aveva detto nulla contro di me: solo in virtù della mia fama di pericoloso delinquente. La nostra casa di San Paolo fu perquisita. Alla polizia militare che conduceva le indagini non era parso vero di poter mettere le mani anche sull'avvocato Homero Guimaraes, mio suocero, diventato oppositore politico a causa della sua fedeltà al vecchio amico Goulart. E quando trovarono la nostra fotografia assieme all'ex presidente si realizzò la quadratura del cerchio. Era evidente, ai loro occhi, che ci eravamo recati in Paraguay per organizzare una sovversione politica. Fummo arrestati in una cittadina che distava 800 chilometri da San Paolo, dove eravamo andati a trovare un fratello di Cristina. Non dimenticherò mai la brutalità di quegli agenti di polizia. Ci presero tutti assieme, Cristina, suo fratello, io e le mie due bambine, che furono infilate nel portabagagli di un'automobile e tenute lì dentro per più di dieci ore. Una bambina di otto anni e un'altra di tre! Cristina fu torturata per obbligarla a rivelare cosa stessi facendo di illegale in Brasile. Fummo fatti salire su un elicottero militare e Cristina venne tenuta sospesa per i capelli nel vuoto e minacciata di essere buttata giù se lei o io non avessimo confessato. Fui portato in una caserma dell'esercito dove fui lungamente seviziato perché Pagina 86


Addio Cosa Nostra..txt rivelassi i miei rapporti con la mafia siciliana. Ero tenuto incappucciato e venivo appeso a un palo per ore e ore sotto il sole cocente. Mi somministrarono scosse elettriche ai testicoli, all'ano, ai denti e alle orecchie. Mi strapparono le unghie degli alluci. Conservo ancora le tracce di questo trattamento. Le mie unghie crescono in modo stentato e irregolare. Ciononostante, non pronunciai neppure una parola su Cosa Nostra. Un sergente che mi torturava mi disse che non aveva mai visto niente di simile. Solo alcuni giapponesi che gli erano passati per le mani tempo prima avevano dimostrato una simile resistenza al dolore fisico. I torturatori si resero conto che non avrebbero ricavato nulla da me e mi cacciarono dal Brasile. Non era in corso alcuna procedura di estradizione, né venne adottato un provvedimento formale di espulsione. Fui semplicemente imbarcato su un aereo di linea e spedito in Italia, dove fui immediatamente arrestato. Era il 3 dicembre 1972. Sarebbero dovuti passare quasi otto anni prima che potessi tornare libero. Anzi, in un primo momento solo tre anni, in quanto tutte le altre imputazioni erano via via decadute e la condanna che avevo ricevuto a Catanzaro era stata ulteriormente ridotta da un'amnistia. IL CARCERE. Sarei dovuto rimanere in carcere fino al 1975, se nel frattempo non fossi stato colpito da un nuovo atto di accusa, questa volta proveniente dagli Stati Uniti. L'imputazione consisteva nell'aver trafficato droga assieme a quel Giuseppe Catania che avevo conosciuto in Messico. La maledizione continuava. Il processo a mio carico fu istruito a Salerno. Il giudice istruttore si recò negli Stati Uniti assieme al mio avvocato e interrogò Catania, il quale sapeva che ero in carcere in Italia accusato di gravi reati. Chiamò in disparte l'avvocato e gli confidò di essere molto imbarazzato perché mi aveva accusato falsamente. Aveva ritenuto che in Italia sarei stato condannato all'ergastolo e che in fondo un'ulteriore incriminazione non avrebbe comportato per me una grande differenza, mentre per lui avrebbe rappresentato una via d'uscita. Successivamente non confermò né smentì al magistrato italiano le sue dichiarazioni contro di me. Non poteva smentirle: se lo avesse fatto avrebbe compromesso la sua situazione giudiziaria negli Usa. Ma non le confermò per non danneggiarmi ulteriormente. Nel processo che si svolse negli Stati Uniti i coimputati di Catania e miei furono assolti. Io fui invece condannato dal tribunale di Salerno, per gli stessi fatti, a dieci anni di reclusione, ridotti a otto in appello. Quando, nel 1984, il giudice Falcone mi chiese conto di quelle imputazioni, feci presente di essere completamente innocente e che, per rispetto verso me stesso, non potevo confessarmi autore di reati che non avevo commesso. Aggiunsi anche che lui si riferiva a fatti per i quali ero stato già condannato, con sentenza divenuta definitiva nel 1979, e che quindi non avrei avuto alcuna difficoltà - in quel momento - ad ammettere di averli commessi, in quanto non ne avrei riportato alcun pregiudizio penale. Falcone si convinse e, in seguito, dichiarò più volte che Buscetta non aveva mai trafficato in stupefacenti. La sua convinzione nasceva anche da riscontri e informazioni sulla mia carriera di mafioso che aveva avuto modo di accumulare nel corso delle sue inchieste. Poco tempo dopo il mio arrivo in Italia venni assegnato al carcere dell'Ucciardone, a Palermo. Poiché ero un detenuto importante e pericoloso, la mia traduzione da Roma venne effettuata da due funzionari. Bruno Contrada della polizia e il colonnello Giuseppe Russo dei carabinieri. Quest'ultimo si comportò con distacco e gentilezza nel corso di tutto il viaggio, che durò dalle 6 del pomeriggio fino a mezzogiorno del giorno successivo. Pagina 87


Addio Cosa Nostra..txt Contrada fu invece villano e scortese. Appena saliti sul treno mi aggredì: ffSenti, Buscetta, secondo me i brasiliani hanno fatto benissimo a torturarti. Quelli come te se lo meritano. E anche qui dovremmo fare lo stesso. Dovremmo torturarti. Così ti metteresti a parlare. E così che ti convinceresti e forse smetteresti anche di fare il grande!». «Lei non capisce niente. Ma li ha letti, per caso, i verbali della polizia brasiliana? Quelli scritti dai miei torturatori? Sa cosa ho dichiarato? Ho detto che mi chiamavo Tommaso Buscetta e che ero nato a Palermo il 13 luglio 1928. Punto e basta.» «Sì, sì, va bene. Vuol dire che non hanno fatto un buon lavoro» ribatté Contrada. «Adesso le dico una cosa. E lei mi deve ascoltare bene. E gliela dico con la massima calma e serenità. Se fosse lei a torturarmi, lei sarebbe buono solo a farmi un baffo» soggiunsi, calcolando bene l'effetto che gli avrebbe fatto questa risposta. Contrada si alterò: «Che cosa stai dicendo? Come ti permetti di parlare così?». «Lei a me sarebbe in grado di fare solo quello! Non riuscirebbe a farmi parlare. Ma le ha guardate le unghie dei piedi? Ha visto in che stato si trovano grazie al trattamento dei suoi colleghi brasiliani?» Stavo quasi gridando e mi ero alzato in piedi dopo che anche Contrada lo aveva fatto. Il colonnello Russo si mise in mezzo e cercò di sedare l'incidente intimando a entrambi di smettere di provocarci. Il mio comportamento nei confronti dei rappresentanti dello Stato e di ogni simbolo, ogni procedura del sistema giudiziario divenne da quel momento in poi, per tutto il viaggio, quello del perfetto mafioso. Dell'uomo d'onore scostante e orgoglioso che non accetta alcuna forma di sussidio, di aiuto anche insignificante. Che non pietisce mai nulla: per tutto il viaggio in treno non chiesi il permesso di andare in bagno. Trattenni la pipì fino a che non arrivai in carcere. Avevo con me sette-otto sigarette. Quando le finii, non accettai l'offerta del colonnello Russo di andarmele a comprare durante una sosta in stazione. E rifiutai anche la proposta - che Russo fece conoscendo usi e costumi di mafia - di andare ad acquistarle con i miei soldi. Non ho mangiato né bevuto durante quel viaggio. Evitai di conversare con i miei compagni, e rifiutai perfino il caffellatte che Russo portò nello scompartimento verso le 6 o le 7 di mattina. Il carcere dell'Ucciardone ospitava, come sempre, molti uomini d'onore e moltissimi detenuti comuni. I mafiosi di un certo rango avevano sempre goduto, per tradizione consolidata, di notevoli privilegi rispetto agli altri. Rimasi perciò sorpreso nel constatare che tali prerogative si erano alquanto affievolite. Vigeva qualcosa di simile a uno stato di confusione, di disorientamento degli uomini d'onore detenuti, i quali non riuscivano a mettere a frutto adeguatamente i poteri connessi alla propria posizione all'interno e all'esterno della prigione. Ciò si trasmetteva alla popolazione dei prigionieri comuni, i quali erano sottoposti alle mille angherie della vita carceraria ed erano capaci di reagire soltanto con le rivolte, le evasioni e le vendette improvvisate, casuali contro il personale di custodia. I mafiosi sono rinomati uomini d'ordine ai quali non sono mai piaciuti gli arbìtri, le situazioni di incertezza, i soprusi sballati e sciocchi dei banditelli o degli «sbirri». Eppure, in quell'epoca, dentro il carcere dell'Ucciardone, in casa loro, si trovavano in preda alla confusione e al caos. Non riuscivano a comandare bene, secondo regole dichiarate e accettate. Quando arrivai, Stefano Bontade, Pippo Calderone, Gaetano Badalamenti - il fior fiore della mafia del tempo - erano in cella di punizione. Erano stati trovati in possesso di ritagli del «Giornale di Sicilia» ed erano stati puniti perché non era permesso leggere i giornali. Avevano ricevuto anche un altro castigo perché li avevano scoperti in possesso Pagina 88


Addio Cosa Nostra..txt di un minuscolo tegamino per preparare il sugo di pomodoro, che era proibito prima del mio arrivo. Scoppiavano spesso risse tra uomini d'onore e detenuti comuni perché l'autorità dei primi non era molto chiara e occorreva molta violenza inutile per ristabilirla ogni volta. Come c'era bisogno di altrettanta violenza superflua e di punizioni a valanga, per riportare la calma nell'istituto di pena in seguito ai frequenti ammutinamenti e proteste collettive. I capimafia detenuti non comprendevano bene il funzionamento della prigione. Un carcere è una cosa forse troppo complicata per il cervello di un mafioso. I miei illustri fratelli ce l'avevano a morte con lo Stato e, di conseguenza, con la prigione che li colpiva duramente e direttamente come espressione della legge. Per loro non c'era altro che l'ostilità, la guerra agli agenti di custodia, ai direttori, agli impiegati, al personale in blocco. Cercavano di raccomandarsi per non farsi trasferire, per ottenere certificati medici, ricoveri in ospedale e in infermeria, permessi di colloquio, cibo, indumenti e oggetti non consentiti, ma operavano per vie esterne, per favori politici. E non sempre ci riuscivano. Quando scoppiavano le rivolte, non si esponevano in prima persona, ma sotto sotto sostenevano quelle azioni disperate e senza costrutto che non portavano altro che guai ai carcerati. Gli uomini di Cosa Nostra erano ben visti in carcere perché intercedevano a favore degli altri detenuti presso giudici, medici, uomini politici, avvocati e altri. Ma questi stessi uomini d'onore non riuscivano a capire che il loro potere poteva essere usato per rendere la vita carceraria meno insopportabile a tutti: detenuti e personale di custodia. Bastava fare un piccolo sforzo per comprendere la logica della baracca. La logica del direttore, in primo luogo. Un direttore intelligente non si preoccupa solo che il regolamento venga rispettato, ma cerca di governare un carcere in modo che non si verifichino soprattutto due cose: le evasioni in primo luogo, e le sommosse e le proteste violente in secondo. Capita la prima questione, si deduceva anche che esisteva un punto di convergenza tra gli uomini d'onore e la direzione. I mafiosi, infatti, non evadevano. Era regola di Cosa Nostra che gli uomini d'onore non fuggissero di prigione per non creare disagi al resto dei detenuti. Quando fuggono dei carcerati, scattano infatti misure punitive severe contro tutta la popolazione di una casa di pena in termini di trasferimenti, limitazione dei colloqui, restrizioni di ogni genere. Quando mandammo a dire a Vincenzo Rimi - prima del 1970 - che eravamo pronti a mettere in atto un piano per farlo scappare dal carcere di Arguta, dove stava scontando l'ergastolo per un omicidio che non aveva commesso, lui ci rispose che dovevamo essere impazziti: mai e poi mai lui sarebbe potuto evadere rovinando gli altri detenuti. Dopo avere assunto un certo ruolo dentro l'Ucciardone, arrivai al punto di chiamare il direttore e dirgli: « Nella cella numero X sono state segate le sbarre. Chiami un agente di custodia fidato e lo mandi a farle saldare. Però la prego di non denunciare i detenuti di quella cella. Sono in grado di garantirle che non ritenteranno più». Quale direttore avrebbe accettato una proposta del genere, se non avesse avuto la certezza che in questo modo tutto sarebbe stato messo a tacere, senza conseguenze negative né per lui né per la reputazione del suo carcere presso l'opinione pubblica e i suoi superiori? Anche sul come evitare le rivolte e le barricate, era possibile un'intesa. Quand'è che i prigionieri si mettono a protestare con violenza? Quando vengono stuzzicati da provvedimenti fastidiosi, che molte volte sono inutili. Oppure quando vengono puniti indiscriminatamente, senza guardare alle colpe e alle responsabilità reali, o quando il personale di custodia infierisce senza rendersi conto delle conseguenze. Allora è necessario che ci sia qualcuno che spieghi al direttore questi rischi e che si metta d'accordo con lui sui diritti dei carcerati. Qualche mese dopo il mio arrivo a Palermo, ero diventato un'autorità all'interno del carcere, un «capo», e non perché qualcuno me ne avesse conferito i gradi, ma Pagina 89


Addio Cosa Nostra..txt perché ero una persona capace di trovare quel punto di equilibrio tra chi soffriva come noi la condizione di recluso e i doveri di coloro che avevano il compito di sorvegliarci. Non difendevo solo il carcerato, ma anche l'agente di custodia. Una volta chiariti i doveri e i diritti delle due parti, non c'era bisogno di essere sgarbati con le guardie, di allungare schiaffi e pedate. Finché sono stato all'Ucciardone non sono scoppiate risse tra agenti di custodia e detenuti né ci sono stati pestaggi. A differenza dei miei pari di Cosa Nostra, ero capace di dialogare con il direttore. E alla lunga divenni indispensabile. Ero l'unico che venisse ascoltato da tutti i detenuti e, quando nel 1973 dovetti essere temporaneamente trasferito in ospedale, a Barcellona Pozzo di Gotto, per venire operato di emorroidi, il direttore del carcere di Palermo mi fece tornare indietro d'urgenza perché stava montando una rivolta e lui, senza il mio aiuto, non sapeva che pesci pigliare. All'Ucciardone feci entrare il «Giornale di Sicilia e gli altri quotidiani. Feci entrare carta, buste e penne per scrivere alle famiglie. Il tempo stabilito per i colloqui con i familiari e i legali fu aumentato. Feci perfino entrare le lamette, i pennelli e il sapone da barba. Questa fu una novità importante: prima c'era un recluso che passava ogni mattina a fare la barba agli altri. Si presentava con un unico pennello e un unico secchio di acqua saponata che non veniva cambiata. Un secchio e un pennello per tutte le facce. Uno schifo. Mi sarei fatto crescere la barba come Matusalemme piuttosto che farmi toccare il volto da quella roba fetida. Non nego di avere goduto di consistenti privilegi durante la mia reclusione all'Ucciardone. Sono sempre rimasto in infermeria, privo di controlli e di obblighi. Chiunque, dall'esterno, poteva venire al carcere e conferire con me. Ricevevo gli avvocati fuori orario. Anche di sera, quando il carcere era chiuso. Telefonavo dovunque, perfino in Brasile, senza chiedere il permesso a nessuno. Sarei potuto evadere senza difficoltà, ma non l'ho mai fatto. In ossequio alle regole di Cosa Nostra, ma soprattutto perché non ritenevo giusto danneggiare gli altri detenuti. D'altra parte, ero a disposizione di tutti. Non facevo i miei comodi. Chiunque si rivolgeva a me veniva ascoltato e aiutato. Non c'è stato detenuto, mafioso e non, che non abbia ottenuto il mio interessamento per farsi trasferire, per mettere a posto una dichiarazione, per farsi avvicinare a casa, per farsi proteggere da qualche compagno di detenzione poco rispettoso, per accelerare o ritardare i tempi del suo processo. Gli uomini d'onore che entravano e uscivano dall'Ucciardone - ed erano centinaia, in quanto provenivano da tutta la Sicilia- mi consideravano il loro principale punto di riferimento. Sono venuto a conoscenza di migliaia di vicende, di segreti, di controversie che riguardavano decine e decine di famiglie. La mia reputazione continuava a crescere. Il sostegno alle mie iniziative da parte dei mafiosi reclusi era incondizionato. Sono giunto persino a ordinare a una folla di ottocento detenuti di raccogliere immediatamente il pane che avevano gettato sul pavimento per protesta e di rientrare nelle celle. In quel momento, senza la totale adesione degli uomini d'onore presenti all'Ucciardone, non avrei potuto azzardare una presa di posizione così forte. Li sentivo compatti dietro di me. Fu proprio in quegli anni, dal 1973 al 1977, che cominciai a notare i primi sintomi del mutamento che stava investendo Cosa Nostra. Gli uomini d'onore cominciavano a mostrare segni di benessere e di ricchezza mai visti in precedenza. Il fatto di trovarmi all'Ucciardone in una posizione di prestigio mi consentiva di conoscere fin nei minimi dettagli le fonti di reddito dei miei fratelli mafiosi. Il benessere derivava dal boom del contrabbando di sigarette, praticato ora massicciamente dagli uomini d'onore siciliani che si erano messi in società con Pagina 90


Addio Cosa Nostra..txt alcuni esponenti della camorra napoletana. I maggiori contrabbandieri palermitani erano Tommaso Spadaro e Nunzio La Mattina, due delinquenti comuni che furono immessi in Cosa Nostra, nella famiglia di Porta Nuova, proprio per controllarli e costringerli a rendere più facile agli uomini d'onore l'accesso ai profitti del contrabbando. Anche un noto contrabbandiere napoletano, Michele Zaza (detto «Michele 'o pazzo») fu fatto uomo d'onore per obbligarlo a sottoporsi alle regole del nostro club. Un tentativo di reclutamento fu effettuato anche nei confronti di un giovane camorrista dell'hinterland napoletano, Raffaele Cutolo, ma egli declinò l'offerta con modi irriguardosi e si inimicò per sempre Cosa Nostra. Il volume d'affari del commercio illecito di sigarette era diventato enorme: dalle 500 casse che negli anni '50 costituivano una grossa partita, si era passati alle 35,40.000 sbarcate a ogni viaggio tra Napoli e Palermo da una nave contrabbandiera. Per Cosa Nostra il controllo del contrabbando divenne di importanza capitale per tre motivi: le dimensioni dei profitti, che potevano alterare le gerarchie e la stabilità interna della consorteria, nonché i suoi rapporti con la malavita comune; il liSChiO rappresentato dalla frequenza dei movimenti delle navi nel Tirreno e dalla necessità di ricorrere su scala allargata a personale esterno alla mafia, e perciò scarsamente affidabile; i contrasti tra i vertici operativi del contrabbando che si truffavano continuamente mentendo su tutto: sul la quantità delle casse trasportate, sul rispetto dei turni, sugli accordi commerciali, sui canali di rifornimento e di distribuzione. Il pericolo che l'attività del contrabbando rappresentava per la pace appena raggiunta dalle famiglie di Cosa Nostra divenne così evidente che ci furono pochissimi dissensi in Commissione a proposito dell'atteggiamento da tenere nei confronti degli organizzatori del traffico e delle modalità del suo svolgimento. Cosa Nostra impose l'ordine vincolando Spadaro, La Mattina e i napoletani a rispettare l'obbligo di dirsi la verità che vige tra uomini d'onore. Il transito nel Tirreno fu limitato a una sola nave per volta e la partecipazione agli affari fu estesa a una numerosa schiera di uomini d'onore, in modo da evitare il paradosso di mafiosi poveri che comandano malavitosi ricchi e per ridurre al minimo indispensabile il numero di elementi estranei impegnati nelle attività più delicate. Fu dato inoltre ampio spazio al principio della libertà di associazione in materia di affari: ciascun uomo d'onore poteva mettersi in società con chiunque altro nel business del contrabbando, indipendentemente dall'appartenenza alle famiglie. Ciò dette la possibilità agli elementi già inseriti nel traffico di offrire partnership ai capi più potenti e di conquistare in questo modo posizioni di potere che non si sarebbero neppure sognati di ottenere diversamente. Nunzio La Mattina divenne socio dei fratelli Bontade. Masino Spadaro si legò a Pippo Calò, diventato da poco rappresentante di Porta Nuova. Michele Zaza entrò in partnership con Alfredo Bono, influente personaggio della famiglia di San Giuseppe lato. Per evitare che più navi sostassero contemporaneamente nel Tirreno in attesa che la merce venisse scaricata, la Commissione stabilì dei turni: un'imbarcazione veniva caricata per conto di La Mattina e soci, un'altra per Spadaro, un'altra ancora per la Commissione e una quarta per conto dei napoletani. Era un buon sistema per regolare il traffico, ma ha funzionato solo in parte. Si verificavano continue stranezze perché, anche dopo essere diventati uomini d'onore, Spadaro e La Mattina non avevano modificato la loro mentalità di truffatori e la loro scadente fibra umana, forse anche a causa dell'influenza che i napoletani esercitavano su di loro. Nonostante l'obbligo di dire la verità agli altri uomini d'onore frenasse la loro tendenza a fare i furbi, essi e Michele Zaza dovevano essere sorvegliati attentamente. A un certo punto la nave di loro spettanza, dopo avere effettuato le operazioni di scarico durante il turno stabilito, presentò comunque un carico di 40.000 casse. A tale proposito vi furono lunghe discussioni: era evidente che qualcuno, durante la notte, riempiva nuovamente le stive della nave, trasformando un singolo turno in una sequenza di turni. L'imbroglio fu scoperto e Spadaro fu sul punto di perdere la carica di vicecapo Pagina 91


Addio Cosa Nostra..txt di Porta Nuova. Michele Zaza non era da meno. Anni dopo, Stefano Bontade mi raccontò ridendo che Zaza era un incorreggibile impostore, perché - anche quando il turno della nave toccava alla Commissione ricorreva a ogni trucco possibile per scaricare le casse di sigarette nel suo interesse trascurando quello di Cosa Nostra. Le controversie e i malintesi non cessarono dopo l'intervento regolatore della Commissione. Sembrarono affievolirsi per un po', ma dopo un certo tempo riesplosero. Furono questi conflitti e la pressione della guardia di finanza (che cominciò a intercettare e sequestrare intere navi) a far declinare - intorno al 1977, 78 il business del contrabbando e a incoraggiare quello della droga. Il coinvolgimento nel contrabbando risollevò le sorti economiche di parecchi uomini d'onore dopo gli anni bui seguiti alla strage di Ciaculli. Potei osservare le conseguenze di tutto ciò sulla vita carceraria. In carcere arrivavano uomini d'onore pieni di boria, altezzosi, che non si preoccupavano minimamente della loro popolarità presso gli altri detenuti. E ai quali non importava di stabilire un certo modus vivendi con gli agenti di custodia. Il mio consiglio di essere cortesi con le guardie e di pretendere in cambio rispetto da loro, spesso non veniva seguito. I mafiosi cominciavano a diventare ricchi e risolvevano il problema corrompendo gli agenti di custodia. Il divario tra lo stipendio delle guardie e i soldi di cui disponevano adesso gli uomini d'onore diventava ogni giorno sempre più grande. Ho visto regalare automobili come un tempo si regalavano gli accendini. La corruzione era un modo sbrigativo per acquisire privilegi e considerazione in prigione, ma il rispetto che deriva dai soldi dura poco. E come la fiammella di un fiammifero: finiti i soldi finito il rispetto. Notai anche che per i miei fratelli detenuti sembrava non esistessero più cose impossibili. Si sentivano sempre più padroni della situazione giudiziaria a Palermo e nel resto della Sicilia. Si vantavano di dominare le forze dell'ordine e se ne infischiavano delle conseguenze di ciò che facevano, in termini di incriminazioni e di arresti. Dimostravano la certezza più assoluta di scontare soltanto qualche giorno o alcuni mesi di carcere. Non dimenticherò mai l'episodio più emblematico di questo nuovo stato di cose. Un uomo d'onore, sottocapo di una famiglia, fece un'esecuzione che costò la vita a due ragazzi. La polizia lo vide, lo inseguì e lo arrestò. Ebbene, quest'uomo riuscì a farsi assolvere dal tribunale! Un altro sintomo di come i tempi cambiavano fu il fatto che i detenuti mafiosi cominciarono a rifiutare sistematicamente il cibo fornito dall'amministrazione penitenziaria. Il cosiddetto «vitto del governo» non era mai stato gradito dagli uomini d'onore, ma veniva accettato per ragioni di bisogno e di praticità. Anch'io mi sono nutrito, in più occasioni, a Taranto e a Roma negli anni '50, per esempio, di quanto passava il carcere. E certamente non ero, allora, tra gli indigenti. Prima degli anni '70, i detenuti mafiosi ricevevano dai parenti la dotazione essenziale: qualche paio di mutande e di calzini, le camicie e un po' di cibo cucinato in casa. Per i familiari degli uomini d'onore era un vero problema far giungere ai loro cari in galera qualche finocchio e qualche melanzana. Quando il contrabbando divenne un affare consistente, vidi arrivare in carcere camicie e vestaglie di seta, completi da passeggio e da sera, set completi di biancheria, veri e propri corredi. Roba elegante e costosa, acquistata in blocco nei migliori negozi di Palermo. Per non parlare del cibo. Cominciò ad arrivarne talmente tanto che dovetti allestire una stanza intera per conservare le derrate e uno stanzone per i pranzi e le cene. In questa sala gli uomini d'onore detenuti consumavano i propri pasti: si formavano tavolate di trenta-quaranta persone, servite da uomini d'onore che pensavano poi a sparecchiare e rigovernare le stoviglie. Si facevano dei turni, dai quali erano esentati i mafiosi più anziani. E c'erano i cuochi, che erano uomini d'onore che sapevano cucinare la pasta, la carne o il pesce. Avevamo una specie di dispensa dove conservavamo i prosciutti e i salami. Pagina 92


Addio Cosa Nostra..txt Disponevamo di frigoriferi portatili dove mettevamo la frutta, le mozzarelle, le ricotte fresche, le verdure, il vino bianco, gli spumanti. Tutto era in comune: non si teneva conto della proprietà personale. Eravamo una piccola comunità di eletti che se la passava benissimo, tra pranzi e cene succulenti, consumati nelle ore di nostro gradimento e non secondo gli orari assurdi della vita carceraria. Gli uomini d'onore erano tutti ricoverati in infermeria in quanto accusavano i malanni più strampalati. I carcerati comuni ricoverati in infermeria erano pochissimi, e quasi tutti erano costretti a pranzare alle 11 del mattino e a cenare alle 16.30, a causa del cambio di turno delle guardie. Ogni nuovo turno riceveva in consegna da quello precedente la popolazione, la «forza», della prigione, che doveva trovarsi in cella nel momento del passaggio delle consegne. Avevamo a disposizione anche un locale nel quale si poteva giocare a carte, discutere, condurre una vita sociale. I contatti frequenti permettevano di chiarire molti problemi, di far circolare le informazioni. Si creò un clima di concordia e venne stabilito il principio che all'interno del carcere non si dovevano riprodurre le divisioni e gli odi del mondo esterno di Cosa Nostra. Fui proprio io a insistere su questo punto. Le liti e le spaccature dovevano essere lasciate fuori e i conti sarebbero stati saldati all'uscita, perché le azioni violente commesse in prigione si sarebbero ritorte contro tutti e non solo contro chi vi era coinvolto. Gli anni '70 all'Ucciardone furono perciò molto diversi dagli anni '80, quando in carcere fu ucciso Pietro Marchese e si tentò di strangolare Gerlando Alberti. A ogni Natale ricordo di avere invitato a tavola con noi addirittura Giuseppe Sirchia, vicecapo dell'Acquasanta e intimo di Michele Cavataio. Sirchia era odiato da Bontade e da molti altri perché esecutore dell'omicidio di Bernardo Diana, uomo d'onore stimato e benvoluto. Ebbene, finché Sirchia si trovò in carcere, nessuno lo maltrattò. Era un uomo d'onore detenuto come gli altri. La morte di Diana fu comunque vendicata alcuni anni dopo con l'uccisione di Sirchia, ma fuori dalle mura dell'Ucciardone. Arrivato in carcere a Palermo, un fratello della mia famiglia mi riferì che Pippo Calò, nuovo capo di Porta Nuova, mi aveva espulso mentre ero assente dall'Italia a causa della mia vita sentimentale. Mi si rimproverava di avere lasciato mia moglie per convivere con un'altra donna. In astratto, sulla base dei precetti tradizionali di Cosa Nostra, sarei stato passibile di quel provvedimento, ma, in realtà, da tempo non si applicava una sanzione così grave per fatti del genere. E non pensavo di averla meritata con il mio comportamento. Mi ero sposato per la prima volta a diciassette anni non ancora compiuti. Melchiorra Cavallaro era stata una madre eccellente, ma aveva cessato di essere la mia compagna perché troppo assorbita dai suoi doveri nei confronti dei figli. Non avevo però cessato di rispettarla, anche se avevo tentato di costruire una vita affettiva più soddisfacente con Vera Girotti prima e Cristina Guimaraes dopo. Appena era stato possibile, avevo fatto venire a New York la mia famiglia di Palermo, alla quale non avevo fatto mancare nulla in alcun momento. Quando ero partito per il Brasile, li avevo lasciati nell'agiatezza. I miei figli maggiori erano proprietari di due pizzerie ben avviate La sanzione di Calò mi parve pertanto spropositata e devo dire che tale sembrò anche agli altri uomini d'onore detenuti, i quali la ignorarono, seguitando a manifestarmi deferenza e stima. Se l'avessero ritenuta valida, non avrebbero dovuto neppure salutarmi o rivolgermi la parola. Ciononostante, quando Gaetano Badalamenti fu arrestato e recluso all'Ucciardone per alcuni mesi intorno al 1974 o 1975, mi confermò che la misura dell'espulsione era stata effettivamente presa da Calò. Chiesi allora a quest'ultimo, tramite alcuni intermediari, se ciò fosse vero. Ricevetti risposta di non fare caso a Badalamenti e alla sua vocazione di «tragediaturi» [persona che inventa «tragedie", amplificando e distorcendo i fatti] . Rimasi comunque perplesso. Pagina 93


Addio Cosa Nostra..txt Avevo notato che Calò, mio capofamiglia e mio amico, si era disinteressato delle mie esigenze mentre ero detenuto a Palermo. E regola fondamentale di Cosa Nostra che il rappresentante si occupi dell'assistenza legale degli uomini d'onore della sua famiglia che vengono arrestati e provveda alle spese minute e al mantenimento dei familiari dei più indigenti. Io non potevo essere considerato indigente, ma la mia situazione finanziaria non era rosea e in ogni caso era peggiore di quella della maggior parte dei miei compagni di detenzione. Calò non si era preoccupato di me, né aveva chiesto se avevo bisogno di qualcosa. Cominciarono a sorgermi i primi dubbi sulla stoffa di cui era fatto Pippo Calò. Il suo opportunismo e la sua mancanza di princìpi si potevano notare già allora. Egli aveva nominato vicecapo di Porta Nuova un individuo di consistenza umana e mafiosa quasi nulla come Tommaso Spadaro, solo perché quest'ultimo, dato il suo ruolo di primo piano nel business del contrabbando, poteva procurargli ingenti guadagni. Contemporaneamente, aveva abbandonato al suo destino un uomo d'onore valoroso come Giuseppe Galeazzo, soldato della nostra famiglia. Galeazzo era stato inviato da Calò a effettuare una missione punitiva molto pericolosa e poi non era stato aiutato in alcun modo a inserirsi nelle attività di contrabbando. In carcere, il soldato si era lamentato più volte con me per le scarse attitudini di capofamiglia dimostrate da Calò, il cui disinteresse lo aveva costretto a emigrare a Milano, dove per sopravvivere aveva lavorato come operaio in un'officina meccanica. Durante un incidente sul lavoro, Galeazzo aveva perso due falangi delle dita di una mano e si era ridotto a percepire una misera pensione di invalidità. Se Calò si mostrava indifferente, il resto del mio club era invece entusiasta della mia presenza all'Ucciardone. Forse anche troppo, cominciai a sospettare. Piano piano si insinuò dentro di me il dubbio che, in realtà, a Cosa Nostra facesse comodo Tommaso Buscetta in carcere. Tutti mi riempivano di lodi per il mio lavoro di pacificazione e per come mantenevo l'ordine all'Ucciardone assicurando così la tranquillità degli uomini d'onore arrestati. Ma nessuno poi si preoccupava davvero dei miei problemi, della mia famiglia e della mia posizione giudiziaria. Il mio carattere orgoglioso mi impediva, è vero, di lamentarmi e di chiedere aiuto. Ma non era poi così difficile dedurre da diversi particolari della vita che conducevo in carcere che non disponevo di mezzi finanziari consistenti. Dopo la mia espulsione dal Brasile e il mio arrivo in Italia, il sostegno della mia prima famiglia si era gradualmente affievolito. Ogni tanto ricevevo somme di denaro dai figli cui avevo lasciato le pizzerie, e i miei fratelli di sangue che vivevano a Palermo non mi facevano mancare l'indispensabile. Ma avevo a mio carico una seconda famiglia, con tre figli che mi avevano raggiunto in Sicilia assieme alla madre. Dal 1973 al 1976 la mia situazione finanziaria andò gradualmente deteriorandosi. La cosa curiosa era che il mio prestigio pubblico aumentava mentre la qualità della mia vita privata e il mio curriculum giudiziario peggioravano. Nel 1976 ebbi la conferma definitiva che per una larga parte degli uomini d'onore il luogo più opportuno dove dovevo stare era la prigione. A Salerno venne celebrato il processo per il traffico di droga originato dalle accuse di Giuseppe Catania. Non era difficile intervenire per «aggiustarlo» anche perché ero assolutamente innocente e molti capimafia si facevano ormai i processi e le sentenze come pareva a loro. Michele Zaza, è vero, si offrì di interessarsi al mio processo in quanto aveva la possibilità di avvicinare qualche giudice: Salerno era una zona nella quale si muoveva più agevolmente e disponeva di aderenze di notevole peso. Ma Pippo Calò lo scoraggiò, dicendogli di farsi gli affari suoi, perché si trattava di problemi che riguardavano la Sicilia e non i napoletani. La mia forza d'animo divenne ben presto un alibi per gli amici di Cosa Nostra, i quali mi davano una manata sulla spalla e commentavano le mie difficoltà con la solita frase: «Eh, ma tu sei forte e puoi sopportare meglio di chiunque altro le Pagina 94


Addio Cosa Nostra..txt avversità». Dopo qualche anno di detenzione mi convinsi che non era un complimento, ma una presa in giro. L'espressione di quelli che mi si rivolgevano con queste parole cominciò a tradire ipocrisia e imbarazzo. Non sapevano cosa dirmi per giustificare il loro comportamento così poco solidale nei miei confronti. E così anomalo per le tradizioni di Cosa Nostra. Alcune di queste erano andate indebolendosi in seguito alla mentalità commerciale introdotta dal contrabbando. Appena arrivato all'Ucciardone, rimasi colpito dal fatto che era cessato il divieto per i ladri di professione di commettere furti nei territori delle famiglie. Ai miei tempi quando si scopriva il responsabile di un furto, lo si sottoponeva a una severa punizione corporale. Una volta la piccola criminalità era a malapena tollerata, ma ora i tempi erano cambiati e furti e rapine venivano consentiti, purché autorizzati da un uomo d'onore, il quale riceveva in cambio una sostanziosa quota dei proventi. Altre tradizioni e norme erano interpretate secondo i comodi di chi comandava, ma la regola del sostegno agli uomini d'onore detenuti era rimasta molto forte e veniva rispettata in ogni circostanza. Per quanto riguarda Stefano Bontade, gli Inzerillo, Totò Greco e diversi appartenenti alla famiglia di Porta Nuova che mi erano amici, penso che la spiegazione sia da ricercarsi nella loro superficialità e nel loro individualismo. Ma il disinteresse degli altri - e cioè di Calò, di Riina, di Michele Greco e di quelli che stavano confluendo in uno schieramento sempre più definito - nasceva da qualcosa di più corposo. Dalla loro valutazione che se Tommaso Buscetta si fosse trovato fuori dal carcere, e avesse potuto adoperare pienamente il suo carisma, trasformandolo in potere, programma, strategia, entrando a far parte della Commissione, avrebbe rotto le uova nel paniere. Se avessi preso il posto di Calò alla guida di un mandamento del peso di Porta Nuova, Riina non sarebbe riuscito a diventare quello che è diventato. Avrei trovato il modo di renderlo inoffensivo. E lo avrei fatto senza neppure ammazzarlo. Tommaso Buscetta non era meno o più aggressivo di Totò Riina. Era- ed è - tanto più intelligente. Lo avrebbe ridimensionato, riducendolo alla misura di un capomandamento come un altro. Il mio carisma e il mio seguito all'interno di Cosa Nostra erano tali che se mi fossi posto alla guida anche di una frazione di essa, avrei distrutto i Corleonesi nella culla. Li avrei annientati quando era ancora possibile farlo, e cioè fino alla metà degli anni '70. Avevo capito prima degli altri il loro piano, il loro diabolico modo di agire. Gli anni cruciali sono stati quelli che vanno dal 1975 al 1978. Dal sequestro dell'esattore Corleo, suocero dei cugini Salvo, fino all'omicidio del colonnello Russo e alla messa fuori gioco di Gaetano Badalamenti e di Giuseppe Di Cristina che cominciarono a chiudere la partita. Il sequestro Corleo fu un segnale grande come una casa inviato a tutti gli uomini d'onore da Riina e dai suoi. Fu una mossa di estrema audacia e di grande azzardo. Fu organizzato per estorcere il riscatto ai Salvo. Una cifra immensa per quei tempi: l'equivalente di 80 miliardi di lire attuali. Ma era anche un messaggio che non venne compreso in tutte le sue implicazioni. Né Stefano Bontade, né Badalamenti, né gli altri intuirono la portata di quanto era accaduto. Non capirono il significato della sfida che i Corleonesi avevano lanciato colpendo i cugini Salvo, asse portante dell'edificio di Cosa Nostra in Sicilia e dei suoi contatti politici romani. Era il 1975 e si era ancora in tempo a contrattaccare. Ma si continuò a ignorare l'evidenza e a rimandare al giorno dopo un confronto che andava invece accettato e combattuto subito. Quando, nel 1978, caddero, a quattro mesi di distanza l'uno dall'altro, Giuseppe Di Cristina e Pippo Calderone, la situazione era quasi del tutto compromessa. I degenerati erano già pronti a colpire sia lo Stato sia gli avversari interni e Pagina 95


Addio Cosa Nostra..txt scatenarono una terribile offensiva che ebbe inizio nel luglio 1979 con l'uccisione di Boris Giuliano e si concluse nel 1982, 83 con l'omicidio del generale Dalla Chiesa e l'assassinio del giudice Chinnici. Osservavo il comportamento dei fratelli di Cosa Nostra nei miei confronti e non reagivo. Quando mi chiedevano se avevo bisogno di qualcosa, rispondevo che stavo bene e non volevo niente. Ero quasi contento, in fondo, del disinteressamento di Cosa Nostra. Esso costituiva una conferma a quanto da tempo covava nella mia coscienza. La sorte mi aveva condotto a vivere in mezzo alla gente sbagliata. Dovevo trovare il modo di abbandonarla nel momento più opportuno e soddisfare quelle aspirazioni che prima non avevo potuto realizzare: un'esistenza libera e serena, priva di condizionamenti e di limitazioni, all'aria aperta, in mezzo a gente trasparente e sana, lontano dalle mene contorte e tenebrose della mafia. Stava inoltre maturando in me il pensiero degli obblighi che avevo accumulato con le persone che amavo e con quelle che avevo generato, e che dipendevano da me e dalle conseguenze delle mie azioni. C'era soprattutto l'immenso debito di amore e di gratitudine contratto con quella ragazza della buona società brasiliana che avevo tolto dalla gabbia dorata costruita intorno a lei dal padre facendola diventare una persona arrestata, schedata e torturata. Una ragazza di ventidue anni che si era accollata due figlie non sue e che mi aveva seguito in Italia recitando la poco invidiabile parte della moglie del carcerato. Una ragazza che per otto anni mi ha scritto una lettera al giorno. Una lettera di almeno otto pagine. Una ragazza che veniva in parlatorio quasi tutti i giorni, in mezzo a donne dall'aspetto sciatto e avvilito, tornava a casa e si metteva a scrivermi una lettera d'amore! Una ragazza che dal 1977 mi ha seguito da un capo all'altro dell'Italia senza lamentarsi e senza stancarsi. Senza mandarmi una volta per tutte all'inferno assieme a quella canea di mentecatti cui ero costretto a dare credito e a quel mondo insensato e delirante al quale mi ostinavo ad attribuire un significato. «Dopo otto anni trascorsi in questo modo, non posso più continuare a scherzare con la vita facendo il mafioso. Non posso ingannare più questa ragazza e me stesso. Devo trovare un posto nel quale stare in pace e rendere Cristina felice. Devo dire sul serio addio a Cosa Nostra.» Questi erano i miei pensieri nel 1980, quando ho lasciato il carcere. IL CASO MORO, IL GENERALE DALLA CHIESA, GIULIO ANDREOTTI. Nell'ottobre del 1977 fui trasferito nel supercarcere di Cuneo, in Piemonte, all'altro estremo dell'Italia. Devo tutto questo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un uomo che non ho ammirato perché ho ricevuto da lui, come mafioso detenuto, un trattamento disumano e ingiusto. Tutto cominciò quando Dalla Chiesa si mise a individuare detenuti da inviare nelle supercarceri appena costituite. La preferenza veniva data ai soggetti che davano fastidio ai direttori: gente che aveva ricevuto punizioni oppure era stata oggetto di rapporti disciplinari da parte del personale di custodia. Quando tale richiesta fu rivolta al direttore dell'Ucciardone, Di Cesare, questi rispose che non aveva problemi con i suoi reclusi. «E Tommaso Buscetta?» gli fu chiesto. «Buscetta non dà alcun fastidio. Anzi, è un elemento di equilibrio, una garanzia per la pace interna del carcere. Non ha mai tentato di evadere. Non ha dato alcun motivo di lamentela agli agenti di custodia. A suo carico non ci sono neppure denunce anonime. Tempo fa gli abbiamo concesso perfino la possibilità di adoperare dei seghetti da modellismo nella sua cella.» Si trattava di strumenti che adoperavo per costruire navi in miniatura come le caravelle di Colombo che ho regalato a mia figlia e che lei conserva ancora. «Abbiamo capito. Allora è proprio vero che all'Ucciardone comanda più Buscetta che lei, e che è lei a rivolgersi a lui per ottenere obbedienza dai detenuti.» Di Cesare reagì, ma non ci fu nulla da fare. Fui inviato al carcere di Cagliari, poi a quello di Nuoro e da lì al supercarcere dell'Asinara. Raggiunsi il nord dell'isola con condizioni meteorologiche proibitive. Il mare tra la Sardegna e l'isola dell'Asinara infuriava a forza 8 e non era Pagina 96


Addio Cosa Nostra..txt possibile attraversare lo stretto. Allora fu Dalla Chiesa in persona che ordinò di portarmi in elicottero, ma il tempo era così cattivo che il velivolo non fu in condizione di alzarsi dal suolo. Il generale dispose che per quella notte venissi ospitato in carcere. Fui sbattuto in un sotterraneo e il giorno seguente fu fatto partire un traghetto per portarmi a destinazione. Il mare era in tempesta e durante il tragitto ho vomitato anche il latte di mia madre. Lo stabilimento dell'Asinara era pieno di terroristi famosi ed era governato da un personaggio pittoresco di nome Cardullo. Anche Cardullo era famoso, ma per i suoi metodi un po' strambi. Ogni nuovo detenuto che sbarcava veniva rinchiuso dentro celle piccole e buie, cubicoli che impaurivano chiunque. Intorno alle 2 di notte si presentò Cardullo con un numeroso seguito di guardie, impiantò una scrivania da campo in mezzo a una stanza e fece arrivare al suo cospetto il nuovo venuto. Si mise allora a sfogliare il mio fascicolo personale. Una scena teatrale, tutta calcolata e studiata nei minimi particolari. Cardullo non riuscì a trovare alcuna annotazione disciplinare. Non c'era traccia di un vetro rotto, di un cazzotto a una guardia, di un diverbio con un direttore. Niente di niente. Cardullo aggrottò le ciglia e si voltò verso un maresciallo. «Ma cos'è questa roba?» disse. «Come si spiega questa cosa? Qui non c'è scritto niente!» Il maresciallo spalancò le braccia. Cardullo si rivolse a me: «Mi scusi. Ma lei cosa ci fa qui? Perché si trova qui? Non lo sa che lei non c'entra niente con questo posto?». «Ah! Perché non lo va a domandare al suo caro amico Dalla Chiesa?» gli risposi con prontezza. «Dalla Chiesa non è amico miooo!» gridò il direttore guardandosi intorno per gustarsi l'effetto della sceneggiata che stava recitando davanti ai suoi fedeli. «E lui che mi ha spedito qui. Forse per ringraziarmi di aver fatto saldare le sbarre di qualche cella dell'Ucciardone» rincarai ancora. «Mi dica in che cosa ha mancato nel carcere da cui viene!» insistette con scarsa convinzione Cardullo. «Non ho dato fastidio a nessuno» replicai. «E dimostrato dal mio fascicolo.» «Se ne vada, allora» ribatté solenne il direttore. «L'Asinara non fa per lei. Anzi, lei non è adatto all'Asinara.» Poi si rivolse ai suoi e ordinò: «Questo qui domani ritorna in continente». Fui cacciato dall'isola come un lebbroso. Cardullo non voleva mafiosi. La sua specialità era trattare i terroristi e il mio arrivo avrebbe turbato l'equilibrio che si era stabilito nella sua casa di pena. Rimisi piede sulla terraferma dopo un altro terribile viaggio per mare e venni inviato nel penitenziario di Paliano, nei pressi di Roma. Nel frattempo tra Dalla Chiesa e Cardullo si scatenò l'inferno. Ero arrivato da pochi giorni a Paliano quando venne scoperto un documento stilato dai reclusi, ma ispirato molto in alto secondo il quale Buscetta si trovava in quella prigione per organizzare una rivolta. Un altro trasferimento, questa volta a Roma, nella prigione di Regina Coeli, dove rimasi per due mesi prima di essere inviato nel supercarcere di Cuneo. Dalla Chiesa era riuscito a farmi finire in un penitenziario che controllava totalmente. Ero l'unico detenuto mafioso in un carcere di terroristi. Rimasi a Cuneo fino al momento della mia fuga dalla semilibertà, nel 1980. Per tre anni ho visto i miei figli e mia moglie attraverso una vetrata. Ho lasciato Cuneo per trascorrere brevi periodi nelle carceri di Napoli, Milano, Palermo e Termini Imerese. Sono sempre stato trattato male, malissimo dietro precisa disposizione di Dalla Chiesa in tutte le carceri nelle quali sono stato recluso. Ero considerato dagli altri detenuti una disgrazia, perché ovunque venissi trasferito ero sottoposto a misure di massima sicurezza che venivano estese ai compagni di detenzione, i quali protestavano vivacemente contro la mia presenza E stata un'odissea. Ricordo un mio viaggio da Termini Imerese a Cuneo. Dalla Chiesa mi fece trasferire con una vettura blindata, di quelle che hanno la gabbia all'interno. Pagina 97


Addio Cosa Nostra..txt Percorremmo 1700 chilometri senza aria condizionata e con i finestrini chiusi. Il viaggio durò due giorni e non so come ho fatto ad arrivare vivo. Forse per la fibra forte che ho ereditato dai miei genitori, forse per le continue maledizioni che scagliavo ridendo all'indirizzo di Dalla Chiesa. I carabinieri che viaggiavano con me erano stremati e mi suggerivano di dichiarare che avevo intenzione di sfondare la gabbia per dare loro un pretesto per interrompere la traduzione e portarmi in caserma. Non so perché Dalla Chiesa si è accanito nei miei confronti. Non l'ho mai incontrato e mi dispiace perché glielo avrei chiesto senz'altro. Può darsi che il suo atteggiamento fosse motivato da quanto si scriveva a proposito della mia «maschera» di capomafia, leader della droga, padreterno delle carceri... Forse Dalla Chiesa voleva dare l'esempio e dimostrare che lo Stato era inflessibile e combatteva la mafia con la stessa energia che impiegava contro il terrorismo. Ma i fatti degli anni '70 hanno dimostrato che questa era solo un'opinione del generale. Pagata a caro prezzo da me e dai miei cari. Appena arrivato a Cuneo, trovai un faro, un riflettore enorme, di almeno un metro di diametro installato fuori dalla finestra della mia cella. Era sempre acceso e non aveva lo scopo di impedirmi di evadere. Si sapeva che non l'avrei fatto. Stava lì solo per rendermi la vita impossibile: non si può dormire con una luce così intensa, abbagliante, sparata contro. Per riuscire a dormire mettevo panni neri sugli occhi, ma la luce filtrava comunque. Anche in quel supercarcere riuscii a stabilire un discreto rapporto con la direzione. Ai direttori dei penitenziari e ai giudici di sorveglianza Dalla Chiesa non piaceva troppo. Lo consideravano un intruso e per di più inesperto di problemi carcerari. Uno che pensava a come circondare il carcere, a come impedire che ci si avvicinasse al fabbricato, a come ottenere informazioni dai detenuti. Il loro compito era invece quello di gestire una massa di individui che dovevano scontare una pena e tra i quali bisognava trovare punti di appoggio e di consenso, se si volevano evitare la guerra permanente, gli scioperi, le rivolte e i fatti di sangue. Governare una popolazione carceraria costituita da terroristi era molto più difficile perché i detenuti facevano blocco, erano organizzati, compatti e mettevano continuamente in difficoltà il direttore. La mia presenza costituiva per lui qualcosa di rassicurante: ero l'unico con il quale si poteva ragionare senza fanatismo e partito preso. Ed ero l'unico fermamente contrario agli scioperi e alle dimostrazioni. Dopo un certo tempo cominciai a godere di piccole facilitazioni. Entravo e uscivo spesso di cella. Mi incontravo più volte con gli avvocati. Dalla Chiesa venne informato di questo e si irritò molto. Nell'agosto del 1979 mia figlia Alessandra ebbe un attacco di peritonite e fu sul punto di morire. Il giudice di sorveglianza mi autorizzò a recarmi in ospedale, a Milano, dove Alessandra stava per essere operata. Era un permesso di cinque giorni senza accompagnamento. Rientrai puntualmente. Cristina mi seguì fino alla porta del carcere alla quale suonai per farmi riaccogliere. Speravo che il mio gesto di uscire dalla prigione e di ritornarvi alla scadenza stabilita dal giudice venisse valutato come una prova della mia diminuita pericolosità e servisse a farmi trasferire in un carcere normale. La posizione di ogni detenuto veniva, infatti, riesaminata ogni sei mesi per accertare se vi fossero segnali di ravvedimento o modifiche nel comportamento che potessero suggerire cambiamenti nel regime di detenzione. Intervenne Dalla Chiesa che fece rigettare la mia domanda di trasferimento nel circuito penitenziario ordinario e rimproverò aspramente il giudice, una donna, che aveva autorizzato la mia uscita. Quegli anni a Cuneo costituiscono per me un brutto ricordo anche per un'altra ragione: i miei rapporti con i terroristi detenuti erano davvero pessimi. Pagina 98


Addio Cosa Nostra..txt Non li sopportavo. Nutrivo per loro una profonda, incolmabile avversione. Come uomini erano piccoli piccoli. Si facevano grandi con le parole, i piani, i castelli in aria che costruivano. E facevano tutto in gruppo, come un gregge di pecore che si compatta di fronte al pericolo. Non sapevano stare in carcere. La durezza della vita da reclusi, la cattiveria delle guardie li spaventavano. Non erano capaci di affrontare da soli, uno per uno, le privazioni fisiche, le sofferenze della galera. Li ho fatti tremare come foglie in tutte le carceri nelle quali li ho incontrati. Ho detto a parecchi di loro: «Tu, terrorista, fatti avanti. Litiga con me. Se volete, potete venire anche tutti assieme a litigare con me. Imparate ad attaccare gli individui per un motivo, giusto o sbagliato che sia, ma un motivo singolo, un interesse. Imparate a non colpire gli innocenti» . Disprezzavo, e disprezzo, il brigatista che compiva attentati contro gente senza colpa, indifesa. E poi, perché ammazzare le guardie, i poliziotti, i magistrati? Solo perché fanno il loro mestiere oppure perché portano una divisa? E una cosa aberrante. Non ho mai pensato neppure lontanamente di uccidere un carabiniere, né mi è mai stata ordinata una cosa del genere. Noi mafiosi ritenevamo che ognuno stava dalla sua parte e combatteva la sua battaglia. Loro ci indagavano e ci arrestavano perché questo era il loro dovere, non avevano nulla di personale contro di noi. Noi ci difendevamo con i nostri avvocati e con i nostri metodi di «avvicinamento» dei giudici. Punto e basta. Per il resto c'era un certo rispetto. Cosa Nostra non aveva fatto uccidere le guardie carcerarie, né aveva incoraggiato i furti a casa dei poliziotti. Non si era mai rubata l'auto di un magistrato. Prima che arrivassero le belve di Corleone, ovviamente. E io sto parlando, appunto, degli anni '70. I brigatisti ammazzavano ragazzi di vent'anni che si arruolavano nella polizia per non fare il militare. E sapete perché? Per far vedere che c'erano loro, i brigatisti. Per dimostrare che esistevano e che erano potenti. Ma erano solo vigliacchi che se la facevano sotto davanti a un agente di custodia. La loro codardia, la loro pochezza umana mi nauseava. La loro compagnia mi deprimeva e mi annoiava. E provavo gusto a stroncare i loro tentativi di allearsi con me e, per mio tramite, con gli altri detenuti - per organizzare scioperi e rivolte. «Niente sciopero» intimavo ai terroristi. «In questo carcere non si sciopera. Non si rivendica un bel nulla. E vi dico anche che la dovete smettere. Voi dovete fare i carcerati. » «Ma ti rendi conto che in questo modo tu freni la nostra azione? La nostra lotta per i diritti dei detenuti, contro lo Stato dei padroni. Anche voi della mafia siete contro lo Stato» mi rispondevano sconfortati. «Non mi intendo di politica. I fatti vostri, le vostre rivendicazioni non mi interessano.» E troncavo il discorso. I peggiori di tutti, i più fastidiosi erano i delinquenti comuni che si erano politicizzati in galera. Queste persone vivevano di quei bigliettini volanti, scritti con grafia microscopica, mediante i quali comunicavano tra loro. I bigliettini venivano poi raccolti in un rapporto annuale, che descriveva gli avvenimenti di un anno di detenzione e valutava i comportamenti delle autorità, dei detenuti politici e di noi mafiosi. In un certo anno fui inserito anch'io, con pagella negativa a causa della mia avversione ai disordini e alle proteste. Nel 1978 e nel 1979 nella mia vita pubblica, cioè in quella del mafioso Buscetta, si verificarono due episodi importanti. Pagina 99


Addio Cosa Nostra..txt Il primo si riferisce alla vicenda dell'onorevole Moro e il secondo al generale Dalla Chiesa. Il giorno del sequestro di Aldo Moro, il 16 marzo 1978, ero detenuto a Cuneo. Mio compagno di cella era allora Francis Turatello, il gangster noto a tutti per la sua fama di capo della malavita milanese. Qualche tempo dopo vennero a colloquio mia moglie e uno dei miei figli che mi riferirono un messaggio dei miei cari amici Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo. Quest'ultimo era mio figlioccio in Cosa Nostra, come Pippo Calò. Inzerillo e Bontade mi chiedevano, forse a nome della Commissione, di intervenire presso i brigatisti per salvare la vita di Moro. Non seppi, al momento, se questa richiesta fosse motivata da pressioni dei loro amici democristiani o se si trattasse di un puro atto umanitario. E non riuscii neppure a sapere se derivava da un parere unanime di Cosa Nostra o da una decisione travagliata, condivisa solo da una parte di essa. La richiesta mi era arrivata tramite i miei cari, i quali, non essendo parte di Cosa Nostra, non potevano fare da tramite di messaggi del la Commissione. Ebbi in seguito un colloquio con Ugo Bossi, un mal vivente milanese socio di Turatello nelle bische e nei sequestri di persona, che era entrato in carcere sotto falso nome per conferire con me. Bossi mi rivolse il medesimo invito dei miei fratelli di Palermo. Sarei dovuto entrare in contatto con le Brigate Rosse e aprire una trattativa per liberare Moro. Non ero entusiasta di dover stabilire un dialogo con i terroristi, ma poteva essere una buona occasione per uscire dal circuito delle carceri speciali e andarmene da Cuneo. Risposi a Bossi che in quella prigione non erano rinchiusi al momento brigatisti di rilievo e che per compiere la missione dovevo essere trasferito a Torino. Il pretesto poteva essere costituito dalla mia malattia «ufficiale», una tubercolosi renale da curare nel centro clinico del carcere di quella città, dove erano detenuti terroristi di primo piano a causa di un importante processo in corso. Bossi replicò che avrebbe fatto intervenire in questo senso i suoi interlocutori politici. Ma il trasferimento per Torino non arrivò. Fui invece tradotto nel carcere di Milano assieme a un vecchio detenuto abruzzese, Tonino Lacanale, che fu messo in cella con me. Non ho mai capito perché dai documenti del maxiprocesso non risulti la mia permanenza a Milano che durò una ventina di giorni. Lì incontrai Bossi, che nel frattempo era stato arrestato e che non fu in grado di spiegarmi la ragione del mio mancato trasferimento a Torino. Era dispiaciuto per avermi disturbato e coinvolto in una faccenda che lui controllava solo fino a un certo punto. C'erano quattro, cinque o dieci persone che erano impegnate nel tentativo di far liberare Moro - mi disse - e lui era stato attivato da queste. Per provare la sua buona fede, Bossi mi portò alcuni atti di un procedimento in corso di istruzione nel quale era stato imputato assieme a Turatello e a un altro malavitoso di nome Minciardi. Erano parecchi fogli che contenevano le trascrizioni di una serie di telefonate intercettate dagli inquirenti. Le conversazioni si svolgevano tra Bossi e Cristina a proposito del problema (che stava molto a cuore a mia moglie) della mia uscita dalle carceri speciali, e tra Bossi e alcune personalità politiche. Di queste telefonate non si parlò nel corso del processo, forse per decisione del presidente della Corte, il quale aveva conferito con il pubblico ministero e con la difesa, e le aveva poi accantonate; o forse a causa di qualcosa che aveva a che fare con i servizi segreti. Durante una di queste conversazioni, un personaggio della Dc, di nome Vitalone, diceva a Bossi: «Questi qui non vogliono liberare Moro». Dal carcere di Milano fui mandato a Napoli, e da qui nuovamente a Cuneo, dove arrivai a metà del giugno 1978, quando Moro era morto da più di un mese. Non dovetti attendere molto tempo per conoscere qualche retroscena significativo di questa vicenda. Due anni dopo, nel corso della mia latitanza a Palermo, chiesi a Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo e Pippo Calò per quale ragione mi avevano sollecitato a interessarmi di Moro. Pagina 100


Addio Cosa Nostra..txt Bontade non aveva molta voglia di affrontare quell'argomento e liquidò la mia domanda con poche parole, giustificando la brevità della risposta con un «E acqua passata, Masino. Lasciamo perdere. Sono trascorsi ormai due anni». Ma Inzerillo fu più esplicito e mi riferì che in Commissione c era stato un dibattito sull'atteggiamento da tenere nei confronti del sequestro Moro. Si era verificata una spaccatura tra un'ala di Cosa Nostra che faceva capo a Bontade e che premeva perché ci si attivasse per far liberare Moro e una coalizione che faceva capo a Totò Riina, a Michele Greco e a Pippo Calò, che era contraria a tale orientamento. I Corleonesi motivavano la loro opposizione a intervenire sostenendo che a Cosa Nostra non conveniva immischiarsi in una faccenda squisitamente politica, dalla quale non sarebbero potuti derivare che fastidi agli uomini d'onore. Anche Pippo Calò era nettamente contrario, tanto è vero che fu accusato da Bontade di perseguire gli interessi dei suoi amici politici romani piuttosto che quelli degli amici di Bontade, che intendevano salvare la vita di Moro. La Commissione decise infine di attivarsi «tiepidamente» in favore della liberazione di Moro, ma il contrasto che si era prodotto al suo interno sulla proposta di Stefano Bontade fu un'ulteriore, eloquente prova della decadenza del potere di quest'ultimo. Compresi così anche i motivi dello scarso trasporto mostrato da Stefano nei confronti di questo argomento. L'anno successivo, il 1979, fu ricco di eventi. E per me fu ricco di trasferimenti. Andai più volte su e giù per l'Italia, da Cuneo a Palermo. Non sono in grado, perciò, di collocare con precisione, in un luogo o nell'altro, tutte le vicende di cui sono stato protagonista in carcere. Una di queste si è verificata sicuramente a Palermo e ha a che fare con la presenza di Michele Sindona in Sicilia per tentare quel suo golpe separatista. Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, era un massone amico di Sindona. Fu lui a portare Sindona da Bontade e da Inzerillo, ma Bontade ne ricevette un'impressione disastrosa e lo mandò via. Lo considerava uno squilibrato, e non era il solo. Quando si parlò in Commissione del piano di colpo di Stato, la risposta unanime fu che occorreva consigliare a Sindona di farsi una passeggiata in campagna per prendere un po d'aria pura e cioè di togliersi dai piedi, di scomparire dalla Sicilia. Nello stesso anno un uomo d'onore, emissario personale di Bontade, mi portò una nuova richiesta di prendere contatto con le Brigate Rosse. Si trattava questa volta di sondare la loro disponibilità a rivendicare l'omicidio del generale Dalla Chiesa. L'uccisione sarebbe stata opera di Cosa Nostra, ma la sua paternità sarebbe stata assunta dai terroristi. Per questi ultimi la proposta poteva essere molto vantaggiosa: senza colpo ferire, si sarebbero visti attribuire un potere enorme. Quello di realizzare il loro più grande sogno: l'eliminazione del loro più celebre nemico, il simbolo stesso dell'offensiva antiterrorista dello Stato. L'emissario di Bontade non mi spiegò le ragioni che spingevano Cosa Nostra a volere Dalla Chiesa morto. Eravamo nel 1979 e la mafia non aveva ancora nulla da temere dal generale. L'attenzione dell'opinione pubblica e del governo era concentrata sulla questione del terrorismo e Cosa Nostra non veniva considerata un serio pericolo. Si parlava poco della mafia e i delitti di un certo rilievo verificatisi nel 1978, l'uccisione di Giuseppe Di Cristina e di Pippo Calderone a Catania, erano stati pressoché ignorati all'esterno - in quei mesi non si parlava d'altro che della morte di Moro - e sembravano quasi dimenticati anche all'interno di Cosa Nostra. Perché, allora, uccidere Dalla Chiesa? Me lo sono domandato più volte, prima di ricevere l'anno dopo, a Palermo, dalla viva voce di Bontade e tre anni dopo, in Brasile, da quella di Badalamenti - la conferma definitiva. Quando mi fu avanzata la richiesta non feci comunque domande, fedele alla tacita consegna di ogni buon mafioso, e mi misi ben presto all'opera. Dovevo solo fare in modo di essere assolutamente certo che l'eliminazione di Dalla Chiesa avvenisse in modo tale da non far nascere dubbi circa la matrice dell'uccisione. I suoi avversari erano i terroristi e sarebbe stato perfettamente logico Pagina 101


Addio Cosa Nostra..txt attribuire alle Brigate Rosse l'assassinio. Tanto più se questo fosse stato da loro rivendicato. Durante l'ora d'aria, avvicinai di lì a poco il brigatista Lauro Azzolini, un personaggio di un certo rilievo che aveva partecipato al sequestro Moro. Erano presenti anche altri detenuti, tra i quali un tale che aveva sequestrato e poi sotterrato un ostaggio. Mi rivolsi ad Azzolini secondo lo stile mafioso, parlando in modo allusivo. «Certo, sarebbe bello se qualcuno ammazzasse il generale Dalla Chiesa. Ma se qualcuno lo uccidesse e non volesse poi venir coinvolto, chi potrebbe rivendicare l'omicidio per sviare la pista e magari trarne un vantaggio politico?» Azzolini comprese bene il senso dell'allusione ma mi rispose negativamente: «Non noi. Noi non rivendichiamo azioni alle quali non partecipiamo direttamente. Potremmo farlo solo se qualcuno di noi fosse coinvolto nel l'azione». Comunicai all'esterno la risposta e, poiché la proposta di Cosa Nostra non contemplava una cooperazione dei terroristi all'attentato, il progetto di uccidere Dalla Chiesa venne sospeso. E così furono proprio le Brigate Rosse, per ironia della sorte, che in quella circostanza salvarono la vita del loro più irriducibile avversario, regalandogli altri tre anni di vita. Se il generale fosse stato assassinato nel 1979, senza che nessuno ne rivendicasse l'omicidio si sarebbe creata molta, troppa confusione. I sospetti non sarebbero caduti automaticamente sui terroristi, le indagini si sarebbero mosse in più direzioni e forse qualcuno si sarebbe avvicinato alla causa ultima del delitto: i segreti di cui Dalla Chiesa era a conoscenza, e che erano in grado di danneggiare - secondo quanto mi fu riferito da Bontade e Badalamenti una potente «entità» rimasta sconosciuta, sotto il profilo giudiziario, fino a quasi un anno dopo la strage di Capaci. Quell'entità era l'onorevole Giulio Andreotti. I tempi sono ormai maturi per pronunciare questo nome. Oggi ritengo di poter finalmente parlare delle complicità politiche, ai massimi livelli, che hanno consentito a Cosa Nostra di prosperare quasi indisturbata fino agli anni '80. Mi dispiace solo di non poter rendere queste dichiarazioni al giudice Falcone. Lo avrei fatto felice. Ma se avessi parlato troppo presto saremmo finiti entrambi in manicomio: io in quello criminale, lui in quello civile. Il generale Dalla Chiesa, sempre secondo quanto mi disse Badalamenti, doveva essere ucciso perché conosceva segreti - non so se informazioni, documenti, carte o altro - connessi al caso Moro e suscettibili di infastidire seriamente Andreotti. Forse gli stessi segreti che erano noti a Mino Pecorelli, il giornalista assassinato quello stesso anno. Penso perciò che Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che si intrecciano tra di loro. Secondo quanto ho dedotto dalle mie conversazioni con Bontade, l'omicidio Pecorelli era stato un delitto politico «fatto» da Cosa Nostra, e più precisamente da lui stesso e da Badalamenti, su richiesta dei cugini Salvo, «richiesti» a loro volta dall'onorevole Andreotti. Due anni dopo, nel 1982, Badalamenti mi ripeté, in termini assolutamente identici, la versione di Bontade. Pecorelli era stato assassinato perché stava appurando «cose politiche» segretissime collegate con il caso Moro. Giulio Andreotti era estremamente preoccupato che potessero trapelare questi segreti, di cui era a conoscenza anche il generale Dalla Chiesa. «Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui» commentò Badalamenti. «Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui.» In effetti, Dalla Chiesa non aveva avuto tempo di minacciare seriamente Cosa Nostra. Quando fu assassinato, il 3 settembre 1982, si trovava a Palermo da poco più di tre mesi e contro la mafia aveva preso solo provvedimenti di carattere simbolico. Non si trattava neppure di un omicidio di tipo preventivo, eseguito per scongiurare un pericolo concreto e imminente: a tutta Cosa Nostra, e a tutta l'Italia, era chiaro che il governo non intendeva minimamente conferirgli quei poteri di coordinamento delle forze dell'ordine che lui reclamava. L'invio a Palermo del generale fu solo un modo per rendere più facile - e soprattutto più logica, più giustificabile - la sua eliminazione, decisa già da Pagina 102


Addio Cosa Nostra..txt tempo e per ragioni diverse dalla politica antimafia. Fu uccisa anche sua moglie e non perché la mafia avesse smarrito l'antico rispetto per le donne e per gli innocenti, ma perché Dalla Chiesa poteva averle rivelato quei segreti o consegnato carte pericolose. Desidero ribadire nuovamente che quando affermo che i cugini Salvo «erano stati richiesti da Andreotti» a fare eseguire l'omicidio Pecorelli, e quindi l'assassinio di Dalla Chiesa, non voglio dire che Badalamenti si sia espresso letteralmente in questi termini in mia presenza. Ho dedotto tale circostanza dalla conoscenza dei fatti e dei meccanismi interni a Cosa Nostra, nonché dal contesto del colloquio che avevo avuto con lui. Parlando infatti di Andreotti, Badalamenti rievocò un incontro a Roma con l'onorevole. Egli stesso, assieme a uno dei cugini Salvo e a Filippo Rimi, si era recato nello studio di Andreotti qualche anno prima, verso la fine degli anni '70, per ringraziarlo del suo interessamento a un processo che si era risolto positivamente (per Cosa Nostra) in Cassazione e che riguardava lo stesso Filippo Rimi. Nei gradi precedenti del giudizio, Rimi era stato condannato all'ergastolo. Durante l'incontro, Andreotti era stato prodigo di lodi per Badalamenti: «Pensa, Masino, che a un certo punto Andreotti mi ha detto che di uomini d'onore come me ce ne sarebbe voluto uno per ogni strada di ogni città italiana!» mi disse Tano tutto contento. Badalamenti non mi disse esplicitamente che era stato Andreotti a chiedere ai Salvo il favore di levargli dai piedi Pecorelli. Mi confidò, come Bontade, che l'assassinio del giornalista «lo avevamo fatto noi>, e che Pecorelli dava fastidio ad Andreotti perché stava scoprendo fatti estremamente nocivi agli interessi del senatore. La mia deduzione si basa inoltre sulle dinamiche interne al mondo di Cosa Nostra. E necessario tenere presente la regola ferrea secondo la quale tra uomini d'onore era obbligatorio dirsi sempre la verità. Di conseguenza, Bontade e Badalamenti mi avevano detto il vero circa la richiesta ricevuta dai Salvo, i quali, a loro volta, dovevano necessariamente aver detto il vero a Badalamenti e Bontade circa le ragioni dell'omicidio. In secondo luogo, ritengo che i Salvo non avrebbero avuto alcun motivo di uccidere Pecorelli, se non vi fosse stata una richiesta precisa in tal senso. E poi, all'interno di Cosa Nostra, come ho già detto, era noto a molti che il nostro referente politico nazionale era Giulio Andreotti. Avevo sentito parlare di lui in questi termini fin dal 1972 e sapevo che c'erano due strade per raggiungerlo: Salvo Lima, suo capocorrente in Sicilia e i cugini Salvo, che gli erano strettamente legati. Il rapporto tra i Salvo e Andreotti era ancora più intenso di quello che intercorreva tra quest'ultimo e Lima. Non ci potevano essere dubbi sul fatto che quel che veniva richiesto dai Salvo a Bontade e Badalamenti potesse non provenire dallo «zio». Quando ne parlavano con me, Nino e Ignazio Salvo chiamavano Andreotti «lo zio». Non so se per il vezzo tipicamente siciliano di chiamare in questo modo una persona cara più anziana e autorevole, oppure se per evitare di pronunciarne il nome. Qualcuno si è mai chiesto perché proprio i personaggi che conducevano ad Andreotti - i cugini Salvo e l'onorevole Salvo Lima- sono scomparsi? Ignazio Salvo e Salvo Lima, come tutti sanno, sono stati assassinati nel 1992 (Nino Salvo era morto durante il maxiprocesso). Sono stati uccisi perché non c'era più bisogno di intermediari o perché erano testimoni scomodi di troppe cose? O per entrambe le ragioni? Per concludere sull'omicidio Pecorelli, voglio aggiungere che in base al linguaggio usato da Badalamenti e Bontade nel parlarmene compresi che non si trattava di un fatto collegato a una deliberazione della Commissione. Era un omicidio «personale», che riguardava loro due. Badalamenti, tra l'altro, era in rotta con la Commissione, dalla quale era stato espulso nell'estate del 1978. L'assassinio era stato eseguito fuori della Sicilia e non era stato dunque necessario il consenso del capomandamento della zona. Ritengo anche improbabile che Bontade abbia usato il canale di Pippo Calò, che allora risiedeva e operava a Roma, per l'esecuzione del giornalista. I rapporti tra Bontade e Calò si erano ormai deteriorati già da qualche anno e Bontade disponeva nella capitale di una propria decina, comandata da un certo Pagina 103


Addio Cosa Nostra..txt Angelo Cosentino, tramite la quale poteva portare a termine quasi ogni assassinio che gli tornasse utile. FACCIA D'ANGELO. Riprendiamo il filo del discorso iniziato con gli eventi del 1978, 79, verificatisi durante la mia permanenza nel carcere di Cuneo e nel corso dei brevi soggiorni negli altri penitenziari. Gli anni di Cuneo hanno lasciato una traccia più profonda nella mia memoria anche perché in quella prigione rividi un personaggio singolare, che avevo incontrato anni prima all'Ucciardone: Francis Turatello, soprannominato «Faccia d'angelo». Era arrivato a Palermo dopo una rivolta avvenuta nel carcere di Milano e si era subito presentato per salutarmi. Turatello allora era il signore della malavita milanese, ma era consapevole di trovarsi fuori casa in Sicilia, di essere ospite di un regno straniero con il quale era consigliabile stabilire buone relazioni. Apprezzai il suo gesto di cortesia e gli promisi che la sua permanenza all'Ucciardone sarebbe stata tranquilla. Da quel momento nacque una conoscenza che in seguito si trasformò in una vera e propria amicizia. Quando i lavori per la costruzione del supercarcere di Cuneo furono terminati, Turatello ebbe l'onore di essere il primo detenuto a inaugurarlo. Fu trasferito da Palermo e per un certo tempo fu addirittura il solo carcerato detenuto nel nuovo penitenziario. Quando arrivai anch'io, Turatello si era già ambientato e poté contraccambiare in modo adeguato l'ospitalità che aveva ricevuto in Sicilia. Esercitò pressioni sul comandante delle guardie perché dalla cella di punizione - dove mi trovavo grazie al trattamento di benvenuto che il supercarcere offriva ai nuovi arrivati - venissi trasferito in una cella normale, situata nello stesso piano della sua. Fu così che in seguito andai ad abitare in un cameroncino assieme a lui e ad altre due persone. La stanza era per cinque detenuti, ma un posto veniva lasciato vuoto per permetterci di vivere più comodamente. Le condizioni complessive del supercarcere erano quelle che ho già descritto, e cioè infami, ma dal punto di vista della pulizia e della decenza dei locali non c'era paragone con quelle dell'Ucciardone. A Cuneo non c'erano i topi, gli scarafaggi e le cimici sotto l'intonaco delle pareti che abbondavano a Palermo. I servizi igienici erano puliti e dislocati in modo da consentire una certa riservatezza. «Faccia d'angelo» mostrava in ogni occasione una deferenza e un affetto fuori del comune nei miei confronti. Era il tipico gangster: sbruffone, estroverso, generoso. Aveva le mani bucate. Regalava denaro, gioielli, automobili come se si trattasse di sigarette. Amava il lusso, la bella vita, le donne. Era un megalomane: l'esatto opposto del mafioso. Il rispetto che Turatello mi dimostrava era il riconoscimento che il giovane malavitoso un po' avventato tributava alla superiorità dell'uomo d'onore riflessivo e misurato, ma era al tempo stesso un tentativo di sfuggire a una condanna. Una condanna a morte emessa contro di lui da Cosa Nostra qualche tempo prima e della quale Turatello era perfettamente consapevole. Devo comunque riconoscere che la sua amicizia nei miei confronti era spontanea. Turatello non era esperto nell'arte mafiosa di dissimulare e di tradire. Era un ribaldo che affrontava ogni cosa di petto. Disprezzava anche lui i terroristi compagni di galera e non perdeva occasione di ostentare la disistima che nutriva nei loro confronti. Ogni volta che incontrava gli estremisti di sinistra, Turatello li provocava esaltando il nazismo e dichiarandosi lui stesso nazista. Non apriva mai, nei suoi rapporti con gli altri, quelle piccole parentesi, quei minuscoli «incisi» simili alle clausole scritte in corpo quasi invisibile nei contratti che noi mafiosi eravamo soliti disseminare qua e là come trappole ben nascoste e letali nelle relazioni umane. Turatello ignorava l'uso di quei granelli di sabbia che nelle situazioni nuove, impreviste, potevano diventare leve potenti, capaci di rovesciare le posizioni e di trasformare la debolezza in forza, l'amicizia in odio, la verità in Pagina 104


Addio Cosa Nostra..txt confusione e incertezza. Turatello mi raccontava di essere amico di un giovane uomo politico milanese, diventato poi importantissimo negli anni '80 ed era in amicizia anche con altri. «Faccia d'angelo» controllava dal carcere le migliori bische clandestine di Milano. Quelle frequentate anche dalla bella gente e non solo dalla malavita. La sua considerazione nei miei confronti era tale che fin dal mio arrivo a Cuneo mi gratificò di una quota del 10 per cento sui profitti delle sue case da gioco. La cifra ammontava a 34 milioni mensili, più gli utili che si dividevano ogni trequattro mesi e che si aggiravano sui 20, 30 milioni. Fu grazie alla malavita comune e non a Cosa Nostra che riuscii a superare le ristrettezze finanziarie dei miei primi anni di detenzione e potei mantenere senza problemi la famiglia fino a quando uscii dal carcere nel 1980. Non c'era calcolo nella generosità di Turatello. La sua ammirazione per me era sincera. Solo io, però, potevo aiutarlo a uscire dal gravissimo guaio nel quale si era cacciato. Anni prima aveva preso le parti di uno dei suoi uomini che aveva litigato con Alfredo Bono, un pezzo grosso di Cosa Nostra che operava a Milano. L'episodio è noto, ma è stato stravolto dalla stampa, che ha parlato di uno schiaffo dato a Bono nel corso di una rapina effettuata dalla banda di Turatello in un circolo privato. Le cose non sono andate in questo modo. Si è trattato di due episodi differenti. E vero che gli uomini di Turatello fecero irruzione in una bisca di alto livello, dove giocava gente facoltosa e dove era presente anche Alfredo Bono. L'azione non fu una vera e propria rapina, ma una semi sceneggiata in puro stile Turatello. I malviventi alleggerirono i giocatori dei soldi e degli oggetti di valore che avevano con sé, ma registrando i nomi dei presenti come se stessero facendo una sottoscrizione per i carcerati: «Vi ringraziamo per il vostro buon cuore» dissero ai giocatori. «Questi soldi non li terremo per noi. Li daremo a tutti i detenuti. Facciamo ora un elenco nominativo dei benefattori con le somme che ognuno ha elargito». E COSl' fecero. Prima di andarsene, i gangster dichiararono: «Ci rendiamo conto che avete la passione del gioco. Siamo venuti qui anche per questa ragione. Per darvi una dimostrazione di come è insicuro un posto come questo. Siete persone perbene. Andate a giocare in posti più tranquilli, dove nessuno vi disturberà e dove certamente non vi capiterà una cosa spiacevole come quella di stasera. Vi lasciamo l'indirizzo di un circolo che fa per voi. Vi aspettiamo lì. Sarete i benvenuti». E se ne uscirono dopo aver distribuito biglietti da visita con l'indirizzo di una bisca. Fu una smargiassata che costò cara a Turatello, perché uno dei giocatori andò alla polizia e riferì tutto. E roba da matti, ma i gangster sono fatti così. In ogni caso, Bono si trovava in quel circolo la sera della rapina, ma rimase impassibile e continuò a bere champagne assieme alle donne sedute accanto a lui. I rapinatori lo riconobbero e non lo disturbarono in alcun modo. L'incidente di cui stiamo parlando si verificò in un'altra occasione. Uno dei componenti la banda Turatello diede uno schiaffo a Bono nel corso di un classico, sciocco alterco da night-club. Il mafioso parlò poco, ma fece capire che considerava quella lite come un affronto grave a lui stesso e alla sua gente. La sfida fu raccolta da Turatello in persona, il quale mandò a dire ad Alfredo Bono che, se lui o i suoi avessero anche solo accennato a vendicare lo schiaffo ricevuto ci sarebbe stata una guerra tale da sterminare tutti i siciliani che si trovavano a Milano. I siciliani ne presero atto. Non replicarono. Rimasero in silenzio. All'interno di Cosa Nostra ci fu, in realtà, un momento di incertezza a proposito dell'evidente, indiscutibile autocondanna a morte di Turatello e della Pagina 105


Addio Cosa Nostra..txt sua banda. Alfredo Bono godeva di una buona reputazione, ma il suo stile di vita, fatto di locali notturni e gioco d'azzardo, non era ben visto dai mafiosi. Se voleva recarsi tutte le sere nei night o nelle bische, benissimo. Fatti suoi. Se poi però gli capitavano cazzate come quella lite con i malavitosi, pensavano alcuni, non doveva venire a pretendere l'appoggio dei fratelli. Ma Turatello era stato troppo pesante. Aveva superato i limiti e non aveva lasciato alcuna possibilità di chiarire l'incidente. Un gruppo di uomini d'onore - tra cui Gerlando Alberti e lo stesso Bono cominciarono allora a studiarne le abitudini e a seguirlo nei suoi spostamenti. A un certo punto ritennero di aver trovato il momento favorevole per ucciderlo, mentre si trovava in un albergo di Napoli. I mafiosi si erano già introdotti nei corridoi e stavano appostandosi per l'imboscata, quando qualcuno della banda Turatello avvertì alcuni movimenti sospetti e lanciò l'allarme. Francis e i suoi fuggirono in mutande, arrampicandosi sulle grondaie e camminando sui tetti dell'albergo. Chiaramente, avevano cambiato opinione sull'esito di un loro scontro con i siciliani. L'episodio di Napoli ebbe luogo qualche mese dopo l'incidente con Alfredo Bono. Poi Turatello venne arrestato e quando lo conobbi era ormai un uomo segnato. Avrei potuto salvarlo usando il mio ascendente. Gli avrei fatto fare pace con la mafia. Lo avrei convinto a chiedere scusa ad Alfredo Bono. Lo avrei ridimensionato. Gli avrei insegnato a essere umile e rispettoso con i siciliani. Con tutti i siciliani e non solo con me. Ma non sono arrivato in tempo. E Cosa Nostra non perdona. Turatello si rendeva conto di avere commesso un grave errore, ma solo fino a un certo punto. Se fosse stato al corrente dell'esistenza di Cosa Nostra, avrebbe tentato il tutto per tutto per farsi perdonare. Lui credeva, come tanti altri, che il nostro comportamento implacabile contro i nemici derivasse dal semplice fatto che eravamo siciliani vendicativi e che fosse il nostro sangue a condizionare i nostri comportamenti. Attribuiva tutto a un fatto folcloristico, di tradizioni ataviche. Non conosceva, cioè, Cosa Nostra. Le sue regole, la sua mentalità, la sua organizzazione, la sua forza infida e segreta. Ricevetti l'incarico di scoprire quale era stata la natura dei rapporti tra Turatello e Frank Coppola, l'uomo d'onore italo-americano che viveva a Roma dopo il suo rimpatrio dagli Stati Uniti. I due erano stati amici prima che Francis andasse in prigione, e qualcuno si era insospettito notando che si chiamavano l'un l'altro con l'appellativo di «fratello». Si voleva appurare se Coppola aveva rivelato qualche segreto di Cosa Nostra a Turatello. Ebbi modo di constatare che Francis ignorava totalmente le cose di Cosa Nostra e mandai a dire fuori di stare calmi perché non c'era da preoccuparsi. Evitai così che anche Coppola venisse ucciso. Per chi non lo ricordasse, ribadisco che la punizione per chi rivela anche una piccola parte dei segreti di Cosa Nostra è la morte. Il destino di Turatello si compì in un supercarcere della Sardegna, a Bad' e' Carros, vicino a Nuoro, a più di cinque anni dal fatale incidente con Bono. La sua strada si incrociò con quella di un catanese pluriergastolano a causa di omicidi eseguiti in carcere, Antonino Faro, figlioccio di Luciano Liggio, come Alfredo Bono. Faro era una vita perduta, un uomo che aveva smarrito la sua natura e che Liggio coltivava per togliersi gli sfizi più malvagi all'interno delle carceri. Quando Liggio seppe che Turatello si trovava nello stesso carcere del suo animale, disse a Faro: «Vai ad ammazzare Turatello. E mentre lo spegni, domanda a quel gran cornuto se è ancora vero che nessun siciliano deve più circolare per Milano!». Pagina 106


Addio Cosa Nostra..txt Francis morì giovane, a trentasette anni, quando io ero già andato via dall'Italia e quando la sua stella era tramontata. Le bische di Milano erano passate sotto il controllo dei catanesi e il posto di Turatello nel tremulo firmamento della malavita era stato già preso da un altro. COSA NOSTRA ALL'INIZIO DEGLI ANNI '80. All'inizio del 1980 trovai un avvocato di Torino che eseguì tutti i calcoli necessari per fare finalmente il punto riguardo la mia situazione detentiva. Ne risultò che dovevo scontare poco più di un anno di carcere e che avevo maturato il diritto a richiedere la concessione della semilibertà. Il tribunale si riunì e ottenni tale beneficio. Potevo lavorare fuori durante il giorno ed ero obbligato a rientrare ogni sera in prigione. Avevo diritto a trascorrere a casa il fine settimana e potevo godere di permessi notevolmente più lunghi da usare in condizioni di piena libertà. Ero ritornato al mio antico impiego presso una vetreria e contavo di scontare in pace il mio ultimo periodo di detenzione. Accadde invece che alcune persone, che si qualificarono come poliziotti, fecero irruzione a casa mia, a Torino. Misero tutto sottosopra e minacciarono e oltraggiarono Cristina. «Tuo marito se ne deve andare di qui. Non vi vogliamo. Non crediamo alla sua buona condotta. Scomparite da questa città» urlarono a mia moglie. Denunciai l'episodio al giudice di sorveglianza, che condusse indagini senza venire a capo di nulla. Le minacce furono ripetute e i controlli della polizia divennero asfissianti. Volevano costringermi ad abbandonare Torino. Alla fine decisi di accontentare quella gente. Sparii dalla città ai primi di giugno del 1980, dandomi alla latitanza nonostante mi restassero da scontare solo pochi mesi di detenzione. Volevo tornare per qualche tempo a Palermo, rivedere i miei amici e i miei parenti ed emigrare poi in Brasile. Per sempre. Avevo cinquantadue anni. Non desideravo immergermi nuovamente nel turbinio delle vicende di Cosa Nostra. Volevo evitare di essere inghiottito ancora una volta da quel mondo obliquo e insidioso. Volevo vivere in pace per il resto dei miei giorni con mia moglie e i miei figli. I miei conti con Cosa Nostra erano in pari, anzi in attivo. Ero in credito nei confronti degli uomini d'onore. Non dovevo dire grazie a nessuno perché in carcere non avevo chiesto aiuto a chicchessia, né per me né per la mia famiglia. Non era stato «aggiustato» in mio favore alcun processo, né modificata una perizia, né fatto sparire un documento o una testimonianza. Ciononostante, ero rimasto leale e in ogni occasione mi ero comportato secondo i canoni di Cosa Nostra. Subito dopo aver lasciato Torino, mi recai a Palermo, dove alloggiai per alcuni mesi in un appartamento preso in affitto da mio figlio Antonio in via della Croce Rossa. Era un abitazione normale, situata in un palazzo qualunque della città. Nello stabile di fronte abitava un funzionario della questura, il commissario De Luca. Qualcuno ha favoleggiato di chissà quali complicità e corruzioni messe in opera per proteggere la mia latitanza a Palermo. Posso garantire che non ce n'era alcun bisogno. Non ho dovuto corrompere nessuno per nascondermi in pace vicino a mio figlio. La polizia semplicemente non veniva a curiosare in quell'appartamento, nonostante vi fossi già stato alcune volte durante i permessi consentiti dal regime di semilibertà e l'indirizzo fosse di conseguenza noto alle autorità. Questo allentamento della pressione della polizia non cessava di sorprendermi. C'era una specie di clima di condiscendenza, un'atmosfera di lasciar correre che faceva la gioia degli uomini d'onore. Mi incontravo con tuttl'i capi più influenti senza alcun problema di clandestinità. Li vedevo circolare tranquilli per la città e non riuscivo a distinguere, talvolta, chi fosse latitante e chi no. Pagina 107


Addio Cosa Nostra..txt Si muovevano come pesci nell'acqua. Ricordo che appena arrivato a Palermo, mi fu detto che tra le 13 e 30 e le 16 e 30 potevo uscire di casa e andare dove volevo senza timore di essere riconosciuto o controllato. E questo non perché avevamo corrotto tutti, ma perché in quello spazio di tempo nessun poliziotto si trovava praticamente in servizio! Ho anche abitato in casa di Stefano Bontade e di Salvatore Inzerillo. La villa dove quest'ultimo trattava i suoi affari e organizzava le sue riunioni si trovava a pochissima distanza dall'aeroporto di Boccadifalco e si affacciava su un burrone da dove si alzava, a 100 metri di distanza, un elicottero della polizia (o dei carabinieri) che volteggiava più volte al giorno sopra la città. Davanti alla proprietà degli Inzerillo erano parcheggiate ogni giorno dalla 50 alle 100 automobili. Era un fitto via vai di soldati della loro famiglia, di soci nelle raffinerie e nelle spedizioni della droga, di capi e gregari di altre famiglie che venivano a conferire, a discutere, a trattare. Ebbene, nessuno di questi poliziotti che sorvegliavano Palermo dall'alto si è mai domandato cosa ci facessero tutte quelle auto posteggiate davanti a un'edificio che non ospitava né un supermercato, né una fabbrica, né un ufficio pubblico. Qualche volta mi preoccupavo di quell'elicottero e chiedevo a Inzerillo se non fosse più prudente convocare le riunioni da qualche altra parte. Anche perché lui stesso, suo padre e i suoi fratelli erano latitanti in quanto accusati di un gravissimo omicidio. Quello del procuratore Costa. Lui rispondeva con una scrollata di spalle. Di che cosa dovevano avere paura d'altra parte? In quel 1980 i miei ex fratelli in Cosa Nostra erano all'apice della loro fortuna. I capi delle principali famiglie erano diventati miliardari nel giro di un paio di anni, da quando avevano cominciato a raffinare la droga. Parlavano di ville al mare e in montagna, di miliardi, di barche e di banche come se parlassero della spesa da fare la mattina. La nuova situazione si era creata gradualmente, a partire dal contrabbando dei primi anni '70, ma era «esplosa» dopo il 1978. E non erano solo i capi a beneficiarne, ma tutto il popolo di Cosa Nostra. Un grande benessere aveva investito soldati e rappresentanti, consiglieri e capidecina, estendendosi alle loro mogli, ai figli, ai parenti. Contagiando la città, dove si spendeva, si consumava e si costruiva senza ritegno. Nei nostri lunghi giri in auto per le strade di Palermo, Stefano Bontade mi spiegava che la grande trasformazione che si stava realizzando era dovuta ai soldi provenienti dal traffico della droga. Egli concordava con me nel valutare negativamente quanto accadeva e alla fine del tunnel vedeva anche lui la rovina di Cosa Nostra, ma riteneva che tutto fosse ormai inevitabile. Era come rassegnato, stregato dagli eventi. Stefano mi diceva che all'origine del cambiamento c'era stata l'iniziativa di Nunzio La Mattina, il contrabbandiere della Kalsa che avevamo fatto uomo d'onore per controllarlo da vicino e impedirgli di creare scompiglio con i soldi prodotti dai suoi affari. Quando, un paio di anni prima, si era cominciato ad abbandonare il contrabbando in seguito alle beghe interne sempre più frequenti e all'accresciuta pressione della guardia di finanza, La Mattina aveva proposto ai capi di Cosa Nostra di cercare di entrare nel grande traffico degli stupefacenti. Questi ultimi si erano infine convinti a tentare la sorte e avevano investito una certa quantità di capitali nell'affare. Dopo i primi guadagni, avevano reinvestito somme ancora più consistenti, fino a quando i laboratori non avevano prodotto denaro a palate. Tanto denaro da non sapere cosa farne. Da non poter essere più contenuto nelle banche di Palermo. Gli affari legati al traffico della droga erano organizzati sulla falsariga di quelli del contrabbando, ma con una segretezza molto maggiore. Come nel contrabbando e in genere nelle questioni commerciali, le divisioni tra famiglie erano inoperanti. Ognuno era libero di associarsi con chi voleva, indipendentemente dall'appartenenza a una determinata famiglia. Si erano formate tante piccole imprese, e per le grandi operazioni di acquisto o di vendita si costituivano «cordate» tra diversi gruppi. Pagina 108


Addio Cosa Nostra..txt Le truffe e i disaccordi venivano limitati dal fatto che vigeva sempre l'obbligo tra uomini d'onore di dirsi la verità. Ma questa regola non riguardava i rapporti con gli individui non mafiosi, i quali potevano essere truffati senza timore di incorrere in sanzioni. Ho accennato più volte alla regola secondo la quale gli affari e le proprietà personali di ciascun uomo d'onore riguardano solo lui stesso. Cosa Nostra non si è mai intromessa nella libertà commerciale dei suoi membri, lasciando loro la piena disponibilità dei loro beni e dei loro comportamenti. Ha solo preteso che i suoi membri non si truffassero e non mentissero tra loro nelle transazioni di affari. Nei tempi passati questa regola veniva rispettata senza difficoltà ma con l'entrata in scena della droga era diventata un problema. Le esigenze di espandere il traffico avevano costretto molti uomini d'onore a ricorrere a soggetti non mafiosi, a coinvolgere personaggi poco affidabili nelle attività di approvvigionamento della morfina, e di trasporto, di confezione, di produzione e di vendita della merce. Gente da poco, abituata alla frode, alla menzogna sistematica, al doppio gioco, che si trovava associata con uomini d'onore in affari lucrosissimi e delicati, dove la fiducia reciproca è fondamentale. Il risultato era la confusione più completa. Gli equivoci e i sospetti erano all'ordine del giorno e si trasferivano nei rapporti interni alle famiglie e tra gli uomini d'onore, avvelenandoli e minando alla base gerarchie consolidate. Dopo avere trascorso qualche settimana a Palermo, mi resi conto che sotto quella superficie piatta, di prosperità e di tranquillità generale, covava il fuoco del risentimento e della guerra. La Commissione non interveniva più come arbitro dei commerci e ognuno custodiva gelosamente per sé le informazioni sui canali di rifornimento e su quelli di distribuzione. Notavo anche un malsano costume, fatto di reticenza e di dissimulazione ancora più marcate, che sembrava essersi impadronito degli uomini d'onore. Sentivo che c'era qualcosa che mi sfuggiva nei comportamenti, nei discorsi e negli sguardi di persone che avevo pensato di conoscere bene. Mi sentivo diverso, estraneo a quelle logiche sotterranee. Godevo di un notevole prestigio, ma ero fuori, tenuto in disparte dagli affari e dalle dinamiche che da essi partivano e a essi tornavano. Ero convinto che, se la mafia al momento sembrava usare la droga per arricchirsi e prendere il potere, sarebbe poi stata la droga a impadronirsi della mafia, a contagiarla e distruggerla. Ma le mie opinioni sul pericolo che la droga costituiva per il futuro di tutti noi mafiosi non convincevano nessuno. La lunga carcerazione che avevo subito mi faceva apparire come il testimone di un mondo ormai tramontato. In certi momenti mi sentivo come il generale di un esercito scomparso, con la divisa rattoppata e le stellette arrugginite, capitato in mezzo a una soldataglia ipocrita, avida e trasandata. E soprattutto stupida, incosciente, perché seduta a bivaccare sopra un vulcano che l'avrebbe sepolta di lì a poco. Mi resi anche conto che nella polizia e nella magistratura di Palermo non c'era nessuno che combatteva seriamente Cosa Nostra. Chi ci aveva provato, d'altra parte, era stato eliminato senza tanti complimenti e senza tante discussioni. Tra il settembre del 1979 e l'estate del 1980, in meno di un anno, Cosa Nostra si era sbarazzata del commissario Giuliano, Liggio si era tolta la soddisfazione di far assassinare il giudice Terranova e a gennaio avevano ammazzato anche il presidente in carica della Regione. Piersanti Mattarella era stato ucciso per una questione di appalti e di sgarbi che poco tempo prima, quando le menti erano più lucide, non avrebbero avuto alcuna conseguenza letale. I miei amici mi sembravano caduti in preda a un delirio di onnipotenza: ero sconcertato dalla facilità con la quale si uccidevano persone potenti senza calcolarne le conseguenze. I capi della mafia si mostravano assolutamente sicuri che non sarebbe successo nulla. Qualche volta provavo ad ammonirli ricordando i tempi della Giulietta di Ciaculli e dello scioglimento di Cosa Nostra: in risposta ricevevo un coro di lazzi e ironie. Pagina 109


Addio Cosa Nostra..txt E devo dire che, in realtà, dopo ogni assassinio eccellente non succedeva proprio un bel niente. I giornali e i comunisti strillavano per qualche giorno e poi si passava a pensare ad altro. L'unica fonte di attrito interno e di preoccupazione consisteva nel fatto che parecchi di questi assassinii venivano eseguiti dai Corleonesi senza preavviso e senza l'autorizzazione della Commissione. Bontade e Inzerillo avevano protestato più volte in Commissione e avevano anche minacciato gravi ritorsioni per coloro che violavano in modo così plateale una rigorosa regola di Cosa Nostra. Ma i Corleonesi facevano finta di niente. Fino a quando, il 4 maggio 1980, non venne ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Subito dopo l'omicidio, la polizia aveva arrestato un terzetto composto da due soldati delle famiglie di San Lorenzo e di Resuttana e un terzo che apparteneva a quella di Ciaculli. Era difficile perciò per Michele Greco, rappresentante di quella borgata, sostenere ancora una volta di non sapere nulla di quel delitto. Ma Greco era ormai talmente succube dei Corleonesi da ostinarsi a ripetere la solita cantilena. Tutto ciò aveva irritato profondamente Bontade e Inzerillo, il quale aveva portato a termine una reazione tanto vivace quanto allucinante. Per dimostrare che a quel punto anche lui, come Liggio e Riina, poteva permettersi di scavalcare la Commissione e infrangere le sue regole, aveva fatto massacrare di sua iniziativa, senza informare nessuno, il procuratore della Repubblica Gaetano Costa, al quale imputava la colpa di avere spiccato gli ordini di cattura contro la sua famiglia. Dall'inizio della mia latitanza in poi, si verificò un fatto curioso. Ci fu un generale risveglio di affetto nei miei confronti; si scatenò attorno a me una specie di gara a chi potesse compiacermi di più. Tutti mi cercavano, mi invitavano, mi dimostravano grande attaccamento e amicizia. Ero perfettamente consapevole della scarsa inclinazione degli uomini di Cosa Nostra per le crisi di coscienza. La gente che mi cercava non lo faceva perché spinta dal rimorso di avermi trascurato durante gli otto anni in cui ero stato detenuto, ma per qualche altro, più concreto motivo che non tardai a conoscere. Mentre mi trovavo a Palermo, ricevetti la visita di Vittorio Magliozzo, un soldato di Porta Nuova che mi chiese se potevo recarmi a Roma per qualche giorno a conferire con Pippo Calò. Mi recai nella capitale, dove presi alloggio, in seguito alle sue insistenze, presso la casa dello stesso Calò. Lì subii ulteriori pressioni perché rimanessi in Italia. Pippo Calò mi sollecitò a dimenticare il passato. Si scusò del disinteresse mostrato per le mie esigenze di carcerato con il pretesto che non lo avevano informato delle condizioni in cui versavo. Mi rimproverò bonariamente, addirittura, per non avergli fatto sapere che avevo bisogno di aiuto. Gli risposi che non intendevo modificare i miei progetti. «Non c'è più spazio per me, Pippo. Io vedo che qua siete TUTTI ricchi.» «Puoi avere tutti i soldi che desideri» mi disse lui. «Devi solo dire quanti ne vuoi. Sei proprio un pazzo ad andartene dall'Italia in questo momento. Abbiamo in mano parecchie cose grosse a Palermo. Ciancimino è nelle mani dei Corleonesi e possiamo fare soldi a palate con gli appalti del risanamento dei quattro quartieri del centro. Per non parlare poi della droga! Uno come te è sufficiente che apra la bocca per avere quanti chili di droga desidera» soggiunse Calò. «Per quanto riguarda la famiglia di Porta Nuova» disse Calò aumentando ulteriormente i miei sospetti «non devi darti pensiero. Non sarai obbligato ad avere rapporti con gli altri membri di Porta Nuova. In seguito ti cederò il posto di rappresentante. Ti spetta di diritto per tutto quello che hai fatto e rappresenti per Cosa Nostra.» «Grazie, Pippo,» risposi «ma le mie idee non cambiano. E proprio perché Ciancimino è nelle mani dei Corleonesi voglio tornarmene in Brasile. Pagina 110


Addio Cosa Nostra..txt Anzi, se devo essere sincero fino in fondo, devo dirti che non mi piace il tuo atteggiamento in Commissione. Dici sempre sì a tutte le proposte dei Corleonesi.» «Ma i Corleonesi sono nostri amici!» ribatté Calò. «Sono tuoi amici, non miei» gli risposi. «Comunque, non sono venuto qui per litigare. Ti conosco da quando eri bambino. E ti chiedo di comunicare ai tuoi amici di lasciarmi in pace. Ho riflettuto a lungo in questi anni e penso sia giusto stabilirmi in Brasile con la famiglia. Sarò sempre l'uomo che conoscete, ma dovete fare finta, in futuro, che io non esista più.» «Se non vuoi tornare a Palermo, puoi stabilirti a Roma. Qui sono ben piazzato. Posso metterti a disposizione una casa, in modo che tu possa far studiare i figli. Ma ti prego di non andartene subito. Tutta Cosa Nostra ha bisogno di te» concluse Calò. Durante il mio soggiorno a Roma mi resi conto di quanto Cosa Nostra fosse cambiata in termini di potenza. Potenza politica, potenza del denaro, potenza delle relazioni con i vertici dello Stato. Un personaggio come Calò, che avevo lasciato da commesso di un negozio di tessuti di Palermo, adesso faceva la vita del gentiluomo, della persona agiata che non ha bisogno di lavorare e viene riverita da tutti. Intorno a lui gravitavano grossi interessi e grossi affari di Cosa Nostra. Calò viveva sotto falso nome e conosceva banchieri, uomini politici, giudici, faccendieri e ricchi malavitosi che a loro volta entravano e uscivano da tutte le porte: i ministeri, le ambasciate, perfino il Vaticano. Il capo di Cosa Nostra a Roma era Angelo Cosentino, capodecina della famiglia di Santa Maria di Gesù. Tutti gli uomini d'onore dipendevano da lui. Era lo «zio Angelo» che cercava gli agganci alla Corte di Cassazione e disponeva delle case per i latitanti. Calò e Cosentino erano soci di alcuni grossi malviventi romani, assieme ai quali organizzavano sequestri di persona nel Lazio e in Toscana. A Roma conobbi Domenico Balducci, un esponente della delinquenza locale che disponeva perfino di aerei che appartenevano a un'agenzia della sicurezza pubblica, con i quali era possibile portare denaro in Svizzera senza problemi né controlli. E fu a Roma che rividi Nino Salvo, il potente esattore di Salemi, che un giorno venne invitato a pranzo a casa di Calò. Avevo conosciuto i cugini Salvo qualche tempo prima, a Palermo, in occasione di una riunione della Commissione che si era svolta, come di consueto, nella tenuta Favarella di Michele Greco. Avevo assistito a quella riunione pur non avendo, ovviamente, il diritto di pronunciarmi come gli altri partecipanti. «Salvo ti vuole incontrare oggi pomeriggio» mi disse Nino Salvo, riferendosi a Lima. «Ci tiene a vederti, anche perché si vuole scusare. Tu sai di cosa si tratta.» Capii che si riferiva ad alcuni messaggi che Lima mi aveva mandato in carcere, quando era sottosegretario alle Finanze, tramite Ferdinando Brandaleone, l'uomo d'onore di Porta Nuova al quale ho già accennato. Questi messaggi dicevano che lui si stava adoperando per me, ma che non c era molto da fare a causa della mia fama di grande mafioso. Mi recai, assieme a Nino Salvo, all'appuntamento che si svolse in via Veneto, all'Hotel Flora. Ci appartammo in una zona riservata della hall'e Lima fu, come al solito, di poche parole. Mi espresse il suo rammarico perché non aveva potuto fare nulla per me e attribuì la sua impotenza ai contrasti politici nei quali era coinvolto. Mi riferì di trovarsi in grave conflitto con Ciancimino e che non si era mosso a mio favore per non danneggiarmi e per non danneggiare, di conseguenza, anche se stesso. A proposito di Ciancimino, fece un riferimento ai contrasti che quest'ultimo aveva avuto con Mattarella, il presidente della regione Sicilia assassinato il 6 gennaio di quello stesso anno, a causa dell'azione di pulizia nel mondo degli appalti intrapresa da Mattarella stesso dopo l'omicidio di Michele Reina, segretario provinciale della Dc di Palermo. Non entrò in ulteriori particolari. Pagina 111


Addio Cosa Nostra..txt Aveva indicato qual'era il suo problema. Toccava a noi, in separata sede, stabilire i modi migliori per risolverlo. Lima se ne andò e subito dopo Nino Salvo mi chiarì il senso preciso del messaggio. Il vero problema non era Ciancimino, erano i Corleonesi, i quali ormai facevano il bello e il cattivo tempo con tutti, e non solo con Ciancimino. Comandavano su tutta la linea, dalla politica ufficiale a quella interna a Cosa Nostra, dagli affari puliti a quelli sporchi. «Bisogna fermare quei "viddani" [villani, gente che proviene dalla campagna], altrimenti moriremo tutti. Qualcuno deve ostacolare la loro invadenza e costringerli a ridimensionarsi, ad andare d'accordo con gli altri. Anche Ciancimino deve moderare le sue pretese dentro la Democrazia cristiana. Deve smetterla di contrastare Salvo Lima, che è amico nostro. Masino, devi accettare di entrare in Commissione al posto di Calò. Solo tu puoi vincere questa partita. Dicci di cosa hai bisogno e noi provvederemo» mi disse Nino Salvo. «Capisco che la situazione si è fatta pesante. Anche Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo, i Riccobono, Nino Salomone e Gigino Pizzuto condividono questa posizione e mi hanno chiesto la stessa cosa. Si tratta di un'impresa difficilissima. I Corleonesi sono molto forti e Cosa Nostra è degenerata. Tutti pensano al denaro e pochi sono disposti a battersi per una causa giusta. Dubito che mi ascoltino. Dubito di poter intavolare una discussione costruttiva con dei sordi. Gli uomini d'onore sono in balìa della smania di fare soldi. Sentono solo quella musica. Sono sensibili solo a quell'argomento. Si sono smarriti. «Io non posso aiutarvi. Anche perché ho un impegno da mantenere con me stesso e con i miei figli. Me ne vado in Brasile. E vi auguro buona fortuna contro i "viddani". Sapete benissimo che non mi sono mai piaciuti.» Negli occhi di Nino Salvo lessi la delusione e il disappunto per questa risposta e ne fui addolorato. Ma la mia anima anarchica, libera, aveva preso il sopravvento su quella mafiosa. La prima reclamava che mi distaccassi definitivamente dalla Sicilia e cominciassi una nuova vita con Cristina e i figli, nei grandi spazi del Brasile. La seconda era attratta dall'idea di tornare, da uomo ormai forte e maturo, ai vertici di Cosa Nostra per ristabilire l'ordine violato e proseguire un progetto che avevo cominciato ventitré anni prima. La creazione della Commissione era un progetto di giustizia e di pace, che oggi considero paradossale perché guardo a quelle vicende da un orizzonte diverso, più ampio, ma che allora mi attraeva al punto da farmi rischiare la vita. Cercai di farmi spiegare da Calò qual'era il suo punto di vista sulle vicende palermitane e appresi che la sua antica stima per Stefano Bontade era svanita. Non gli era più neppure amico. «Stefano si comporta malissimo. Non va d'accordo con suo fratello Giovanni e si è messo in urto con molti membri della Commissione. Ha fatto lega con Salvatore Inzerillo: un bamboccio che ha fatto ammazzare il procuratore Costa solo per ripicca nei confronti della Commissione» disse Calò con disprezzo e proseguì: «Durante la tua assenza molta gente è cambiata. Prendi Rosario Riccobono, che è un altro dei tuoi amici più stretti. E come ubriaco. Uccide senza pensarci due volte. Così, per capriccio, per un nonnulla. Io lo chiamo "il terrorista". «So che non ti piacciono i Corleonesi e so che non hai mai apprezzato Liggio e Riina. Anch'io non li amo. Devo dire però che stanno cercando di mettere un po' di ordine. Di frenare questi fratelli che vanno per conto loro, senza ascoltare il parere degli altri e fregandosene della Commissione». Rientrai a Palermo, dove mi trattenni fino ai primi di gennaio del 1981, quando partii per il Brasile. Ritornai a Roma solo una volta, in occasione di un incontro di Bontade e Inzerillo con Calò che organizzai per farli riappacificare e unire contro i Corleonesi. Calò si dimostrò disponibile all'alleanza e si ristabilì tra loro un clima Pagina 112


Addio Cosa Nostra..txt cordiale, ma dopo qualche settimana appresi che tutto era tornato come prima. Era evidente che Pippo Calò aveva deciso di giocare con la squadra che sembrava avere le maggiori chances di vittoria. Anche Rosario Riccobono insistette molto perché rimanessi in Sicilia e aiutassi i miei amici a comporre, con le buone maniere o con le cattive, la frattura interna a Cosa Nostra. Rosario era stato uno dei primi a intuire che i Corleonesi miravano al potere assoluto ed era anche uno dei più decisi ad aprire uno scontro frontale con loro. Mi prospettò diversi vantaggi e mi disse che dal punto di vista della sicurezza della mia latitanza potevo stare tranquillo. Non solo perché Cosa Nostra era padrona del campo come non mai e le forze dell'ordine erano sulla difensiva, ma anche perché avrei potuto abitare nel territorio di Partanna-Mondello. Era la sua borgata, e lui stesso, come quasi tutti i mafiosi di un certo rango, era latitante a casa sua. «Non devi assolutamente temere di essere arrestato né disturbato dalla polizia» affermò categorico Riccobono. «Se te ne vieni a stare qui, nessuno ti cercherà.» Sorrisi un po' incredulo e gli chiesi: «Senti, Saro. Mi vuoi spiegare in base a che cosa hai il potere di garantire una cosa del genere? Ti rendi conto di quanto è impegnativa un'affermazione come quella che hai fatto adesso?». «Sono in contatto con il dottor Contrada, il funzionario della questura. Posso avere da lui tutte le informazioni che mi servono. Per cui ti posso dire che qui non ti succederà nulla» replicò secco Riccobono. In seguito, accennai questo fatto a Stefano Bontade, che mi spiegò di essere al corrente, come altri, dell'amicizia tra Riccobono e Contrada. E aggiunse che questo rapporto tra un uomo d'onore e un poliziotto veniva disapprovato da diversi membri della Commissione. Circolavano parecchi pettegolezzi e Riccobono era definito spregiativamente «sbirro» proprio per questo rapporto troppo personale e continuativo. Non era proibito agli uomini d onore di avere contatti, corrompere o scambiare qualche favore con uno «sbirro», ma doveva trattarsi di relazioni limitate, ad hoc: l'informazione sul mandato di cattura in cambio di soldi, la soffiata su una perquisizione imminente, eccetera. Le distanze con i funzionari dello Stato dovevano comunque essere mantenute. Parecchie persone continuavano a premere su di me perché rimanessi a Palermo. Verso l'autunno la mia latitanza si divideva tra la villa di Nino Salvo, che si trovava un po' fuori città e confinava con l'Hotel Zagarella, un complesso alberghiero anch'esso di proprietà dei Salvo, e la casa di campagna di Stefano Bontade. Stefano mi informava fin nei minimi particolari di quanto succedeva e a un certo punto cominciò a fissarsi su un argomento: l'uccisione di Totò Riina. «E un modo sbrigativo, semplice, per evitare che i "villani" ci mettano i piedi sulla testa» diceva Stefano. «Da un paio di anni in qua stanno facendo i loro comodi. Se ne fregano delle famiglie. Se ne fregano della Commissione. Non gli importa nulla di Cosa Nostra. Hanno ammazzato Di Cristina nel territorio di Salvatore Inzerillo senza dirgli nulla. Hanno ammazzato il colonnello Russo, il giudice Terranova, Michele Reina, il capitano Basile senza consultare né avvertire la Commissione. Solo prima di uccidere Mattarella hanno portato il caso in Commissione. E noi abbiamo fatto finta di essere d'accordo, anche se non lo eravamo, perché non li volevamo insospettire e perché stavamo già preparando la resa dei conti. «Ma io credo che possiamo evitare una guerra. Se ammazzo con le mie mani Totò Riina in una delle prossime riunioni della Commissione, loro si metteranno calmi. Capiranno che siamo pronti alla guerra e sanno quanto siamo forti. Soltanto la mia famiglia dispone di più di cento uomini d'onore pronti a sparare a un mio cenno. «Ne ho parlato a Nino Salomone, che è d'accordo. Dice che mi appoggerà dopo che avrò tolto di mezzo Riina. A cose fatte, confermerà in Commissione le buone ragioni della mia decisione.» Rimasi esterrefatto. La mancanza di lucidità in un uomo intelligente e accorto come lui era sconcertante. «Stai dicendo una grossa sciocchezza, Stefano. La Commissione è piena di amici di Riina che ti faranno fuori un attimo dopo. Pagina 113


Addio Cosa Nostra..txt E l'atteggiamento di Salomone non mi convince. Che cosa vuol dire che lui ti appoggia solo dopo che Riina non c'è più? Una dichiarazione come questa non è credibile. Non può essere presa in considerazione, perché significa che non si è capito come sono forti e furbi i "villani". «E poi queste cose o si fanno subito, senza discuterci tanto prima, o è meglio lasciarle stare e non parlarne a nessuno. Riina è come un cane: annusa i discorsi e capisce che nell'aria c'è qualcosa contro di lui. Qui invece parlate, parlate. Mentre sono i Corleonesi che agiscono e ci abbattono a uno a uno come birilli. Caro amico, ho l'impressione che tu sia già un uomo morto.» Pronunciai queste ultime parole di slancio, senza pensare al presagio nefasto che contenevano. Quando divenne chiaro che la mia decisione di partire era irrevocabile, i miei amici più stretti organizzarono una cena d'addio nella villa di Stefano Bontade. Fu una bella riunione, che ebbe momenti di commozione e che significò per me un regalo consistente: 500.000 dollari raccolti tra gli uomini d'onore più in vista, diventati così facoltosi da potersi permettere un gesto di delicatezza e di liberalità nei confronti di un loro compagno di lunga data che se ne andava, a testa alta e per sempre. DI NUOVO IN BRASILE. I soldi della droga portano con sé come una maledizione divina. Dopo il mio arrivo in Brasile, nel gennaio del 1981, ottenni, tramite mio suocero, una concessione governativa in uno dei posti più remoti e disabitati del Brasile. Si trattava di un permesso di disboscamento di un tratto della foresta equatoriale che faceva parte della regione di Belém del Pará. Oltre metà del territorio del Brasile era di proprietà dello Stato, che cedeva gratuitamente ai privati appezzamenti di terreno in cambio della loro trasformazione in aree produttive. Dopo aver disboscato e messo a coltura il 55 per cento della superficie che mi era stata assegnata, sarei diventato proprietario di un'immensa tenuta di 54.000 ettari. Sistemai la famiglia a Rio e cambiai i dollari in cruzeiros, perdendone subito la metà in seguito a un'improvvisa svalutazione. Nel giro di un mese, 250.000 dollari svanirono nel nulla. E negli anni seguenti, anche quello che avevo acquistato con la cifra rimanente è andato dissolto allo stesso modo! Non mi è rimasto niente di quel denaro. Ecco perché credo a una maledizione. Ancora oggi possiedo un accendino che ho comprato con soldi puliti, mentre ogni cosa che ho posseduto grazie al denaro proveniente dalla droga l'ho persa. In ogni modo, ho trascorso quasi due anni felici. Tra i pochi, pochissimi anni felici della mia vita. Cristina e i ragazzi abitavano in una bella casa a Rio. Nel marzo 1981 nacque Stefano. Una volta al mese partivo in aereo, assieme a mio cognato, per la fazenda di Belém. Erano sette ore di volo, poi si doveva prendere la barca o un fuoristrada per raggiungerla. Liberavo dalla vegetazione il terreno circostante la fattoria, vendevo il legname e organizzavo le zone di pascolo e quelle da coltivare. Mi sentivo un uomo libero, tranquillo, alle prese con un'esistenza nuova, da organizzare secondo le mie inclinazioni in un paese giovane e pieno di vita. Le cinquantatré primavere che avevo addosso non mi pesavano e sentivo di possedere l'energia necessaria per affrontare la sfida che la natura selvaggia di Belém mi lanciava ogni volta che scendevo dall'aereo. Ero sicuro di essermi lasciato alle spalle un mondo vecchio, degradato e senza speranza. E gli avvenimenti che cominciarono a susseguirsi in Sicilia pochi mesi dopo la mia partenza sembravano confermarmi che avevo fatto la scelta giusta. Totò Riina riuscì a precedere il piano di attacco dei miei amici. Stefano Bontade fu ucciso il 23 aprile 1981, Salvatore Inzerillo poche settimane dopo, e nei mesi successivi ebbe luogo lo sterminio sistematico e implacabile di tutti gli altri. Mi sono chiesto diverse volte quale piega avrebbero preso gli eventi se Bontade fosse stato più deciso e avesse ascoltato il mio consiglio di attaccare senza indugio e di non preoccuparsi del problema di Giuseppe Greco «Scarpazzedda». Quest'ultimo era il killer preferito di Riina e apparteneva al clan dei Greco. Partire all'attacco di Riina avrebbe significato sbarazzarsi di «Scarpazzedda», Pagina 114


Addio Cosa Nostra..txt ma Nicola Greco, suo parente e amico di Bontade, si era opposto, chiedendo a quest'ultimo di discutere la questione. Stefano aveva esitato, anche perché mettersi contro Nicola Greco ed eliminare «Scarpazzedda, avrebbe comportato uno scontro con tutto il potente clan dei Greco. Questa esitazione gli costò la vita. Riina arrivò per primo e lo fece uccidere proprio da «Scarpazzedda». Appresi dai giornali la notizia della morte di Stefano. Pochi giorni dopo mi telefonò Nino Salomone: si trovava in Brasile anche lui e commentammo assieme l'accaduto. Non sapevo che il killer fosse stato «Scarpazzedda», ma ero sicuro della matrice corleonese. Ed ero anche sicuro che entro poco tempo sarebbe toccato anche a Totò Inzerillo. Gli telefonai e gli raccomandai di non muoversi di casa, di non accettare appuntamenti e di non parlare con nessuno. Doveva solo concentrarsi sulla controffensiva. Ma Nino Salomone mi riferì il risultato di un deludente colloquio con lui. Dopo che Salomone lo aveva avvertito del pericolo che incombeva su di lui, Inzerillo gli aveva risposto: «Non mi toccheranno, Nino. Sono certo che non tenteranno nulla contro di me. Ho mandato cinquanta chili di droga in America per conto dei Corleonesi e finché non ricevo il pagamento della partita sono al sicuro. Così ho il tempo di organizzare la guerra contro quei bastardi». In questo modo Totò Inzerillo aveva confermato di essere un ragazzino, uno stupido ragazzino, e che i Corleonesi avevano fatto bene, dal loro sadico punto di vista, a eliminare Bontade per primo. Se avessero fatto l'inverso, non avrebbero mai raggiunto Stefano. E Stefano li avrebbe poi distrutti. Con la sua forza, con il suo carisma, con la sua capacità di trascinare le persone. Inzerillo fu ucciso mentre tornava da un incontro con l'amante. Come uno sciocco, perché aveva l'auto blindata, ma si era dimenticato che una vettura corazzata ti protegge finché ci sei dentro. Quando entri e quando esci non sei protetto. E i Corleonesi hanno aspettato il momento in cui lui saliva, mentre usciva dalla casa della sua donna. I Corleonesi si fecero comunque pagare poi la droga dai soci americani di Inzerillo e proseguirono uccidendogli i fratelli, gli zii e tanti altri parenti. La loro tattica nella guerra di mafia era quella dell'esercito nazista: non si limitavano ad attaccare le città, ma facevano saltare anche i ponti per evitare che queste fossero rifornite. Facevano terra bruciata intorno ai loro avversari massacrando chiunque mostrasse anche una lontana simpatia per loro. Riina fece scomparire delle persone solo perché avevano dichiarato di avermi conosciuto in carcere e di avere avuto una buona impressione di me. Li fece prelevare a uno a uno, per scannarli. Alcuni di questi non erano neppure uomini d'onore. Erano solo passati dall'Ucciardone ed erano poi stati trasferiti a Milano e nel Nord. Il risultato doveva essere che - qualora fossi rientrato in Italia e avessi avuto bisogno di case in cui nascondermi - avrei trovato ogni porta chiusa. Erano tutti terrorizzati. L'uccisione di Inzerillo e Bontade spaventò ancora di più i cugini Salvo, i quali mi telefonarono - tramite un ingegnere loro parente che avevo conosciuto a Palermo l'anno prima- per convincermi a rientrare e guidare la riscossa contro i Corleonesi. Questo ingegnere fu in seguito ucciso anche lui dai «viddani», ma i Salvo furono risparmiati. Era presto per loro. I Corleonesi avevano ancora bisogno di un canale con il potere politico. Riina non si sentiva abbastanza forte da presentarsi direttamente ai politici più potenti, con il suo italiano incerto e con la sua incultura, per stipulare accordi e intavolare trattative. I Salvo potevano svolgere questo lavoro per lui. E lui in cambio li avrebbe lasciati in vita. La telefonata dei Salvo arrivò nel giugno 1981. Seguì un anno di relativa tranquillità per la mia vita privata e di notizie Pagina 115


Addio Cosa Nostra..txt sempre più funeste provenienti dalla Sicilia. La mia tranquillità era relativa perché in Brasile si era diffusa la notizia della mia residenza nel paese e si erano scatenate le solite campagne di stampa sul grande trafficante dalle ricchezze favolose. Ero pertanto costretto a limitare i miei movimenti e a dare nell'occhio il meno possibile. Ricevevo parecchie informazioni sulla situazione in Sicilia dal mio vecchio amico Nino Salomone, che risiedeva in Brasile da molti anni e viaggiava spesso tra l'Italia e l'America del Sud. Uno degli episodi più raccapriccianti a proposito dell'azione di annientamento degli avversari da parte di Riina e dei suoi soci mi venne riferito da Badalamenti. Pino Greco «Scarpazzedda» aveva catturato il figlio quindicenne di Salvatore Inzerillo. Il ragazzo gli aveva gridato in faccia la sua intenzione di vendicare il padre uccidendo Riina. Allora Scarpazzedda gli aveva tagliato il braccio destro, facendogli presente che così non avrebbe più potuto ammazzare nessuno. E poi lo aveva soppresso. A questo barbaro episodio aveva preso parte anche Antonino Grado, che aveva appena tradito, assieme a tutti i suoi numerosi familiari e a centinaia di altri uomini d'onore, il gruppo Bontade-Inzerillo-Badalamenti. Intorno all'autunno del 1981 chiesi un prestito a Nino Salomone. Ne avevo bisogno per comprare dei bovini. Avevo investito nella tenuta di Belém e nell'acquisto dell'appartamento a Rio il denaro ricevuto da Cosa Nostra come liquidazione della mia carriera di mafioso. In quei giorni ricevetti il primo segnale che il cerchio di morte dei Corleonesi cominciava a stringersi intorno a me. Il fratello della mia prima moglie, Mariano Cavallaro, fu ucciso a Torino. Non appena lo seppi, telefonai a Pippo Calò. Le mie condizioni economiche erano, nel frattempo, così precipitate che dovetti chiedergli di pagare la telefonata. Calò mi disse di non sapere nulla circa le ragioni dell'omicidio e che doveva quindi trattarsi di un episodio collegato a fatti locali, senza riferimento a quanto stava succedendo a Palermo. Gli parlai delle difficoltà finanziarie nelle quali mi trovavo e lui mi rinnovò l'invito a tornare in Italia. «Non darti pensiero di nulla. Se vieni, penso io a tutto. Risolverò ogni tuo problema di soldi» mi incitò Calò sperando che cascassi da solo nella trappola. «Va bene, mi hai convinto. Credo proprio che devo cominciare a pensare di tornarmene» risposi mentendo. «Però vorrei chiederti la cortesia di mandarmi un po' di denaro tramite Nino Salomone, che si trova a Palermo e sta per partire per il Brasile.» Incontrai Salomone a San Paolo e quando gli riferii del mio colloquio con Calò, lui reagì vivacemente. «Sei un incosciente, Masino. Tu stai cercando di farmi ammazzare. Non ti rendi conto che dopo l'uscita di scena di Stefano Bontade l'unico pericolo che vedono i Corleonesi sei tu. Ho detto a tutti che in Brasile noi non ci incontriamo mai e tu fai capire a Calò che siamo in contatto! » «Hai ragione, Nino. Scusami per avere detto che siamo amici. Ma avevo bisogno di quei soldi» ribattei amareggiato e irritato per la dimostrazione di viltà da parte di un uomo che dovevo forse considerare ormai un ex amico. «Non prendertela, Masino. Ma Palermo è diventata un inferno. Si muore per nulla. Per una parola, per un equivoco, per uno sguardo. Il prestito te lo faccio io. Calò non mi ha dato nulla da consegnarti.» E mi diede 14.000 dollari. Ci lasciammo con freddezza e ci incontrammo nuovamente solo un'altra volta, a Pasqua dell'anno successivo. Pochi mesi prima che Gaetano Badalamenti comparisse in Brasile. Salomone mi aveva avvertito che era possibile che di lì a poco Badalamenti si facesse vivo e che ciò avrebbe comportato guai a non finire per me, per lui stesso e per tutti. Nino Salomone non sopportava il rappresentante di Cinisi. Pagina 116


Addio Cosa Nostra..txt Gli era antipatico e non perdeva occasione per parlarne male. Gli avevo risposto che se Badalamenti avesse voluto venire in Brasile, non avrei potuto certo impedirglielo. Nell'agosto 1982 ricevetti una telefonata di Badalamenti. Era riuscito a procurarsi il mio numero di telefono chiedendolo a Franco Barbaccia, il medico dell'Ucciardone uomo d'onore della sua famiglia e mio amico. Mi chiese di poter venire in Brasile per discutere con me. Acconsentii e lo andai a prendere all'aeroporto. Badalamenti rimase per quasi un mese. Era assieme a suo figlio e mi aggiornò, grazie anche alla sua memoria prodigiosa, sull'intera situazione di Cosa Nostra. Mi raccontò degli assassinii dei miei amici, dei tradimenti accuratamente preparati all'interno di ciascuna famiglia, delle stragi. La più orrenda di queste avvenne però qualche mese dopo, nel novembre 1982, quando l'intero clan dei Riccobono, una quindicina di persone, furono scannate come un gregge di capre. Alla rinfusa, nella stessa giornata, senza distinguere colpevoli da innocenti, ragazzi da adulti, uomini d'onore da estranei. Il suo racconto tesseva davanti ai miei occhi una tela squallida e desolata. Era l'agonia di un intero universo in cui avevo creduto e all'interno del quale ero rimasto prigioniero, nonostante i miei ripetuti tentativi di evasione, per quasi tutta la vita. Fu durante il soggiorno di Badalamenti in Brasile che sparì il fratello di Cristina. Era un esperto di zootecnia che gestiva una fattoria e che non aveva niente a che fare con il mio mondo né con nulla di illecito in Brasile. La criminalità brasiliana non era solita effettuare sequestri di persona, né si fece vivo qualcuno per chiedere un riscatto. Homero Guimaraes junior si dissolse nel nulla. La sua scomparsa poteva essere soltanto causata dai miei nemici siciliani. Sentivo il cerchio che si stringeva intorno a me. Gaetano Badalamenti parlava seguendo il filo dei SUOI ricordi, rievocando persone care portate via dalla furia dei barbari di Corleone e continuava a insistere perché ritornassi in Sicilia a giocare il tutto per tutto. Dovevo usare il mio ascendente per radunare attorno al mio nome gli scontenti e i superstiti e guidare la riscossa. «Dobbiamo partire all'attacco dei Corleonesi uccidendo Liggio. Devi sfruttare le amicizie che hai fatto in carcere con i catanesi e i milanesi. Trova un modo sicuro per ammazzarlo. Indicaci una strategia» suggerì Badalamenti. «Mi stai proponendo una cosa pazzesca, Tano» risposi. «Nessuno si imbarcherebbe in un'impresa assurda come questa.» Le pressioni del capo della famiglia di Cinisi mi convincevano sempre di più che il suo prestigio doveva essersi molto affievolito anche presso gli uomini d'onore che gli erano vicini. «Come fai a non renderti conto che la situazione è disperata? Non è possibile capovolgerla in alcun modo. Togliti dalla testa l'idea di fare guerra adesso ai "villani". Non fare lo scemo. Sei ricco, Tano. E hai una folta parentela. Capisco che temi per la tua e per la loro sorte. Tant'è vero che ti hanno già ammazzato parecchi parenti. Ma cerca di ragionare a mente fredda. Hai bisogno di tempo e di calma per prendere fiato, per riacquistare potere. Vieni ad abitare qui in Brasile, al sicuro. Portati dietro il tuo parentado e aspetta cinque, sei o sette anni. Fai sapere a tutti che non vuoi più avere a che fare con la Sicilia e che ti sottometti a chi ha dimostrato di essere più forte. In questi anni ti rafforzerai, studierai la situazione e preparerai una riscossa formidabile. «Quando sarai pronto, tornerai in Sicilia» proseguii esortandolo a riflettere bene. «Troverai i tuoi nemici impreparati. Li prenderai di sorpresa e farai di loro quello che vorrai. Non saranno capaci di difendersi. Fai quello che hanno fatto i Greco quarant'anni fa su consiglio di Vincenzo Rimi. Conosci l'episodio? I Greco hanno fatto finta di essersi disgregati, di andare alla deriva. Se ne sono andati in giro con le puttane. Pagina 117


Addio Cosa Nostra..txt Hanno ceduto o abbandonato le loro proprietà ai nemici. E poi, dopo cinque anni, sono partiti all'attacco e hanno ammazzato in una sola notte quaranta avversari. Li hanno distrutti per sempre! «Fa' come me. Comprati una fattoria in un posto lontano, dove nessuno ti venga a cercare e dove farai arrivare i tuoi familiari. Inserisciti nel commercio del legname, nell'allevamento, nell'agricoltura. Sono cose che conosci benissimo. Hai sempre avuto passione per la campagna e puoi anche guadagnare un bel po' di quattrini. Se vuoi, possiamo andare assieme nel Pará. Ti farò vedere la mia azienda. Lì potrai cercare di acquistare una tenuta.» Badalamenti sembrò essere persuaso dalla mia analisi. Mi accompagnò assieme al figlio Leonardo a Belém. Ma a quest'ultimo non piacquero il clima e le condizioni ambientali della zona. Faceva troppo caldo, c'erano troppe zanzare e serpenti e bisognava lavorare duro contro la giungla. Dissuase il padre dall'idea di stabilirsi nel Pará e finì che se ne ripartirono per l'Europa: solo per farsi ammazzare ancora un bel po' di parenti. In Sicilia e in Germania. Il viaggio a Belém ebbe luogo ai primi di settembre del 1982. Ci trovavamo lì quando apprendemmo dalla televisione la notizia dell'assassinio di Dalla Chiesa, commentata da Badalamenti nei termini di cui ho già parlato. L'11 settembre telefonai a Palermo per parlare con mio figlio Antonio. Non c'era un particolare motivo per chiamarlo. Volevo solo avere qualche notizia sulla sua situazione. Antonio era uscito da poco dal carcere. Era stato arrestato e processato per avere usato banconote provenienti da un sequestro di persona. Antonio non ne sapeva nulla perché le aveva ricevute da Pippo Calò, il quale si era poi giustificato con il pretesto di non sapere o di non ricordare che si trattava di denaro sporco. Vigilavo con attenzione su Antonio, che gestiva una pizzeria assieme a mio genero e a mio figlio Benedetto. Temevo che la permanenza in prigione l'avesse messo in contatto con uomini d'onore o con malavitosi e avevo incaricato il rappresentante di Brancaccio, un certo Giuseppe Savoca, di tenerlo d'occhio. Se mio figlio avesse frequentato sia pure superficialmente una persona sbagliata, Savoca doveva informarmi. Antonio portava, inoltre, un cognome che era diventato estremamente pericoloso a Palermo. Al primo segnale negativo, gli avrei imposto di raggiungermi immediatamente in Brasile. Alla mia chiamata rispose una giovane donna in lacrime. Era mia nuora Iolanda, che mi comunicò che Antonio era scomparso due giorni prima senza dare alcuna notizia di sé. Con lui era scomparso anche suo fratello Benedetto. Chiesi di parlare con la mia ex moglie Melchiorra, alla quale raccomandai di rivolgersi alla polizia, nell'eventualità che i nostri figli fossero stati arrestati e non avessero potuto avvertire le famiglie. Chiamai poi il mio amico Savoca, il quale si negò al telefono. A questo punto compresi tutto. Ancora prima di apprendere che la polizia di Palermo non aveva arrestato nessun Buscetta nei giorni precedenti, capii che non avrei più rivisto i miei cari. Non fui capace di abbozzare una reazione. Il colpo di maglio sui miei affetti fu tale che da allora non sono più stato in grado di ridere, di essere allegro. Ho perso la capacità di essere felice. Tommaso Buscetta è morto in quella data assieme ai suoi figli. Il suo unico rimpianto da allora in poi è quello di essere vivo. Qualche giorno dopo, venne a trovarmi a Rio Gaetano Badalamenti. Aveva saputo della scomparsa di Antonio e Benedetto e mi fece le condoglianze. «Contrattacchiamo, Masino. Ribelliamoci. Costi quello che costi» mi incitò ancora una volta. «Rendiamogli pan per Pagina 118


Addio Cosa Nostra..txt focaccia. Facciamo anche noi terra bruciata intorno a loro.» «E inutile. I miei figli sono ormai morti. Se non reagisco i Corleonesi interpreteranno la mia inerzia come una resa e smetteranno di tormentarmi. Ho altri due figli che possono essere colpiti. Mi vendicherò. Ma mi vendicherò ragionando. E la ragione mi dice che questo non è il momento di combattere i Corleonesi. Se voglio vendicarmi bene, non devo farlo adesso.» Ripensando oggi a quei momenti, credo di non avere sbagliato. Penso di conoscere la mentalità mafiosa. Nessuno può insegnarmi qualcosa a tale riguardo. So decifrare il significato di ogni mossa proveniente dalla mafia. So valutare i rapporti di forza. E so rimanere lucido anche nel dolore. Se avessi agito d'impulso, abbandonandomi all'immensa marea dell'odio che mi cresceva dentro, sarei partito per la Sicilia con l'obbiettivo di uccidere Riina. Ma sarei caduto su un punto. Il punto del rifugio sicuro. Dal momento che Riina si nascondeva, non c'erano occasioni facili di averlo di fronte. Bisognava scovarlo e non era semplice. La ricerca si sarebbe potuta protrarre per settimane e mesi. E in giro vedevo tanta insicurezza e tanta paura. C'era l'offerta dei Salvo, è vero. Ma dal mio punto di vista non era abbastanza sicura. Conoscevo i Salvo. Erano mafiosi di salotto, di astuzia politica e non di forza. Non possedevano tutta la gamma di malignità necessaria per un'impresa del genere. Per attaccare Riina, e sparargli come meritava, dovevo nascondermi. E questo era il punto debole della mia tattica. La gente temeva più Riina che me. Per questo avrei perso. Era più opportuno aspettare tempi migliori. Poi mi venne un dubbio. Chiesi a Badalamenti se aveva detto a qualcuno che sarebbe venuto in Brasile a trovarmi e lui negò. Rispose di essere partito in gran segreto. Più volte ho pensato, tuttavia, che potesse esserci una relazione tra la sua presenza in Brasile e la scomparsa dei miei figli. Badalamenti se ne andò e poco tempo dopo la sua partenza si verificarono nuovi tragici eventi che mi gettarono nella disperazione e nel dolore. Nel dicembre di quello stesso anno, a tre mesi di distanza dalla sparizione dei miei figli, furono uccisi mio genero Giuseppe Genova, marito di Felicia, assieme a due miei nipoti che si trovavano nella pizzeria che Giuseppe gestiva in società con i miei figli scomparsi, nonché mio fratello Vincenzo e suo figlio Benedetto. Nessuno di loro era mafioso. La loro unica colpa era di portare il mio cognome o di essere imparentati con me. L'INFELICERUTORNO Il bilancio della mia nuova esistenza poteva dirsi senz'altro soddisfacente: nove persone avevano pagato con la vita la loro «contiguità» con Tommaso Buscetta. Oltre sessanta individui, tra adulti e bambini, mi consideravano la causa della loro disgrazia, l'origine della loro perenne infelicità. Nei tempi successivi alla notizia della seconda valanga di ferocia che mi aveva colpito, un grande rimorso si impadronì della mia anima. Cominciai a pensare che avevo fatto male a lasciare Palermo. Avevo sottovalutato l'efferatezza dei Corleonesi. Sarei dovuto rimanere sul posto e combattere, resistere. Avrei perso, forse. Probabilmente sarei morto. Ma avrei salvato molte vite umane. Tanti innocenti non sarebbero stati uccisi per colpa mia. E poi avrei dovuto rendermi conto che era inutile cercare di sfuggire alla Pagina 119


Addio Cosa Nostra..txt propria sorte. Ognuno di noi ha un solo destino e a me è capitato quello del mafioso. Mi sono illuso diverse volte di potermi ribellare e seguire un'altra strada. Ma la sorte mi ha sempre riportato sotto la sua ala, facendomi pagare a caro prezzo ogni deviazione dal binario nascosto della mia esistenza. Quanto ero stato sciocco e presuntuoso nel voler fuggire dalla Sicilia e dalla setta fosca che mi aveva imprigionato! Il mafioso è un pesce di scoglio, piccolo, meschino, pratico, che ha bisogno di una tana e di tanti anfratti. Io pretendevo di fare il pesce di acqua blu, che si muove negli oceani e parla con le stelle! Non avevo capito che il mio posto era Palermo. Famiglia di Porta Nuova. La mia vita si sarebbe dovuta iniziare e concludere tra la statua della Libertà e il fiume Oreto. Le conseguenze della mia proterva leggerezza e del mio egoismo, mi stavano adesso intorno nelle vesti di quei cadaveri sfigurati, quei simulacri di persone a me care, che ricordavo attive e felici. Era troppo tardi, tuttavia, per riparare l'errore rendendo omaggio alla sorte sciagurata che mi si era infine rivelata. Ritornare in Sicilia in quel momento avrebbe significato la mia fine e un ulteriore danno per le persone che mi stavano intorno e che dipendevano dal mio lavoro, dal mio affetto e dalla mia stessa presenza in questo mondo. Non avevo il diritto di disporre della loro felicità e del loro futuro, come avevo fatto in passato con le vite degli altri sfortunati miei cari. Riuscii a dominare impulsi e rimorsi grazie al pensiero di Cristina e dei figli superstiti. Ma nel febbraio del 1983 ricomparve in Brasile il sinistro messaggero, la cui figura Sl'associava al lutto e alla sventura. Gaetano Badalamenti venne ancora una volta a trovarmi con le sue inutili condoglianze e con i suoi insensati inviti a capeggiare la rivolta contro i demoni di Corleone. Lo mandai via rimproverandolo aspramente per la sua mancanza di cautela e per l'insensibilità che aveva mostrato nei miei confronti, coinvolgendomi nei suoi ottusi piani di vendetta. Anche Cristina e i miei figli avevano perso la tranquillità dopo gli eventi dell'estate e dell'autunno 1982. Anche loro temevano di essere colpiti dai miei avversari e ogni mia partenza per la tenuta di Belém era divenuta un episodio doloroso, quasi un addio. Cristina temeva di essere troppo esposta continuando a vivere a Rio, a un indirizzo che era adesso noto a troppe persone. Nell'autunno del 1983 decidemmo di andare a vivere a San Paolo, subito dopo la fine dell'anno scolastico. Qualche tempo prima del trasferimento vero e proprio, partimmo per San Paolo, dove i nostri figli dovevano sostenere un piccolo test preliminare per iscriversi alle scuole di quella città. Per il soggiorno a San Paolo la famiglia doveva dividersi. I due figli più grandi e l'ultimo nato, Stefano, avrebbero dormito presso l'abitazione di un nostro amico, Paolo Staccioli, proprietario di un ristorante che frequentavo saltuariamente. Cristina, nostro figlio Tommaso ed io avremmo invece alloggiato a casa di Dino Mortilli, un professore di disegno di origine napoletana nostro conoscente. Il nostro arrivo era previsto per la sera di giovedì 22 ottobre. Partimmo da Rio tutti assieme in automobile, ma durante il viaggio pensammo di fare una sosta e pernottare in un motel. Ero molto stanco perché la mattina dello stesso giorno ero tornato in aereo da Belém. Giungemmo così a San Paolo venerdì mattina. Lasciai i miei tre figli da Staccioli e rimasi in sua compagnia per tutta la giornata. La sera andai a dormire, come previsto, da Mortilli, assieme a Cristina e Tommaso. L'appartamento era vuoto perché Mortilli non c'era. Il giorno dopo uscimmo tutti assieme da casa per andare a prendere Lisa e accompagnarla a scuola per sostenere l'esame di ammissione. Salimmo in auto e, dopo poche centinaia di metri, mi fermai per comprare un cornetto da portare a Lisa. A questo punto fui circondato da un nugolo di agenti di polizia che ci riportarono a casa di Mortilli senza che noi fornissimo alcuna indicazione Pagina 120


Addio Cosa Nostra..txt sull'indirizzo. I poliziotti avevano la barba lunga e il viso stravolto. Mi rimproverarono per averli fatti aspettare due giorni. Appartenevano alla polizia di Rio ed erano ben informati sui nostri movimenti. Evidentemente qualcuno dei nostri amici li aveva avvertiti, nonostante nessuno di loro avesse mostrato di conoscere la mia vera identità. Fui condotto nella camera da letto dell'appartamento di Mortilli. Mia moglie e mio figlio rimasero nell'altra stanza. Uno dei funzionari presenti mi chiese un milione di dollari per lasciarmi libero. Gli feci presente che potevo racimolare al massimo 1000 dollari. Il funzionario si mise a gridare e imprecare, insistendo nella richiesta. Verso le 15 intervenne la polizia di San Paolo, che mi portò al proprio quartier generale. Il giorno seguente entrai in carcere. L'accusa era la solita: traffico internazionale di stupefacenti. Anche Cristina fu arrestata e fu scarcerata un mese e mezzo più tardi. Tommaso fu trattenuto nella stazione di polizia fino a notte. Pochi giorni dopo mio suocero fu ferito dalla polizia di Rio, a causa di un tragico equivoco. Gli agenti si erano recati a casa sua per effettuare una perquisizione. Avevano intimato al portiere dello stabile di non avvertirlo e si erano avviati verso l'appartamento. Il portiere aveva dubitato che fossero davvero poliziotti, e aveva messo in allarme mio suocero chiamandolo al citofono e dicendogli che stavano salendo da lui alcune persone sospette. Mio suocero era già molto preoccupato per la mancanza di notizie su di noi e quando la polizia chiese di entrare fece aprire dalla cameriera. Vide che i visitatori erano in abiti civili e con le pistole in pugno. Pensò di essere oggetto di un attentato, prese una rivoltella e fece fuoco contro gli intrusi, ferendo uno di loro a una gamba. La risposta fu immediata e mio suocero fu crivellato di colpi. Uno di questi gli bucò la gola, ma egli riuscì miracolosamente a sopravvivere. L'appartamento fu perquisito, con esito totalmente negativo. Ero di nuovo in carcere. La mia avventura brasiliana, la mia fuga da Cosa Nostra si erano concluse nel peggiore dei modi. Il mio futuro non esisteva: era già racchiuso nel mio passato. Perché non ammettere, allora, l'evidenza? Perché continuare a sottrarmi a una condanna? Perché ostinarmi a infliggere sofferenze e torture a persone che amavo? C'erano troppi morti e troppi lutti nella mia vita. Cristina, mio suocero e i miei figli continuarono a starmi vicino nei mesi successivi, ripetendo l'odissea di dodici anni prima: visite in prigione, lettere, speranze, avvocati, umiliazioni, ristrettezze economiche via via crescenti. Il mio arresto aveva fatto sensazione. Le autorità brasiliane si pavoneggiavano agli occhi del mondo per avere catturato un famoso delinquente e non avevano alcuna intenzione di mandarmi davanti a una Corte per essere giudicato. Buscetta in carcere era una prova di efficienza e serietà per la giustizia del Brasile. La notizia del mio arresto aveva attirato l'attenzione delle autorità italiane e un giorno vidi spuntare il giudice Falcone, il quale aveva chiesto di interrogarmi a causa di un'imputazione di traffico di droga da lui stesso formulata, ma il suo interesse reale si concentrava sulla guerra di mafia di quegli anni. La giustizia italiana aveva già chiesto la mia estradizione e quando Falcone tentò di interrogarmi, la decisione che mi riguardava non era stata ancora presa. Il mio avvocato si era opposto all'estradizione, perché la legge brasiliana vietava di concederla a chi fosse padre di figli aventi cittadinanza brasiliana. Mi rifiutai di rispondere, ma gli feci capire che uno spiraglio si era aperto. Pochi giorni dopo la sua partenza venni a sapere che, nonostante i miei due figli brasiliani, sarei stato estradato in Italia. Era il 7 luglio 1984. Decisi che non sarei rientrato in Italia. Da vivo. Pagina 121


Addio Cosa Nostra..txt Ero stanco di persecuzioni e di stragi. Sapevo che Cristina e i figli mi avrebbero seguito, ed ero certo che la vendetta dei miei nemici si sarebbe abbattuta su di loro. Ero anche sicuro che non sarei sopravvissuto a lungo in un carcere italiano. Vidi mia moglie disperata. Era venuta a Brasilia, dove ero stato trasferito, impegnando, per pagarsi il viaggio, l'ultimo gioiello che le era rimasto. Era venuta soltanto per aiutarmi a sperare, a illudermi. Dopo la sua partenza, le scrissi una lettera. Ricordo bene le circostanze. Mi trovavo in una cella senza finestra e la luce e l'aria mi arrivavano dal corridoio. Guardavo con indifferenza il cibo disgustoso nella ciotola di plastica che mi stava davanti. C'era silenzio: qualcuno ascoltava la radio a basso volume e qualcun altro russava. Mi sentivo solo come non mai e cercavo di prepararmi alla solitudine finale che avevo scelto. Tra non molto non sarò più qui, pensavo. La decisione era irrevocabile. Se fossi tornato indietro, sarei stato il più egoista degli uomini. L'amore immenso per la mia famiglia aveva il sopravvento su qualsiasi altra considerazione. Il tentativo di Cristina di ingannare se stessa davanti all'inevitabile, il suo affetto e la sua dedizione mi avevano mostrato con chiarezza che la mia scelta era l'unica via di scampo per lei e per i nostri figli. Dovevo risparmiare loro tutti i dolori futuri. Forse all'inizio Cristina non avrebbe capito il dono che le stavo per fare e si sarebbe sentita confusa e smarrita. Avrebbe forse pensato che il mio gesto rivelava una persona diversa da quella con la quale aveva creduto di vivere. Ma confidavo che in seguito avrebbe compreso il significato della mia decisione. In un primo momento si sarebbe sentita sola. Poi avrebbe avuto, però, la possibilità di allevare i nostri piccoli libera da quelle ansie e umiliazioni che avrebbe certamente sofferto ricominciando a seguirmi nelle mie tristi peregrinazioni carcerarie. Quando la guardia bussò alla cella per dirmi che stava per cominciare la traduzione verso Rio, bevvi un po' d'acqua con della stricnina. Era una bustina di veleno per i topi che usavo nella mia fazenda di Belém. Il furgone della polizia sostò in un ospedale militare perché, prima di essere consegnato all'autorità straniera, venisse certificato il mio stato di salute. Quando aprirono il portellone posteriore per farmi scendere, ero già quasi morto. Pensarono a un infarto e mi portarono al pronto soccorso. La mia fortuna - o la mia disgrazia, ancora non so - fu che il dottore di turno in quella giornata aveva avuto qualche problema con la sua ragazza ed era stato sostituito da un collega specialista in avvelenamenti. Questi si rese subito conto che non si trattava di un trauma cardiaco ma di un gravissimo avvelenamento. Mi fece dei test e decise di intervenire con una terapia basata su un altro veleno. Mi iniettò subito del curaro, che ebbe l'effetto di rallentare la progressione letale della stricnina. Mi svegliai sull'aereo che mi portava in Italia. Accanto a me c'erano il dottor De Gennaro e un medico della polizia italiana, il dottor Giuseppe Alberto Mantineo. De Gennaro aveva preteso dai funzionari della polizia brasiliana che il detenuto gli venisse consegnato sulla pista dell'aeroporto di Rio. Si era rifiutato di noleggiare un aereo privato per venirmi a prendere a Brasilia, come gli era stato suggerito dai suoi colleghi sudamericani, perché aveva letto i servizi giornalistici secondo i quali ero ricchissimo e padrone di una flotta di duecento aeroplani. Durante il viaggio ebbi una serie di crisi molto acute. I miei polmoni erano pieni di acqua. Non riuscivo a respirare. La bombola di ossigeno acquistata in farmacia prima di partire si rivelò scarica e ne fu trovata un'altra nella cabina di pilotaggio. L'aereo fu costretto ad atterrare a Milano per rifornirsi di altro ossigeno. Pagina 122


Addio Cosa Nostra..txt Il dottore mi fece diverse iniezioni. Arrivato a Roma fui ricoverato in un ospedale della polizia dove fui curato e assistito con molta premura. Nei giorni seguenti alternavo momenti di lucidità a momenti di buio assoluto. Il mio cervello aveva perso ogni controllo. I miei movimenti erano resi quasi impossibili dalla perdita della coordinazione. Non sapevo come sedermi. Non riuscivo a stabilire l'altezza di un gradino per alzare il piede e superarlo. Non ero capace di muovere i muscoli della bocca quando volevo parlare. Camminavo appoggiandomi alle pareti. Nei momenti di lucidità piangevo lacrime amare. Avevo deciso di suicidarmi in base a una forza interiore e non per debolezza e disperazione. Era stato un gesto d'amore nei confronti della mia famiglia. Ma adesso ero sopraffatto dal dolore. Non sapevo nulla dei miei cari. Ero stato in coma per diversi giorni e avevo perso anche la cognizione del tempo. Che cosa ne era stato di loro durante il periodo, che immaginavo lunghissimo, della mia assenza? LASVOLTA Ognuno di noi ha un solo destino. Il mio non prevedeva la morte da mafioso suicida, ma mi aveva riservato la sorpresa di essere il primo mafioso che decide di collaborare con lo Stato. La mia fibra ebbe la meglio sul veleno. Cominciai a riacquistare le forze. Ero ospite, adesso, della questura di Roma, dove De Gennaro e Falcone mi avevano fatto adattare un piccolo appartamento. Continuavo a soffrire intensamente. Avevo mal di denti e venivo assalito da tremori improvvisi e da vuoti di memoria. Alcuni giorni dopo il mio arrivo, De Gennaro fece un gesto che mi riempì di gioia. Durante uno dei miei momenti di lucidità, mi chiese il numero di telefono della mia famiglia, sollevò la cornetta e mi fece ascoltare la voce di Cristina. Fu una delle emozioni più grandi della mia vita. Il mio proposito di collaborare si rafforzò. L'idea che potesse esserci un mondo diverso, nel quale vivevano persone trasparenti, capaci di comprendere le angosce degli altri senza volerne profittare cominciò a entrare nei miei pensieri. Tuttavia i primi tempi della mia deposizione davanti al giudice Falcone non furono facili. Ero ancora molto combattuto, anche se avevo ripreso il pieno controllo e non facevo trapelare il mio travaglio interiore. Falcone mi dava sicurezza. Ma non a causa di un qualche misterioso magnetismo della sua personalità. Era un uomo timido, dallo sguardo buono, che non cercava di sembrare un essere superiore, dotato di qualità straordinarie. Eppure mi trasmetteva un qualcosa di indefinibile, come un influsso benefico e ristoratore che una notte, in sogno, riuscii a decifrare. Era la calma, la forza tranquilla della giustizia che lui rappresentava e che una volta, più di trent'anni prima, avevo intravisto nel personaggio di un film di Pietro Germi, In nome della legge. Il protagonista era un giovane pretore che riusciva a piegare, dopo una lotta difficile, la legge della mafia a quella dello Stato. Il film si concludeva con la sottomissione del capomafia - si chiamava Turi Passalacqua- alla giustizia. La storia mi era piaciuta molto ed ero stato per questo molto criticato dai miei amici mafiosi, i quali disapprovavano drasticamente il finale della pellicola. Secondo loro, il comportamento di Passalacqua era indegno di un uomo d'onore. Durante i miei incontri con Falcone percepivo il senso, l'importanza di quanto stava accadendo in quella stanza. Mi vedevo lì, a parlare con lui fissandolo negli occhi e sentivo che stavo collaborando a una svolta. Ma non appena rimanevo solo venivo assalito dai rimorsi. Mi disperavo e mi domandavo se non fossi diventato pazzo. Mi insultavo e mi torcevo le mani. Pagina 123


Addio Cosa Nostra..txt Mi sentivo un verme, un serpente, un infame. Finché il giorno dopo non ricompariva il giudice, con la sua serenità, i suoi modi e i suoi ragionamenti pacati. E la mia anima si acquetava. Nei momenti in cui ero depresso provavo un senso insopportabile di vergogna. Avevo macchiato il mio onore. Non avrei più potuto affrontare a testa alta gli uomini di Cosa Nostra. Non mi sentivo a mio agio accusando. La mia mentalità di uomo d'onore me lo impediva. Per tutta la vita avevo provato un vero ribrezzo per i delatori, le spie, i confidenti. Poi pensavo che io non appartenevo a tali categorie, perché avevo fatto una scelta alla luce del sole e per ragioni limpide. Ma il conflitto dentro di me permaneva. Un giorno fui sul punto di andarmene via di nuovo. Avevo notato che alla fine del corridoio che conduceva dal mio alloggio all'ufficio di De Gennaro, dove venivo interrogato, c'era una scalinata con il vuoto al centro. Decisi che, non appena avessi avuto la forza di scavalcare il passamano, mi sarei buttato di sotto. Questo non si verificò perché De Gennaro fece installare un telefono e portare una scrivania nel mio appartamento, in modo da svolgere lì gli incontri con Falcone. Anche le misure di sicurezza furono rafforzate e il mio alloggio veniva sorvegliato notte e giorno da dieci agenti scelti. La mia protezione venne organizzata con estrema serietà. Nessuno sapeva dove mi trovavo e la notizia del mio «pentimento» non trapelò fino a quando fu indispensabile che rimanesse segreta. Ciononostante, in seguito sono venuto a sapere che gli uomini d'onore erano stati informati subito della mia decisione di collaborare. Non so come un evento così segreto sia potuto arrivare alla loro conoscenza. Solo i giudici che mi interrogavano e il personale della polizia che mi sorvegliava conoscevano questa notizia. Gli interrogatori proseguirono fino a dicembre. Gradualmente la mia salute ritornò a essere buona. Parlai anche un paio di volte al telefono con la mia famiglia. Cristina era stata, anche in questa difficilissima occasione, meravigliosa. Era riuscita a vendere l'appartamento di Rio e a limitare così i traumi e le difficoltà economiche per i figli più piccoli. Mi incoraggiava a collaborare e mi faceva sentire importante, fondamentale per l'esistenza sua e degli altri cari. Tutto ciò mi obbligava a proseguire con la vita. Era l'incentivo più forte a continuare lungo la nuova strada che avevo imboccato e che non prevedeva un ritorno. La mia permanenza in Italia, tuttavia, divenne sempre più problematica. La notizia della mia collaborazione divenne a un certo punto di pubblico dominio e i problemi di sicurezza e di «gestione» connessi alla mia presenza aumentavano di giorno in giorno. Non c'era allora alcuna legge che consentisse sconti di pena, misure alternative alla detenzione e provvedimenti di sostegno economico ai collaboratori della giustizia. Il giudice Falcone mi disse fin dall'inizio che non poteva farmi alcuna promessa circa il mio futuro giudiziario, né poteva prendere impegni su altri aspetti. Io, d'altra parte, avevo chiesto soltanto che i miei familiari venissero protetti. A un certo punto il questore di Roma cominciò a preoccuparsi per la mia presenza nell'edificio della questura. Temeva attentati dinamitardi e fu sul punto di disporre che venissi tradotto in un carcere ordinario. Il dottor De Gennaro doveva eseguire l'ordine del superiore, ma pretese che questo venisse messo per iscritto e informò Giovanni Falcone il quale reagì in modo vivacissimo a questo provvedimento, che equivaleva alla mia condanna a morte. Se il questore intendeva liberarsi della mia presenza, disse, doveva disporre che venissi tradotto e alloggiato presso casa sua, di Falcone, in via Notarbartolo a Palermo. Rimasi pertanto in questura, ma cominciai a discutere con magistrati e Pagina 124


Addio Cosa Nostra..txt funzionari degli Stati Uniti la possibilità di stabilirmi in quel paese. Gli Usa disponevano da tempo di un programma per proteggere i collaboratori della giustizia e l'occasione di un mio trasferimento poteva essere costituita da un grande processo per traffico di droga tra la Sicilia e gli Stati Uniti che stava per aprirsi a New York. Era il processo che poi divenne noto come «Pizza Connection». A settembre fui raggiunto da Cristina e dai figli e il mio morale si risollevò gradualmente. La mia famiglia non si trattenne in Italia per molto tempo: dopo che mi ero accordato con le autorità americane, i miei cari mi precedettero negli Stati Uniti e si stabilirono in una località segreta. La serietà delle misure di sicurezza organizzate intorno a loro mi ridava fiducia. Nessuno, neppure io che ero il marito, sapeva in quale località degli Stati Uniti si trovava Cristina. Fui contattato dalla Dea, la polizia specializzata nel contrasto del traffico di droga, e dall'Fbi. Chiarii subito a entrambi che non avevo molto da offrire per aiutarli nelle indagini in corso. Anche se era in gioco la mia sicurezza personale, non potevo risultare di grande utilità in quanto non avevo mai trafficato in droga. La Dea dette credito a questa mia affermazione, mentre con l'Fbi i rapporti presero subito una piega negativa. I funzionari di questa agenzia mi chiesero seccamente «di quale famiglia ero il capo». Alla mia risposta che non ero mai stato un capo replicarono sostenendo che non dicevo la verità. Avevano un modo di fare altezzoso e supponente che mi irritò moltissimo. «Siete venuti qui per sentirmi dire bugie» sbottai «o per avere informazioni vere? Se volete sentire la verità e mi chiedete se sono un capo, io vi dico che non lo sono.» Da allora non ho piùvoluto avere a che fare con membri dell'Fbi. Cominciai invece a collaborare con la Dea perché il dirigente dell'ufficio di Roma mi fece un discorso chiaro e molto apprezzabile da un punto di vista umano. «Tommaso, io ti dico una cosa. Che tu dica la verità o no, la tua famiglia sarà comunque protetta dal governo degli Stati Uniti. Se ci imbrogli, te la vedrai con noi. Se non ci imbrogli, è meglio per te e per tutti. In ogni caso, non verremo meno al nostro impegno nei confronti dei tuoi congiunti.» Fui conquistato da questo modo di parlare. Mi resi in seguito molto utile alla Dea, perché interpretai per loro migliaia di nastri di registrazioni telefoniche in siciliano stretto che non sapevano come decifrare. Fin dall'inizio della mia nuova storia in America, rifiutai di entrare a far parte del programma di protezione dei testimoni. Se avessi accettato sarei stato «curato» dai Marshalls, l'organismo che si occupa dei «pentiti», della ricerca dei latitanti e di altri servizi di polizia. Ma avevo sentito parlare male più volte dei Marshalls, e me ne tenni alla larga. Fui trasferito negli Usa con un aereo militare e venni portato in una base missilistica segretissima. La sorveglianza intorno alla mia persona era ossessiva. C'erano soldati perfino sui tetti degli edifici che stavano all'interno della base stessa. Ero guardato a vista da due agenti dell Fbi e da due della Dea, a turno. Fu l'equivalente di uno stato di detenzione. Non c'era riscaldamento e faceva molto freddo. Rimasi in quel posto dal dicembre 1984 al febbraio dell'anno seguente, quando venni trasferito in una villetta dove abitai assieme ad agenti della Dea fino al momento in cui testimoniai al processo della «Pizza Connection». La mia deposizione in aula non piacque agli americani. Dichiarai di non avere avuto cognizione diretta di un impegno di Badalamenti nel traffico dell'eroina. Era la verità. Non mi fu chiesto se Gaetano Badalamenti avesse trafficato in droga, bensì se lo avessi visto fare il contrabbando. Ribadii anche in quella sede quanto avevo già affermato in Italia. Badalamenti non poteva lavorare con la droga perché era stato «posato», espulso da Cosa Nostra, e come tale non poteva avvicinare nessuno. Pagina 125


Addio Cosa Nostra..txt Dai nastri che avevo ascoltato, inoltre, risultava chiaramente che diversi personaggi di Cosa Nostra lo cercavano per proporgli di mettersi in società nel traffico della droga, ma il loro obbiettivo reale era quello di ucciderlo per ordine della Commissione di Palermo. In una delle intercettazioni telefoniche che avevo ascoltato, Salvatore Lamberti, che era incaricato di scovare Badalamenti per attirarlo nella trappola, giunse al punto di dire ai suoi interlocutori palermitani: «Ma che cosa volete da noi, se lui non si decide a venire qua? Non è colpa nostra se è così diffidente! Se volete, visto che suo nipote in questo momento si trova qui, possiamo ammazzare lui al posto suo!». Queste mie dichiarazioni irritarono i pubblici ministeri americani che accusavano Badalamenti, ma non potevo farci nulla. Avevo detto ciò che mi risultava direttamente, e talvolta la verità può essere scomoda anche per chi sta dalla parte giusta. I due anni successivi a questa testimonianza trascorsero in una lunga attesa. Aspettavo l'evento cruciale, il risultato di maggiore portata scaturito dalle mie rivelazioni. Su di esse Falcone e i suoi colleghi avevano avviato nel frattempo una colossale impresa giudiziaria: il processo all'intera Cosa Nostra, considerata unitariamente e non più come un insieme di gruppi più o meno collegati tra loro. La tela di prove, di indagini e di fatti che i giudici del pool'antimafia avevano tessuto non aveva precedenti. Mai prima di allora lo Stato aveva osato sfidare Cosa Nostra a quel modo: 475 imputati di associazione mafiosa. L'intero stato maggiore della mafia degli anni '80 - da Liggio a Michele Greco, a Totò Riina, a Calò, ai Madonìa, ai Salvo - era sotto accusa. Nel febbraio del 1986 Si aprì il maxiprocesso. Ero ansioso di essere chiamato a deporre. Qualche mese più tardi ricevetti la convocazione. Rientrai in Italia di nuovo con un aereo militare, accompagnato dagli agenti della Dea fino all'aeroporto di Roma. Lì fui preso in consegna da Gianni De Gennaro e dai suoi uomini. La scorta era ancora più nutrita di quando deponevo davanti al giudice Falcone. Fui condotto a Palermo e De Gennaro mi SeGUì personalmente fin dentro l'aula del dibattimento. Feci il mio ingresso nell'enorme sala appositamente allestita per il processo. Mentre attraversavo l'aula per sedermi di fronte alla Corte, calò di colpo un silenzio assoluto. Pur essendo dotato di una certa capacità di autocontrollo, non riuscii a trattenere un'ondata di commozione vedendo quelle gabbie di ferro con dentro gli imputati. Nella vita che avevo vissuto in precedenza, ero stato sempre dall'altra parte, dietro quelle sbarre. Adesso mi trovavo sul fronte opposto. In un baleno vidi la mia esistenza scorrermi sotto gli occhi. E impossibile descrivere quella sensazione perché non si può seguire la velocità del pensiero. Conoscevo ognuna di quelle persone dietro le sbarre. E per ognuna di esse, come per incanto, mi ricomparve davanti, senza sovrapporsi o confondersi con altre immagini, la fotografia di un episodio passato. Ebbi un attimo di esitazione e di sconforto. Era giusto quello che stavo per fare? Ma non appena sentii scandire le mie generalità avvertii il soffio della sfida che proveniva dal lato degli imputati. Sentii affluire dentro di me la sicurezza e la tranquillità che avevo piano piano distillato e accumulato nei mesi precedenti. Una gaffe iniziale del presidente - il quale mi chiese se fossi un «partito» invece che un «pentito» - mi aiutò a sentirmi a mio agio. Nelle ore successive confermai senza alcuna esitazione il contenuto della mia deposizione istruttoria e mi presi anche la soddisfazione di inchiodare Pippo Calò, durante un confronto, alla sua natura di uomo del disonore. Gli diedi del mascalzone di fronte alla sua gente e dalle gabbie si levò solo un lieve mormorio di protesta. Il maxiprocesso si concluse l'anno seguente, nel dicembre 1987, con una serie di condanne pesantissime: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Condanne poi confermate lungo i gradi successivi del giudizio. Fu il trionfo del lavoro del pool'antimafia e di Giovanni Falcone. E fu la fine del mito dell'invincibilità di Cosa Nostra. Pagina 126


Addio Cosa Nostra..txt Fui condannato anch'io. A tre anni e sei mesi di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. La mia vita dopo il 1984 non è stata quella di una persona sopravvissuta a una disgrazia. Non ci sono più state grandi gioie e soddisfazioni, eccetto quelle che derivano dagli affetti familiari e dalla consapevolezza di avere fatto una scelta di giustizia. La mia esistenza da allora in poi è scorsa grigia e triste, e senza avvenimenti degni di particolare rilievo. Due figli si sono sposati e mi hanno regalato dei nipoti. I figli più piccoli sono passati attraverso disavventure scolastiche spiacevoli, che hanno molto addolorato Cristina e me. Dopo la mia decisione di collaborare, la Dea si prese cura della mia famiglia, facendola partire dal Brasile e portandola negli Stati Uniti. Qui Cristina e i nostri quattro figli erano al sicuro dalla vendetta di Cosa Nostra e non avevano alcun problema di carattere materiale. Ma, sotto tutta un'altra serie di aspetti, si trovarono ben presto in una posizione difficile. Fino al 1986 abbiamo vissuto separati: io abitavo nei dintorni di New York e loro ad Atlanta, in Georgia. Venivano a trovarmi una volta al mese e all'inizio mi sembrò tutto molto bello. I figli studiavano e Cristina era entusiasta del nuovo ambiente. Poi cominciarono i problemi. I miei figli minori non riuscivano ad adattarsi allo stile di vita degli adolescenti, ';7 dei teenagers americani. Tommaso aveva dodici anni ed era un ragazzo mite e remissivo. Non conosceva una parola di inglese e doveva vivere in mezzo a coetanei che si comportavano in un modo che gli era del tutto estraneo. L'impatto con la scuola lo trasformò. Subì alcune angherie e reagì divenendo un ribelle, un contestatore, un capobanda che guidava l'insubordinazione nei confronti degli insegnanti. Lisa si sentiva diversa dalle sue amiche perché non si truccava, non si dava arie ed era molto ingenua. Era cresciuta in una società aperta e priva di pregiudizi come quella brasiliana, dove non si fa caso alle razze e alle origini della gente. A scuola conversava con tutti, anche con i neri. Ma Lisa era bianca, e una ragazza bianca non può avere contatti con i neri. Venne perciò insultata e bastonata. Da alcune compagne di scuola nere, che l'avevano vista chiacchierare con un ragazzo nero e ridere per le battute che quello diceva. Lisa conosceva soltanto un po' di inglese e quel giovane aveva fatto alcune battute a doppio senso. Spesso Lisa tornava a casa in lacrime e Cristina non sapeva cosa fare. Anche dopo che la mia famiglia si fu riunita, i problemi di adattamento dei ragazzi continuarono. Io non potevo essere di grande aiuto. Non avevo la sensibilità e la preparazione necessarie. Ero troppo duro e non capivo bene cosa passava nella testa dei miei figli. Non capivo, per esempio, che quando Tommaso usciva di casa la mattina per andare a scuola, andava in realtà a fare la guerra. E quando mi accorsi che fumava di nascosto qualche spinello, andai su tutte le furie e lo riempii di minacce e di castighi. Lo cacciai di casa e lui se ne andò per qualche giorno ad abitare dalla sorella. Non feci alcun tentativo di stabilire un dialogo con lui. Non cercai di farlo parlare. Non gli permisi di spiegarmi le ragioni del suo disagio. I miei figli non parlavano con me dei loro problemi. Mi dicevano che tutto era a posto. Poi spiegavano a Cristina che si erano associati alle gang etniche della scuola. Alle bande dei portoricani, dei cubani, dei messicani che combattevano contro quelle degli asiatici, dei neri e degli altri. Era obbligatorio farne parte, altrimenti non si era protetti e si veniva picchiati in continuazione. Ebbi l'amara impressione di avere perso ogni potere su di loro. Entravano e uscivano di casa quando pareva a loro. Non sedevano a mangiare Pagina 127


Addio Cosa Nostra..txt con noi. Mi evitavano, e talvolta mi dimostravano una chiara ostilità. La mia reazione consisteva nell'imporre punizioni e disciplina. Cristina non approvava e tra noi scoppiavano spesso liti. La casa in certi momenti era un inferno. Siamo arrivati a un passo dalla separazione. Per il bene dei nostri figli. Per non trasferire su di loro le iatture che avevano segnato la nostra esistenza. L'ostacolo più grave alla nostra integrazione negli Stati Uniti fu costituito, tuttavia, dalle procedure per ottenere la cittadinanza e per cambiare identità. Fin dai primi giorni del nostro arrivo negli Usa abbiamo sperato di poter acquisire la cittadinanza di quel paese. A tutt'oggi né io né i miei congiunti, purtroppo, godiamo della cittadinanza degli Usa, eccetto una mia figlia che ha sposato un cittadino americano. Nell'ottobre 1985 ho firmato un contratto di collaborazione con le autorità degli Usa. I miei accordi precedenti erano stati verbali. Mi sono impegnato a fornire loro ogni aiuto in termini di informazioni, testimonianze, valutazioni, interpretazioni. E ho ricevuto protezione per i miei cari e sostegno economico per un periodo limitato, assieme a un'identità fittizia. Ma non ho mai ricevuto una nuova identità completa. La legge americana non prevede la ricostruzione dell'identità per un cittadino straniero che collabora con la giustizia. Salvo una delibera speciale del Senato che nessuno si è curato di chiedere. L'identità fittizia che avevamo ricevuto era temporanea e limitata. I documenti in nostro possesso ci permettevano di circolare senza problemi, di prendere in affitto una casa, di avere un permesso di lavoro, di aprire un conto in banca e possedere una carta di credito. Tutto qui: non erano sufficienti per ottenere un'occupazione fissa e ben remunerata. Dopo il 1988, quando la Dea ci annunciò che di lì a poco non avremmo più ricevuto il sussidio mensile e che dovevamo arrangiarci, fummo presi dal panico. Sebbene Cristina avesse una laurea e conoscesse cinque lingue, fu costretta ad accettare i lavori più precari e umili. Per alcuni mesi vendette perfino caramelle all'aeroporto: un lavoro da 3 dollari all'ora, dalle 8 del mattino alle 7 di sera. Ogni volta che affrontavo il tema dei nostri documenti con il funzionario della Dea incaricato di seguirci ricevevo risposte evasive e dilatorie. L'agente cominciava a riferirsi a un certo «Washington» come se si trattasse di una persona reale. «Washington mi ha detto di aspettare, signor Buscetta.» «Washington dice che non può fare subito quello che lei chiede.» «Washington ci darà una risposta.» E così via. Cristina partecipò a un concorso alle poste. Si trattava di un impiego magnifico, stabile, che dava diritto all'assistenza sanitaria e ad altri benefici. Si classificò ai primi posti della graduatoria e fu chiamata a presentarsi per prendere possesso della sua mansione. Ma le chiesero un documento che lei non era in grado di esibire, né in quanto cittadina brasiliana né grazie alla sua parziale identità americana. Insistetti con la Dea per ottenerlo, ma non ci fu niente da fare. Anche questa occasione andò in fumo. Era inutile insistere. Per avere un'occupazione decente negli Stati Uniti occorreva essere suoi cittadini. Dal 1989 fino al 1991, quando fu approvata la legge italiana sui collaboratori della giustizia, siamo sopravvissuti grazie ai diritti d'autore del libro sulla mia vicenda scritto da Enzo Biagi e ai lavori precari di Cristina: docente di lingue alla Berlitz School, insegnante in una scuola privata per bambini, cassiera temporanea alla Cit,v Bank di una città della California, dove ci siamo trasferiti per un anno. Dopo quella data ho conosciuto l'avvocato Luigi Li Gotti, una persona che mi ha colpito per la sua professionalità. Li Gotti ha accettato senza indugio di difendermi, e di ciò gli sono molto grato. Il tema dei traslochi, dei trasferimenti da una città all'altra e da una casa all'altra è un'ulteriore nota dolente della nostra vita negli Stati Uniti. Dal 1984 a oggi abbiamo cambiato nove abitazioni e quattro città. Pagina 128


Addio Cosa Nostra..txt Alcune volte perché avevamo abitato troppo a lungo nello stesso quartiere. Altre volte a causa della televisione: quasi ogni programma dei network americani sulla mafia in Italia trasmetteva una mia fotografia. Dopo il 1987 si è trattato di un breve fotogramma della Rai sfuggito al divieto di riprendere il mio volto durante il maxiprocesso oppure carpito in qualche altra occasione. Il fatto è che dopo avere visto queste trasmissioni, gli amici e i vicini di casa erano a conoscenza di chi fossi realmente. Alcuni venivano addirittura a congratularsi con il grande gangster, dichiarando di sentirsi onorati di conoscermi. Pochi giorni dopo eravamo costretti a traslocare. Era troppo rischioso abitare in un quartiere dove per strada si veniva indicati a dito. I ragazzi non mi hanno mai perdonato la perdita delle amicizie e degli affetti e l'abbandono delle scuole e dei quartieri ai quali erano affezionati. E solo da due anni che la nostra situazione è migliorata. Grazie a Cristina, che è riuscita a «ricucire» la famiglia e a trovare un buon lavoro presso l'ufficio esteri di una banca. I ragazzi sono cresciuti e hanno superato il trauma dell'inserimento in una società rigida e difficile come quella degli Stati Uniti. Il più piccolo, Stefano, non si trova più nello stato confusionale di cui soffrì durante i primi anni di vita, quando non riusciva a parlare perché frastornato dall'italiano, dall'inglese e dal portoghese che ascoltava in famiglia. In ogni caso non ci facciamo illusioni. Rimaniamo comunque degli sradicati, senza un'identità precisa e senza un futuro definito. Se potessi tornare indietro e rivivere la mia vita dal 1984 in poi, credo che rifarei tutto quello che ho fatto, ma eviterei il capitolo degli Stati Uniti. Non sarei dovuto venire negli Usa e non avrei dovuto far venire la mia famiglia. Se fossi rimasto in Italia, avrei corso maggiori rischi ma sarei stato più felice assieme ai miei cari. Non ho mai voluto parlare prima di adesso della via crucis che ho dovuto percorrere dopo essere diventato il primo collaboratore della giustizia italiana. Non mi sono mai lamentato. Un po' per il mio carattere, ma soprattutto per non scoraggiare i «pentiti» che sono arrivati dopo di me. Alcuni dei quali hanno vissuto esperienze difficili quanto la mia. Dal 1991 in poi, però, le cose hanno cominciato a cambiare ancora più velocemente I collaboratori della giustizia sono oggi oltre settecento. Sono una valanga che sta seppellendo la mafia. Esiste una buona legge che li tutela e voglio sperare che non debbano affrontare le difficoltà che ho conosciuto sulla mia pelle. EPILOGO. La terza fase della mia vita ha avuto inizio due anni fa, il 23 maggio 1992, con una telefonata del dottor De Gennaro che mi comunicava che Giovanni Falcone era saltato in aria a Capaci assieme alla moglie. La notizia per me è stata terribile, anche se mi aspettavo quello che è successo. Quel giorno ho visto cadere al suolo un grande albero, il più alto e forte della foresta. Ma non ero impreparato alla cosa. Avevo ripetuto diverse volte a Falcone di stare attento alle abitudini. Cosa Nostra, per colpire, ha bisogno delle abitudini, delle regolarità. Quando seppi del suo incarico a Roma dissi a un dirigente della polizia: «Se il giudice Falcone comincia ad avere abitudini, se comincia a tornare a Palermo a scadenze fisse, lo vedo morto». E quando fu ucciso Salvo Lima dissi a Gianni De Gennaro che il prossimo sarebbe stato Falcone. Mi sembrava logico, naturalmente secondo la logica contorta di Cosa Nostra che avevo imparato lungo più di quarant'anni di esercizio. Non secondo alcuna altra logica umana. La strage di Capaci ha significato parecchie cose. E stata la riaffermazione della mafia dopo il crollo della Democrazia cristiana e la sconfitta in Cassazione delle speranze di annullamento del maxiprocesso. E stata l'inizio di un attacco alla società degli onesti da parte delle intelligenze malefiche che affiancano Cosa Nostra: le intelligenze che hanno Pagina 129


Addio Cosa Nostra..txt messo le bombe nel centro di Firenze, di Roma e di Milano. Quelle menti perverse che hanno fatto a pezzi Paolo Borsellino. Trucidando Falcone, i capi di Cosa Nostra hanno voluto avvertire tutti che loro erano sempre lì e che non avevano la minima intenzione di cedere, di arrendersi al la forza della legge. Se lo Stato avesse insistito nel colpirli, loro avrebbero proseguito con il terrore e le bombe. E l'hanno fatto. La scomparsa del giudice che avevo ammirato non riuscì a scoraggiarmi. Non ho interpretato Capaci come la manifestazione di una potenza in crescita, ma come una sfida da raccogliere. Cosa Nostra e i suoi alleati stavano giocando il tutto per tutto. Bisognava rispondere. Il dolore che ho provato per la perdita di una persona che mi era cara non mi ha condotto alla rassegnazione, ma si è trasformato nella decisione di tornare in campo. Sono un individuo un po' strano. Non so navigare in acque tranquille. Ho bisogno del libeccio o della tramontana per dare il meglio di me stesso, per mobilitare le mie energie. Nel settembre 1992 incontrai a Washington due giudici di Palermo che mi avevano chiesto di testimoniare sul delitto Lima. Fu una breve deposizione. Dichiarai che avevo deciso di sciogliere la mia riserva a parlare dei rapporti tra Cosa Nostra e la politica, e che quello era il mio modo di onorare la memoria di Giovanni Falcone. Descrissi il vero ruolo di Lima nei confronti di Cosa Nostra Rivelai che Lima era figlio di un uomo d'onore. Parlai dell'incontro con lui e Nino Salvo nel 1980. Dichiarai di non avere dubbi sul fatto che il delitto Lima fosse stato deciso dalla Commissione provinciale di Palermo. Mi misi a loro completa disposizione e feci mettere a verbale che ero disposto ad aprire un altro ciclo di rapporti con la giustizia. Mancavo dall'Italia dal 1987. Dalla conclusione del maxiprocesso in poi mi ero eclissato. Avevo chiuso le mie pendenze con la giustizia italiana e non avrei avuto alcun interesse a riaprire la guerra, a presentarmi di nuovo in prima linea. Ma il solo ricordo del sorriso ironico di Giovanni Falcone era sufficiente a farmi battere il cuore per l'indignazione. Anche perché mi sembrava di riconoscere la firma perfida e irridente di uno dei principali autori di quella strage. Nell'ottobre del 1992 rientrai in Italia. Fui invitato dalla Commissione antimafia a deporre su fatti di carattere generale prima di incontrare i giudici di Palermo. Ribadii ai deputati che ero un uomo libero e che non avevo perciò nulla da guadagnare presentandomi di nuovo davanti ai giudici. Dalle dichiarazioni che stavo per rendere potevano derivare, semmai, rischi e pericoli ancora maggiori. Non volevo niente. Non chiedevo niente. Non dovevo dimostrare la mia attendibilità: era stata la Corte di Cassazione a certificarla! L'incontro con la Commissione fu costruttivo. Parlai di parecchie vicende. Dal colpo di Stato fallito del 1970 ai rapporti di Cosa Nostra con la politica. Faticai a far fronte alle insistenze dei deputati perché mi pronunciassi sulle responsabilità di singole persone, perché facessi i nomi dei loro colleghi al servizio di Cosa Nostra. Accennai solo a un'«entità» che aveva chiesto a Cosa Nostra di uccidere Dalla Chiesa nel 1979 e poi ci aveva ripensato. Subito dopo incontrai i magistrati. Descrissi l'intervento di Cosa Nostra nel caso Moro. Dichiarai che Pecorelli era morto per mano mafiosa. Non parlai di Andreotti. Parlai del rapporto tra Riccobono e Contrada. Feci un primo elenco degli uomini politici collegati a Cosa Nostra che avevo conosciuto personalmente. Poi dissi che ero stanco e me ne andai. Fui molto deluso dalla baraonda che circondava le indagini e i processi. Pagina 130


Addio Cosa Nostra..txt Rispetto a otto anni prima, il peso della stampa era enormemente cresciuto. I giudici erano preoccupati dai titoli dei giornali. Giovanni Falcone mi aveva interrogato per tre mesi. Da solo, scrivendo a mano i verbali, come ho detto. La polizia aveva effettuato 2600 riscontri alle mie dichiarazioni senza essere disturbata da nessuno. E in queste condizioni che un collaboratore può aiutare la giustizia. I verbali delle deposizioni dei «pentiti» finivano adesso sui giornali ancora prima che le indagini fossero iniziate. Ancora prima di eseguire un accertamento, una verifica, un arresto. Il nome del giudice Signorino come persona collegata a Cosa Nostra era stato dato in pasto all'opinione pubblica mentre mi trovavo in Italia. Il giudice si era suicidato. Ma i nomi degli altri, numerosi magistrati di Palermo che erano sotto accusa per fatti ancora più gravi di quelli per i quali era stato accusato Signorino non furono fatti filtrare subito. Fu uno stillicidio che proseguì nei mesi successivi. Lessi sulla stampa che anch'io avrei fatto il nome di Signorino come magistrato colluso. Mi indignai. Era una falsità. Poi mi resi conto che l'effetto delle indiscrezioni era stato quello di mandare a monte un'offensiva giudiziaria molto vasta contro magistrati e funzionari dello Stato infedeli. L'opinione pubblica era come assuefatta alle abnormità. Pochissimi si rendevano conto della gravità di certi comportamenti. Una Corte d'assise arrivò al punto di annunciare con un anticipo di dieci giorni, e in un'udienza pubblica, la notizia che Buscetta avrebbe testimoniato nell'aula bunker di Rebibbia, a Roma, l'11 dicembre! Il presidente della Corte intervenne dichiarando che la legge italiana imponeva questa procedura. Quando racconto questo episodio, in America non ci credono. Non ho paura di essere ucciso. Non mi importa della morte. L'ho vista da vicino e sono stato in sua compagnia troppo a lungo per averne timore. Ma non voglio che ancora altre persone debbano pagare la colpa di essermi state vicino, anche per pochi minuti. Il tempo di una traduzione da un rifugio all'altro. Da un tribunale a una procura. Mi trattenni in Italia per circa un mese. Poi chiesi di tornare negli Stati Uniti, a casa mia. Avevo bisogno di riflettere con calma. Forse ero stato troppo precipitoso nelle mie rivelazioni. Forse i tempi non erano ancora maturi. Prima di partire, rilasciai un'intervista a «la Repubblica». Dissi che per il momento mi sembrava che Cosa Nostra puntasse le sue carte sulla campagna contro i «pentiti», allora in pieno svolgimento. A destra e a manca si diceva che i «pentiti» erano inattendibili perché manovrati, usati per colpire persone oneste e giovare alle carriere degli inquirenti. Attraverso i «pentiti» si faceva politica. Il senatore Andreotti si era distinto nel corso di questa campagna insinuando che ero tornato in Italia per rompere gli equilibri politici e che qualcuno mi suggeriva quello che dovevo dichiarare. Ora, a parte il fatto che di politica non mi sono mai interessato e non ne capisco quasi nulla, avrei voluto domandare ad Andreotti chi sarebbero stati questi miei suggeritori. Proseguii affermando che secondo me, in base alla mia conoscenza della mentalità e dei comportamenti di Riina, egli avrebbe aspettato di vedere come sarebbe finita la campagna contro i «pentiti». «Fino a quando sarà in corso questa campagna, che è solo all'inizio, non ci sarà un attentato. Se essa non dovesse avere un buon esito, allora userà le armi. E le userà come non le ha mai usate finora. Bombe contro innocenti. Attentati contro le più alte cariche dello Stato. E con la guerra penserà anche a una Sicilia separata.» Un mese dopo il mio Pagina 131


Addio Cosa Nostra..txt rientro negli Usa Totò Riina fu catturato. Le sue prime dichiarazioni pubbliche furono contro i «pentiti» e i loro manovratori. La prima bomba scoppiò a Roma a metà maggio. E la primavera del 1994. Ho quasi sessantasei anni e posso guardare indietro, alla mia vita turbolenta e infelice, con maggiore serenità. Ho avuto la fortuna di poter assistere al punto di svolta della battaglia dello Stato contro Cosa Nostra. Fortuna che è stata negata a Giovanni Falcone. L'intero panorama della lotta alla mafia è cambiato. In meglio. Esiste la Dia. I politici che hanno protetto la mafia sono sotto accusa. I più importanti uomini d'onore sono in carcere. Carcere duro, in isole lontane, senza contatti con la gente di Cosa Nostra rimasta fuori. Senza la possibilità di essere informati dettagliatamente su ciò che succede in Sicilia. E con il prestigio e il potere che vanno a rotoli. Nel frattempo la Sicilia sta cambiando. La vecchia Sicilia che ho conosciuto, la patria degli uomini d'onore, sta migliorando. Sta cominciando a voltare le spalle a Cosa Nostra. I giovani non credono più alla mafia. I tribunali condannano i mafiosi. La Chiesa si schiera contro di loro. Ho letto che nell'anniversario della strage di Capaci sono scese in piazza a Palermo contro Cosa Nostra più di 150.000 persone: quasi un quarto della popolazione. Ai miei tempi, tutta questa gente sarebbe scesa in strada a favore e non contro la mafia. E un mondo che scompare, forse solo temporaneamente, forse per sempre. Saranno in pochi a rimpiangerlo, questo mondo. L'agonia di Cosa Nostra sta avvenendo in mezzo al sangue e alla brutalità che le sono congeniali. Gli ultimi capi della mia generazione stanno scomparendo dalla scena nel peggiore dei modi: traditi e uccisi dai loro migliori amici, sepolti nel carcere a vita; soli, disprezzati e odiati da nemici, avversari e parenti delle loro vittime. Nessuno di loro gode delle ricchezze accumulate. Nessuno di loro muore nel suo letto, in pace con la propria coscienza. Le maledizioni e le grida degli assassinati li inseguono anche nell'aldilà. Anch'io me ne andrò. Non so se in punta di piedi o per mano di qualcuno. Ma non è questo che temo. Non conosco la paura. Questo sentimento mi è estraneo. Non l'ho mai provato. Se mi trovano e vengono a prendermi, sono pronto ad affrontarli. Avranno il fatto loro. Ho la casa piena di armi. La legge americana consente di tenerne quante se ne vuole. Non è il loro arrivo che temo. Il momento più duro da sopportare verrà quando si spegneranno le luci della ribalta. Per tutta la vita sono stato un protagonista. All'interno di Cosa Nostra prima e contro Cosa Nostra dopo. A un certo punto queste luci si spegneranno e io resterò solo. Rimarrò solo, con tre o quattro persone amiche cui telefonare di tanto in tanto. Sarà quello il momento della pace? FINE.

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