La Città degli Automi di Francesco Bertolino Copyright 2012 Francesco Bertolino Smashwords Edition francesco.bertolino@gmail.com http://www.libri-fantasy.com http://www.facebook.com/pages/La-Compagnia-del-Viandante/245140115583272 https://plus.google.com/113639020903806625721/posts Illustrazione di copertina: Maurício Paiva http://mauriciopaiva.carbonmade.com/ Altri titoli dello stesso autore su Smashwords: “La Forgia del Destino” - “La Compagnia del Viandante” Vol.II “La Fiamma Eterna” - “La Compagnia del Viandante” Vol.III
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Indice Prologo I - Un Triste Rituale II - Gli Occhi di un Amico III - Nubi all’Orizzonte IV - Separazione V - Storie di Mare VI - Il Presente ed il Passato VII - Notizie Inattese VIII - L’Addestratore di Serpenti IX - Zontar il Saggio X - Per le Vie di Dekka XI - Leon XII - Il Guardiano XIII - Piccoli Esperimenti XIV - La Caverna XV - L’Eredità XVI - Nel Ventre della Fabbrica XVII - Lotta Disperata XVIII - L’Origine delle Arti Arcane XIX - Cicatrici XX - Nestor XXI - L’Operazione XXII - Un Oscuro Potere XXIII - La Nuova Guerriera XXIV - Il Piano XXV - L’Incubo XXVI - Scontro all’Ultimo Sangue XXVII - La Rivolta XXVIII - Rivelazioni XXIX - Tracciando il Cammino Epilogo Quattro Chiacchiere...
Dedicato a Felicita e Celene: come farei senza la vostra forza e il vostro affetto?
Prologo
L’uomo, intontito, sollevò le palpebre: la realtà davanti ai suoi occhi era una tela grigia, insondabile. Dolore, confusione, come una morsa stretta sulle tempie... Deglutì, la bocca impastata da un sapore amaro. Un'ondata di nausea, improvvisa e violenta, lo fece piegare in due. Provò ad alzarsi, ma scoprì di avere mani e piedi legati. Un vento gelido gli soffiò sul corpo nudo, facendolo rabbrividire. Invano cercò di ricucire assieme i brandelli di memoria che gli danzavano nella mente. «Dove sono? Che mi è successo?» Sapeva ancora chi era, ma tutto il resto... «Non ti sforzare troppo» disse una voce, stridente come lo sfregare di metallo contro metallo. «Sarebbe un inutile spreco di energie» dichiarò una seconda voce, attutita e distante. «Sei nostro ospite, adesso» aggiunse una languida voce femminile. «Per sempre...» rincarò una quarta voce, bassa e cupa come il cielo in una notte di tempesta. Quelle voci... Quell'odore aspro... I ricordi affluirono a valanga, spingendolo sull'orlo dell'abisso. «Ho fallito!» pensò, scioccato «Tanti anni... Tutto perduto!» Era un pensiero troppo duro da affrontare. Meglio calare il sipario, lasciarsi andare... Ma qualcosa, nell’ora più difficile, gli impedì di sprofondare nel buio: immagini di uomini e donne vestiti di bianco, volti amici, mani tese verso di lui, voci piene di speranza. «Siamo con te!» dicevano quelle voci, come un fascio di luce chiara che fendeva le tenebre. Esibì un mezzo sorriso, e capì che per loro avrebbe affrontato il futuro a testa alta, qualunque esso fosse. Il vento si intensificò, una sferza impietosa sulla sua pelle. «Per sempre…» ribadì la quarta voce.
I - Un Triste Rituale
Dall'alto dei bastioni, gli assediati squadravano con orrore i Demoni ammassati all'esterno delle mura: le immonde creature ringhiavano, sbavavano, raspavano la nuda pietra, rese folli dalla smania di entrare. Era soltanto questione di tempo prima che ci riuscissero. E allora la carneficina avrebbe avuto inizio. Si strinsero l'un l'altro, tremanti dinanzi alle assurde vesti indossate dalla morte per venir loro incontro. La luce delle torce scemò sotto l'assalto del vento, un anticipo dell'oscurità che li avrebbe inghiottiti. Inatteso, un urlo di guerra squarciò la tela della notte, e tutti volsero lo sguardo a oriente. Un raggio di luna lacerò la coltre di nubi che copriva il cielo, investendo la sommità del colle da cui era giunto il grido. Il velo di luce argentea si posò sulla terra, e rivelò ciò che nessuno avrebbe mai osato sperare: un'armata, un'intera armata d'uomini lanciati in corsa lungo il pendio, un turbine di guerrieri ammantati di bianco e corazzati d'acciaio! Piombarono sulla retroguardia dell'orda nemica come una lancia guidata dalla mano di un Dio guerriero, e la spazzarono via. Agli assediati, quell'armata parve provenire da un altro mondo. Nessuno aveva mai posato gli occhi su un gruppo di guerrieri tanto abili e spietati: le creature cercavano di difendersi con tutte le assurde armi di cui erano dotate, zanne, artigli, tentacoli e arpioni, ma la superiorità degli avversari era evidente. Rapidi, i guerrieri fluivano da una posizione all'altra senza mai perdere la calma, immuni agli orrori che li circondavano. Ogni creatura veniva accerchiata e punita con una morte immediata, di spada, ascia o lancia che fosse. L'aria fu presto satura dei suoni della battaglia, e il sangue spillò finché la terra ne fu intrisa. Alla fine, gli unici a rimanere in piedi furono i guerrieri scaturiti dall'oscurità. L'orda dei Demoni era stata annientata, i suoi cadaveri ricoprivano la terra. Dai bastioni si levarono acclamazioni di giubilo, ma i guerrieri non esultarono, né accennarono a riporre le armi. Arretrarono a un ordine del loro comandante, aprendo la formazione a ventaglio. Si arrestarono a breve distanza dalle mura, in attesa. Un mugghio feroce, prima quasi impercettibile, poi sempre più intenso, sorse dal mucchio di corpi senza vita accatastati fuori dalla fortezza. Una donna puntò il dito, gridò, e svenne. Uno ad uno, i mostruosi esseri ripresero vita, nuova linfa scorrendo nelle loro vene. Si rialzarono, ignorando il dolore, come se una forza malefica ne sostenesse i corpi devastati dalle ferite. Rivolsero le spalle alla fortezza, e si trascinarono claudicando verso i guerrieri. Avanzavano e cadevano, si rialzavano e cadevano, e si rialzavano di nuovo. Erano morti, ma bramavano vendetta. Nessuno dei guerrieri parve sorpreso. Nessuno arretrò, nessuno cercò una via di fuga. Piantarono gli stivali nella terra umida, gli scudi levati di fronte a sé. Dietro a ogni elmo, un paio d'occhi fissava senza paura l'avanzata delle creature. Labbra si socchiusero, mostrando i denti stretti in sorrisi che sfidavano la morte. La notte era ancora lunga...
----«Un giorno tutti dovremo lasciare questo mondo. Ed io con gli altri...» Il guerriero parlò con voce spenta, rivolgendosi più a se stesso che ai compagni d’armi seduti in circolo accanto a lui, spalla contro spalla, attorno allo stendardo lacero della Compagnia del Viandante. Il chiarore infuocato dell’alba proiettava lunghe ombre sul campo di battaglia. Un silenzio irreale avvolgeva ogni cosa, interrotto soltanto dal gracidio dei corvi.
«Se avessi il potere di controllare il mio destino» continuò il guerriero «mai e poi mai sceglierei di morire all’alba. Un nuovo giorno avrebbe inizio, ma non per me... È questo che più mi angoscia della morte...» S’interruppe, sfregando la barba ispida col dorso di una mano, e chinò il capo: «...o forse mi rende soltanto molto triste.» Alcuni dei compagni lo osservavano, muti. Altri guardavano nell'ombra, persi nei propri pensieri. La battaglia era giunta al termine, portando via con sé la furia e l’esaltazione, lasciando un vuoto nell’anima d’ogni uomo. I volti, scavati dalla stanchezza e segnati dal metallo, parevano quelli di fantasmi riunitisi per un triste rituale. Un uomo, più alto della media, si levò dal cerchio e mosse alcuni passi verso il centro: sotto il mantello bianco, una cotta di maglia tintinnò al contatto dei bracciali e dei grandi coprispalle. La sua chioma biondo cenere ondeggiò nella luce dell'aurora, riflettendone il bagliore come mille scaglie d'oro. Rivolse lo sguardo ai piedi del colle, e si soffermò sui resti della strage. «Tutti possiamo capire ciò che provi, Raduan» disse, scegliendo le parole «Quante volte abbiamo già rivissuto quest'incubo?» Levò al cielo il volto dal profilo aquilino. «Questa guerra fa parte di noi, ormai, che lo vogliamo o meno. Auguriamoci che abbia un senso.» L’uomo chiamato Raduan non replicò. Scosse il capo un paio di volte, frustando l’aria con la coda di capelli corvini, e rivolse un sorriso incerto all’altro guerriero. «Strane parole le tue, Dorian. Non immaginavo di poterti contagiare col mio pessimismo. Ma mi conforta sapere di non essere solo. Me le sento fin nelle ossa, queste dannate sensazioni!» Il comandante si avvicinò, poggiandogli una mano guantata sulle spalle. «Amico mio» disse «Guardati attorno.» E gli indicò il resto della Compagnia, uomini e donne dall’aria smarrita, sfiniti nel corpo e nell’anima. «Come vedi, non sei certo l'unico a soffrire. Fatti coraggio: questa battaglia non è stata peggiore delle altre. Siamo noi che stiamo cambiando.» Fece una pausa, pensieroso. «Si direbbe che abbiamo perduto la forza...» «O la fede, piuttosto» si intromise una voce femminile, proveniente dalle ombre al di fuori del cerchio d’uomini. Una figura snella fece il suo ingresso nel gruppo, rivelando un bel viso di donna, dalla pelle abbronzata. Una sottile cicatrice le segnava il volto dal sopracciglio sinistro fino al mento, solcando l’orbita di un occhio senza vita. Avanzò con passo deciso, lisciandosi la criniera castana con una mano. Nell’altra reggeva un sacco di tela grezza. Senza degnare alcuno di uno sguardo, si accomodò su un ceppo e gettò il sacco ai suoi piedi. Il tonfo metallico provocò mormorii d'indignazione. La giovane scoccò una sola occhiata a Raduan, che la fissava con aperto disprezzo, per poi rivolgere un sorriso sfrontato al comandante, immobile accanto allo stendardo della Compagnia. «Padre» lo salutò, con un cenno del capo. «Kyra. Come è andata oggi la caccia?» rispose Dorian, come se rivolgerle la parola gli costasse fatica. «Discretamente.» Sembrava condurre uno strano tipo di gioco, che nessuno attorno a lei apprezzava. Aprì il sacco, vi rovistò dentro, e ne estrasse un borsellino. Lo fece dondolare tra le dita, con un tintinnio di monete. «Non se la passava male, questa gente. Peccato per loro.» «Taci!» irruppe Raduan «Non c’è traccia di compassione nel tuo cuore?» «Compassione?» replicò Kyra, aggrottando la fronte «Siamo venuti a riscuotere un debito di morte, ricordalo. É ciò che sempre facciamo.»
Lo sguardo dei guerrieri tutt’intorno si fece torvo, ma nessuno reagì alle sue parole. Dorian, curvando le spalle sotto a un invisibile fardello, tornò a sedere. «Sei sempre stata brava ad incolpare gli altri» sibilò alla figlia, passandole accanto. Lei arricciò il naso, senza ribattere. Sulla collina calò il silenzio. I guerrieri si richiusero in se stessi, in attesa. Nessuno volgeva lo sguardo al campo di battaglia. Non era una vittoria da celebrare. Quando il disco del sole si levò per intero sopra la linea dell’orizzonte, il comandante ruppe il silenzio: «L’ora è giunta: portiamo a termine la nostra missione!» Suonò solenne, più di quanto avesse voluto. Ma almeno questo era dovuto ai caduti, in segno di rispetto. Si alzò e si diresse allo stendardo da battaglia della Compagnia. Logoro e macchiato di sangue, il simbolo rispecchiava alla perfezione lo stato d’animo degli uomini che rappresentava. I bordi dorati erano sfrangiati in più punti, ed il segno al centro del panno, ricamato in forma di nodoso bastone da viandante, era quasi irriconoscibile. L’asta color ebano era marcata da profonde escoriazioni. Senza esitare, Dorian la divelse dal terreno e resse lo stendardo di fronte a sé con ambo le mani. Si avvertì nell’aria un mormorio sommesso, e l’atmosfera si fece carica di elettricità. In lontananza, lampi bluastri solcarono il cielo. I guerrieri osservavano in silenzio, serrando il circolo attorno al loro comandante. Dorian chiuse gli occhi e si concentrò. Il vento, fino ad allora assente, crebbe d'intensità. Poteva sentire il suo folle fischio nelle orecchie. Nubi nere si addensarono sopra la sua testa. Pur non vedendole, ne avvertì il peso schiacciante, ma non si fece intimidire. Allargò le braccia, levò lo stendardo al cielo e gettò all’indietro il mantello: la sua figura maestosa, avvolta nell’acciaio, si rivelò per intero, catalizzando la luce dell’astro nascente. «Abel kvar!» tuonò, indirizzando lo sguardo ai cadaveri ammassati attorno alle pendici della collina «Kalarti ka zvendàri! Scomparite da questa terra!» Pronunciate le antiche parole, colpì il terreno con l’asta dello stendardo, e la terra tremò in risposta. Intense vibrazioni si diffusero come un’onda dalla collina alla pianura sottostante, scuotendo la terra e disegnando una ragnatela di crepe. Già sapendo cosa sarebbe accaduto, tutti serrarono le palpebre. «Dammi la forza, ancora una volta!» implorò Dorian dentro di sé. Allora, in risposta all’ancestrale evocazione, dai cadaveri sparsi come marionette sul campo di battaglia sorsero spettri di ogni forma e dimensione, vive essenze strappate alla carne dei morti. In una cacofonia di lamenti, le entità traslucide si levarono dal suolo, e fluttuarono a mezz'aria come uno strato di nebbia maligna. Rapide e feroci, si scagliarono all’unisono sull’uomo che le aveva evocate, spezzando il dolce legame con la morte: lo avvolsero, urlarono e graffiarono, sibilarono promesse di dannazione, ma non poterono nuocergli, tenute a bada da un’invisibile barriera. Lo stendardo, stretto nella mano di Dorian, brillava con l’intensità di una piccola stella. Furenti, gli spettri presero a ruotare in cerchio sulle teste dei soldati, in un folle crescendo di velocità, sino a che la collina intera fu avvolta da un turbine d'energia. La luce e il frastuono investirono i sensi degli uomini come una tempesta, finché, con un'ultima acutissima nota, l’assordante fragore cessò del tutto. Gli spettri si immobilizzarono a mezz’aria. Per chi ebbe il coraggio di guardare, i loro rabbiosi volti dai tratti umani parvero sciogliersi nella tristezza più profonda. Nel silenzio assoluto, si radunarono. Poi si tuffarono verso il cielo in un’unica vorticante colonna, e scomparvero nel firmamento come se mai fossero esistiti. Dopo un’eternità, uomini e donne tornarono a guardarsi attorno, scossi. Rombi di tuono risuonavano in lontananza, ma le nubi già cominciavano a dissolversi, rapide come si erano formate. Dorian rimase immobile al centro del cerchio, le braccia levate verso l’alto, le palpebre serrate in una smorfia di sofferenza. Poi, lentamente, abbassò le braccia e riaprì gli occhi. Nella mano destra stringeva ancora il simbolo del suo battaglione, uno stendardo non più lacero
e insanguinato, bensì luminoso e sfolgorante nella luce del patto che legava la Compagnia del Viandante alla propria missione. «Così è sempre stato, e così sempre sarà...»
----Il rituale era giunto al termine. Dorian depose lo stendardo. Si guardò attorno disorientato, come se soltanto allora si rendesse conto di dove si trovava. Il colle sorgeva nel mezzo di una distesa di campi di grano, punteggiata di corpi senza vita. Verso ovest, si intravedevano nella foschia le propaggini della fortezza di Bezer: issata su un pennone, la bandiera scarlatta del Principato di Feledan sventolava con indifferenza. A ridosso delle mura, vi era un agglomerato di tende e carri dalle tinte sgargianti, il villaggio ambulante di una comunità di girovaghi - ma la vivacità dei colori era soffocata da un innaturale silenzio. «Andiamo» disse Dorian, e si avviò lungo il sentiero che portava alla fortezza. Gli altri, non più di cinquanta tra uomini e donne, lo seguirono senza parlare. La fila di guerrieri vestiti di bianco, armature e cotte di maglia rilucenti nel chiarore dell’alba, si snodò lungo le pendici del colle, scendendo a valle con passo stanco. Raggiunto il pianoro, si fecero strada tra i corpi senza vita. Mentre camminava tra le spighe macchiate di rosso, Raduan cercò di nascondere il suo turbamento. Non sapeva come ciò accadesse, ma subiva una vera e propria metamorfosi durante la lotta. Poteva rivedersi, poche ore prima soltanto, esultante nell’atto di falciare, calpestare e frantumare corpi senza un briciolo d'esitazione... Ma adesso, come al termine di ogni altra battaglia, si sentiva svuotato. Ad ogni passo, era scosso da tremiti di pietà e disgusto per ciò che vedeva. Quel che restava dei nemici sconfitti gettava una luce inquietante sulla natura dello scontro: non una lotta onorevole di uomo contro uomo, bensì una strage di creature prive di ragione, insensate mutazioni di esseri umani. Demoni, li chiamavano, ma non lo erano. L'accampamento dei girovaghi si era fatto più vicino, una piccola foresta di teli colorati e carri di legno intarsiato. Non un'anima viva, tra le tende. Gli abitanti avevano cessato di esistere, uno dopo l'altro, a causa della mutazione. E per mano della Compagnia del Viandante. Transitarono accanto a una deformità che un tempo era stata un bambino. «Grande Abidan, fa almeno che i suoi occhi siano chiusi!» pregò Raduan. Non lo erano. Guardò, suo malgrado, e ciò che vide gli riempì gli occhi di lacrime. Chinò il capo e proseguì spedito, sperando che nessuno notasse la sua debolezza. Nessun membro della comitiva era a proprio agio. Camminavano in silenzio, senza rompere le fila. Soltanto Kyra, restando di proposito in fondo alla colonna, ogni tanto deviava dal cammino, attratta da qualcosa di interessante - un anello, una collana, un pettine dal manico dorato. Il suo sacco ingrassava a vista d'occhio. Dorian la osservava di sbieco, e come altre volte fu tentato di prenderla a schiaffi. Come le altre volte, però, lasciò perdere. Discutere con sua figlia era produttivo come sbattere la testa contro un muro di mattoni. Ma la cosa rischiava di degenerare: i lampi di rabbia negli occhi dei suoi uomini non erano cosa da sottovalutare. Avrebbe dovuto risolvere la situazione in modo pacifico, prima che le spade cominciassero a parlare. Sospirò. Una cosa alla volta. Quando la Compagnia raggiunse il tratto di terra spianata di fronte alla fortezza di Bezer, ad attenderli c'era un contingente di venti uomini a cavallo. Un uomo di bassa statura li guidava, piccolo persino in sella al suo imponente destriero. «Comandante Dorian» disse, con una sfumatura di stizza «Ottimo lavoro! Sono felice di rivedervi sano e salvo. Senza dubbio sarete stanchi e affamati. Con il vostro permesso, vi scorteremo all’interno delle mura. Cibo e bevande non mancheranno per nessuno!» «Capitano Seras» replicò Dorian, a bassa voce «So che non siete così felice di vederci.
Comunque, accettiamo di buon grado la vostra offerta.» Seras si mosse a disagio sulla sella, e aprì bocca per smentirlo. Poi, ripensandoci, girò il cavallo, e procedette verso il ponte levatoio senza aggiungere una parola. I guerrieri della Compagnia lo seguirono a breve distanza, preceduti dal loro comandante, stanchi eppur fieri nel portamento. I cavalieri della guarnigione si disposero ai loro fianchi, scortandoli verso l’interno. Dorian si chiese se fossero animati da un sincero istinto protettivo, o se temessero piuttosto per la propria gente. Ancora una volta, nonostante la vittoria e la condotta irreprensibile, la Compagnia del Viandante doveva provare sulla propria pelle il freddo marchio della superstizione. E come non comprendere tale atteggiamento? Violenza e morte toccavano ogni uomo, in quei tempi difficili, ma la comparsa di creature mostruose e spettri non era facile da digerire per nessuno. Impossibile sfuggire ai sospetti, quando elementi di quel tipo li seguivano sempre sulla scena. Come i Demoni, e come il rituale appena compiuto. Come tutto ciò che riguardava la Compagnia. Entrarono nella fortezza, abbastanza grande da ospitare centinaia di persone. Dentro, non trovarono nessuna folla festante: i pochi presenti si tenevano a distanza, squadrandoli con paura malcelata. Porte e finestre delle case erano sbarrate, alcuni volti sbirciavano nervosamente tra le fessure. Furono scortati a un edificio largo e piatto, alle spalle del torrione centrale, dove poterono lavarsi e sfregar via l’odore di morte che impregnava i loro corpi. Indossarono indumenti puliti, tutti rigorosamente bianchi, come le tuniche ormai consunte che avevano vestito sopra le corazze. Kyra fu tra gli ultimi a concludere la piacevole incombenza. Quando uscì all’aperto, rinfrescata e coi capelli sciolti, non le sfuggirono le occhiate di ammirazione che molti soldati le scoccavano. Ricevendo in cambio, nel migliore dei casi, una smorfia d'irrisione. Si sedette su una panca esposta al sole, godendosi il tepore. Conosceva bene il proprio potenziale, e non intendeva certo gettarlo alle ortiche. Fin dalla prima giovinezza era abituata a suscitare le attenzioni indesiderate degli uomini intorno a lei, nonché a respingerle con decisione: più d’uno portava indelebili sul corpo i segni del suo rifiuto. Passò un dito lungo il percorso della cicatrice che le segnava il volto, dalla fronte sino alle labbra. Neppure con quella le cose erano cambiate: anzi, aveva persino arricchito la sua bellezza selvatica, che tanti aveva sedotto, e poi ferito. Raduan uscì a sua volta dai bagni, inspirando a pieni polmoni. Si girò da un lato e dall'altro, distratto. Quando incrociò lo sguardo di Kyra, si irrigidì all'istante. «Questo è un altro paio di maniche...» pensò lei, sfoggiando uno dei suoi sorrisi più maliziosi. Conosceva Raduan da anni, e doveva ammettere che sin dal loro primo incontro aveva provato una sorta di attrazione nei suoi confronti. Tanto più ora, che lui la detestava. Era sempre spassoso per lei stuzzicare Raduan il puro, l’irreprensibile, il braccio destro del suo caro padre! E prima o poi, ne era sicura, lui sarebbe crollato, l'avrebbe fatta finita con lo stupido rigore che ostentava. «È questo che pensi davvero?» le sussurrò una fastidiosa voce, da dentro. La zittì, senza staccare gli occhi dal guerriero, finché questi le diede le spalle e si diresse altrove, borbottando qualcosa. La stuzzicò il pensiero di seguirlo e tormentarlo un po', ma decise di rimandare il gioco. Avrebbe avuto tutto il tempo necessario, prima della prossima battaglia. O forse no, ma che importava? Rimase dov'era, invece, a ciondolare le gambe ai caldi raggi del sole. Poco più tardi Dorian, il volto sempre severo, riunì i membri della Compagnia e li condusse alla mensa, dove si rifocillarono sotto lo sguardo vigile dei soldati della guarnigione. Il capitano Seras fece un’unica breve apparizione tra i tavoli, rinnovando la propria offerta di ospitalità con parole affrettate, ed invitandoli a riposarsi quanto necessario tra le mura della fortezza. Poi fu ben felice di ritirarsi, adducendo una serie di pressanti questioni a cui badare. Nessuno degli ospiti cercò di trattenerlo. Durante il pasto furono scambiate poche parole, poi il gruppo tornò agli alloggiamenti, dove ciascuno trovò ad attenderlo una branda poco confortevole. Si distesero senza fare complimenti. Dorian scelse il primo giaciglio che vide, subito imitato da Raduan. Kyra preferì isolarsi in un angolo del dormitorio, lontana da tutti. La battaglia era stata dura, e il sonno calò come una benedizione su ogni uomo e donna della Compagnia.
Soltanto Kyra non si assopĂŹ. Aveva molte cose a cui pensare. Decisioni da prendere, e in fretta. Rimase ancora a lungo sveglia, a fissare il vuoto.
II - Gli Occhi di un Amico
Si destarono al calar del sole, dopo un indisturbato riposo di mezza giornata. I turbamenti della battaglia appena vissuta già cominciavano a sbiadire nella loro memoria, un ricordo cupo e indistinto tra i tanti che facevano la storia della Compagnia del Viandante. Si riunirono nello stesso locale del pasto mattutino. Seduti attorno a larghe tavole, furono serviti in modo cortese, ma poco caloroso. Seras non si fece vedere. La conversazione si animò più che al mattino, toccando svariati argomenti, dalle preoccupazioni per l'imminente guerra tra i principati, alla battaglia della notte precedente. «Erano parecchi...» commentò uno dei guerrieri, un uomo massiccio dai capelli grigi tagliati cortissimi «Molte donne e bambini, ben più delle altre volte.» Non sollevò lo sguardo dal piatto, mentre parlava. «Già» concordò un altro «Non è stato facile. Più passa il tempo, più mi sembra che la situazione stia peggiorando. Stiamo davvero cambiando le cose? Non lo so...» «Certo che sì!» affermò una donna, guardandolo in cagnesco «Perché saremmo venuti qui, altrimenti? Mi stupisco di sentire certe cose!» «Va bene, va bene!» si difese l'altro, mettendo le mani avanti «Ma permettimi di avere qualche dubbio. É salutare, di questi tempi.» «Sono d'accordo» dichiarò l'uomo dai capelli grigi «Fa male ammetterlo, eppure lo sento anch'io: non stiamo facendo altro che rimandare il peggio. Forse lui aveva in mente qualcos'altro, ma a questo punto dubito che lo scopriremo.» «Senza contare che, con la guerra e tutto, le cose non faranno che peggiorare! Mi chiedo se riusciremo a restare neutrali... Altrimenti, addio missione.» La donna scosse la testa, incredula dinanzi al pessimismo dei compagni. Ma non era il caso di insistere. Con una smorfia, tornò a rivolgere l'attenzione all'insipida zuppa che aveva nel piatto. Dorian, seduto a capotavola tra Raduan e Kyra, non prese parte ad alcuna conversazione, pur cogliendone frammenti dai tavoli accanto. Non fu sorpreso dal constatare che i toni usati non erano dei più ottimisti, e che anzi il morale dei suoi uomini pareva a terra. Raduan, fino ad allora più intento a cibarsi che a scambiare parole coi vicini di tavola, notò il suo turbamento: «La colpa non è tua, Dorian» disse, rivolgendogli un mezzo sorriso. Dorian posò lo sguardo su di lui. Come faceva ad intuire sempre il corso dei suoi pensieri? «Se la colpa non è mia, di chi è allora?» «Non puoi assumerti la responsabilità di tutto quanto!» ribatté Raduan «Ciascuno di noi è qui di sua spontanea volontà, o te ne sei scordato?» Dorian sbuffò, scontento. L'argomento era già stato discusso in passato, senza mai arrivare a una soluzione. «Le cose stanno così, che tu lo voglia o meno» riprese Raduan «Sul campo di battaglia sei il nostro comandante, ma a parte quello non hai alcun dovere verso di noi.» «Lo pensi sul serio?» sospirò Dorian «Io, invece, credo di dover fare di più. Soprattutto adesso.» «Adesso che lui ci ha abbandonati?» si intromise Kyra, con il consueto, irritante, tempismo. Era stata in silenzio fino ad allora, giocherellando con le posate, forse in attesa dell’occasione giusta per provocarli. C'era riuscita: le parole morirono in bocca a Dorian, e le sopracciglia di Raduan si unirono in una linea severa. «Non dovresti dire certe cose ad alta voce» osservò Dorian, col tono paziente di chi si rivolge a una bambina. «Già, dovresti imparare a tener chiusa quella boccaccia!» ribadì Raduan, senza peli sulla lingua «Lui non abbandona nessuno. Mai. Lo sai bene.»
Kyra storse le labbra. «Ma davvero? Perché allora è scomparso nel nulla? E che dire del messaggio che ci ha lasciato?» Non vi era più alcuna sfumatura di divertimento nella sua voce. «E intanto, da bravi fantocci, continuiamo a seguire i suoi ordini. Ogni giorno corriamo il rischio di morire, e gli rendiamo grazie per la splendida missione che ci ha affibbiato! È pura follia!» Raduan si curvò sul tavolo, pronto a rimbeccarla, ma Dorian lo precedette: «Figlia mia» disse «posso capire i tuoi dubbi, ma non stai prendendo le cose per il giusto verso. Lui non è più qui con noi, vero. Non era mai successo prima, vero anche questo. Eppure non cambia nulla.» Fece una pausa, per accertarsi che Kyra lo stesse davvero ascoltando. «La missione che ci ha affidato è troppo importante, lo capisci? Dobbiamo portarla avanti ad ogni costo, anche se possiamo contare soltanto sulle nostre forze. Anche se lui non dovesse mai più tornare!» Colse lo sguardo di disapprovazione di Raduan, ma lo ignorò. «Sarà come dici» sbottò Kyra, alzandosi in piedi «Ma non mi va di essere tenuta all'oscuro della verità, né di essere usata come un'arma contro la mia volontà! Non sono una bambola guerriera, e non voglio essere trattata come tale. Non più. Nemmeno se fosse lui in persona a ordinarmelo!» C’era tristezza, ora, nei suoi occhi, e Dorian non seppe cosa risponderle. «Spero quasi che non torni più...» concluse lei in un soffio. Poi, scavalcò la panca e si allontanò. «Sciocca ragazza!» commentò Raduan scuotendo il capo, quando fu lontana. «Eppure non mi sento di biasimarla» disse Dorian, ancora angustiato dalle parole della figlia «Lui era davvero importante per tutti noi. Perché se n'è andato? Chi siamo, senza di lui?» Lui, sempre lui... Abel, il Bianco Viandante. Era piombato nella sua vita come un fulmine a ciel sereno, molti anni prima, e da allora ogni cosa era cambiata. Dorian pensò agli ultimi giorni prima del loro incontro, si rivide com'era: un uomo privo di futuro, un disperato con le spalle al muro. Poi Abel era giunto, da lui per primo. Gli aveva donato conforto e speranza, gli aveva concesso una nuova vita e una nuova missione. Dal malinconico sorriso di Raduan, capì che l'amico riviveva esperienze simili dentro di sé, sondando i ricordi alla ricerca di un appiglio, un’immagine che restituisse al presente anche soltanto un briciolo della sapienza e della forza del loro salvatore. Era stato al loro fianco per lunghi anni, li aveva guidati con mano sicura, li aveva protetti come avrebbe fatto un padre con i propri figli. Il suo potere era speciale, colpiva dritto al cuore, apriva la mente. In sua presenza la volontà non poteva vacillare. Aveva scelto uno ad uno gli uomini e donne che formavano la Compagnia. Non esisteva al mondo un gruppo di combattenti più eterogeneo, né allo stesso tempo tanto unito. Nessuno di loro seguiva il Viandante per denaro, gloria o pura sete di battaglia. Lo seguivano perché li aveva salvati da una vita miserabile. Lo seguivano perché li aveva resi parte di qualcosa di grande. Lo seguivano perché aveva fatto di tutti loro una sola famiglia. «Seguimi!» aveva detto a ciascuno, accogliendolo sotto la sua ala «Sii il mio braccio e la mia forza. Insieme scacceremo le tenebre dal mondo!» «Com’erano saldi allora i nostri propositi» pensò Dorian «Com’era chiara l’importanza della nostra lotta...» Oggi, mesi dopo la scomparsa di Abel, nulla sembrava più così chiaro. Una confusa lettera d'addio, scarabocchiata in fretta e furia, era tutto ciò che rimaneva di lui. Dorian l'aveva letta e riletta mille volte, nella vana speranza di scovare un messaggio nascosto tra le righe, o almeno un indizio che gli permettesse di mettersi sulle tracce del Viandante. Ma non aveva avuto successo. Sapeva recitarla a memoria, ormai:
Amici, fratelli, Devo lasciarvi. Non posso dirvi dove andrò, né perché, ma lo faccio per il vostro bene soltanto. Portate avanti la missione della Compagnia, pur senza di me, ve ne prego! È di somma importanza... Ho fiducia in voi e nel vostro cuore. Non cercate di seguirmi: non potreste arrivare dove mi porta il mio cammino. Non odiatemi, se potete. Conto di spiegarvi tutto, un giorno. Dal triste mattino in cui avevano trovato il messaggio nella tenda di Abel, le cose erano andate peggiorando sempre più. Gli uomini perdevano convinzione nella causa giorno dopo giorno, e Dorian stesso, benché fosse diventato il loro punto di riferimento, si sentiva sperduto. Osservò Kyra, appoggiata a una parete: beveva birra da un boccale, ridendo di chissà cosa con un uomo appena conosciuto, impegnata in uno dei suoi soliti giochi di seduzione. Come se la discussione avvenuta in precedenza non avesse avuto alcun peso. Con la coda dell'occhio, vide che Raduan la fissava a sua volta, corrucciato. Si chiese cosa gli passasse per la testa. Il divario tra i due era profondo, eppure non era sempre stato così. Kyra era cambiata, per il peggio. Da mesi risentiva della mancanza di Abel. Rifletteva il suo disagio su chiunque le stesse vicino, cercando in tutti i modi di tenere le distanze dai vecchi amici, di creare attorno a sé una bolla di indifferenza, quando non di aperta ostilità. Dorian ricordò con nostalgia i tempi in cui lui e sua figlia erano ancora vicini. Prima dell’incidente, che le era costato un occhio e gran parte della fede. Quel giorno qualcosa in lei si era spezzato, creando un vuoto sempre più grande. La scomparsa di Abel non aveva fatto che peggiorare le cose. Sapeva di non poter fare molto perché le cose tra loro tornassero com’erano prima. Se lei avesse abbassato la guardia anche soltanto per un momento... Eppure non vedeva come, non nell’immediato futuro. Si stropicciò gli occhi. Inutile rimuginare mille volte sugli stessi pensieri. Meglio prendere una boccata d’aria fresca. Si alzò, avviandosi verso l’uscita. Si trovava a un passo dalla soglia, quando la porta si spalancò di botto e un uomo piombò all’interno, crollando a peso morto tra le sue braccia. Era sudicio e coperto di lividi, talmente smagrito da assomigliare a uno spaventapasseri. Gli abiti gli pendevano addosso a brandelli, e il suo corpo emanava un lezzo acre. Balbettando qualcosa di incomprensibile, l'uomo ruotò gli occhi da un lato all’altro, la testa abbandonata all’indietro come un peso troppo grande da sostenere. Gli uomini della Compagnia accorsero al fianco del loro comandante, disponendosi in cerchio. Dorian, paralizzato dalla sorpresa, studiò il viso sporco e barbuto del moribondo, in cui due occhi velati di nebbia roteavano senza posa alla ricerca di un punto fisso. Finalmente, si fissarono sul comandante: «Dorian...» sibilò l'uomo, la voce flebile come un sussurro «Sei tu, Dorian, non è vero?» Dorian lo osservò esterrefatto: chi era costui? Come poteva conoscere il suo nome? L’uomo, in preda a forti convulsioni, mosse una mano tremante verso il suo viso. Dorian si ritrasse, turbato, e cercò di calmarlo: «Non agitarti, hai bisogno di cure!» L’uomo lo ignorò: «Dorian! Sei tu, lo sento! Finalmente ti ho ritrovato!» Qualcosa nella sua voce, forse un particolare della sua fisionomia, fece scoccare in Raduan la scintilla del riconoscimento: «Iarmin!» esclamò, afferrandogli una spalla. Allora anche Dorian capì, e lanciò un’esclamazione di sorpresa: l’uomo in pietose condizioni tra le sue braccia altri non era che Iarmin, uno di loro, un guerriero della Compagnia! Come aveva potuto non riconoscerlo? Iarmin li aveva lasciati poco dopo la scomparsa di Abel, senza preavviso alcuno... ma non era passato tanto tempo!
Una fitta barba e un cespuglio di capelli arruffati gli celavano il volto, ma era soprattutto nel resto del corpo che il guerriero aveva subito una trasformazione impensabile. Non restava nulla, nel suo aspetto, della forza indomita che tutti ben conoscevano. «Che ti è successo?» chiese Dorian, attonito. Iarmin parve sorridere per un istante, prima di afflosciarsi tra le sue braccia, gli occhi semichiusi, la respirazione affannosa. Ghermì un lembo della giacca del comandante e volse la testa di quel tanto che bastava a fissarlo in viso. «Trovalo!» disse, in un rantolo «La Valle della Luna…» Dorian scosse il capo, provando un vago malessere. Raduan, al suo fianco, serrò i pugni. Il probabile significato di quelle parole lo turbava. «Trovalo! Ha bisogno di voi!» esclamò Iarmin, il viso tumefatto a una spanna da quello di Dorian. Poi tossì, e un rivolo di sangue gli sgorgò dalle labbra. Giacque inerte tra le braccia del comandante, come un fantoccio. Dorian lo scosse, temendo il peggio, ma non ottenne reazione. Adagiato in terra il corpo, gli accostò un orecchio al petto. Un’espressione di sollievo gli si dipinse sul volto. «È soltanto svenuto!» dichiarò «Un guaritore, presto!» Distesero il corpo privo di sensi su un mantello. Dorian, inginocchiato al suo fianco, scosse la testa con incredulità. «Che significa?» si chiese. «E chi può dirlo?» rispose Raduan, sovrappensiero. «Stava delirando» disse qualcuno, con un’alzata di spalle. Dorian non ne era convinto. Si sentiva ancora addosso gli occhi imploranti dell'amico, avvertiva la forza della sua disperazione. Non gli parve possibile che le sue parole fossero dettate dal delirio. Non riusciva a intravedere una risposta ai suoi dubbi, ma l'importante era che Iarmin fosse ancora in vita. Forse, grazie all’abilità dei guaritori della Compagnia, avrebbero evitato il peggio. Disteso in terra, Iarmin continuava incosciente. Un guaritore tastava con cautela il suo corpo malridotto, in cerca di eventuali fratture o altri danni interni. Scostò i lembi della giacchetta: una vistosa macchia di sangue inzuppava la camicia del guerriero all’altezza del petto. «Grande Abidan, fa' che non sia troppo tardi!» esclamò Raduan, unendo le mani in segno di preghiera. La testa di Kyra fece capolino al di sopra del cordone d'uomini: «Come avrà fatto a ridursi così?» domandò, lasciando trasparire una certa sorpresa. «Pare che abbia affrontato da solo un'orda di Demoni!» affermò un altro. «Forse non sei troppo lontano dal vero...» ribatté Raduan. Dorian gli rivolse uno sguardo interrogativo. Raduan proseguì, lisciandosi l’ispida barba nera: «Tutti ci ricordiamo di quanto Iarmin fosse legato ad Abel, e come sia cambiato dopo la sua scomparsa. Credo che tanto la sua partenza improvvisa, quanto il suo ritorno in queste condizioni, abbiano a che fare con il Viandante...» Levò una mano alla bocca, rimuginando: «Trovalo, ha detto. Ho la sensazione che parlasse di Abel. Ho idea che ci sia sotto qualcosa di grosso. E non chiedetemi perché, ma ho un brutto presentimento.» Dorian lo ascoltò con la fronte aggrottata. La sua replica fu convinta: «Lo credo anch'io. Iarmin ha qualcosa di importante da dirci, e spero che possa farlo quanto prima.» Un'esclamazione di sorpresa interruppe la conversazione. Il guaritore era balzato in piedi, e si fissava incredulo le mani imbrattate di sangue fresco. «Impossibile...» mormorò «Ma ho controllato più volte!» Girò gli occhi su Dorian, pallido in volto. «Comandante, Iarmin non ha alcuna ferita!» Tornò a guardarsi le mani.
«Perciò questo sangue non gli appartiene!» Raduan e Dorian si scambiarono un’occhiata tesa. «C'è qualcosa di molto sbagliato...» dicevano quegli sguardi. Avvenne tutto senza preavviso. Il busto di Iarmin si erse da terra con uno scatto, simile a una marionetta strattonata da fili invisibili. Il volto, deformato da un odio implacabile, non ricordava che in minima parte quello dell’uomo a cui apparteneva. Gli occhi, iniettati di sangue, erano quelli di un Demone. Prima che chiunque potesse muoversi, la camicia di Iarmin fu lacerata dall'interno da due immonde protuberanze, esplose dal suo corpo in forma di tentacoli. Uno di essi si avvinghiò alle gambe del guaritore, stritolandole con uno schiocco, mentre l’altro frustava l’aria alla ricerca di una preda. «Demone!» urlò Raduan, il primo a riprendersi dallo shock. Balzò avanti, il volto contratto in una maschera d’ira, e levò alto il pugnale da caccia che portava alla cintura. La creatura scagliò un tentacolo nella sua direzione: Raduan lo tranciò di netto con un movimento del polso, lanciandosi in avanti per il colpo di grazia. Ma all’ultimo istante qualcosa frenò il suo slancio, forse la vista del volto del vecchio compagno, tragicamente mutato eppure ancora familiare... Quell’attimo di esitazione rischiò di essergli fatale, non fosse stato per l’intervento di Kyra: rapida come un felino, stringendo un pugnale curvo in ogni mano, raggiunse Raduan in pochi balzi e si frappose tra lui e il mostro. Prima che questi contrattaccasse, affondò le lame nel tentacolo superstite, più e più volte, talmente veloce da non poterne distinguere i movimenti. Il Demone urlò di dolore. Cercò di alzarsi da terra, mulinando con furia le protesi ormai monche. Prese a muoversi a scatti, strisciando e lanciandosi di peso contro le gambe degli uomini che lo attorniavano. La testa gli ciondolava da un lato, indifferente ai movimenti del corpo, la lingua penzolante e gli occhi illuminati da un fioco bagliore rossastro. I guerrieri arretrarono di un passo, Raduan e Kyra a coprirli con le armi sguainate. Osservavano l’orribile spettacolo incapaci di reagire, intorpiditi dal ribrezzo. Il comandante emerse dal gruppo, e si piazzò davanti a tutti. Il Demone come per incanto smise di agitarsi. Forse presagiva la sorte che lo attendeva, o forse aveva deciso di arrendersi. Dorian lo fissò con occhi colmi di tristezza, in procinto di compiere un atto dovuto, ma che una parte di sé detestava. Avanzò di un passo, protese la mano destra avvolta in un guanto bianco all’altezza del volto del Demone, che un tempo si chiamava Iarmin. Il mostro rimase paralizzato, un basso ringhio gli uscì dalla bocca deformata. Dorian poggiò la mano sulla fronte del Demone, e premette con il palmo tra i suoi occhi pieni d'odio. Al solo contatto, il guanto emanò un alone di luce calda e abbagliante. La creatura inginocchiata mugolò pietosamente, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Dorian vacillò quando il suo sguardo incrociò quello di Iarmin (del Demone! E' soltanto un Demone!) ma il suo cuore non cedette. «Kalarti ka zvendàri!» proferì in un rapido soffio, senza più esitare. La sentenza aleggiò nell’aria per alcuni istanti. Poi, un lampo di luce accecante avvolse il corpo di Dorian, sgorgandogli dal petto e facendosi strada lungo il braccio, fino a scaturirgli dal palmo della mano sul volto deforme della creatura. Vi fu un grido prolungato, seguito dal tonfo sordo di un corpo che crollava al suolo. Uno spettro traslucido sorse dalle membra esanimi, e fluttuò a mezz'aria. I guerrieri allargarono il cerchio. Lo spettro li osservò senza vederli, con occhi di pura luce, proiettati nell'aldilà. Poi si tuffò verso il soffitto, e scomparve. Quando la luce del guanto si affievolì, il corpo senza vita di Iarmin giaceva in terra scomposto, fissando il soffitto con occhi vitrei e spenti. «Occhi umani» pensò Dorian «Gli occhi di un amico…»
III - Nubi all’Orizzonte
Il sole era già alto quando Dorian salì col capitano Seras sui bastioni della fortezza. Proprio da lì, due notti prima, gli abitanti di Bezer avevano potuto ammirare il coraggio della Compagnia del Viandante. I due avanzarono senza rivolgersi la parola lungo il camminamento che correva in cima alle mura, tra una doppia fila di merli. Nella campagna circostante, gruppi sparsi d'uomini impilavano sui carri i resti dei Demoni. Più in là, alte fiamme danzavano sulla pira ardente che riceveva i carichi di corpi. Il fumo, spesso e maleodorante, aleggiava sui campi come una malattia. Era uno spettacolo deprimente. La comunità di girovaghi accampata fuori dalle mura era stata sterminata, prima dalla mutazione, poi dai guerrieri di Dorian. I corpi deformati erano sparsi in ogni dove, e non c’erano parenti o amici a reclamarli. Una fila di donne vestite a lutto usciva dai cancelli della fortezza, seguendo in corteo una bara sorretta da quattro persone: uno degli abitanti di Bezer, vittima dell’assalto dei Demoni, che percorreva il suo ultimo miglio, diretto alla tomba. Scene simili si ripetevano senza sosta sin dal mattino precedente. Soltanto il rapido intervento della Compagnia aveva evitato che la tragedia di Bezer si trasformasse in una vera e propria ecatombe. Dorian, le immagini della morte di Iarmin ancora fresche nella memoria, osservava tutto senza proferire parola. Fu Seras a rompere il silenzio, schiarendosi la gola. «Tra un paio di giorni non ci sarà più traccia della battaglia, e potremo tornare alle nostre vite. I campi hanno bisogno di essere mietuti, la gente ha bisogno di dimenticare questi orrori.» Dorian evitò inutili commenti sulla possibilità che le cose tornassero com'erano prima. Per quanto ne sapeva, almeno una famiglia su dieci aveva perso un parente durante l’assalto, e certe ferite avevano bisogno di tempo per rimarginarsi. Il morale del popolo, già messo a dura prova dalle voci di guerra imminente, era a terra. «E dire che quei girovaghi erano gente così tranquilla» scosse la testa Seras «Stravaganti, ma innocui. Hanno vissuto fuori dalle nostra mura per più di una settimana, senza darci nessun problema. Poi, di punto in bianco, si sono ammalati.» Dorian annuì. Era sempre così, quando i Demoni apparivano. Già sapeva come sarebbe continuato il racconto. «Abbiamo cercato di aiutarli» proseguì il capitano «Ma si sono tramutati in cani rabbiosi nel giro di poche ore. E dopo, in qualcosa di molto peggio. Mai vista prima una cosa del genere. Siamo corsi dentro e abbiamo chiuso i cancelli. Non tutti hanno fatto in tempo a entrare, purtroppo. Il resto, lo sapete. Vi sono più che grato per essere venuto in nostro soccorso. Non fosse stato per voi, non so per quanto ancora avremmo resistito.» «Non serve ringraziarci, capitano. Abbiamo fatto il nostro dovere» rispose Dorian, inarcando un sopracciglio. Non era abituato a ricevere ringraziamenti, non di certo da un altro soldato. La Compagnia non era associata ad alcun reggimento regolare dei Principati. Per decreto reale, però, aveva libertà d'azione in tutti i territori del Regno. Già questo era motivo di sospetto, quando non di aperta ostilità, da parte degli altri combattenti. Per non parlare dei Demoni, del Rituale e di tutto il resto. C'era abbastanza legna sul fuoco da incenerire per sempre l'immagine della Compagnia. Dorian sapeva bene che soltanto la fama di Abel, l'eccelso guaritore conosciuto da tutti i popoli come il Bianco Viandante, aveva consentito alla Compagnia di ottenere in tempi così brevi i privilegi e il timoroso rispetto che la accompagnavano dovunque. Anche per questo, dopo la misteriosa scomparsa di Abel, si era impegnato a far sì che la notizia non trapelasse. Più di una volta, negli ultimi mesi, era stato costretto a mentire: che all'improvviso non fosse più il Viandante a
guidare la Compagnia, bensì il suo sconosciuto braccio destro, era un fatto che avrebbe destato parecchi sospetti. Non a Bezer, però. Qui le cose erano accadute troppo in fretta. Due giorni prima, erano stati raggiunti da un messaggero a cavallo proveniente dalla fortezza. Disperato, aveva spiegato loro con una valanga di parole che qualcosa di terribile era accaduto ai girovaghi accampati fuori dalla mura, qualcosa che li aveva tramutati in belve assetate di sangue. Per buona sorte, la Compagnia si trovava nelle vicinanze, e la richiesta di aiuto era arrivata in tempo. Si erano mossi all'istante, cavalcando senza sosta per un giorno intero prima di raggiungere la fortezza stretta sotto assedio dalle creature. Il resto era storia: durante una sola, sanguinosa notte, con il beneficio della sorpresa, avevano fatto strage dei Demoni. «A proposito dell'incidente di ieri…» disse Seras, rompendo il filo delle sue riflessioni. «Finalmente arriviamo al punto» pensò Dorian, cui l’invito del capitano ad accompagnarlo era parso sospetto fin dall’inizio. «Ancora non riesco a capire come quell’uomo sia riuscito a penetrare nella fortezza» proseguì Seras «Si è lasciato alle spalle i cadaveri di due sentinelle, vicino ai cancelli: deve averli colpiti alle spalle... ma come? Era forse invisibile? Nessun altro l'ha visto né sentito, finché vi ha raggiunti!» Dorian non capì se Seras volesse giustificare una sua mancanza, come responsabile della sicurezza, o se fosse soltanto alla ricerca di una spiegazione razionale. «L'avete visto coi vostri occhi, capitano: non era più un comune essere umano. La mutazione gli aveva dato capacità disumane. Avrebbe potuto causare problemi ben maggiori, credetemi.» «Per nostra fortuna» insinuò Seras «era più interessato a voi e alla vostra Compagnia, comandante.» Dorian non raccolse la provocazione. «E' vero, cercava noi. Ma non si è trattato di fortuna. La coscienza che era in lui, quella dell’uomo chiamato Iarmin, si è opposta alla mutazione. Non avremmo sconfitto il Demone tanto in fretta, se lui stesso non ci avesse aiutati, dall’interno.» Scosse la testa. «Mi chiedo dove abbia trovato la forza di resistere. E quante difficoltà abbia dovuto affrontare, per venire fin da noi...» Rivolse a Seras uno sguardo ricco di significato. «Vi parrà strano, ma credo che dobbiamo ringraziare Iarmin per ciò che è riuscito a fare, ribellandosi al male. Non possiamo imputargli la morte di nessuno, anzi, gli dobbiamo la vita di molti altri: il Demone avrebbe compiuto una strage, se la sua volontà non l’avesse tenuto a bada.» Seras diede un’alzata di spalle. «Comandante» disse «io sono un semplice uomo d’armi, le vostre parole non hanno molto significato per me. Demoni, mutazioni, e quegli spettri sorti dal campo di battaglia… Queste cose non facevano parte del mio mondo, prima...» «Prima che il vostro cammino incrociasse il mio?» domandò Dorian, con aria rassegnata «Non negate che questi siano i vostri pensieri, capitano. Comunque, non vi biasimo: spesso, agli occhi del malato, la cura di un male si confonde con il male stesso.» Seras non mostrò entusiasmo per quella spiegazione, ma non impedì a Dorian di affrontare la questione in modo esplicito. «Come già avrete udito, la nostra Compagnia è venuta alla luce per mano del Bianco Viandante, alle prime comparse della mutazione – la stessa che avete testimoniato negli ultimi giorni.» «Mutazione, di nuovo questa parola...» «Sì, mutazione. Intere comunità colpite senza preavviso da un male oscuro, di cui ancora non conosciamo le origini, e che causa una metamorfosi mostruosa. Un giorno sono uomini come voi e me, il giorno dopo li chiamiamo Demoni.» «Ma perché proprio qui, a Bezer?» «Non lo sappiamo. I casi stanno aumentando, è un fatto. Un tempo accadeva soltanto in zone selvagge, o quasi, ma il fulcro si è spostato verso il centro del Regno. E’ in atto un mutamento di grandi proporzioni, capitano, e temo che un giorno non ce la faremo più, da soli. Non senza un esercito a coprirci le spalle.»
Seras si accigliò all’idea. «Non preoccupatevi» continuò Dorian «non sto dicendo che dovrete schierarvi in prima linea coi vostri soldati. Con tutto il rispetto, non potreste farcela. Ogni singolo membro della Compagnia è sottoposto a una preparazione estrema, prima di poter affrontare i Demoni a viso aperto. Guerrieri scelti, nel vero senso della parola. E vi dirò di più: forza e strategia non bastano, contro nemici come i nostri.» Guardò lontano. «Non può esserci vittoria, senza il Rituale.» «Ieri mattina, all’alba» indagò Seras, una luce di curiosità negli occhi «E’ ciò che penso di aver visto, comandante?» «Sì, e dovreste esserne onorato. Siete tra i pochi ad aver assistito di persona al Rituale della Liberazione. Non pretendo di spiegarvene l’essenza: soltanto il Viandante, a dire il vero, la conosce appieno. Ma proverò lo stesso, con le mie parole. Una domanda, per cominciare. Credete che l'uomo possieda un'anima immortale, capitano?» «Così mi hanno insegnato. E' il soffio vitale degli Dei dentro di noi.» «E credete vi sia un legame tra quest'anima ed il corpo che la ospita?» «Suppongo di sì, ma non sono un chierico per saperlo con certezza...» «Eppure lo credete, ed io con voi. Il Viandante ne è altrettanto certo. Così come è certo che la mutazione di un uomo in Demone ne corrompa l'anima, e la renda prigioniera della carne, schiava degli istinti demoniaci...» «E'... orribile!» «Per questo pratichiamo il Rituale insegnatoci dal Viandante. E' l'unica forma di spezzare le catene che imprigionano le anime. Se l'anima intrappolata nel corpo di un Demone non viene liberata attraverso il Rituale, va incontro a un terribile destino: la cattività eterna dentro a un guscio che non le appartiene più.» Seras rabbrividì. «Il Rituale ci permette di risparmiar loro questo destino. A costo della loro vita, purtroppo.» Fece una pausa, ma Seras non diede segno di volerlo interrompere. «I Demoni sono nemici implacabili. Possiamo falciarli a colpi di spada, possiamo abbatterli e fare a pezzi i loro corpi, ma se le anime intrappolate dentro di loro non vengono liberate per mezzo del Rituale, al calare delle tenebre si ha un nuovo inizio. Quei maledetti traggono immenso beneficio dall’oscurità. Possono rialzarsi e continuare a combattere all’infinito, se necessario. Due notti fa ho visto arti amputati lottare separati dal proprio corpo. Una cosa a dir poco grottesca, ve l’assicuro.» «Non ci trovo nulla di divertente!» asserì Seras, pallido. «Potete dirlo, capitano. Abbiamo di fronte avversari che si fanno scudo della vita umana, e che non si curano della propria morte, non come noi la intendiamo.» Scandì bene le ultime parole, sperando che avessero l’effetto voluto. Seras non poté celare i propri timori: «A che può servire, allora, l’acciaio delle nostre spade? Voi siete una cinquantina soltanto, ma sapete come estirpare questo male alla radice, attraverso le vostre stregonerie! Se ciò che dite risponde a verità, che potrebbero fare gli eserciti dei tre Principati, anche uniti, contro un avversario di tal specie? Saremmo praticamente disarmati!» Dorian cercò di rassicurarlo: «Non è il caso di allarmarsi: i miei uomini conoscono bene il loro nemico, e sanno come affrontarlo. Non abbiamo avuto problemi fino ad oggi, e non vedo perché dovremmo cominciare ad averne.» Pronunciò l’ultima frase con finta convinzione: non ne era affatto sicuro. Come scacciare dalla mente l’immagine della tragica fine di Iarmin, sopraffatto dal male e ucciso dai suoi stessi compagni d’armi? «Abbiamo veramente il controllo della situazione?» pensò. Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che fosse necessario un cambiamento di qualche tipo, ora che Abel se n’era andato. Che la strada da percorrere fosse un’altra. Ma quale?
Ai piedi delle mura, i cadaveri continuavano a venire ammucchiati sui carri. Dorian non riuscì a calcolare quanti Demoni avessero ucciso nello scontro, inermi di fronte alla forza schiacciante della Compagnia. Né gli interessava davvero. Ansioso di distogliere la mente dai cruenti episodi della battaglia, decise di cambiare tema. Un po' di politica, perché no? Il Regno stava affrontando un periodo di grande instabilità, ed era saggio tenersi aggiornati sui fatti, per evitare brutte sorprese. «Capitano, negli ultimi tempi ci siamo tenuti a distanza dalle città. Sarei curioso di conoscere le novità…» «Vi riferite alla guerra? Bah! Anche qui siamo tagliati fuori dalle notizie più fresche, comandante, ma ho ricevuto dispacci preoccupanti dalla capitale. Pare che le nostre terre facciano gola al principe Hiram: le sue truppe si ammassano alle nostre frontiere, e non cercano neppure di farla sembrare un'esercitazione!» «Brutte notizie davvero...» «Hiram sa bene quanto sia fragile di carattere suo fratello, il nostro principe. Per questo vuole metterlo sotto pressione. Temo che sia stata una mossa azzeccata: Feledan ha già dichiarato la sua paura dinanzi al Consiglio, e c’è il rischio che si arrenda senza nemmeno combattere.» Sputò in terra, disgustato. «Pusillanime! Non è adatto a regnare! Sarà anche un poeta di valore, ma non è certo coi suoi futili versi che salveremo le nostre terre dall’invasione. Dovremmo impugnare le armi adesso, prima che sia troppo tardi, e correre a rafforzare le frontiere!» Strinse i pugni, frustrato. «Ma senza un ordine diretto di sua signoria abbiamo le mani legate, maledizione! Dobbiamo starcene qui ad aspettare che i luridi soldati di Hiram vengano a prendersi le nostre case e le nostre donne!» «Gira voce che Hiram abbia offerto buone condizioni di resa...» insinuò Dorian «Sbaglio, o ha dichiarato di non volere la sofferenza del popolo? Che desidera soltanto riavere le terre che gli spettano di diritto?» «Menzogne! Nessuno ha mai speso una buona parola per quella crudele imitazione di un principe! È folle, ambizioso, e sanguinario. Non ha in mente che una cosa: il domino assoluto sul Regno, unito sotto il suo tallone come era unito sotto il suo defunto padre. Ah, il nostro beneamato re Feldnost, che gli Dei lo abbiano accolto con tutti gli onori!» Sospirò con nostalgia. «Allora sì, le cose andavano per il verso giusto. Non mi capacito di come un re tanto ammirevole abbia potuto generare tre figli del genere: un tiranno, un artista senza spina dorsale, e quell’abominio del principe Gomer! Se la sua ambizione fosse pari alla sua passione per il cibo e i ragazzini, sarebbe padrone di ogni terra da qui fino all’oceano!» Dorian dovette concordare con l’impietosa analisi del capitano Seras: «Condivido le vostre preoccupazioni, capitano. Ci aspettano tempi difficili.» La mancanza di una guida stabile e sicura come quella del compianto re Feldnost si faceva sentire in tutti e tre i Principati nati dallo smembramento del Regno. Oltretutto, quella di Feldnost era stata la voce più forte a sostegno di Abel, quando la Compagnia del Viandante stava nascendo e muovendo i suoi primi passi. Senza l’incondizionato appoggio del re, la Compagnia non avrebbe mai ottenuto il potere di cui tuttora godeva. Ma adesso, con Hiram... Il solo nome gli faceva ribollire il sangue nelle vene. Aveva un conto in sospeso, con lui. Un debito di sangue che ancora attendeva di essere riscattato. Ma di certo non era l'unico. Tra i successori di Feldnost, il primogenito si era rivelato il soggetto peggiore: animato dall’ossessione di superare il padre in grandezza, fin da subito aveva ripudiato l’idea di condividere il Regno coi due fratelli. Ma il testamento del re era esplicito, e non gli restava che un modo per raggiungere il suo scopo: guerra. Di fronte all'opposizione degli inetti fratelli, rifletté Dorian, sarebbe stata una guerra molto breve. Il pensiero che Hiram potesse ottenere il domino incontrastato del Regno lo fece rabbrividire: si prospettavano tempi durissimi per tutti. La stessa Compagnia del Viandante avrebbe dovuto lottare per mantenere la propria autonomia. Non era un segreto che Hiram la temesse e detestasse, al
contrario del suo defunto padre. Ma sarebbe stato un enorme errore da parte sua sciogliere la Compagnia, e lasciare il popolo alla mercé dei Demoni. Una volta di più, Dorian rimpianse l’assenza di Abel. Il Viandante sapeva sempre come agire in queste situazioni, al punto che persino i potenti gli davano ascolto. Cosa avrebbe potuto fare lui, al suo posto? Una cosa erano i campi di battaglia, il suo pane quotidiano, un’altra i salotti della diplomazia: vi si sentiva a suo agio come un orso in una bottega di porcellane. Tentò comunque di apparire fiducioso: «Evitiamo di fasciarci la testa prima del dovuto, capitano. Chissà che i consiglieri non riescano a instillare un poco di buon senso nella mente di Feledan, e spronarlo a difendersi.» Seras scosse la testa, abbattuto. «Dubito che accada, comandante. E in ogni caso, ci aspetterebbe una guerra. Tempi duri davvero, come se non bastasse la disgrazia di due notti fa.» «Vero...» ammise Dorian. Era a corto di argomenti per sollevare il morale del capitano, o anche soltanto il proprio. Continuò a camminare a passo lento, la mente piena di supposizioni sul turbolento futuro che si approssimava. «Perdonate la mia curiosità» chiese Seras, guardando lontano «Il Bianco Viandante... Abel, come voi lo chiamate... non è qui con voi? Avrei voluto conoscerlo di persona.» «È in viaggio, ma presto si riunirà a noi» spiegò Dorian, augurandosi che il capitano non volesse scavare più a fondo. «Capisco» rispose Seras, gli occhi sempre fissi sull'ingrato lavoro dei soldati ai piedi delle mura. Dopo un po', rivolse di nuovo la sua attenzione a Dorian, e aprì le labbra in un sorriso incerto. «La mia domanda vi parrà sciocca, ma perdonatemi se ve la pongo lo stesso. Sono vere le voci che girano sul conto del Viandante? È davvero immortale?» «Ne so quanto voi, capitano. Ha un aspetto giovanile, senza dubbio, ma da qui ad affermare che non invecchi il passo è lungo.» In realtà, benché non volesse darlo a vedere, Dorian aveva imparato a credere in quelle voci: conosceva Abel da anni, e in tutto quel tempo il suo aspetto non era mutato di una virgola. La stessa pelle candida e priva di rughe, gli stessi capelli ricci e la barba dorata, gli stessi occhi azzurri penetranti. Secondo i calcoli di Dorian, basati sui racconti che davano linfa alla leggenda del Bianco Viandante, Abel doveva avere per lo meno cent'anni d'età. Era un enigma vivente, e in tanti anni di amicizia e convivenza non era mai riuscito a strappargli una sola confidenza sul suo passato. «E quanto al fatto di essere un eccellente guaritore?» insistette Seras, senza mascherare un certo scetticismo. «Questo posso confermarlo senz'ombra di dubbio» dichiarò Dorian, più a suo agio con l'argomento «Coi miei stessi occhi l'ho visto compiere miracoli di guarigione. A volte il solo tocco gli è sufficiente per alleviare il dolore di un ferito, o per rimettere in piedi un moribondo.» «Stregoneria...» mormorò Seras, gli occhi dilatati dal sospetto. «Vi prego di evitare questo termine in mia presenza» ribatté Dorian, torvo «Getta una cattiva luce su di me e sui miei uomini.» «Scusatemi, non intendevo offendervi» si schermì Seras, dal cui sguardo non traspariva però il minimo segno di rammarico. Dorian decise che era giunto il momento di tornare dai suoi uomini. Si congedò dal capitano con una stretta di mano, e si avviò. Con la coda dell'occhio, vide Seras fermo dove l'aveva lasciato, con la fronte aggrottata. Non pareva uscire rinfrancato da quella lunga conversazione. «Io stesso non so dire se sono sul giusto cammino» si disse Dorian «Perché mai dovrei riuscire a convincerne gli altri?» Prese a scendere i gradini all’interno delle mura, grato di non aver più di fronte agli occhi il triste spettacolo dei morti. Non aveva fretta, ma un improvviso trambusto gli fece rizzare le orecchie.
Urla e imprecazioni. E provenivano da dove aveva lasciato i suoi uomini.
IV - Separazione
Dorian scese gli scalini a due a due, poi corse, finché si trovò nel mezzo della confusione. Un folto gruppo di guerrieri della Compagnia era accalcato davanti ai dormitori. A di là del muro umano, poté udire le imprecazioni di una lite furibonda. Riconobbe subito le voci dei litiganti, e un brivido gelato gli corse lungo la schiena. Si fece largo a spintoni, e, oltre l’ultima fila di persone, gli si parò dinanzi una scena che non avrebbe mai voluto vedere: due uomini trattenevano a forza Raduan, armato, imbestialito e urlante, per impedirgli di scagliarsi addosso a Kyra, che a sua volta brandiva un lungo pugnale, e soffiava come un gatto selvatico. «Maledetta!» sbraitò Raduan «Cosa credevi di fare? Lasciatemi, devo darle una lezione! Lasciatemi, ho detto!» «Sì, lasciatelo!» replicò lei, non meno inferocita «Me la vedrò io con lui!» Senza attendere un attimo di più, Dorian le piombò alle spalle. La serrò in una potente stretta e le fece cadere il pugnale di mano. Kyra scalciò e graffiò, ma Dorian non mollò la presa. Davanti a loro, Raduan continuava a tremare di collera. «Qualcuno mi spieghi che sta succedendo!» tuonò Dorian, esasperato. Raduan fece un passo avanti, il dito puntato su Kyra: «Comandante, questa maledetta ladra voleva farcela sotto il naso!» «Bada a come parli, idiota!» sbottò lei «E' falso!» «Come no!» disse lui «Per questo scappavi di nascosto? E scommetto che quello è cascato nel tuo sacco per errore…» Dorian seguì con lo sguardo il gesto di Raduan, ed ebbe un sussulto di sorpresa: dall’interno del sacco, afflosciato contro uno stipite della porta, spuntava la sagoma inconfondibile dello Stendardo del Viandante, strappato dalla sua asta e arrotolato come un volgare tappeto. Spinse Kyra da parte, e andò a recuperare il prezioso manufatto. Lo srotolò e lo scosse, accertandosi delle sue condizioni. Tirò un sospiro di sollievo: era ancora in perfetto stato! L’immagine del bastone da viandante, ricamata con fili d’oro e argento, riluceva sullo sfondo candido del tessuto. Dorian erse lo stendardo di fronte a sé, e rivolse a Kyra uno sguardo pesante come un macigno. Gli uomini tutt’intorno si scostarono, presagendo tempesta. «Di certo hai una buona spiegazione per tutto questo…» sibilò, trattenendo a stento l’ira «Spero proprio che tu ce l’abbia…» Kyra distolse lo sguardo, senza replicare. Con una mano si scostò dalla fronte una ciocca di capelli castani. Dorian l'afferrò per un braccio, con abbastanza energia da sbriciolare una pietra. «Rispondimi, dannazione! Davvero credevi di poterlo rubare? E poi? Come avremmo fatto, con il Rituale? Sarebbe stata la nostra fine!» Lei si guardò i piedi, muta. «Dì qualcosa, accidenti a te, difenditi, dimmi che mi sbaglio!» insistette Dorian, fuori di sé. Kyra si morse le labbra, e fissò il suo occhio buono in quelli di lui. Poi sputò fuori le parole, con rabbia: «Non c’è nessun equivoco! Sono stanca di te e di tutti quanti, della Compagnia, del modo in cui portate avanti la vostra missione senza mai fermarvi a pensare! Siete ciechi, e neanche ve ne rendete conto. Questa non è la vita che voglio per me!» Dorian aprì bocca, ma lei lo anticipò con lingua carica di veleno: «Volevo andarmene, sì, e portarmi via l'unica cosa che valesse due soldi, in questo gruppo di miserab…» Non poté terminare la frase, perché Raduan le fu di fronte all’improvviso, non più trattenuto, e la sferzò in pieno volto con un violento manrovescio che la scagliò a terra.
Un istante dopo era già in piedi, inviperita. «Cosa credi di fare, idiota? Adesso ti ammazzo!» Ma prima che potesse reagire, un’altra mano la colpì sul labbro, scaraventandola di nuovo al suolo. Si rialzò sulle braccia a fatica, piena di rabbia e frustrazione. «Chi è stato?» urlò «Chi ha osato...» Incrociò gli occhi severi di Dorian, la mano levata su di lei. Per un po’ rimase immobile, lo sguardo perso nel vuoto. Tutt'intorno era calato il silenzio. Poi si alzò, lentamente, scuotendosi la polvere di dosso. Quando rialzò il capo, il consueto irritante sorriso era riapparso. «E' così, allora» disse. Guardò in volto i compagni d’armi, uno ad uno, soffermandosi infine su Dorian. La sua voce, come il suo sguardo, era fredda, priva di emozione. «Non c’è più nulla da dire, tra noi. Non c’è più nulla da spartire.» Girò le spalle. «Me ne vado, e nessuno potrà impedirlo.» Dorian, preso in contropiede, cercò di bloccarla: «Aspetta, figlia!» esclamò, e l’afferrò per un gomito. Kyra si scrollò la mano di dosso. «Non sei mio padre» disse «Non lo sei mai stato.» Si aprì il cammino tra i soldati, e si allontanò. Nessuno cercò di fermarla. Scomparve dietro al torrione, senza mai voltarsi indietro.
----Più tardi, quello stesso giorno, Dorian si allenava con la spada. A pranzo non era riuscito a mandar giù neanche un boccone, e adesso cercava di far sbollire la tensione con una buona dose di esercizio. Con la sua lama assaltava nemici immaginari, ora affondando, ora parando, ora sferrando micidiali fendenti. I movimenti fluivano naturalmente attraverso il suo corpo, esprimendo un concentrato di forza e agilità, frutto di anni di lotte costanti. Il sole di inizio primavera, superato lo zenit, ardeva pallido nel cielo, ma non riusciva a scaldare la terra coi suoi raggi. Ignorando la stanchezza, Dorian continuò l’allenamento. Benché il sudore gli colasse a fiumi dalla fronte, e il dolore cominciasse a farsi sentire, sapeva di non volersi fermare. La fatica era un vero toccasana per sfuggire alle preoccupazioni del presente. E scacciare dal cuore la dolorosa immagine di Kyra che si allontanava… Per quanto cercasse di proiettare tutto se stesso nella scherma, non poteva fare a meno di pensare a lei, al suo sorriso strafottente. Soltanto ora che temeva di averla perduta, capiva quanto affetto provasse per lei. Era come se una parte di sé l’avesse abbandonato, lasciandolo monco. Al di là di tutti i litigi e le incomprensioni, non aveva mai smesso di amarla, come un padre ama la propria figlia. «Eppure non è mia figlia» rifletté «Non nel vero senso della parola. Ma ho fatto del mio meglio…» Da quanto tempo si conoscevano? Anni, e non pochi. Fin da quel giorno... «Abbiamo camminato abbastanza» disse Abel. Dorian si guardò attorno. Era un villaggio miserabile. Poche case, molta sporcizia. Negli occhi dei suoi compagni, lesse il suo stesso interrogativo: che ci stavano a fare, lì? Si terse il sudore dalla fronte, usando la manica già madida della camicia. L'estate stava per giungere al termine, almeno sul calendario, ma Edessa, la Dea della Natura, non pareva essersene accorta. «Cerchiamo un posto per riposare» continuò Abel. Il calore era opprimente. E l'ospitalità non fu quella che si aspettavano. Si imbatterono nelle espressioni dure di agricoltori abituati a lottare contro gli stenti, privati di ogni buon cuore da una vita che sottraeva loro più di quanto offrisse. Di porta in porta, chiesero acqua fresca e un posto
all'ombra, ma ricevettero soltanto sguardi ostili, quando non insulti e minacce. Dorian ne fu sorpreso. Era il primo luogo in cui il Bianco Viandante non venisse riconosciuto e rispettato. Dopo parecchi tentativi infruttuosi, persino Abel si convinse che era fatica sprecata, e li condusse fuori dal villaggio. Si imbatterono in un rozzo ponte di pietra sopra a un torrente. Il ricordo di ciò che videro su quel ponte avrebbe sempre strappato un sorriso a Dorian. Due ragazzetti, sudici e mal vestiti, giravano in cerchio attorno a una ragazzina molto più giovane di loro, e grande appena la metà. I due scalciavano e strepitavano, cercando di spaventarla, ma lei restò impassibile in mezzo al ponte. Guardava fisso di fronte a sé, con una risolutezza che pareva fuori luogo in una figura tanto minuta. «Figlia di nessuno!» la schernì uno dei bulli, aprendo la bocca in un sorriso sdentato «Scappa dalla mamma, su!» «Non può!» rimbeccò l’altro, con falsa compassione «Sua mamma è sottoterra, con il resto della famiglia!» Ridendo compiaciuto, il bullo si piazzò di fronte alla ragazzina. La squadrò dall'alto in basso, in attesa di una reazione. Lei alzò gli occhi, senza scomporsi, e finse di annusare l’aria. Con voce seria, esclamò: «Che fetore! Dovresti farti un bagno.» Dopo un istante di attonito stupore, il ragazzo si scagliò su di lei. Era certo di travolgerla col proprio peso, e vendicare così l'oltraggio subito. La ragazzina, con incredibile prontezza di riflessi, si scostò di quel tanto che bastava a schivarlo, e gli fece lo sgambetto. Il bullo, lanciato in avanti senza controllo, piombò strillando nelle acque limacciose del torrente, e rimase inchiodato sul fondo con le gambe all’aria. L’altro bullo, livido in volto, tentò di colpire la ragazzina con un pugno, ma questa lo evitò facilmente e si portò alle sue spalle con un unico, fluido movimento. Prima che lui potesse voltarsi, lo colpì alla base del collo col taglio di una mano, strappandogli un grido di dolore, e con un calcio nel didietro lo spedì in acqua a far compagnia all'altro. Presto i due furono di nuovo in piedi, immersi nel fango fino alle ginocchia, le bocche traboccanti di insulti. Ma non appena lei mosse un passo verso di loro, sbiancarono in volto. Scapparono sull’altra sponda del torrente, lanciando sguardi terrorizzati alle proprie spalle, come se avessero un mostro alle calcagna. La bambina rimase ferma ad osservarli, le labbra increspate in un ghigno di soddisfazione. Pur trovandolo un poco inquietante, Dorian ne rimase colpito. A questo punto, poteva ricordarlo come se fosse ieri, Abel l'aveva indicata con un radioso sorriso: «E’ una di noi.» Realizzarono che da allora in poi quella curiosa ragazzina sarebbe entrata a far parte della Compagnia, per quanto la cosa potesse sembrare strana. Del resto, era sempre Abel a decidere. E in quel caso non aveva dimostrato alcuna esitazione. Dorian, inspiegabilmente attratto dalla figura minuta che ora li osservava dal ponte, incuriosita, si fece avanti. La bambina lo squadrò con interesse, senza mostrare il timore che il guerriero si aspettava. Con la punta di un dito, sfiorò il fodero della spada che lui portava appesa al fianco. Dorian percepì all'istante la presenza di un sottile legame tra loro due. Le chiese il nome. «Kyra» rispose lei, con voce ferma. Ciò che era accaduto in seguito era sfocato nella sua memoria. Si rammentava ancora, però, della piccola Kyra, spettinata e cenciosa, nell’atto di ricondurli all’interno del villaggio, per nulla a disagio in mezzo a quel bizzarro gruppo d'uomini vestiti di bianco, sconosciuti e per di più armati. Seppero dalla sua bocca che i genitori erano morti pochi mesi prima, vittime di una malattia. Era un’orfana, perciò, ma dalla freddezza con cui affrontava l’argomento si intuiva che il suo legame coi genitori non era mai stato forte. Era una triste realtà, nelle regioni arretrate del Regno. Spesso e volentieri, le figlie femmine erano considerate alla stregua di serve, e passavano l’infanzia senza ricevere un solo sorriso o un abbraccio. Dopo la morte dei suoi genitori, spiegò loro Kyra in modo quasi meccanico, era stata affidata a una parente alla lontana.
La conobbero poco dopo, affacciata alla porta di casa come un mastino: una donna severa, imponente, che già di suo aveva quattro figli da sfamare. Quando Abel le chiese il permesso di portar via con sé la ragazzina, dietro giusto compenso, i suoi occhi porcini non seppero celare l'interesse. Poi Abel rivolse la stessa domanda a Kyra. Lei lo osservò con occhi pieni di meraviglia. Molte volte, in futuro, avrebbe commentato quell'episodio con Dorian, ridendo. Era la prima volta che vedeva un uomo così... luminoso! Come gli angeli delle storie... Ed era la prima volta che qualcuno chiedeva il suo parere su qualcosa. Acconsentì senza esitare. Soltanto quando varcò per l'ultima volta la soglia della povera casa, si soffermò, incerta. Dorian le fu accanto, la prese per mano, e le sorrise con calore. Lei lo fissò con grandi occhi tristi, poi sorrise a sua volta, confortata, e gli strinse la mano. Camminarono insieme, alle spalle del Bianco Viandante, verso il futuro. Da quel giorno, Kyra era sempre stata al loro fianco, nella buona e nella cattiva sorte, maturando fino a trasformarsi in una splendida donna. L’avevano addestrata e protetta, benché fosse presto diventata più abile della maggior parte di loro. Dorian le era stato vicino più di chiunque altro, assumendo il ruolo di un padre. In tutti i migliori ricordi che aveva degli ultimi anni, Kyra era sempre accanto a lui, sorridente e fiduciosa nel futuro, innamorata della propria causa, come lui, come tutti loro... Poi, l’incidente. La scomparsa di Abel. E adesso, la rottura. Dorian si accorse di aver interrotto l’allenamento, sopraffatto dai ricordi. La spada gli pendeva al fianco, inerte. Il suo petto si alzava e abbassava ritmicamente in cerca di ossigeno. Udì un rumore di passi, e notò che Raduan si avvicinava con aria imbarazzata. Quando si accorse del suo sguardo, l'amico gli fece un cenno di saluto, le labbra atteggiate a un sorriso incerto. «Non affaticarti troppo, comandante!» lo schernì «Non vorrei doverti portare in spalla fino al dormitorio…» Dorian gli sorrise di rimando. «Non c’è pericolo per me. Tu, piuttosto, avresti bisogno di sudare un po'. Mi sembri fuori forma...» Raduan rise, ma da come evitava di guardarlo negli occhi si poteva intuire il suo disagio. «Dorian» disse, dopo un attimo di esitazione «Sono venuto a scusarmi per stamattina. So quanto stai soffrendo, ed è anche a causa mia.» Si grattò la nuca, guardandosi le punte dei piedi. «Mi dispiace, sul serio. Forse, se fossi stato meno impulsivo, tutto questo non sarebbe successo. Ho agito come uno stupido, e ho finito per combinare un disastro!» «Non darti pena» rispose Dorian «Per quanto mi riguarda, non hai colpe. Lo sapevamo tutti. Era destino che prima o poi Kyra facesse una sciocchezza come quella.» Scosse la testa. «E’ sempre stata una testarda, ma oggi ha davvero passato il limite. La tua rabbia era più che giustificata, così come la mia.» Osservò per un po’ il riflesso del sole sulla lama della spada, prima di continuare, con voce incerta: «Comunque sia, penso che la rivedremo prima di quanto tu creda. Bene o male, siamo sempre la sua famiglia, l'unica che ha. Quando le sarà sbollita la rabbia, tornerà, e noi saremo pronti a riaccoglierla, senza inutili rancori.» Non ne era affatto convinto, in realtà, ma era il tipo di menzogna che lo faceva star meglio. «Spero sia come dici. Sì, devi aver ragione» assentì Raduan. La sua espressione, però, mostrava scarsa convinzione. Si agitò un mano davanti al volto, come per scacciare una mosca. «Cosa faremo, a partire da oggi?» domandò. E subito, con un mezzo sorriso: «Ho l’impressione che qui non siamo più i benvenuti. Le occhiate che ci lanciano per strada non sono molto rassicuranti. Che razza di riconoscenza!» «Certe cose non cambieranno mai» rispose Dorian, scuotendo la testa «Ma stavolta dovranno
portare pazienza, e prepararsi ad ospitarci un altro po’ di tempo. Non tutti, però: tu ed io partiamo domani all’alba.» Raduan inarcò un sopracciglio. «Perché soltanto noi? E dove siamo diretti?» «In cerca di risposte, amico mio. E questa volta voglio attingere alla fonte più ricca del Regno.» «Mmm! Zontar, non è vero?» «Hai capito al volo, come sempre. Da quando Iarmin ha detto quelle cose, ieri notte, ci ho riflettuto parecchio.» Si terse il sudore dalla fronte. «Sai bene quanto me che può essere una pista, per condurci ad Abel. Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a interpretarla.» Raduan concordò: «L'istinto mi dice che hai ragione. E ho imparato a fidarmi ciecamente di lui.» «E’ deciso allora» concluse Dorian «Domani cavalcheremo alla volta della Torre Grigia!» «Zontar…» Raduan pronunciò il nome con grande rispetto «Non pensavo che un giorno avrei fatto la conoscenza del famoso Saggio! Se davvero sa qualcosa su Abel, o sulla Valle della Luna, non esiterà ad aiutarci, vero?» «Sempre che possa riceverci in tempi brevi. Mi è giunta voce che è il Primo Consigliere del principe Feledan. Un’ottima notizia. Il principe ha bisogno di qualcuno che gli indichi la giusta via.» «Già, è una buona notizia. Ma mi preoccupa quel che ci attende lungo il cammino. Hai visto cosa è successo a Iarmin. Dovremo guardarci le spalle...» «Senza dubbio, Raduan. Per questo ho scelto te come compagno di viaggio, e ho già in mente qualche altro nome. Non voglio correre alcun rischio, ma dobbiamo muoverci in fretta: la torre di Zontar dista appena due settimane, per un gruppetto d'uomini a cavallo. Il resto della Compagnia rimarrà ad attenderci qui a Bezer, al sicuro.» «Ben pensato» dichiarò Raduan, animato dalla prospettiva di rimettersi in viaggio «Speriamo che questa sia la volta buona. Non possiamo continuare a girare a vuoto.» «Ne sono certo. Presto la fortuna tornerà a sorriderci!» Afferrò l’elsa della spada con le due mani, e si mise in posizione di difesa, una luce di determinazione negli occhi. «E adesso vai, soldato! Non distrarmi oltre con le tue chiacchiere, sto cercando di allenarmi!» «Sissignore!» rise Raduan, assumendo una posa marziale «Vado ad occuparmi delle vettovaglie, signore!» Girò sui tacchi, e si allontanò ad ampie falcate. Dorian, tornando a concentrarsi, cercò di scacciare dalla mente le angustie e i dubbi del presente. Focalizzò la propria attenzione sulla punta della spada. Con un grido di guerra, attaccò. Forse l'ora stava per arrivare. Forse avrebbe finalmente trovato una risposta all'interrogativo che da mesi gli rodeva la mente. «Il tuo sacrificio non è stato invano» pensò, dipingendosi nella mente l'immagine di Iarmin «Troveremo, Abel, te lo giuro, e lo riporteremo a casa!»
V - Storie di Mare
Kyra camminava spedita attraverso i campi, lungo la polverosa strada di terra rossastra. Non aveva incontrato molti viaggiatori lungo il cammino, al più qualche sparuto gruppo di mercanti, i carri carichi di merci pesanti come tartarughe Due giorni erano passati da quando aveva abbandonato la Compagnia del Viandante, due preziosi giorni di libertà! Pur priva di idee chiare sul proprio futuro, sentiva che era stata una giusta decisione. Erano settimane che meditava la fuga, senza mai decidersi a metterla in atto. Ma la morte di Iarmin era stata l’ultima goccia, uno scorcio di visione su un futuro che non poteva tollerare. Affrettò il passo, come se muoversi più in fretta potesse aiutarla a distanziare i cattivi ricordi. Da tempo aveva perso fede nella causa della Compagnia, da prima ancora della scomparsa di Abel. Non riusciva più a comprendere, né tanto meno a condividere, le loro motivazioni. Non li capiva. E che dire di Dorian? Quando pensava a lui, vedeva un grande vuoto. L'aveva schiaffeggiata davanti a tutti, maledizione! Forse se l'era meritato, ma... No, da lui non se lo sarebbe mai aspettato. Da Raduan forse, ma non da lui. E perché mai continuava a rimuginare su quello squallido episodio? Un giorno avrebbe fatto i conti con entrambi. Per adesso, era acqua passata. Un nuovo cammino si apriva davanti a lei, un cammino che l'avrebbe portata lontano dalla Compagnia e dalle sciagure che le correvano appresso. Si augurò di aver mascherato bene il motivo della sua diserzione. La messinscena dello stendardo era andata a gonfie vele - a parte quel finale umiliante. Se davvero avesse voluto rubarlo, non se ne sarebbero mai accorti, questo era certo. Il suo obiettivo era un altro. Voleva un buon pretesto per andarsene, e se l'era procurato. Perlomeno nessuno avrebbe sospettato la vera ragione, descrivibile con una sola semplice parola, una parola che le bruciava dentro come un tizzone ardente. L'aveva odiata fin da piccola, quando i suoi genitori erano morti, aveva giurato che mai e poi mai le avrebbe permesso di dominarla. Ma chiudere gli occhi, adesso come allora, non sarebbe servito a farla sparire. Paura. Pura e semplice paura. Ecco, l'aveva pensato. Paura di essere inghiottita dalla morte, paura di veder soffrire, impotente, le persone che amava, in nome di una missione fasulla e inutile. Dov’era Abel? Aveva irretito lei e tutti quanti con le sue ipocrite storie sulla salvezza del mondo, li aveva gettati in pasto ai leoni per anni, con la vaga promessa di un futuro migliore... e poi era fuggito nella notte, come un ladro! Che senso aveva? Perché mai le era toccato perdere un occhio - e molti altri la vita servendo i suoi scopi come un cagnolino ammaestrato? Imprecò ad alta voce. Si sentì improvvisamente triste, e stupida. Sciocca, sciocca idea, quella dello stendardo! Non c'era un altro modo, meno drastico? Aveva finito per scavare un abisso tra sé e i vecchi compagni. Dorian, Raduan.... Adesso tutti la odiavano! Non era questo che voleva. Voleva solo andarsene, seguire la sua strada. Se soltanto avesse potuto rifarlo... «Bah, lascia stare!» si disse «Devi pensare al presente, e al futuro!» Sì, non era uno scherzo. Doveva cavarsela da sola, a partire da adesso. Riempì i polmoni d'aria fresca, e si sentì percorrere da una corrente di energia positiva. Aveva fiducia nei propri mezzi, poteva farcela senza problemi. Una nuova vita, lontana dalle responsabilità e dalla maledetta paura! A Dekka, la maggiore città portuale di tutto il Regno, sulla costa meridionale del Mare Interno. Ne aveva sentito parlare più di una volta, durante le peregrinazioni della Compagnia, e sempre le era stato descritto come un luogo intrigante, caotico e variopinto oltre ogni misura, proprio il genere di posto dove avrebbe potuto tagliare i ponti col passato.
Dekka! Il mare! Spinta da questi pensieri, accelerò di nuovo il passo, fischiettando un motivo allegro. Verso sera giunse a una biforcazione. La via maestra proseguiva verso Ovest, perdendosi dietro a una collina. Un’altra strada, più stretta e piena di buche, scendeva in declivio verso Nord. Kyra la seguì con lo sguardo, e ciò che vide le gonfiò il cuore di contentezza: l’ampia superficie blu del Mare Interno, increspata dal vento sotto i raggi del tardo sole pomeridiano, si stendeva ai piedi del colle, dove un piccolo villaggio di pescatori andava incontro alle acque. Esultò dentro di sé, e si rese conto di aver camminato davvero molto, e di gran carriera: non contava di raggiungere la costa prima del pomeriggio seguente, e invece eccola là, ai suoi piedi, invitante e ricca di promesse! Era ansiosa di proseguire il viaggio, e raggiungere Dekka quanto prima, ma aveva ancora parecchia strada di fronte a sé. Meglio attendere il mattino successivo, per viaggiare riposata e in piena luce del giorno. Si accorse di aver anche una gran fame: non faceva un pasto decente da giorni, e si sentiva esausta. Rivolse lo sguardo al villaggio in fondo al declivio: un filo di fumo si alzava dal comignolo di una costruzione che aveva tutta l’aria di essere una taverna, o meglio ancora una locanda. Non aveva che poche monete in tasca, ma le sarebbero bastate per pagare del cibo e un boccale di limpaq, magari persino un bagno caldo e un letto. Impiegò meno di un quarto d’ora per scendere ai piedi del colle. Entrò nel villaggio per la via principale, pavimentata di pietre lise e sconnesse. Il centro abitato si estendeva fino a ridosso del mare, che formava un’ampia insenatura bordata di scogliere. Sulle prime, a causa dell’aria salmastra e dal forte odore di pesce, ebbe la tentazione di tapparsi il naso con le dita, ma si trattenne per non incuriosire i passanti. Precauzione inutile, giacché non incontrò anima viva lungo la via, a parte un paio di gatti dall’aria infreddolita. Proseguì quasi alla cieca nel fulgore del tramonto, finché la via non si aprì su un modesto porticciolo. Basse onde sciabordavano ritmicamente contro i moli e le barche ormeggiate, causando un lieve rollio degli scafi. Notò come ogni imbarcazione, dalle più piccole, a remi, a quelle dotate di albero e vela, fosse carica di reti, arpioni e altri arnesi da pesca, a lei ignoti. Alcuni pescatori stavano tornando a riva, facendo leva sui remi. Altri, lungo la banchina, ripulivano e sistemavano l’attrezzatura per il giorno seguente. Kyra ristette per alcuni istanti ad osservare il paesaggio tranquillo, lasciando che il senso di quiete scivolasse in lei. Per la prima volta fu ben consapevole della stanchezza che si portava appresso. Era ora di trovarsi una sistemazione. Gettò uno sguardo d’insieme alla piazzetta, alle cui spalle le abitazioni si addensavano in gran numero. Ancora più indietro, il villaggio era dominato da alte pareti rocciose, punteggiate di nidi di gabbiano. I volatili facevano la spola tra i loro rifugi e un mucchio di avanzi di pesce, ammassati di proposito dai pescatori affinché gli uccelli potessero dare il proprio contributo alla pulizia del villaggio. Disgustata dal fetore, Kyra distolse lo sguardo dai gabbiani. Abbandonò i moli, preceduta dalla propria ombra, in cerca di una locanda dove cenare e passare la notte. Non le fu difficile distinguere, tra le case dalle pareti scrostate, la taverna che aveva scorto dalla cima del colle. Dalle finestre illuminate proveniva il chiacchierio di una moltitudine. Prima di entrare, lanciò un'occhiata alla curiosa insegna appesa sopra alla porta: il disegno rappresentava un leone, ritto sulle zampe posteriori, in posa a dir poco grottesca. Una scritta, appena sotto l’immagine, recitava: “Al Leone Danzante”. Kyra, che in passato aveva già sofferto l'incontro con una di quelle belve, fallì nel tentativo di vedersela impegnata in un’attività tanto frivola. Sogghignando, spalancò la porta ed entrò nel locale. «Ci avrei scommesso…» pensò, quando le chiacchiere morirono tutte d’un colpo, e decine di facce barbute si voltarono a squadrarla. Si sforzò di ignorare gli uomini, che avevano smesso di bere per fissarla meravigliati, e avanzò verso il bancone. Vi poggiò sopra una moneta. «Limpaq» ordinò. L’oste, un uomo paffuto e sudaticcio, dai baffi cisposi, strabuzzò gli occhi un paio di volte, poi distese le labbra in uno smagliante sorriso e intascò il denaro.
«Certo, ragazza, ti servo subito!» Nel locale persisteva un innaturale silenzio. Rivolto a nessuno in particolare, l'oste esclamò: «Beh, qual è il problema? Non avete mai visto una donna prima d’ora? Tornate ai vostri boccali, depravati, o vi caccio da qui a pedate nel didietro, quant’è vero che sono io!» La roboante dichiarazione fu accolta da fischi e risate. Kyra, innervosita da tutta quell'attenzione indesiderata, sorrise con imbarazzo e trangugiò una boccata di liquido scuro dal boccale. Finché l’interesse degli altri avventori non scemò, tenne lo sguardo fisso sulla superficie macchiata del bancone, sorseggiando la forte bevanda di radici fermentate. «Da queste parti» esordì l’oste, indicando il boccale «Arricchiamo il limpaq con siero di alga verde. Gli dà un certo spessore, non trovi?» «E’ così, in effetti» rispose lei, che pure non apprezzava troppo la bevanda, preferendole di gran lunga i delicati vini di Ritanat, o l’inebriante Nettare di Rose prodotto nella provincia di Miridia, nel meridione. Espresse i suoi pensieri ad alta voce. L’oste, ridendo, affermò che i gusti di lei erano quelli di una raffinata intenditrice. Ben lontani da quelli dei suoi primitivi compaesani, per i quali la quantità di una bevanda era un metro di giudizio ben più importante della qualità! «Cosa porta qui a Mirna una ragazza come te?» chiese poi «Non hai certo l’aria del marinaio!» Con la coda dell’occhio, studiava la cicatrice sul volto di lei. Kyra, titubante, replicò di essere in viaggio verso Dekka. Poi, di fronte alle domande via via più importune dell’uomo, diede ad intendere di essere una guerriera mercenaria in cerca di fortuna. Non tralasciò di sottolineare, con una punta di divertimento, l'ansia di riprendere la sua violenta attività. L’oste colse il senso delle sue allusioni, e prese a considerarla con maggiore rispetto, se non con una sfumatura di sano timore. «Certo non sono il tipo di donna che ti aspettavi» pensò lei, pensando alle obbedienti mogli dei pescatori, chiuse in casa ad attendere il ritorno dei mariti dalla bevuta serale. «Come mai questa taverna ha un nome tanto bizzarro?» chiese, per sviare da sé la conversazione. «Bizzarro?» sbuffò l'oste, con espressione contrariata «Vorresti dire che trovi assurda l’idea di un leone ballerino?» «Beh...» «Lo sapevo!» la interruppe, agitando un boccale a mezz’aria «Alla fin fine anche tu ragioni come queste zucche vuote di pescatori! Se non lo vedi, non ci credi!» «Non ti offendere, oste. Hai avuto una bella fantasia nello scegliere il nome, ma...» «Fantasia, dici? Eppure ero là quando successe! A quei tempi lavoravo come mozzo sulla Jin Riew, la più grande nave mercantile che abbia mai solcato il Mare Esterno!» «Interessante...» «Puoi dirlo forte! Navigammo per mesi a ridosso di coste inesplorate, e non posso descrivere quante baie favolose vidi, più belle ancora dei racconti degli altri marinai, te lo assicuro! Spiagge infinite di sabbia bianca e finissima, palme cariche di frutti, e un’acqua talmente azzurra da sembrar dipinta!» Sgranò gli occhi e si sporse più vicino a lei: «Un giorno, dal ponte della nave, udimmo ruggiti spaventosi: ed ecco che dalla foresta uscì una fila di belve spaventose, tutte artigli lucenti e criniere rosso fuoco! Leoni, come quello disegnato qua fuori! Vennero sulla spiaggia, guardandoci fisso, come per sfidarci ad attraccare. E dopo un po'…» Fece una pausa, prendendo fiato. Poi concluse, con le braccia al cielo: «Si misero a danzare! Lo giuro sull'anima della mia povera madre! Tutte quelle bestiacce, in equilibrio su due zampe, saltellando come ballerine! Roba da non credere, è stato lo spettacolo più assurdo che abbia mai visto!» «E quel giorno non ti eri scolato neanche un goccio, vero?» rise un giovane seduto lì accanto. «Accidenti a te!» ribatté l’oste, dandogli una manata sulla testa «Sempre la stessa storia! Non dargli retta, ragazza! Questi buoni a nulla sono sempre pronti a criticare, ma non sanno nemmeno di che si sta parlando!» Scoccò un’occhiataccia al giovane. «E, per tua informazione, giovane
insolente, quel giorno ero del tutto sobrio!» aggiunse ad alta voce, a beneficio di Kyra e di tutte le orecchie in ascolto nei paraggi. Altre risate, e commenti salaci. «Va bene, ti credo!» disse Kyra, diplomatica. Lei stessa sarebbe diventata lo zimbello del locale, se si fosse messa a raccontare anche soltanto una piccola parte delle sue avventure al seguito della Compagnia del Viandante. Come quella volta che Raduan, senza volerlo, aveva disturbato il sonno di una colonia di scimmie vampiro del Manto Verde... Quanto avevano corso, con le armature e tutto! Una volta in salvo, Dorian aveva dovuto calmare gli animi per impedire che lo linciassero. Ma alla fine avevano fatto pace, come sempre, con una sbronza collettiva! Persino Abel aveva perso un po' del suo contegno, danzando alle seducenti melodie dei flauti, attorno al falò... «Basta!» si impose. Non erano passati che due giorni, e già affiorava la nostalgia! Un pessimo inizio... Per distrarsi, e per calmare i brontolii dello stomaco, ordinò un trancio di pesce alla brace dal profumo molto invitante. Mangiò con gusto, senza più badare alle incessanti chiacchiere che l’oste continuava a riversarle addosso. Era appena a metà del pasto, quando un sonoro schianto alle sue spalle le fece andare di traverso un boccone. Alzò la testa dal piatto e, seguendo lo sguardo allarmato dell’oste, registrò l'arrivo di due tizi nerboruti, mezzi ubriachi. Si piazzarono davanti a un tavolo d’angolo, occupato da un vecchio dall’aria truce. Uno dei due brandiva a mezz’aria uno sgabello di legno, col quale aveva già fracassato un tavolo e mandato in frantumi parecchi boccali. «Non di nuovo!» ringhiò l’oste, rosso in volto. I presenti crearono il vuoto attorno al vecchio seduto. Questi, da parte sua, rimase fermo dov’era, osservando con calma i due energumeni che lo fronteggiavano con intenzioni tutt’altro che amichevoli. «Dannato vecchio!» ruggì uno degli aggressori, sbattendo i pugni sul tavolo «Per colpa tua facciamo la fame tutti quanti!» «Sciocchezze...» replicò il vecchio, sostenendo il suo sguardo carico d’odio. «Sciocchezze, dici? Hai provocato l’ira dei Custodi, e ti sembra una sciocchezza?» Il vecchio allargò la bocca in un sorriso beffardo. «Bastardo!» rincarò la dose il secondo uomo «Farai meno lo sbruffone, quando ti avrò spaccato la testa!» Il vecchio sputò in terra, ridendo. L’uomo con lo sgabello non ci vide più: sollevò l’arma improvvisata, con l’intenzione di calarla sul cranio del vecchio. Ma, sul più bello, si trovò a stringere l'aria tra le dita. Si voltò per capire cosa fosse successo, e all’improvviso quello stesso sgabello che era sfuggito alla sua presa gli ripiombò dritto sul naso, scaraventandolo a terra gambe all’aria. Imprecò e fece per rialzarsi, col volto coperto di sangue. «Fossi in te non lo farei» gli suggerì Kyra, lasciando cadere lo sgabello con cui l'aveva colpito. Si mosse con estrema rapidità, piazzandogli la punta di un pugnale a un dito dalla gola. Il bestione si immobilizzò, in ginocchio. Il suo compagno, esterrefatto, si ritrovò nella medesima situazione, con una lama poggiata sul collo. «Adesso state buoni, e nessuno si farà del male» dichiarò Kyra, col tono di chi ha tutto sotto controllo. Quello in ginocchio ringhiò e cercò di rialzarsi, ma fu sufficiente una lieve pressione della punta acuminata sul collo per farlo desistere. Con una sonora imprecazione, il vecchio mostrò il suo apprezzamento per l'inatteso salvataggio: «Se non lo vedessi con i miei occhi non ci crederei: due stupidi bestioni messi al tappeto da una ragazzina!» «Che hai detto?» esplose uno degli energumeni, incurante della pressione della lama. Per poco Kyra non venne respinta, ma un calcio ben assestato risolse la situazione. «Credevo di essere stata chiara» ribadì, digrignando i denti «Nessuno alza un dito se non lo dico
io. E tu, vecchio, non mi stai aiutando granché! Tappati quella bocca, o giuro che me ne vado!» «Certo, ragazza, certo!» si affrettò a replicare il vecchio, esibendo un sorriso sdentato «Fa’ pure come se non ci fossi, non ti darò altri fastidi!» L'oste, teso in volto per la brutta piega che stavano prendendo gli eventi, si fece avanti. «Che sta succedendo? Accidenti a voi, non potreste andare a litigare da un’altra parte? Proprio qui dovevate venire!» «Dillo a questi due: la colpa è loro» ribatté Kyra, sprezzante. «E tu perché ti sei messa in mezzo? Non potevi lasciare che la faccenda si risolvesse da sola?» «Ma che stai dicendo? Avresti lasciato che se la prendessero con un vecchio?» «Bah, me la sarei cavata anche da solo!» sentenziò quest’ultimo. «Fatti sotto, allora, miserabile!» esclamò uno dei bestioni, sempre sotto il rigido controllo di Kyra. «Ah, non qua dentro, però!» esclamò l’oste «Nel mio locale nessuno fa’ a pezzi nessun altro, capito?» E tutti quanti presero a sgomitare e a insultarsi, creando una tale confusione che a Kyra parve di trovarsi nel mezzo di una gabbia di matti. «Adesso basta!» ruggì, ai limiti della sopportazione «Fate silenzio!» «Perché mai dovrei...» «Ho detto silenzio!» urlò a pieni polmoni. Tutti si zittirono, osservandola, compresi gli altri avventori del locale, che avevano formato un cerchio per meglio godersi la scena. Una volta riconquistata la calma, Kyra prese a dare disposizioni, e la durezza del suo tono non ammetteva repliche: «Voi due: alzatevi e uscite. E fatelo di corsa, prima che cambi idea. Se vedrò ancora in giro le vostre facce, giuro che vi ridurrò in modo tale che le vostre mogli non vi riconosceranno più! Tu, oste, torna dietro a quel bancone a fare il tuo mestiere, e smettila di dire sciocchezze. Quanto a te, vecchio, resta seduto buono e zitto, e ringrazia di essertela cavata così a buon mercato!» Controvoglia, gli aggressori si avviarono verso l’uscita, scuri in volto. «Non finisce qui, vecchio! La pagherai, prima o poi!» esclamò uno dei due, voltandosi a un passo dall’uscita. Ma si mise a correre, quando Kyra lo fulminò con uno sguardo tagliente quanto le lame dei suoi pugnali. L’oste, pur avendo voglia di protestare, tornò al suo posto mugugnando. Gli altri fecero lo stesso, e in breve il capannello di curiosi si dissolse così come si era formato. Kyra ristette ancora un po' sulla difensiva, prima di rinfoderare le armi. Quindi fronteggiò il vecchio, che la studiava con aria incuriosita. «Puoi dirmi per quale sacrosanto motivo quei due ce l’avevano con te?» chiese Kyra. Dopo essersi esposta così, voleva almeno sapere perché. «Siedi al mio tavolo» disse il vecchio, sorridente «Bevi qualcosa con me. Offro io, è il minimo che possa fare per sdebitarmi.» «Tanto non ho più appetito» pensò Kyra. Abbandonò dov’era il pasto appena cominciato, e si sedette al tavolo di fronte all’uomo. Accavallò le gambe, poggiò il mento sulle dita intrecciate. «Sono tutta orecchi» disse. «Bene» rispose il vecchio, senza ritrarsi dinanzi allo sguardo diretto di lei «Tanto per cominciare, grazie per essere intervenuta. Continuo a credere che me la sarei cavata anche da solo, ma sono contento che una bella ragazza come te abbia voluto darmi una mano.» Le strizzò l’occhio, ricevendo in cambio un brontolio di avvertimento, e decise di lasciar perdere le galanterie. «Il mio nome è Ezer, e sono un pescatore, come chiunque altro da queste parti. Te la cavi bene con le armi, per essere una donna. Come ti chiami?» «Mi chiamo Kyra, e non sopporto gli sbruffoni. Soprattutto quelli di sesso maschile» rispose lei, continuando a fissarlo negli occhi. «Ho recepito il messaggio» replicò Ezer «Se tu non vuoi parlare, parlerò io.» Si schiarì la gola. «Non è la prima volta che se la prendono con me, quei due, o degli altri. Negli ultimi tempi, non
sono molto popolare.» «Cos’hai combinato, per farti così benvolere?» «Nulla. Ho soltanto cercato di non morire di fame...» «Che intendi dire?» «Quello che ho detto. Che preferisco infrangere qualche vecchio tabù, piuttosto che restare una settimana a stomaco vuoto.» «Vieni al punto!» lo sollecitò Kyra, irritata da quel girare intorno alla questione. Ezer avvicinò il volto rugoso e barbuto a quello di lei. «É una storia piuttosto sciocca, se mi dai retta. Ma, visto che sei curiosa... Qui a Mirna manca di tutto, ma non siamo certo a corto di leggende e superstizioni. Una di esse ha a che vedere con i Custodi della Baia...» Kyra lo lasciò parlare. «Si narra che molto tempo fa, e parlo di centinaia di anni orsono, i nostri antenati giunsero al Mare Interno dall'oriente. Lo trovarono abitato da una strana razza di esseri, metà uomo e metà pesce, che vivevano in grotte sottomarine lungo la costa.» Lei alzò un sopracciglio, scettica. «Lo so, lo so» Ezer si affrettò a replicare «Sembra una storia per bambini, e probabilmente lo è. Comunque, nessuno dei miei antenati aveva mai visto il mare: rimasero abbagliati dalla distesa d’acqua, e dalla bellezza di quelle creature. Furono proprio gli uomini-pesce, secondo la tradizione, a insegnar loro a costruire barche, navigare, pescare. Per lungo tempo le due razze andarono d'amore e d'accordo: c'era spazio per tutti.» Si interruppe, sputò in terra senza tante cerimonie, poi riprese: «Ma un giorno, a causa di un atto di cui si è persa la memoria, la pace venne meno, e vi fu grande spargimento di sangue tra le due razze. Gli uomini erano inferiori per mezzi e abilità, benché maggiori in numero. Pareva che per loro la fine fosse segnata.» «Ma siete ancora tutti qui, per cui qualcosa dev'essere accaduto...» «Puoi dirlo forte, ragazza. La salvezza giunse dalle profondità del mare, l'unico luogo nel quale gli uomini non l'avrebbero mai cercata. Apparvero dal nulla immensi branchi di pesci dorati: il loro tocco era mortale per gli abitanti delle grotte marine. Al loro passaggio, si ritrassero in preda al terrore, e scomparvero negli abissi uno dopo l'altro. Una volta messi in fuga i nostri nemici, gli stessi pesci dorati svanirono, tutti tranne poche decine che da allora popolano la baia, come a volerci offrire protezione.» Ezer si inumidì la gola con un sorso di limpaq, prima di proseguire il racconto. La sua voce divenne scherzosamente pomposa: «Così ancora oggi, in quel braccio di mare noto come Acque della Salvezza, vive un branco di nobili pesci dorati, chiamati Custodi della Baia, in memoria della leggenda. Essi simboleggiano la benevolenza degli Dei, e rammentano agli uomini le lotte dei tempi antichi e la pace duramente conseguita!» Rise. «Così proclamerebbe il nostro caro sindaco, almeno...» Kyra fissò Ezer in silenzio per alcuni istanti, in attesa. Poi, resasi conto che l’uomo non intendeva proseguire, lo interrogò: «Tutto qui?» «Sì, più o meno.» «Più o meno? E cosa avrebbe a che vedere questa assurda favola con il fatto che qualcuno ti voglia morto?» «Il punto è, come ho detto prima, che qui a Mirna le leggende contano più del buon senso.» «Ancora non riesco a capire!» «Pazienza, ragazza, pazienza. Voi giovani non avete mai né tempo né voglia di ascoltare quel che vi si dice!» Un’ombra passò rapida sul suo volto, nel pronunciare queste parole. «Ora, se me ne darai il tempo, finirò di spiegarti perché mi odiano tanto. Ancora una cosa, prima. Hai mai sentito parlare della città di Dekka?» «Certo. E’ lì che sono diretta» rispose lei, chiedendosi dove sarebbe andato a parare.
«Puah! Pessimo posto dove andare. Fossi in te, ci ripenserei» protestò Ezer, scuotendo il capo. Per tutta risposta ottenne una scrollata di spalle. «E’ tutta colpa di quell’immensa cloaca, se oggi la vita della baia è in pericolo. E quei cosi... Automi, li chiamano... Insensati ammassi di ferraglia!» Kyra aveva già sentito parlare di quei marchingegni meccanici semoventi, l’anno prima, da un mercante molto loquace. All’epoca nessuno gli aveva dato retta. In base al suo racconto, intere legioni di quegli esseri artificiali lavoravano in segretezza agli ordini del governatore di Dekka. Ma, secondo voci ben informate, vi erano aspetti scabrosi nella questione. Per questo la Guardia Cittadina insabbiava la faccenda con ogni mezzo, lecito o illecito che fosse. «Non hai la minima idea dei danni che possono causare» proseguì Ezer «Sarà pur vero che lavorano più duro di qualsiasi essere umano, e che non protestano mai. Ma per muoversi hanno bisogno di litri e litri di olio nero: lo trangugiano come una bevanda, e poi lo risputano in mare, ammorbando le acque, uccidendo i pesci e gli uccelli, soffocando ogni forma di vita!» «Sembri davvero ben informato su questa faccenda» commentò Kyra. L'uomo sbatté un pugno sul tavolo, facendola sobbalzare. «Non credermi, se non vuoi! Non saresti la prima! Ma con questi miei occhi ho visto l’alone nero spandersi sulle nostre acque, come un cerchio d’ombra… Quei pazzi di Dekka! Non si rendono conto dei danni che stanno provocando! Le correnti diffondono la malattia sul mare, fin qui, ed oltre. L’anno scorso c’è stata una terribile moria di pesci, e molti di noi sono rimasti senza nulla da mettere sotto i denti per giorni ! Io stesso me la sono cavata per un pelo, e a caro prezzo...» Kyra lo osservava assorta. «E’ successo diversi mesi orsono: da giorni gettavo la rete senza successo. Niente! Neanche un gambero! Il maledetto olio nero aveva fatto sparire tutte le creature del mare. Persino le alghe marcivano, e i pochi pesci sopravvissuti li catturavano altri, più in forze di me. Se soltanto non fossi stato solo, maledizione!» Strinse i pugni, una smorfia di rammarico sul volto. «Ma ero solo, e la fame mi portò a compiere uno dei peggiori crimini concepibili, per un abitante di Mirna: catturai uno dei pesci dorati della baia - gli unici immuni alla pestilenza - e me ne cibai.» Si batté una mano sulla fronte. «Stolto! Stordito com’ero dalla fame, non mi resi neanche conto di ciò che stavo facendo. Non mi pento di averlo mangiato – era o non era un maledetto pesce? - ma mi pento di averlo fatto senza nascondermi! Venni subito scoperto, e rischiai il linciaggio. Per mia fortuna, non tutti al villaggio sono dei fanatici ignoranti. Il vecchio sindaco e altri che mi conoscono riuscirono a calmare gli animi. Spiegarono che il mio era stato un gesto dettato dalla disperazione, e non certo dalla volontà di commettere un sacrilegio. Grazie al loro appoggio ebbi salva la vita, anche se dovetti evitare di farmi vedere in giro per un bel pezzo. Quando l'ondata di marciume lasciò la baia, le cose tornarono quasi al normale, e potei riprendere la vita di prima. Senza più amici, e senza rispetto, chiaro.» Sospirò, giocherellando col boccale tra le mani. «Sono stato in pace per un po’, ma adesso che le cose sono di nuovo difficili per tutti, ecco che ricominciano a odiarmi.» Esibì un sorriso amaro: «E’ ben più facile prendersela con un vecchio pescatore, che con un’intera città governata da uomini senza scrupoli, non trovi?» Kyra annuì con un mezzo sorriso: conosceva bene i pregiudizi ipocriti causati dalla paura e dalla superstizione. Spesso li aveva sperimentati sulla propria pelle, quando faceva parte della Compagnia del Viandante. O anche prima, quand'era un'orfana senza amici. «Come pensi di fare, vecchio?» domandò «Oggi il destino mi ha condotto qui per salvarti la pelle, ma non potrai sempre contare sulla fortuna.» Ezer diede una scrollata di spalle, come se la cosa non lo riguardasse. «Ho già un piede nella fossa… Che vuoi che possano farmi, che gli acciacchi dell’età non mi abbiano già fatto? Non mi importa granché, ragazza, puoi credermi. Anzi, forse sarebbe meglio andarmene così, un bel colpo in testa e buonanotte, piuttosto che trascinarmi avanti per anni, solo come un cane...»
«Non è la prima volta che ti lamenti della solitudine. Hai perso qualcuno?» «Non sono affari tuoi!» ribatté lui, acido. Poi, turbato, si scusò: «Cerca di capire, ragazza, ci sono cose di cui neanch’io parlo volentieri. Tu, piuttosto, perché non mi dici una buona volta cosa ti ha spinto da queste parti?» Pur avendolo preso in simpatia, Kyra decise di non esporsi troppo. «Sono scappata dalla mia famiglia, se così si può dire. Ma è da un pezzo che ho imparato a badare a me stessa. A dirla tutta, non ho una meta precisa, ma voglio fermarmi per un po’ a Dekka, e guadagnarmi da vivere.» «Bah!» sbottò Ezer «Non hai ascoltato una sola parola di ciò che ho detto? Quella città è un mostro, ragazza, e ti divorerà in un sol boccone! So riconoscere una brava persona quando la incontro, e tu lo sei senza dubbio. Se andrai in quel posto, ti cambierà, e non certo in meglio.» «Sciocchezze!» sogghignò Kyra «E volevi farmi credere di essere l’unica persona sana in questo villaggio di fanatici superstiziosi... Comunque grazie per quel brava persona. Credo che ti sbagli, ma ogni tanto fa piacere sentirsi dire una parola buona.» «Non mi sbaglio su certe cose» tagliò corto lui. «Ma dimmi: una volta a Dekka, cosa pensi di fare? Se non fosse che mi sei simpatica, ti consiglierei di cercare un posto da guardia del corpo di qualche riccone, vista la tua abilità nel maneggiare quelli» disse, indicando uno dei pugnali inguainati alla cintura di lei. Kyra accarezzò l’elsa di una delle lame gemelle, pensierosa. «Forse sarebbe la cosa migliore, ma credo di averne abbastanza di scontri armati, almeno per un po’. Mi piacerebbe andare per mare, su un bastimento... Mi capisci? La libertà, l'avventura!» «Uhmpf! Proprio degno di una grande avventuriera! Scommetto che da sola non sai nemmeno condurre una barca a remi, vero?» «E allora?» ribatté Kyra, punta sul vivo «Non credo ci voglia una gran scienza!» «Come no! Parlare è facile, ragazza, ma quando ti troverai nel bel mezzo di una burrasca, con l’acqua che ti piomba addosso da tutte le parti, e il capitano del vascello che ti sbraita addosso ordini che neanche capisci, allora ti chiederai: Che diavolo ci faccio qui?» C’era del vero nelle sue parole, dovette ammettere Kyra. «Cosa mi suggerisci allora? Non voglio stare con le mani in mano quando arriverò in città.» «Scommetto che sei una ragazza intelligente, anche se un po’ troppo impetuosa» proseguì lui, raddolcito «Se proprio non vuoi cambiare idea a proposito di Dekka, lascia almeno che ricambi il favore che mi hai fatto. Fermati da me qualche giorno, il tempo di mostrarti i trucchi di un uomo di mare, e schiarirti le idee in proposito. Sarò anche vecchio e rimbambito, ma alla mia età queste acque hanno ben pochi segreti! Ti insegnerò quello che so, e tu mi darai una mano nella pesca. Ci stai?» Kyra rimase interdetta: sperava di essere a Dekka entro il pomeriggio seguente, per cominciare la sua nuova vita. Però si rese conto di muoversi un po’ troppo alla cieca, come una bambina ansiosa di mettersi in viaggio. Forse era meglio affrontare le cose con più calma. Ma c’era da fidarsi di quello strano vecchio? Lo squadrò in modo molto diretto, alzando un sopracciglio. Ezer, che non se l’aspettava, scoppiò in una sonora risata: «Le tue preoccupazioni mi lusingano, ragazza, ma dubito che sarei in grado di nuocere a una giovane energica come te. Se ti va, vediamoci domattina presto alla mia baracca, l'ultima oltre i moli. In caso contrario, grazie ancora, stammi bene, e cerca di tenerti lontana dai guai. In ogni caso, ti saluto e me ne vado a letto: le ossa mi fanno un male del diavolo...» Fece per alzarsi. Kyra lo studiò ancora per qualche istante, dubbiosa, mentre lui cercava di liberarsi dello sgabello rimasto impigliato al fondo dei pantaloni. Infine si decise. «D’accordo, vecchio pazzo, accetto la tua offerta, e spero che ne valga la pena!» Gli tese la mano. «Preferisco che mi chiami soltanto Ezer» rispose lui, stringendogliela con un sorriso «Vecchio
pazzo non mi si addice!Âť
VI - Il Presente ed il Passato
«Vecchio pazzo!» urlò Kyra, stringendo la fune così forte da farsi sbiancare le nocche delle dita. Immersa nell’acqua fin sopra alle caviglie, vide Ezer a prua, intento a cantare a squarciagola, del tutto indifferente al marasma che lo circondava. La barca rollò paurosamente, in balia della burrasca, e un paio di ondate spazzarono il ponte, abbattendosi sul pescatore e su di lei. Poche volte in vita sua si era sentita così indifesa: riusciva a malapena a reggersi in piedi, e le dolevano gola e polmoni a forza di ingoiare acqua salata. L’avventatezza di Ezer la rendeva furibonda, tanto più che il vecchio pareva prendersi gioco di lei, ostentando un totale sprezzo del pericolo. Si sentì sciocca al pensiero di aver tanto sottovalutato i rischi della vita del marinaio. Forse era il caso di rinunciare fin da subito all'illusione dei viaggi per mare, e rimanersene invece coi piedi per terra, in tutti i sensi. Da un paio di settimane accompagnava Ezer nelle sue uscite in mare, e la lista delle cose che detestava era già lunga. Le mani scorticate maneggiando cime e reti, le scottature causate dal sole e dal vento, il nauseante rollio della barca, l’onnipresente fetore di pesce... Questo ed altro l’avevano già spinta a pensare di mollar tutto. Si era costretta a resistere per puro orgoglio. Ma in quegli istanti le parve una pessima decisione. «Che c’è, ragazza, hai perso la lingua?» la schernì Ezer, piazzandosi a gambe larghe di fronte a lei. Era fradicio dalla testa ai piedi, gli abiti e le rade ciocche di capelli incollati alla pelle. «Ma guarda come ti sei ridotta! E tutto a causa di un leggero temporale!» Kyra digrignò i denti, ma non fece in tempo a rispondergli per le rime che un’onda la schiaffeggiò in volto, e l'acqua salata le riempì la bocca. Ezer la aiutò a tossire a forza di pacche sulla schiena, reggendosi a una cima nell’instabile equilibrio dell’imbarcazione. «Su, coraggio ragazza, sputa fuori! Scherzavo, comunque. Te la stai cavando bene, per essere la tua prima burrasca! Ho visto uomini grandi e grossi frignare come bambinetti, al tuo posto!» Rischiò di scivolare e si aggrappò a lei con tutte e due le mani, imprecando. Continuò a urlare nel turbine del vento: «Una volta, mentre traghettavo un mercante attraverso la baia, scoppiò una tempesta come questa. Il poveretto giunse a promettermi metà del suo patrimonio, se l’avessi portato a riva sano e salvo! Per sua fortuna non sono un uomo avido! Non pretesi un solo centesimo in più di quanto avessimo pattuito...» Levò gli occhi al cielo: «Che stolto! Oggi potrei navigare nell’oro, invece che nell’acqua di mare!» «Perché perdi tempo in fandonie, vecchio?» sibilò Kyra, il volto tirato per l’angoscia «Anch'io ti faccio una promessa: salvami da questo inferno, e forse non ti caverò gli occhi!» «Ahahah, vedo che non hai perso il tuo macabro senso dell’umorismo!» rise Ezer. Alzò gli occhi al cielo plumbeo, scrutando l’orizzonte, e si fece serio: «D'accordo allora, andiamocene da qui! Ma avrò bisogno del tuo aiuto. Coraggio, molla quella fune e vieni a darmi una mano! Di che hai paura? Non vedi che persino un vecchio come me riesce a stare in piedi da solo?» La sua risata si perse nell'ululato del vento, così come le maledizioni che Kyra gli scagliò contro.
----Alcune ore dopo, il disco del sole affondava pigramente nella piatta distesa del mare. Kyra giaceva stremata sul ponte della piccola imbarcazione. Poteva ancora sentire il brontolio del tuono in lontananza, alle loro spalle. Le costò non poco ammetterlo, ma si sentiva magnificamente. Continuava a rivivere dentro di sé la frenetica lotta contro gli elementi: udì ancora una volta il mugghiare assordante del mare, rivide i lampi accecanti e la schiuma rabbiosa delle onde... Per ore interminabili si era spinta in precario equilibrio da un'estremità all’altra dell’imbarcazione, spronata dal vecchio, tentando di mettere in pratica ciò che le era stato insegnato nei giorni precedenti.
E aveva dato un’ottima prova di sé. Ora, coi muscoli doloranti e la testa che le girava come un mulinello, si sentì felice come non le succedeva da tempo. Avvertì una risata sommessa: girandosi vide Ezer, seduto a prua, che la fissava sorridente. «Gran bella sensazione, non è vero?» disse il pescatore, scandendo forte le parole «Dovrebbe capitare più spesso, nella vita.» Non aggiunse altro, ma Kyra pensò di aver capito. Il soffio della brezza sulla pelle, lo scricchiolio delle assi sotto la schiena, il ritmico sciabordare delle onde: ogni sensazione le giungeva amplificata. Si sentiva cullata. Si sentiva in pace, appagata. Pensò con rammarico che gli stessi sentimenti nascevano in lei dopo una dura battaglia al fianco dei compagni d’armi, ai tempi in cui non c’era alcuno spazio per dubbi e ripensamenti, quando soltanto l’oggi contava... Ezer continuava ad osservarla con aria divertita, come se potesse leggerle nel pensiero. Fece per chiederle qualcosa, ma rinunciò, e tacque. Passarono i minuti, scanditi dal loro respiro, e si fece notte. Una ad una, le stelle presero il loro posto nel cielo vasto e scuro. «Oggi ti sei comportata bene» disse a un tratto il vecchio pescatore, infrangendo il silenzio «E hai potuto scorgere l’altra faccia del mare. Sa essere generoso con gli uomini, ma come hai visto può tramutarsi in un nemico implacabile. In quei frangenti, un solo errore, una sola leggerezza, possono costarti la vita.» Lei annuì, sapendo che le parole di Ezer miravano a infonderle un sano rispetto per il mare. E aveva ragione. Il ricordo di quella giornata le sarebbe servito di monito per il futuro. «Sei un ottimo maestro» pensò, ma non lo disse ad alta voce. «Ti capita spesso di perdere l’orientamento in questo modo, e dover passare la notte in mare?» chiese invece, in tono canzonatorio. «Solo quando mi tocca badare a un peso morto come te, ragazza!» replicò lui, fingendosi offeso. Si squadrarono a vicenda per alcuni istanti, poi scoppiarono in una fragorosa risata, che riempì i loro cuori. Senza fretta di interrompere il piacevole momento, Ezer si accomodò tra le reti. Kyra, le gambe accavallate e le dita intrecciate dietro alla nuca, preferì restare sdraiata sul ponte, per meglio ammirare lo spettacolo degli astri nascenti. «Meraviglioso...» disse. E in quel preciso istante, quando il dolore del passato, la pienezza del presente e la speranza del futuro si fusero in lei, lacrime presero a scorrerle lungo il viso, senza che potesse farci niente. Ezer alzò gli occhi al cielo, e non disse nulla.
----Il giorno seguente non uscirono in mare. Passato il momento di euforia per aver affrontato e vinto la sua prima tempesta, Kyra si sentì talmente esausta che non si sarebbe più alzata da letto per una settimana. Ezer le fece aprire gli occhi a forza di pugni sulla porta, imprecando con tale veemenza da richiamare l’attenzione di metà del villaggio. «Basta vecchio, per favore! Hai vinto! Dammi soltanto un minuto…» Richiuse gli occhi, ma riprendere sonno era impossibile. Alla fine si alzò a sedere sulla branda, sfregandosi le tempie, ma la stanza continuò a girarle intorno. Dovette costringersi con la forza a poggiare un piede in terra, poi l'altro, e infine alzarsi. «E' peggio di una sbornia!» pensò, claudicando alla ricerca dei propri vestiti. Mentre indossava pantaloni e camicia, notò che aveva una collezione di lividi bluastri su braccia e gambe. Sorrise: erano medaglie al valore, conquistate a caro prezzo! Dopo essersi vestita e pettinata con estrema pigrizia, spinse la porta del capanno ed uscì all’aria aperta. Si diresse al pozzo, riempì un secchio d'acqua fresca e vi immerse il viso finché gli ultimi fastidiosi segnali di sonno scivolarono via. Alzò lo sguardo verso la baracca di Ezer. Non lo vide nei pressi. Giorni prima il pescatore le aveva offerto ospitalità e una scomoda branda nel capanno degli
attrezzi, e lei aveva accettato con entusiasmo. Non era certo una sistemazione confortevole, e men che meno profumata, ma Kyra la preferiva di gran lunga alla stanza del Leone Danzante: là aveva sempre addosso gli occhi indiscreti dell’oste, che non la perdeva di vista un solo istante dalla famosa sera della rissa. Ezer dal canto suo era ben felice di ospitarla, benché in pubblico cercasse di dimostrare altrimenti. Preferiva soffocare sul nascere le voci che già cominciavano a circolare su quella strana coppia. Sgocciolando acqua dal viso, Kyra si sollevò sulla punta dei piedi, e stirò il bel corpo snello. Si girò intorno, cercò Ezer con lo sguardo: lo vide all’opera sul molo, stava ritirando le reti. La barca, di piccola stazza e dotata di un unico corto mastro, era stata battezzata “Anna” in memoria della moglie del pescatore. Era morta molti anni prima, le aveva detto, vittima di una febbre incurabile. Kyra sorrise alla vista del vecchio intento a lavorare. Non sapeva come fosse successo, ma in poco più di due settimane si era creato tra loro un legame speciale, che andava al di là del semplice rapporto tra maestro e allieva. Era come se ciascuno dei due avesse riempito un vuoto nell’animo dell’altro, allontanando per un po’ la solitudine. E forse anche per questo Kyra non sentiva più così forte il desiderio di andare a Dekka. Quella semplice vita a Mirna le stava giovando parecchio, con i suoi ritmi lenti, scanditi dalle fasi della pesca. La Compagnia del Viandante pareva già un lontano ricordo, e persino il pensiero della separazione da Dorian non le faceva più così male. Non era forse quello che voleva? «Che stai facendo lì impalata? L’acqua del mare ti ha arrugginito il cervello?» gridò Ezer dal molo, agitando un pugno a mezz’aria «Muoviti ragazza, per amor del cielo, ho bisogno di una mano!» «Arrivo, accidenti a te! Dammi il tempo di respirare!» sbuffò Kyra, e corse da lui. Insieme sollevarono le reti e le stesero al suolo: erano piuttosto malridotte, a causa delle vicissitudini del giorno precedente. Lavorarono in ginocchio, fianco a fianco, Ezer mostrandole come rammendare gli strappi, Kyra facendo del suo meglio per aiutarlo nel tedioso compito. Quando terminarono, il sole era già alto nel cielo. Si presero un po’ di riposo, seduti in cima al molo, ciondolando i piedi nell’acqua salmastra del porticciolo. Non c’era grande attività lungo la banchina. Buona parte degli altri pescatori erano in mare. La distesa azzurra, al largo, era punteggiata di vele variopinte. Meno di un tempo, le aveva spiegato Ezer. Molti pescatori avevano lasciato la costa, per andare a cercare fortuna altrove. La pesca diventava sempre più difficile, di anno in anno, man mano che le macchie d'olio nero si spandevano sulle acque. Kyra aveva potuto vederne una in prima persona, giorni addietro, e ne era rimasta impressionata. Le creature del mare, presagendo il pericolo mortale rappresentato dalle macchie, si dileguavano, facendo sì che le reti dei pescatori restassero tristemente vuote. Eppure gli uomini si ostinavano ad uscire in mare ad ogni singola alba, se non altro per evitare gli sguardi sofferti di mogli e figli dentro casa. Kyra faceva del suo meglio per aiutare il vecchio nella pesca, ma nonostante gli sforzi di entrambi le cose non andavano troppo bene. Temeva che in breve avrebbero sentito i morsi della fame, e non riusciva ad immaginarsi in che modo Ezer potesse tirare avanti da solo, quando lei si fosse rimessa in viaggio. «Vecchio, posso farti una domanda?» gli chiese, senza troppi preamboli. «Avanti ragazza. Sono tutt’orecchi.» «So bene che hai pochi amici qui a Mirna, e ne conosco il motivo. E so anche che sei vedovo da anni. Ma non hai altri parenti, qui o in un altro villaggio? Qualcuno che possa darti una mano in tempi difficili?» Ezer aprì bocca con aria contrariata, come per invitarla a non mettere il naso nei suoi affari privati, ma quasi subito ci ripensò. Scosse la testa un paio di volte, sospirando, poi fissò gli occhi stanchi in quelli di Kyra. «Non parlo volentieri di queste cose. Riportano a galla vecchi dolori. Eppure, non chiedermi perché, sento che con te posso farlo...» Kyra gli rivolse un sorriso incerto, e restò in attesa.
«Così stanno le cose» esordì lui «Fino a un anno fa non vivevo da solo, né pescavo da solo, come oggi. Ethan, mio figlio, era con me.» Si schiarì la gola. «Non siamo mai andati molto d’accordo, ma ci siamo sempre rispettati a vicenda. Io sono un tipo concreto, te ne sarai accorta. Ethan è differente da me: un sognatore, come sua madre. Quante volte l’ho rimproverato per la scarsa attenzione che dedicava al lavoro! Sempre con la testa tra le nuvole, quel ragazzo! E questo può causarti seri problemi, quando sei in mare.» Sorrise, ripensando al passato. «Una volta, Ethan si accorse di un piccolo delfino finito nella rete assieme agli altri pesci. Quello stolto tagliò le maglie della rete per restituirgli la libertà. Il delfino fuggi, e così fecero tutti gli altri. Puoi immaginarti la mia reazione: oltre a farci perdere la pesca, riuscì a distruggere la nostra unica rete! Gliele diedi di santa ragione, e non gli rivolsi la parola per una settimana!» Scalciò l’acqua coi piedi, pensieroso. «Ethan è fatto così: ha sempre amato il mare e le sue creature più di se stesso. Spesso lo osservavo con la coda dell’occhio, dopo una giornata di lavoro: invece che provare soddisfazione per la buona pesca, sembrava pentito, amareggiato. Un pescatore che prova pietà per i suoi pesci… Bah! Sarebbe dovuto nascere in un tempio di Edessa!» «Dove si trova adesso questo tuo figlio?» domandò Kyra «Perché non è qui con te?» «Ci stavo arrivando, non essere impaziente! Come ti ho detto, non sono bei ricordi. Un anno fa la nostra vita prese una brutta piega, a causa del maledetto olio nero: le correnti trascinarono fin qui tanto sudiciume da annerire le acque della baia. Successe tutto nel giro di giorni, e i pesci cominciarono a morire a decine, a centinaia!» Strinse le labbra allo spiacevole ricordo. «La baia divenne irriconoscibile, cosparsa di cadaveri di pesci e uccelli, ed il fetore era insopportabile. Noi pescatori non potevamo lavorare, ci toccò restare fermi ad attendere che le correnti spingessero la sporcizia lontano dalle nostre acque.» «Orribile…» commentò Kyra, sforzandosi di immaginare l’incantevole baia ridotta in uno stato così pietoso. «Non ne hai idea» replicò Ezer «L’animo di mio figlio fu invaso da una rabbia senza precedenti. Non l’avevo mai visto in quello stato: pareva che soffrisse più del mare stesso. Passava intere giornate camminando avanti e indietro sulla banchina, furente, oppure prendeva una barca e cercava di scacciare il sudiciume a colpi di remo. Potevo capire il suo stato d’animo, ma si stava rendendo ridicolo di fronte all’intero villaggio! Un giorno lo affrontai a viso aperto, cercai di fargli capire che a nulla valeva il suo comportamento bizzarro. L’ondata nera era arrivata all’improvviso, senza un perché, e allo stesso modo se ne sarebbe andata. Non avremmo dovuto far altro che aspettare, gli dissi.» «L'origine di quello scempio non fu la città di Dekka, come mi hai detto?» «Allora ancora non lo sapevamo. Fu proprio Ethan a scoprirlo. Mirna era in ginocchio: da quasi un mese non potevamo svolgere il nostro mestiere. Era lo stesso con gli altri villaggi della costa. Restammo senza sostento, e per sopravvivere cominciammo a indebitarci con gli agricoltori e i mercanti dell'interno.» «Fammi indovinare: Ethan non rimase con le mani in mano...» «Già, proprio così. Io non mi ponevo troppe domande: mi limitavo ad attendere che le cose tornassero a seguire il proprio corso. Non mi importava trovare un colpevole. Anche perché, un giorno sì e uno no, venivano a galla chiacchiere su qualche assurda colpa da espiare, o sulla vendetta degli uomini-pesce. Sciocchi superstiziosi! Sempre rapidi a lavorare con la fantasia quando non sanno spiegarsi qualcosa!» Scosse la testa, contrariato. «Ethan non credeva a queste fandonie: studiò i venti e le correnti, interrogò i mercanti di passaggio, andò a cercare risposte nei villaggi vicini... Io lo lasciai fare, già che il lavoro scarseggiava. Per di più, temevo che sarebbe impazzito se fosse rimasto qui come una tigre in
gabbia.» «Lodevole iniziativa, la sua. Pare che tuo figlio sia stato l’unico ad usare il cervello» osservò Kyra. «Bah! Dopo un po' Ethan formulò una teoria. A giudicare dagli indizi che aveva raccolto, e dalle testimonianze dei viaggiatori, non altri che la città di Dekka era responsabile dei nostri guai. Purtroppo per lui, tutti si mostrarono scettici fin da subito. Quando mai si era sentita una cosa del genere? Perché mai una città come Dekka, che viveva sulla prosperità del mare, avrebbe dovuto causare quel disastro di proposito? E quando Ethan citò ciò che aveva udito raccontare sulla Fabbrica di Dekka, e sugli Automi bevitori d'olio, si convinsero che avesse perso il lume della ragione.» «C’era da immaginarselo. Mirna non sembra molto aperta alle novità!» «Non posso biasimarli. Io stesso faticai a credergli, e lo feci soltanto dopo lunghe insistenze, quando mi ebbe spiegato più volte per filo e per segno i dettagli della sua teoria. Gli chiesi come mai, allora, nessuno a Dekka stesse cercando di risolvere la situazione. Mi rispose che più di un villaggio, nella nostra stessa situazione, aveva inviato emissari alla città, ma non era servito a nulla. La Guardia Cittadina li aveva rispediti a casa in malo modo, tutti quanti. La cosa era molto sospetta.» Sospirò. «Ma non ero pronto alla decisione di Ethan…» «Quale decisione? » «Avrei dovuto intuirlo fin dall’inizio. Siccome nessuno era disposto ad appoggiarlo, decise di fare di testa sua. Un bel giorno, senza che ne avessimo mai discusso prima, mi si parò dinanzi con una sacca in spalla, e mi disse che stava partendo per Dekka. Voleva vedere le cose coi propri occhi, e cercare una soluzione, se possibile. Fu uno shock per me: l'idea che mio figlio girovagasse nella grande città mi parve impensabile. E non solo. Non potevo accettare che mi abbandonasse in quel modo, di punto in bianco. Cercai di fargli cambiare idea, prima con le buone, e poi con le cattive. Litigammo furiosamente, ma non riuscii a smuoverlo dalla sua posizione.» Fece una pausa, rosso in volto. «Finii per rinchiuderlo a forza nel capanno degli attrezzi, convinto che un poco di prigionia lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee. Andai al “Leone Danzante”, per affogare l'amarezza in un boccale. Quando tornai a casa, la porta del capanno era scardinata, e non c’era più traccia di Ethan. Scagliai al cielo mille maledizioni, ma non c’era più nulla da fare: mio figlio se n’era andato.» Abbassò gli occhi, e la sua voce si ridusse a un sussurro. «Non ho più avuto sue notizie, da allora... Capisci adesso perché sono solo? E perché ho commesso quella sciocchezza col pesce dorato? Ero disperato, e non c'era nessuno che potesse venirmi in aiuto! Nessuno!» Ezer si richiuse in se stesso, e calò il silenzio. Kyra si sentì in colpa per averlo forzato a rivangare tristi ricordi. «La vita è dura, ragazza. Facciamo le scelte sbagliate, e non possiamo tornare indietro...» «Mi dispiace, Ezer. Ma posso capire la decisione di tuo figlio. Anzi, in un certo senso, la condivido.» «Che vorresti dire?» scattò Ezer, punto sul vivo. «E’ solo che mi ricorda la mia storia. Anche per me non è facile parlarne, ma te lo devo. Se vuoi ascoltarmi...» «Fallo, per favore.» Kyra immerse le mani nell’acqua e si rinfrescò il viso. Parlò per quasi un'ora, raccontando ad Ezer per sommi capi le vicende più importanti del suo passato: la triste infanzia da orfana, gli anni al seguito della Compagnia del Viandante, ed infine la brusca separazione dai compagni di lotta. Tralasciò di proposito diversi particolari: non che non si fidasse di Ezer, ma preferiva non dilungarsi troppo in faccende che avrebbero potuto riempire un libro, e che in qualche caso, lo sapeva, non
davano una bella immagine di sé. «Impressionante!» esclamò Ezer, quando ebbe finito. L'irritazione era scomparsa dal suo volto. «Adesso capisco cosa intendevi, quando dicevi di comprendere la scelta di Ethan...» Sorrise, ma i suoi occhi mantennero un’espressione triste. «Pare che io e questo comandante Dorian dobbiamo imparare ancora parecchie cose sui nostri figli...» «Lo credo anch’io!» affermò lei, sforzandosi di sorridere a sua volta. «Ma non hai detto tutto, mi pare» osservò Ezer, che pareva ancora in vena di conversare. I raggi del sole scavavano piccole fosse nel suo volto rugoso, mentre parlava. «Che mi dici di quella, ad esempio?» domandò, indicando la cicatrice sul viso di lei. Kyra si rabbuiò in volto, e non rispose. Inclinò la testa di lato, nascondendo la vecchia ferita dietro a una cortina di capelli castani. «Capisco. Non importa» annuì Ezer «Hai il diritto di tenere certe cose per te.» Poi, senza preavviso, si tuffò in mare coi vestiti e tutto, schizzando Kyra dalla testa ai piedi. Riemerse un attimo dopo, sputando acqua, ed esibì un ghigno smagliante: «Su, tuffati anche tu ragazza! Non c’è cosa migliore di un bel bagno fresco per rallegrarsi l’animo!» Kyra lo fissò sorpresa per un istante, prima di scoppiare a ridere. «Togliti di mezzo, allora, o te la vedrai brutta!» Si alzò, prese la rincorsa e balzò in acqua, sollevando alti spruzzi.
VII - Notizie Inattese
Un’altra settimana passò, e l'abilità di Kyra come marinaio crebbe a vista d'occhio: tra le altre cose, sapeva ormai muoversi in scioltezza negli spazi ristretti dell’imbarcazione, anche col mare grosso, e sapeva inerpicarsi sul mastro per sciogliere e annodare le vele. Era diventata un’ottima nuotatrice, e non perdeva l'occasione di tuffarsi in mare, anche senza un preciso motivo, soltanto per il gusto di sguazzare nell’acqua fresca. Con poche vigorose bracciate si lasciava la barca alle spalle, incurante delle imprecazioni di Ezer, e proseguiva senza fermarsi sino a quando i polmoni non le ardessero per lo sforzo. Allora si rigirava sul dorso, aprendo braccia e gambe, e restava sdraiata immobile a pelo d’acqua, lasciandosi cullare dalle onde. Il mare aveva su di lei un incredibile effetto terapeutico, capace di scacciarle dalla mente tutte le ombre e i dubbi che la tormentavano in passato. E al passo in cui quel nuovo senso di pace metteva radici dentro di lei, il suo legame con Ezer si rafforzava giorno dopo giorno. Più di una volta, con la coda dell’occhio, aveva colto il burbero pescatore nell’atto di osservarla con occhi raggianti, pieno d'orgoglio davanti ai progressi della sua giovane allieva. Pareva loro impossibile di conoscersi da tre settimane soltanto, ed ogni giorno passato insieme rendeva entrambi più felici di quanto osassero ammettere. La pesca era ingrata, la fatica tanta, ma la vita era meritevole di essere vissuta. Una sera piovosa, al “Leone Danzante”, mentre si godevano il meritato riposo di fronte a due boccali di limpaq, la porta del locale si aprì di botto, e un uomo grasso, di bassa statura, entrò incespicando nei propri piedi. Era fradicio dalla punta del cappello piumato fino alle babbucce di stoffa, e aveva l’espressione di un cane bastonato. «Povero me!» si lamentò «Proprio un pessimo clima per viaggiare! Avrei dovuto dar retta a mia moglie, e restarmene buono a casa…» Varie teste si voltarono nella sua direzione, ma l’interesse generale non durò che pochi istanti. La strana foggia dei suoi abiti, la molle corpulenza e il forte accento non lasciavano dubbi sulla sua identità: un mercante di Dekka in viaggio d'affari, poco ma sicuro. Non era raro che uno di loro facesse tappa a Mirna, specie in giornate così uggiose. Lo straniero si diresse sgocciolando al bancone. L’oste lo seguiva con sguardo untuoso e compiaciuto: era giunto il momento di aumentare i magri incassi della serata. «Cosa posso servirvi, signore?» domandò, con un sorriso affettato. «Qualsiasi cosa, purché mi riscaldi lo stomaco» rispose il mercante, agitandogli le dita inanellate sotto al naso. «Subito, signore! Ho dell’ottimo liquore di Sendir, perfetto per una serata come questa!» «Me lo auguro, oste. E già che ci sei, manda qualcosa anche ai miei servi, là fuori. Ma senza esagerare! Non vorrei che quei miserabili si ubriacassero, a volte sono peggio degli asini…» Parlò alto, felice di ostentare il proprio potere davanti agli umili pescatori del villaggio. Kyra ed Ezer lo udirono fin dal loro tavolo, e si scambiarono un sorriso divertito. Il mercante trascorse la mezz’ora successiva lamentandosi ad alta voce del tempo e degli affari, e non c’era argomento sul quale l’oste non si dichiarasse del tutto d’accordo con lui, mentre gli riempiva il bicchiere. «Maledetta Fabbrica!» esclamò a un tratto il mercante, sbattendo un pugno sul bancone «Non bastava la minaccia di una guerra a farci perdere gli affari!» «Fabbrica?» osservò l'oste, versando altro liquore «Credo di averne sentito parlare...» «Mi stupirei del contrario! C'è forse qualcuno che ancora non la conosca?» «Ma, a dire il vero...» «È l'edificio più colossale dell'intero Regno, puoi credermi oste! Le sue ciminiere sono alte come palazzi, le sue mura sono spesse come quelle di una fortezza, e dicono che nelle sue fornaci il fuoco non si estingua mai!» «Dite sul serio?» esclamò l'oste. Senza distogliere gli occhi, mise da parte la bottiglia già vuota, e
ne stappò un'altra. «Ti sembro tipo da contare frottole, oste? E ancora non ti ho detto la parte migliore...» «E sarebbe?» «Gli Automi, perbacco!» «Automi?» «Mostri dal cuore meccanico! Una volta ne ho incrociato uno, e me la sono quasi fatta sotto! Per fortuna non se ne vedono molti in giro a piede libero... Li tengono rinchiusi nella Fabbrica, e ciascuno di loro fa il lavoro di venti uomini!» «Mi prendete in giro...» commentò l'oste, con una risatina. «Per niente!» ribadì il mercante, gesticolando «È come ti ho detto! Per gli artigiani di Dekka è una sciagura! La concorrenza spietata della Fabbrica li sta riducendo sul lastrico, e come risultato noi mercanti siamo rimasti quasi senza fornitori! E i pochi che resistono, ci fanno dei prezzi astronomici!» «Non capisco» osservò l'oste, che sapeva dire la sua quando l'argomento erano i soldi «Che si dannino gli artigiani! Perché non comprate direttamente dalla Fabbrica? Non sarebbe più conveniente?» «Eccome! Ma c'è un particolare che non ti ho detto... Sai chi è l'unico proprietario della Fabbrica, l'uomo che si è arrogato il diritto di venderne i prodotti, e che oggi ha il monopolio del mercato?» «Non ne ho proprio idea.» «Dinor, accidenti a lui! Il governatore di Dekka, guarda caso! Puah! Così, oltre a tirare i fili della Guardia Cittadina, ha pure il controllo del commercio! Non si era mai visto tanto potere nelle mani di una sola persona, non nella mia città! E se almeno quel buono a nulla riuscisse a tenere a freno le bande criminali...» L'oste scosse la testa, simpatizzando con il suo ricco avventore mentre gli versava altro liquore, della marca più pregiata. Ad ogni chiacchiera, gli introiti della serata balzavano verso l'alto. «Proprio così oste!» continuò il mercante «Dekka sta diventando un posto pericoloso dove vivere, pieno di farabutti e tagliagole. Un onesto cittadino come me deve guardarsi le spalle in continuazione! Non è tranquillo come qui a Mirna, nossignore! Non che ci verrei a vivere, però, ho il naso sensibile, io. Non so come fate voi pescatori a...» Si interruppe di colpo, e si batté una mano sulla fronte. «Accidenti a me, quasi dimenticavo!» Si sporse sul bancone, ed afferrò l’oste per il bavero. «Ho bisogno di un’informazione, oste!» «Ce-certo, signore! Sono a vostra disposizione!» «Cerco un pescatore, un vecchio di nome Ezer...» L’oste inarcò un sopracciglio, sorpreso. «Lo conosci?» insistette il mercante. «Si, lo conosco» rispose l’oste «E’ quello là, seduto all’angolo, assieme alla ragazza.» «Bene! Vado a parlarci adesso, prima di scordarmi di nuovo perché sono venuto in questo villaggio pulcioso!» Si alzò dallo sgabello con qualche difficoltà. L’oste si offrì di aiutarlo, ma lui lo respinse con stizza, e si diresse barcollando al tavolo di Kyra ed Ezer. I due sentirono il puzzo di liquore prima ancora di vederlo arrivare. «Sei tu Ezer, il pescatore?» «In persona» rispose il vecchio, rivolgendogli uno sguardo interrogativo. «Perfetto!» esclamò l’altro. Si infilò una mano nella raffinata giacchetta di seta, rovistò prima in una tasca, poi nell’altra, finché trovò ciò che cercava: una busta dai bordi stropicciati. La raddrizzò senza molta delicatezza, e la gettò sul tavolo, rischiando di centrare un boccale. Ezer fece per aprir bocca, ma il mercante lo anticipò: «Inutile chiedermi di che si tratta, perché non ne so nulla. Dovevo un favore a un amico, un
commerciante di Dekka chiamato Leon, e adesso siamo pari. Sapeva che sarei passato di qui, perciò mi ha pregato di cercare un pescatore di nome Ezer, e consegnargli questa lettera. E così ho fatto.» Squadrò il vecchio di traverso. «Leon mi è sembrato piuttosto preoccupato, a dire il vero. Non so quali strani affari abbiate in comune, ma dev'essere andato storto qualcosa...» «Ma io non conosco nessuno a Dekka! Tanto meno questo Leon!» protestò Ezer, senza capire. «Questo non è un mio problema! Leggi la lettera, scommetto che ci troverai le risposte alle tue domande. Io la mia parte l’ho fatta. E adesso, se mi permettete…» Si produsse in un rozzo inchino, ispirato più dall’alcool che dalla cortesia, poi diede loro le spalle e tornò al bancone, urtando sedie e tavoli al suo passaggio. Ezer fece per richiamarlo, ma Kyra lo dissuase: «L’hai sentito, vecchio. Ne sa quanto te e me.» Puntò un dito sulla busta spiegazzata in mezzo ai boccali. «Faresti meglio a leggerla, come ti ha detto.» «Facile a dirsi!» ribatté Ezer, stizzito «Non ho mai imparato a leggere, se proprio lo vuoi sapere. Quand'ero giovane avevo cose più importanti da fare che non ingobbirmi sui libri!» «Va bene, ci penso io» sbuffò lei, grata per i lunghi pomeriggi passati a studiare sotto lo sguardo severo di Dorian «Posso aprirla?» «Fa’ pure. Anche se ho un brutto presentimento. Ho mentito dicendo che non conosco nessuno a Dekka, e tu lo sai…» Si torse le mani, cercando di mantenere la calma, mentre Kyra prendeva la busta e l’apriva. Ne estrasse un paio di fogli di carta ruvida, scritti con inchiostro leggero. Dalle numerose sbavature e dalla grafia irregolare, si deduceva che la lettera era stata scritta con una certa fretta. Cominciò a leggere: Messere, chi vi scrive risponde al nome di Leon, commerciante di tessuti. Affido a questa lettera i miei timori, nella speranza che possiate aiutarmi in una questione che ci riguarda da vicino. Sarò breve, il tempo non ci è amico. Diversi mesi orsono, si presentò alla mia bottega un giovane di nome Ethan. Kyra smise di leggere, ma Ezer le fece cenno di proseguire, pallido in volto. Cercava lavoro. Non so perché, ma decisi di dargli un’opportunità. Fu un’ottima scelta: il ragazzo si dimostrò obbediente e volenteroso. Divenne per me un prezioso aiutante, e un amico. Mi resi però conto che nutriva interesse per questioni di cui sarebbe saggio non discutere in pubblico. Spesso dovetti invitarlo alla prudenza, ma dubito che mi abbia dato ascolto. Finché una sera, due settimane orsono, piombò nella mia casa, farneticando qualcosa a proposito di una sconvolgente scoperta che aveva fatto. Gli risposi che non ne volevo sapere, e che mettere il naso in certe faccende poteva rivelarsi assai pericoloso. Insistette, affermando che dovevo assolutamente vedere con i miei occhi. Ahimè, mi spazientii e lo respinsi, rifiutandomi di dargli ascolto... Da quel giorno, non ho più avuto sue notizie, e temo che gli sia accaduto qualcosa. Ma non posso muovermi. Mi tengono d'occhio, lo so! Vi invio questa missiva, Ezer, nella speranza che non sia troppo tardi, e che possiate aiutarmi a salvare la vita di vostro figlio. Come, ancora non lo so... Ma fate presto! Vi attenderò qui, a Dekka. Non avrete difficoltà a trovare la mia bottega, vicino al porto. E' piuttosto conosciuta. Venite in fretta, ve ne prego, e mantenete viva la speranza! Vostro, Leon
Quando Kyra terminò di leggere, Ezer le rivolse uno sguardo carico di turbamento. Tremante, teneva gli occhi fissi in quelli di lei, il volto marcato da un’espressione di profonda angoscia. «No…» mormorò «Questa proprio non ci voleva… Testardo! Testardo di un figlio!» Si prese la testa tra le mani, sconvolto. «Lo sapevo che sarebbe andata a finire così! E adesso? Cosa posso fare? Cosa?» Fece per alzarsi sulle gambe traballanti. «Devo prepararmi, devo partire al più presto…» «Calmati!» gli ingiunse Kyra, rimettendolo a sedere. Lanciò un’occhiata di avvertimento ai pescatori seduti al tavolo accanto, che stavano prestando fin troppa attenzione per i suoi gusti. «Calmarmi?» reagì Ezer, atterrito «Come puoi chiedermi di rimanere calmo in una situazione come questa? Mio figlio corre un grave pericolo, e non so neanche di che si tratti!» Singhiozzò al pensiero. «Cosa direbbe la mia cara Anna? Non posso perdere anche lui, proprio non posso!» «Troveremo una soluzione! Ma dobbiamo ragionare, prima. O preferisci buttarti alla cieca? Che bene faresti a tuo figlio?» Kyra provò una fitta di dolore dinanzi alla sofferenza del vecchio pescatore. Era brava a parlare, ma al suo posto avrebbe fatto ben di peggio. Ezer si agitò sulla sedia, irrequieto. Emise un profondo sospiro, cercando di recuperare la calma. «Hai ragione ragazza. La fretta non è mai una buona consigliera. Ma non posso starmene qui con le mani in mano, capisci? Ogni attimo perduto potrebbe essergli fatale!» «Me ne rendo conto, non temere. Dobbiamo agire in fretta, ma senza essere avventati. Soprattutto quando da ciò dipende la vita di qualcuno che amiamo. E' una delle lezioni più importanti che ho appreso sul campo di battaglia, te lo garantisco.» Si guardò attorno, controllando che nessun altro nella taverna avesse prestato orecchio alle inquietanti notizie. Poi si alzò, ostentando noncuranza, ed invitò Ezer a fare lo stesso: «Forza, torniamo a casa. Là decideremo il da farsi.» Si avviarono verso l’uscita. Ezer cercò di apparire rilassato, ma aveva una bruttissima cera. Passando accanto al bancone, fecero un rapido cenno di saluto all’oste e al mercante, già sulla strada di una forte ubriacatura. La brezza fresca della notte accarezzo i loro volti quando varcarono la soglia del “Leone Danzante”, ma nessuno dei due ne fu riconfortato. Camminarono a passo svelto sino alla baracca di Ezer, senza scambiarsi neppure una parola. Sarebbe stata una lunga notte di piani e discussioni, Kyra lo sapeva bene. Ma in cuor suo, a dispetto di tutte le raccomandazioni, aveva già preso un’importante decisione. Tutto stava nel far sì che anche Ezer la accettasse, e non sarebbe stato facile.
----Il mattino successivo, Kyra si destò prima dell'alba. Si alzò da letto senza indugiare, anche se non correva il rischio di riaddormentarsi. Non quel giorno. Indossò gli abiti da viaggio, calzò gli stivali di morbida pelle, e uscì dal capanno. Il sole sorgeva all’orizzonte, eclissando coi suoi raggi il fioco brillio delle ultime stelle. Come ogni mattina, Kyra camminò fino al pozzo e si risciacquò il viso. Poco dopo, con la sacca in spalla e gli inseparabili pugnali affibbiati alla cintura, era pronta a mettersi in viaggio verso Dekka. Si soffermò con lo sguardo sulla baia tranquilla e sui moli, dove alcuni pescatori stavano attrezzando le barche. In quel momento, Ezer uscì dalla sua baracca, e restò ad osservarla dalla soglia. Scosse la testa con aria triste, poi le rivolse un sorriso forzato. Kyra gli sorrise di rimando. Avrebbe fatto del suo meglio per riportare il ragazzo a casa. Per il bene del vecchio, e per poter tornare da lui a Mirna quanto prima, come il cuore le comandava. Come previsto, aveva faticato a convincere Ezer che quella era la soluzione migliore per tutti. Viaggiando da sola, speditamente, e senza doversi preoccupare per l’incolumità del vecchio, avrebbe avuto maggiori probabilità di successo. Per quanto Ezer avesse protestato e puntato i piedi, alla fine si era dovuto arrendere all’evidenza logica. Kyra era una guerriera energica e scaltra, e sarebbe potuta riuscire là dove lui non aveva speranze. Soltanto dopo lunghe ore di discussione, e con una buona dose di persuasione, il vecchio si era
messo il cuore in pace. Ma si sentiva un pusillanime all’idea di mandare la ragazza incontro al pericolo al posto suo - per motivi che per di più non avrebbero dovuto toccarla. Perciò, quando Kyra gli voltò le spalle nella luce dell’alba, provò una stretta al cuore. Come se stesse perdendo, una volta di più, una figlia adorata.
VIII - L’Addestratore di Serpenti
Un paio d’ore prima dell’alba, avvolti in una fitta nebbia, cinque cavalieri incappucciati uscirono al galoppo dai cancelli della fortezza di Bezer. Un contadino solitario, in marcia verso i campi con gli attrezzi in spalla, rabbrividì al loro passaggio, scambiandoli per spettri. Dorian assaporò il freddo del primo mattino come una promessa di novità. Non era riuscito a prendere sonno, durante quella corta notte, tanta era la sua aspettativa. E finalmente eccoli in viaggio verso la Torre Grigia di Zontar! Due settimane, se tutto filava liscio. Il resto della Compagnia li avrebbe attesi a Bezer, benché Seras non avesse gradito l’idea. Sperava di liberarsi quanto prima degli sgraditi ospiti, e invece sarebbero rimasti ancora. Dorian era stato molto convincente: se davvero Seras era grato alla Compagnia, questo era il modo giusto di dimostrarlo. Il capitano, che si considerava un uomo d’onore, si era trovato di fronte a un bivio: accettare le condizioni di Dorian, o perdere la faccia. Aveva scelto la prima via, per quanto sgradevole. Dorian si girò sulla sella, curioso di vedere se i quattro compagni condividevano il suo entusiasmo. Quanto a Raduan, non aveva dubbi: potevano dirsi gemelli in spirito. Gli altri tre li aveva scelti a dito. Khorl, il colosso del Nord, cavalcava eretto, senza preoccuparsi del vento: fin da piccolo, tra le vette della Catena di Hamlet, aveva imparato a ignorare la morsa del freddo. Sybil, la giovane guaritrice che gli cavalcava accanto sulla sua puledra baia, sembrava una bambina. Ma guai a trattarla come tale: si rischiava di fare una brutta figura, di fronte alla sua vivissima intelligenza. E che dire di Dorcas? I suoi occhi senza tempo avevano scorto ogni angolo del mondo, il suo arco era famoso tra i cacciatori del Regno. Se era anziano, non lo dimostrava. Dorian, da parte sua, non aveva avuto dubbi nell'affidargli la guida della spedizione. Cavalcarono di gran carriera per dieci giorni, sempre ansiosi di percorrere più strada possibile prima del tramonto. Oltrepassarono villaggi e fattorie isolate, attraversarono campi, guadarono torrenti, mantenendo un ritmo elevato e costante. Le pause furono poche, più che altro per cibarsi e dormire. Durante il giorno non perdevano tempo in conversazioni, limitandosi ad avanzare in linea retta, per quanto possibile, verso la Torre Grigia. Al tramonto del decimo giorno di viaggio il paesaggio cominciò a cambiare, con la comparsa sempre meno sporadica di querce e castagni ad interrompere la piatta distesa dei campi. Nel buio crescente, guidati dalla luna appena sorta e dalle luce delle prime stelle, si trovarono a passare per le vie di un borgo, e giunsero alle loro orecchie, attutiti, i suoni di voci e risate. Attraverso le imposte semiaperte delle finestre, ai lati della via, intravidero camini accesi e tavole apparecchiate con frugalità. Dorian si sorprese a invidiare la vita semplice eppure appagante di chi aveva famiglia e un onesto lavoro. Non per la prima volta, lo addolorava il fatto di essere privo di radici, una sorta di vagabondo sempre in viaggio verso una meta sfuggente. C'era stato un tempo in cui anche lui aveva una famiglia, e una casa riscaldata dal fuoco e dai sentimenti... Ma quel tempo era morto e sepolto. Adesso la Compagnia era la sua famiglia, e il cielo aperto il suo tetto. E non avrebbe fatto cambio con nessuno. Attraversarono il villaggio in silenzio, per non attirare l’attenzione degli abitanti. Proseguirono al trotto nella fioca luce degli astri, inoltrandosi in uno dei boschi che punteggiavano la regione. Dorcas guidava il gruppetto senza esitazioni, forte della decennale esperienza di battitore. Arrestarono i cavalli a notte fonda, in una piccola radura dove si udiva il rumore d'acqua corrente. Provati dalla lunga cavalcata, accesero un falò. Dopo un modesto pasto a base di pane, formaggio e noci, si abbandonarono sulle pesanti coperte da viaggio. Raduan, offertosi di fare il primo turno di guardia, si accomodò su un masso al limite della radura, e riempì di tabacco l’inseparabile pipa di legno intarsiato. Trascorse un paio d’ore fumando in silenzio sotto il cielo stellato, giocando a riconoscere i suoni della notte e a dare una forma e un
nome alle tenui ombre della luce lunare. Come e più di Dorian, era felice del suo modo di vivere. Il fardello della missione condivisa con gli altri membri della Compagnia, più che essergli di peso, lo riempiva di orgoglio e convinzione: ciò che faceva per Abel, lo faceva anche e soprattutto per se stesso. I compagni d’armi erano come fratelli e sorelle per lui, e li avrebbe seguiti dovunque, fin tra le fiamme degli inferi, se necessario. Ma quando il bel viso di Kyra balenò di fronte agli occhi della sua immaginazione, non poté evitare una fitta di dolore. Rivide la scena dell'ultimo litigio, e arrossì di vergogna. Perché mai era andata a finire in quel modo? Nonostante i problemi degli ultimi mesi, non aveva mai smesso di considerarla una parte importante della sua vita. Una grande amica, come minimo. «E forse anche qualcosa in più...» Soffiò fuori una boccata di fumo grigio. Cercò di pensare ad altro. Impossibile. Il volto di lei continuava a tornare, un miraggio tra le ombre della notte. Sopportò finché poté, poi si fece dare il cambio da Dorcas. Avvolto nella coperta, credette di udire uno strano sibilo proveniente dall’oscurità in mezzo agli alberi, ma la sua mente annebbiata dal sonno non vi fece caso. Si assopì. Quando si destò doveva già essere l’alba. Il mondo era avvolto in una coltre di nebbia tanto spessa da nascondere il sole. Persino a due passi era difficile scorgere qualcosa, attraverso quel manto lattiginoso. I compagni di viaggio erano già in piedi: poteva udirne le voci, il crepitare di un falò, e il rumore di tazze. Intirizzito dal freddo pungente, si avvolse la coperta sulle spalle e andò a sedersi accanto al fuoco. Dorian gli porse un infuso d'erbe caldo, che sorseggiò con gratitudine. «Siamo a più di metà strada» dichiarò il comandante «Dovremmo giungere alla Torre da qui a una settimana. Con un po’ di fortuna, incontreremo Zontar lo stesso giorno.» Raduan annuì, sorridendo. Aveva udito diverse storie sul Saggio, e se anche soltanto la metà erano vere, si trattava di un uomo fuori del comune. Nessun altro più di lui poteva dar loro le informazioni di cui avevano un disperato bisogno. E se davvero esisteva una Valle della Luna, lui avrebbe saputo come arrivarci. Finita la colazione, andò a prepararsi per continuare il viaggio. Dalle facce sorridenti intorno a sé, capì che non soltanto il suo era stato un buon risveglio. Percepiva un mutamento nelle cose, l'avvento di un nuovo corso negli eventi. Quando si rimisero in marcia, si sentiva rinvigorito nel corpo e nell’animo. «Segno che ci attende una buona giornata» pensò - dimenticando che spesso anche la migliore delle ipotesi risulta infondata. Avanzarono al passo tra gli alberi, lungo un cammino aperto dai taglialegna, sempre immersi in una nebbia così densa e persistente da sembrare frutto di un sortilegio. Limitando la visuale a pochi passi, la nebbia copriva ogni cosa con un velo di onirica irrealtà, come se creature fantastiche di ogni sorta danzassero appena fuori dalla portata dei viandanti, per poi svanire quando questi si avvicinavano. Raduan rabbrividì, ma non per il freddo. Era snervante proseguire così. Gli occhi di Khorl, che procedeva al suo fianco, saettavano da un lato all'altro senza posa. E dire che il gigante doveva saperne qualcosa, di nebbia. D’un tratto, mentre attraversavano una radura, calò una cortina di assoluto silenzio. Pareva che gli stessi alberi, tutt’intorno, stessero trattenendo il respiro. L’inquietudine dei cinque si tramutò in aperto timore, e più d’uno cercò la propria arma con le dita. Dorian fece segno di fermarsi e si pose in ascolto. Attesero a lungo che un qualsiasi suono penetrasse la barriera ovattata. Ma, quando finalmente giunse, fu da far gelare il sangue nelle vene: il pianto di un bambino, dapprima uno strillo acuto, quindi un singhiozzare sommesso, disperato. Dopo attimi di sconcerto, Dorian decise di voler scoprire cosa stesse accadendo. Bastò uno sguardo per comunicarlo agli altri. Sybil e Dorcas avrebbero fatto da retroguardia, restando coi cavalli. Raduan e Khorl l'avrebbero seguito. A un cenno di Dorian, scesero di sella e si misero in moto. Era dura, orientarsi nel mezzo della foschia, guidati soltanto dai lamenti. Risvegliava brutte immagini nella mente. Avanzarono sull’erba umida per interminabili minuti, fino a imbattersi in una
strada di terra battuta. I gemiti sembravano provenire dalla stessa direzione in cui la strada si perdeva. La seguirono con passo prudente, tenendosi sul ciglio. Raduan incappò in uno spaventapasseri, sbucato all’improvviso dalla nebbia con le braccia nodose protese in avanti, e un ghigno diabolico intagliato nella testa di zucca. Per poco il guerriero non cacciò un urlo, ma si trattenne. Aveva i nervi a fior di pelle. Tutta la serenità di prima era scomparsa. Quando il tetto spiovente di un fienile apparve dinanzi a loro, affiorando dalla nebbia, si resero conto che la strada conduceva a una fattoria. L'aria si riempì di muggiti, e dello strepito delle galline. Ai singhiozzi di prima, che pure continuavano con cadenza regolare, si erano aggiunti altri lamenti di timbro femminile. Sempre più tesi, i tre uomini si approssimarono alla casa. La porta era aperta. Dorian si arrischiò a lanciare una voce all’interno: «C’è nessuno?» Non ottenne risposta, ma i singhiozzi cessarono di colpo. I tre si guardarono, indecisi sul da farsi. Poi, a un cenno del comandante, Khorl si fece avanti, entrò, ed avanzò nel corridoio scuro. Gli altri due lo seguirono in silenzio, le armi estratte dal fodero. Il pavimento di legno consunto scricchiolò sotto il loro peso. La nebbia fluiva densa per il corridoio attraverso la porta spalancata, avvolgendosi come tentacoli alle loro caviglie. Dopo un po', il corridoio si aprì in una sala ampia, dalle pareti di legno rossastro. Una giovane donna giaceva rannicchiata in un angolo, dietro a un tavolo rovesciato. Stringeva a sé un bimbetto dall’aria terrorizzata. Quando i tre uomini si affacciarono nella stanza, la donna alzò la testa di scatto, squadrandoli con occhi imploranti e colmi di orrore. Mosse le labbra, ma non ne uscì alcun suono. Scossa da violenti tremiti, indicò l’altro capo della stanza. I guerrieri volsero lo sguardo nella direzione indicata. La nebbia si scostò a mo’ di sipario, rivelando poco alla volta una scena da incubo. Apparve dapprima il busto di un uomo, riverso schiena a terra, le braccia aperte a croce. I suoi occhi erano vuoti d'espressione. Un rivolo di sangue gli colava dalle labbra violacee sul volto bianco come marmo. Poi, come la corolla di un’improbabile fiore oscuro, si materializzò attorno alla sagoma dell’uomo una gigantesca testa di rettile, nera come la pece e percorsa da striature rosso sangue. Serrava il cadavere mezzo divorato tra le mandibole, ingoiandolo con lenti singulti. Il resto del suo corpo squamoso era avvolto in grandi spire nere e cremisi, mollemente adagiate sul pavimento. Dorian inorridì di fronte alla crudeltà che emanava da quegli occhi a fessura. «Non può essere!» esclamò, arretrando in posizione di difesa. Fu questione di un attimo. La testa del serpente si erse come una molla, gettando di lato il pasto umano. Le sue spire si torsero con fulminea rapidità, e una coda spessa quanto il tronco di un albero si abbatté sulle gambe di Dorian, scagliandolo contro uno scaffale. Stordito, il guerriero si rialzò su un gomito, e cercò a tastoni la spada sfuggitagli di mano. Nel medesimo istante, Khorl e Raduan balzarono avanti e calarono le lame sul cranio oblungo del serpente. Ascia e spada raschiarono innocue sulla superficie ricoperta di scaglie, per poi puntare a terra. I due, sbilanciati, incespicarono. Una violenta frustata della coda schiacciò Raduan a terra, svuotandogli i polmoni. La creatura si inarcò verso l’alto e ripiombò al suolo, infliggendo coi canini una terribile rasoiata al petto di Khorl. L’uomo crollò di schianto, la cotta di maglia imbrattata di sangue. Sferzato dalle urla della donna, Dorian si riprese in tempo per vedere la minaccia che gravava sui compagni. Prese a scagliare addosso al serpente tutto ciò che gli capitava tra le mani, per attirarne l’attenzione. Le fauci della creatura, investita da quella fastidiosa pioggia di oggetti, si aprirono in modo beffardo. Dorian rimase di stucco. Il dannato rettile lo stava deridendo? Ma quando una lampada piena d’olio gli si infranse vicino, e le fiamme guizzarono a lambire la mole scura delle sue spire, il serpente si ritrasse con un sibilo. La cosa non sfuggì a Raduan, che colse l’occasione per mettersi in salvo, rotolando su un fianco. Raccolse un pezzo di legno e ne
incendiò un'estremità nella lingua di fuoco più vicina. Mosso dalla stessa intuizione, Dorian si procurò a sua volta una rudimentale torcia, e reggendola di fronte a sé avanzò incontro al serpente. Con la coda dell’occhio notò che Khorl, ancora disteso in terra, non dava segni di vita. Convergendo un passo alla volta, Dorian e Raduan respinsero in un angolo la mostruosa creatura, atterrita dalla presenza del fuoco. Soffiava la sua rabbia contro di loro in rapidi affondi, nel vano tentativo di intimidirli con la sua stazza. Quando non ebbe più spazio per arretrare, Raduan morse le sue carni con il tizzone ardente. Vi fu uno sfrigolio. Il mostro sibilò come un mantice, e si erse in tutta la sua lunghezza, urtando contro il soffitto. Spalancò le fauci: i due canini rientrarono nella carne, e al loro posto comparvero due ugelli scuri. «A terra!» gridò Dorian, spingendo via Raduan e buttandosi di lato. Quasi nello stesso istante, un fiotto di liquido giallastro sprizzò dalla bocca della creatura, andando a investire il suolo là dove un attimo prima si trovavano i due uomini. Subito la zona bagnata dal liquido cominciò a corrodersi e a fumigare. Raduan si accorse che uno schizzo di quella sostanza ripugnante, impattando con il fuoco, aveva provocato una vampata. In meno di un secondo si girò verso il serpente, in procinto di investirli con un nuovo fiotto d’acido, e scagliò la torcia nelle fauci spalancate. Non appena il fuoco entrò in contatto con il liquido, vi fu un lampo rovente, e un muro di fiamme avvolse il corpo della creatura. In preda a spasmi di dolore incontrollabili, il rettile si ripiegò su se stesso, contorcendosi e sferzando alla cieca con la coda. I due uomini cercarono riparo, trascinando con sé il corpo inanimato di Khorl. Dall’altro lato della sala, la donna e il bambino strepitavano in preda al panico. L’incubo durò per lunghi minuti: il serpente si consumò davanti ai loro occhi in una danza macabra, come un drago di cartapesta nella Festa del Solstizio. Poi, con un ultimo sibilo, piombò lungo disteso al suolo, le grandi spire devastate dalle ustioni. Dorian e Raduan uscirono allo scoperto. Si avvicinarono alla bestia, osservandola con ripugnanza. Quando vide che la vita non era ancor sfuggita dal corpo ansante del rettile, Dorian recuperò la spada. Gliela conficcò nel cranio, e pose fine una volta per tutte alla sua miserabile esistenza. Soltanto allora rivolse a Raduan un sorriso forzato. «Sei ancora tutto intero?» «Penso di sì…» rispose Raduan, lo sguardo assente «Non ero mai incappato in una cosa simile, in tutta la mia vita… Non dovrebbe neppure esistere...» «Già…» rabbrividì Dorian «E quegli occhi! Mi sbaglierò, ma ho visto odio, là dentro: odio vero, non la furia di un animale!» Un gemito provenne da dietro al tavolo rovesciato. «Khorl!» esclamò Dorian, tornando al presente. In due balzi raggiunsero il compagno steso a terra e gli si inginocchiarono al fianco. La sua cotta di maglia catturò i loro sguardi: era lacera e lorda di sangue. «Per fortuna ha protetto gli organi vitali» osservò Raduan, tastando il corpo ferito «Ha delle costole rotte, però. E' facile che perda di nuovo i sensi, ma se agiamo in fretta se la caverà! Dove accidenti sono Sybil e Dorcas?» «Corri ad avvisarli» disse Dorian «Non c'è tempo da perdere!» Raduan corse verso l'uscita, ma si trattenne alla vista della donna accovacciata in un angolo col bambino, tra le lacrime, troppo spaventata anche soltanto per respirare. «Ci penso io» disse Dorian. Sistemò meglio il ferito, che era appena svenuto, e lo coprì col suo mantello. Si avvicinò alla donna: aveva un bel viso, scuro e forte, ma in quel momento stravolto da una profonda angoscia. Le si accovacciò accanto e poggiò una mano sul capo del bambino, che strillava nel suo abbraccio rigido. Accarezzò i capelli ispidi per lunghi istanti, senza dir nulla. Lo sguardo della donna, fisso e assente come quello di una statua, riprese vita a poco a poco. Si riscosse, e allentò la stretta sul figlio. Nascose tra le mani il volto rigato dal pianto.
«E’ tutto finito» sussurrò Dorian, stringendola a sé con delicatezza. Lei singhiozzò, accompagnando il pianto convulso del piccolo. «Sei stata molto coraggiosa» continuò il guerriero «Hai salvato la vita di tuo figlio.» «No!» mormorò lei, sotto shock «No!» «Rilassati, cerca di non pensare» disse Dorian «Devi cercare di riprendere il controllo.» La prese per mano, forzandola pian piano ad alzarsi, col bambino in braccio. Mentre la sorreggeva, fece sì che non si guardasse alle spalle: là dietro giaceva il cadavere sfigurato del poveruomo che era stato suo marito. Sospinse la giovane lungo il corridoio, la condusse in un'altra stanza. La fece sdraiare su un letto col piccolo accanto, senza smettere di pronunciare parole di conforto. Piangendo, la ragazza continuava a invocare il nome del marito. Col maggior tatto possibile, Dorian cercò di farsi spiegare cosa fosse accaduto. Dalle frasi confuse e slegate della donna, scoprì che suo marito era uscito verso l’alba, come sempre, per prendersi cura delle bestie. Era tornato dentro di corsa pochi istanti dopo, urlando e incespicando, inseguito da quella creatura. Il serpente, vestito di nebbia come un crudele manto nuziale, l’aveva abbattuto alle spalle. Lei si era stretta a una parete col bambino, troppo sconvolta per tentare una reazione. Il serpente non l'aveva degnata di uno sguardo. Se n'era rimasto nel suo angolo, continuando a divorare lentamente il poveretto. Dorian non volle forzarla oltre a rievocare i terribili ricordi. Pensò bene di accenderle una candela accanto al letto, e la convinse a riposare un po’ mentre lui montava la guardia fuori dalla stanza. Le promise più volte di non allontanarsi, poi uscì nel corridoio e richiuse la porta alle sue spalle. Aveva bisogno di riflettere sull’accaduto, di trovare una spiegazione razionale a ciò che appariva inconcepibile alla sua mente. Benché avvezzo alle assurdità del mondo sovrannaturale, quel giorno si era trovato di fronte a qualcosa che non aveva riscontri nella sua esperienza. Cos'era, quel rettile? Uno scherzo della natura di straordinarie proporzioni? Un comune serpente, cresciuto e incattivito a dismisura? Eppure gli suonava riduttivo, e non giustificava in alcun modo le sensazioni che aveva provato nello scontro. Era stato un duello all’ultimo sangue contro un nemico dotato di intelligenza, spietato e disposto a tutto pur di ottenere la vittoria. E nessun serpente, per quanto ne sapesse, aveva occhi simili, vivi e ardenti come brace. «Quanti pensieri inutili, comandante. Siete un uomo d’azione, shhh, non un pensatore. Lasciate ad altri, più svegli di voi, queste riflessioni!» La voce, sibilante e carica di sarcasmo, era giunta senza preavviso. Dorian levò il capo di scatto: alla finestra, affacciato dall’esterno della casa dentro il corridoio, stava un uomo dall’aspetto a dir poco inquietante. Magrissimo, gli arti lunghi e snodati come quelli di un insetto, pur chinato in avanti superava i due metri di altezza. Portava abiti di un verde sgargiante, sfrangiati ai bordi, e un curioso copricapo a più punte, simile a quello di un giullare di corte. «Grottesco!» pensò Dorian, squadrando il volto ovale, la pelle olivastra e squamosa. I due occhi avevano la forma di fessure oblique, troppo distanti tra loro. Il naso era piccolo, quasi impercettibile, e una bocca larga, dalle sottili labbra violacee, metteva in mostra gengive prive di denti e una guizzante lingua biforcuta. Dorian, sconvolto dall’apparizione, non ebbe il tempo di notare i dettagli, ma la visione d’insieme lo turbò non poco. Arretrò di un passo, e strinse l’elsa della spada. «State calmo, shhh!» sibilò lo strano essere «Non abbiamo intenzione di farvi del male. Non oggi, almeno» aggiunse, stringendo le pupille da rettile. «Chi diavolo sei?» sbottò Dorian, scioccato. L’altro rispose con una risata sibilante, continuando a fissarlo negli occhi in modo ipnotico. «Bravo, comandante, avete ucciso uno dei nostri cuccioli! Del resto, shhh, non ci aspettavamo nulla di meno, da voi!» «Ti ho chiesto chi sei!» ribatté Dorian. Dentro di sé, sentiva crescere un profondo disagio: possibile che quell’essere fosse il vero responsabile della violenta lotta di prima? Che il vero bersaglio dell’attacco non fosse
quell'innocente famiglia, bensì lui stesso, Dorian della Compagnia del Viandante? «Proprio così» affermò la creatura, come in risposta a una domanda pronunciata ad alta voce «Vi riteniamo piuttosto interessante, comandante.» Pronunciò l’ultima parola con enfasi piena di sarcasmo. «E’ da un po’ che vi stiamo osservando, shhh! Dobbiamo decidere cosa fare di voi.» «Cosa fare… di me?» Dorian decise di aver sentito abbastanza. Estrasse la lama dal fodero, e scattò in avanti. Avrebbe costretto l’essere a spiegarsi meglio, con l’uso della forza, se necessario. Soltanto che tra le dita, invece della solida elsa della sua spada, si trovò a stringere la viscida coda di un serpente. Lo gettò via con uno scarto di repulsione, percuotendosi il corpo con le mani nel timore di averne addosso altri. «Shhh!» giunse alle sue orecchie il sibilo derisorio dell'essere, che lo fissava divertito dalla finestra, il corpo ingobbito in avanti per meglio godersi la scena. «Il piccolo uomo voleva minacciarci, non è così? Ma ci sono ancora tante cose che deve imparare, se crede di poterci toccare...» Lasciò la frase in sospeso. Dorian, paralizzato come un roditore di fronte a un cobra, non mosse un dito. L’essere arricciò le labbra, rivelando una doppia fila di disgustose gengive sdentate, che correva da un lato all’altro del volto piatto, privo di lineamenti. La lingua biforcuta saettò, lambendo l’aria. Poi la grottesca caricatura d’uomo si ritrasse dalla finestra, raddrizzando il corpo snodato: eretto, misurava non meno di tre metri d’altezza. Camminando all’indietro, quasi saltellando con aria di scherno, si allontanò dalla casa. Non produsse il benché minimo rumore, sebbene il suolo fosse ricoperto di foglie e ramoscelli. «Se proprio ci tenete a saperlo» disse ancora «Ci conoscono come l’Addestratore di Serpenti. Le nostre strade torneranno a incrociarsi, shhh, me lo sento. Pregate che non capiti troppo presto!» Pronunciate queste parole, scomparve tra gli alberi. Gli occhi giallastri riapparvero un'ultima volta a mezz’aria, e lo fissarono per alcuni istanti prima di dissolversi nella nebbia.
IX - Zontar il Saggio
Dorian rimase immobile, la schiena appoggiata a una parete, sforzandosi di assorbire l’impatto dell'inattesa apparizione. Si prese la testa tra le mani, e si massaggiò le tempie. Da dov'era sbucato quell'essere grottesco? A cosa miravano le sue minacce? Forse che la battaglia col serpente era stata una trappola, soltanto per metterlo alla prova? E come spiegare la spada tramutata in un rettile guizzante? L'Addestratore di Serpenti... Rabbrividì al pensiero dei due occhi gialli che lo sondavano, che gli leggevano il pensiero. Si rifiutava di credere alle allusioni di quella lingua biforcuta, ma... Sobbalzò quando Raduan comparve all'improvviso, seguito da Sybil e Dorcas. «Di là, presto!» esclamò. Sybil si tolse di spalla la borsa dei medicamenti e si fiondò nell'altra stanza, accompagnata da Dorcas. Raduan rivolse tutta la sua attenzione a Dorian: da una sola occhiata si era reso conto che qualcosa era accaduto. «Che succede?» gli chiese, stringendogli una spalla «Hai una brutta cera!» Si guardò attorno, e notò la spada di Dorian abbandonata in terra, a pochi passi di distanza. «E questa che ci fa lì?» domandò, accingendosi a raccoglierla. «Fermo!» gridò Dorian, e gli sbarrò la strada. «Che ti prende?» Dorian studiò la spada da lontano, come se fosse un oggetto estraneo e pericoloso. Poi, con estrema cautela, si approssimò e si curvò su di essa. La tastò con la punta delle dita, dalla lama giù fino all’elsa, poi la impugnò e la sollevò con aria incredula. «Ma che diavolo...» soggiunse Raduan, incapace di comprendere. «Abbi pazienza. Ti spiegherò tutto dopo» lo zittì Dorian con un cenno della mano, senza spostare gli occhi dalla lama «Adesso occupiamoci della ragazza e del bambino. C’è un villaggio, qua vicino?» «Sì» rispose Raduan, rinunciando a capire «Dorcas crede che ci sia una comunità di taglialegna poco lontano da qui. Credi sia meglio portarli là?» «E’ la cosa migliore. Spero che ci sia qualcuno in grado di aiutarli. Noi non possiamo fare nient'altro.» Fece una pausa, pensieroso. «Credo sia meglio affrettarci. Il viaggio è ancora lungo, e adesso più che mai voglio delle risposte.» Rinfoderò la spada, e strinse un braccio a Raduan. «Su, andiamo di là.» Tornarono al teatro della battaglia. Dorcas si trovava inginocchiato a fianco del compagno ferito, e ne tergeva il sangue dal petto con un panno, mentre Sybil triturava erbe in un vasetto. Non appena li vide entrare, la guaritrice rivolse loro un sorriso fiducioso. «Non corre pericolo di vita, comandante. Il taglio è superficiale, e non ci sono sintomi di avvelenamento. Khorl è duro come una roccia, sarà di nuovo in piedi nel giro di qualche giorno.» Dorian annuì, soddisfatto: «Ottimo lavoro.» Quindi si rivolse al cacciatore: «Dorcas, non appena gli avrete dato le prime cure, voglio che ci guidi al villaggio dei taglialegna. Dovremo lasciarlo là, in attesa che le sue condizioni migliorino. Sybil» disse ancora, rivolgendosi alla guaritrice «dovrai fermarti con lui. Non voglio brutte sorprese. E avrei anche un'altra richiesta da farti...» Così dicendo, girò lo sguardo sul cadavere mutilato del contadino. «Quest'uomo ha smesso di soffrire, e sono certo che gli daranno degna sepoltura. Chi mi preoccupa è sua moglie: Sybil, fa' del tuo meglio per aiutarla a dimenticare.» «Sì, comandante.» Ma non riusciva a distogliere lo sguardo da quel corpo devastato. Sentì crescere dentro di sé
rabbia e afflizione, all'idea che quell'uomo fosse la vittima innocente di uno sporco gioco, una mera comparsa nella trappola messa in atto per lui dall'Addestratore di Serpenti. Il primo tassello di un nuovo rompicapo, come se già non ne avesse abbastanza. Nuove domande senza risposte. Ad ogni giorno che passava, le cose diventavano più complicate. «Zontar» pensò, aggrappandosi a quel nome come a un talismano. Meglio che il Saggio avesse delle risposte. Anche perché, di alternative, non c'era l'ombra.
----Più tardi, al villaggio, Raduan ebbe finalmente modo di conversare a tu per tu con Dorian, per saziare la propria curiosità. Il comandante gli raccontò con dovizia di particolari l’incontro con l’Addestratore di Serpenti, cercando di richiamare alla memoria ogni singolo gesto e parola. Per quanto Raduan si sforzasse, però, non fu di grande aiuto nel far luce sulla vicenda. Allo stesso modo, non seppe dare una spiegazione plausibile alla comparsa del serpente assassino. «Chiediamolo a Zontar» fu tutto ciò che seppe dire. Dorian roteò gli occhi. Aveva sperato che l'amico non fosse tanto a corto di idee quanto lui, ma si era sbagliato. La cosa migliore da fare, come aveva immaginato, era proseguire al più presto verso la Torre Grigia. Si alzò. Due taglialegna gli rivolsero occhiate nervose, e si fecero da parte come se avesse una malattia contagiosa. «Poco male» pensò. Aveva temuto che la morte del contadino, in quelle circostanze, avrebbe creato tensioni pericolose. Non era andata così, per fortuna. Gli abitanti del villaggio avevano reagito con comprensibile angoscia, ma nessuno aveva osato mettere in dubbio il ruolo avuto da Dorian e compagni nella vicenda. E questo nonostante la confusa testimonianza della vedova. Troppe le storie narrate sulla Compagnia del Viandante e sugli spaventosi eventi di cui si rendeva partecipe, troppo il timore ispirato dall'acciaio delle spade, perché qualcuno si sentisse abbastanza coraggioso da mettere in discussione la loro parola. Con amarezza, Dorian pensò che una cattiva fama, pur ingiustificata, era di enorme utilità nel cavarsi d’impiccio dalle peggiori situazioni. Né lui né Raduan avevano fatto alcuno sforzo per rendersi meno temibili agli occhi di quelle persone. Certi che nessuno avrebbe causato problemi a Khorl e Sybil, decisero di rimettersi in viaggio. Speravano che l’Addestratore di Serpenti - qualunque fosse stato il suo movente - non sarebbe tornato a infierire sul villaggio. Certezza non ne avevano, ma una ragionevole speranza era meglio che niente. Perciò Dorcas sellò i cavalli, e montarono senz'altri indugi. Passando tra le modeste case in sella al suo destriero, Dorian lesse sul volto degli abitanti una muta accusa nei suoi confronti, come se la colpa di quanto accaduto dovesse ricadere su di lui. Una volta tanto, rifletté con rimorso, quella gente rischiava di trovarsi dalla parte della ragione: negli ultimi tempi il male lo seguiva come un’ombra, lasciando dietro di sé una scia di sangue innocente. Cavalcarono senza sosta, e senza incidenti, durante l'intera settimana successiva. Dorcas riuscì sempre ad aggirare i pochi ostacoli sul loro cammino, evitando onerose deviazioni. Man mano che procedevano verso oriente, i campi fertili lasciavano sempre più spazio a boschi e pianure incolte. L'aria si fece più fresca e limpida, e un vento leggero prese a soffiare tra le fronde. Un paio di volte, una volpe incuriosita o uno scoiattolo imprudente attraversarono il cammino dei cavalieri, per poi guizzare via atterriti dal sordo rumore degli zoccoli. E al settimo giorno, prima che il tramonto tingesse di arancio le cime degli alberi, giunsero a destinazione. Era la prima volta che Raduan metteva piede in quel luogo. Dorian vi era già stato, ma soltanto di passaggio. Fu così per entrambi una piacevole emozione trovarsi ai piedi della famosa Torre Grigia. Apparve dinanzi a loro senza preavviso, solitaria al centro di un'ombrosa radura circondata da una muraglia di pini. Era una struttura più bassa di quel che avevano immaginato, né troppo massiccia. Era più simile a un'antica colonna dimenticata dal tempo, che a una fortezza militare. Costruita centinaia di anni prima da mani sconosciute, e per uno scopo ormai dimenticato, dava l'impressione di essere in piedi da non più di qualche anno. Neppure un graffio scalfiva la liscia superficie dei blocchi di pietra grigia, lavorati con rara abilità. Nell'insieme, la torre emanava una
palpabile sensazione di sicurezza e solidità, con un tocco di misteriosa bellezza. Non era certo un caso che fosse stata scelta come dimora da un uomo della reputazione di Zontar. Lungo i confini del Regno, già si narravano leggende su come il potente Saggio fosse riuscito a eludere le difese magiche e i trabocchetti della Torre Grigia, conquistandosi così il diritto di abitare tra le sue mura. Pur situata al di fuori delle rotte commerciali, la torre era spesso visitata da studiosi in viaggio, dignitari di corte in cerca di consiglio, o anche semplici curiosi. Questi ultimi in genere non riuscivano a spingersi oltre i cancelli della Torre: un piccolo ma ben addestrato gruppo di guardie aveva il compito di mantenere alla larga i visitatori importuni, poiché il Saggio non tollerava perdite di tempo. Quando Dorian e i compagni si approssimarono ai cancelli, conducendo i cavalli al passo, due uomini vennero loro incontro, le alabarde puntate nella loro direzione. A quell'ora nessun visitatore era il benvenuto, tanto più chi avesse un'apparenza sospetta come i tre che si avvicinavano nella penombra della sera. «Chi siete? Cosa vi porta alla Torre Grigia?» domandò una delle guardie, intimando l'alt. Aveva il volto tondo e le mani grassocce, e vestiva un'uniforme grigia con il simbolo di Zontar, una torre affiancata da due alberi verdi. «Sono Dorian, comandante della Compagnia del Viandante. Loro stanno con me.» La guardia li squadrò allarmata: «Nessuno mi ha avvertito del vostro arrivo. Che volete?» «Chiediamo udienza al Saggio Zontar, e che la sua sapienza possa illuminare il nostro cammino» disse Dorian. Un po' di deferenza poteva aprire più porte di una formula magica. «Uhmpf!» borbottò l'uomo, senza abbassare la guardia «Non credete che sia tardi per venire a turbare il Saggio con le vostre suppliche? Tornate domattina, e forse Zontar vi riceverà!» Raduan non gradì il tono arrogante: «Chi sei tu per decidere al posto del tuo padrone? Non abbiamo tempo da perdere, per cui fatti da parte e lasciaci passare!» La guardia restò a bocca aperta dinanzi a un tale affronto. Prima che potesse reagire, Dorian ritentò la carta della diplomazia: «Vi prego di scusare le parole avventate del mio sottoposto. Senz'altro il faticoso viaggio ha annebbiato il suo giudizio...» Nel dire ciò, rivolse un'occhiataccia a Raduan. Poi proseguì, in tono umile: «Se tuttavia voleste farci la gentilezza di interpellare Zontar, ve ne saremmo molto grati. Sono gravi le circostanze che ci portano al suo cospetto.» L'uomo ci pensò su, rabbonito dalle maniere gentili di Dorian. Infine accettò di mandare qualcuno a chiarire la questione direttamente con il Saggio. Non dovettero attendere molto per ottenere risposta. Un uomo uscì dalla torre, magro e allampanato, e venne verso di loro con calma affettata. Indossava un'elegante tunica grigia e scarpe lucide. Si presentò come il capo della servitù, dando una colorita enfasi alla propria mansione. Non mostrò invece particolare interesse riguardo all'identità degli inattesi ospiti. «Padron Zontar vuol essere sicuro che siate sistemati nel migliore dei modi» disse «Vi riceverà di persona, una volta che vi sarete ripresi dalla stanchezza del viaggio.» Fece loro cenno di seguirlo, e per prima cosa li condusse alle stalle fuori dalle mura, dove lasciarono i cavalli. Varcarono quindi il massiccio portale della Torre, e fin da subito rimasero colpiti dall'atmosfera di silenzio e ordine che vi regnava. «Non siamo soliti ospitare molte persone. Il nostro padrone apprezza la sua solitudine. Ma nel vostro caso ha deciso di fare un'eccezione.» Dorian e Raduan si scambiarono un'occhiata di sollievo: finalmente un briciolo di fortuna, dopo tante disavventure. L'uomo li condusse lungo uno stretto corridoio circolare che correva a ridosso delle mura. Assegnò loro una stanza con tre letti. «Ci sono dei bagni in fondo al corridoio» li informò «Sentitevi liberi di farne uso.»
E da come li osservò, con malcelato disprezzo, intuirono che era un chiaro invito a prendersi cura della propria igiene. «Vorrei vedere lui, dopo due settimane a cavallo!» sussurrò Dorcas, e gli altri due dovettero soffocare una risata. «La cena sarà servita tra un'ora. Per raggiungere il refettorio, prendete la rampa di scale in fondo al corridoio: sono certo che non avrete difficoltà. E adesso, con il vostro permesso, vorrei tornare alle mie occupazioni...» Detto ciò, e senza attendere permesso alcuno, girò le spalle e si allontanò lungo il corridoio. «Speriamo che Zontar sia un tipo più alla mano» commentò Raduan. «Ne sono certo» lo rassicurò Dorian con un mezzo sorriso «Bene, allora. Diamoci una ripulita, non possiamo comparire dinanzi al Saggio così conciati!»
----Nel giro di un'ora, lavati e vestiti, furono al refettorio. La sala, dal basso soffitto a botte, era zeppa di tavoli e sedie di legno decorato. Fiamme vivaci danzavano nel camino, rischiarando l'ambiente. Un altro gruppetto di persone stava approfittando dell'ospitalità della casa: dal modo di sedere ingobbito, e dal fatto che preferissero i loro tomi a una sana conversazione, non potevano che essere degli studiosi. La Torre ne riceveva parecchi durante l'anno, tutti ansiosi di confrontare il proprio sapere con quello del padrone di casa. Pochi di loro ricevevano l'attenzione desiderata, ma in ogni caso la ricca ospitalità valeva il viaggio. I tre guerrieri se ne accorsero non appena sedettero a tavola: cibo e bevande, ben più generosi di quel che si aspettavano, li lasciarono estasiati. Raduan in particolare dimostrò tale entusiasmo per la carne di cinghiale al sugo d'erbe selvatiche, e per il robusto vino rosso che l'accompagnava, che Dorian si vide costretto a richiamarlo alla sobrietà. Lui stesso, tuttavia, dovette ammettere di sentirsi rianimato dal ricco pasto e dal calore dell'ambiente. Quando fu sazio, Dorcas si congedò dai compagni, cogliendo il momento adatto per abbandonare la scena. Aveva già compiuto la sua parte in quel viaggio, conducendo Dorian e Raduan a destinazione nel minor tempo possibile. Ciò che sarebbe accaduto in seguito non lo riguardava, erano questioni private del comandante e del suo braccio destro. I due amici gli diedero la buona notte e si alzarono da tavola, per andare ad accomodarsi su una panca vicino al camino. Accesero le pipe e fumarono in tranquillità per un buon tempo, scambiandosi appena qualche parola. E a sera già inoltrata, il padrone di casa fece la sua attesa comparsa. Era un uomo alto e sottile, la carnagione scura in contrasto coi fili argentei della barba e dei capelli, legati in una coda di cavallo che gli arrivava fin quasi all’altezza della vita. La pelle del viso e delle mani era rugosa come quella di un vecchio, ma i duri occhi grigi brillavano di un’intelligenza più viva che mai. Una semplice veste, grigia come la Torre, scendeva sino a coprirgli i piedi. Camminò dritto verso di loro, senza degnare di uno sguardo le altre persone presenti nella sala. Quando li raggiunse, si produssero in un breve inchino di cortesia. «I guerrieri della Compagnia del Viandante, suppongo» osservò il Saggio, con voce gentile. «E’ un privilegio essere ricevuti da voi in persona, saggio Zontar» rispose Dorian, con sincera umiltà. «L’onore è mio, comandante Dorian.» Dorian inarcò un sopracciglio, sorpreso. Non ricordava di aver detto il proprio nome a nessuno, a parte la stolida guardia del cancello. «Perché leggo sorpresa sul vostro volto, comandante?» continuò Zontar, sorridendo «Credevate davvero che il Viandante non mi avesse mai citato il vostro nome? Siete un uomo modesto.» «Non sono che un semplice soldato...» replicò Dorian, sforzandosi di non arrossire come un ragazzino. «Mmm, dubito che il luogotenente del venerabile Abel si possa considerare un semplice soldato. Ma ci stiamo perdendo nei convenevoli. Ditemi, chi è il vostro amico?» «Raduan, il mio braccio destro» spiegò Dorian, presentandolo. Raduan ripeté l'inchino.
«Bentrovato, mastro Raduan» annuì Zontar «Siate i benvenuti nella mia dimora. Spero che finora l’accoglienza sia stata di vostro gradimento.» «In tutta sincerità, signore» affermò Raduan «non avrei mai immaginato che le cucine della Torre Grigia sfornassero manicaretti tanto deliziosi...» «Ahahah!» rise Zontar, di gusto «Grazie tante! Avevo già abbastanza problemi con gli studiosi, ma a partire da oggi dovrò guardarmi le spalle anche dai buongustai del Regno! Questa proprio non ci voleva!» I due risero di rimando, ma presto ricaddero in un silenzio imbarazzato. Fu di nuovo Zontar a prendere la parola: «Suppongo che non sia stata l’abilità dei miei cuochi a condurvi fin qui.» Li squadrò uno alla volta, con gravità. «E’ forse accaduto qualcosa? E perché il Bianco Viandante non è con voi? Sa bene quanto io ami conversare con lui!» Dorian cercò di rispondere, senza saper da dove cominciare: «Molte cose sono successe negli ultimi mesi, saggio Zontar, e mi rammarico che nessuna d’esse sia buona.» Zontar aggrottò la fronte, ma non disse niente. «Le notizie che portiamo sono gravi. Veniamo da voi in cerca di consiglio.» «Dunque i miei sospetti trovano conferma…» mormorò Zontar, lisciandosi la barba con una mano. I due lo fissarono sorpresi. «Purtroppo, credo di essermi già fatto un'idea dei vostri problemi. Ma sono questioni che dobbiamo trattare con la dovuta cautela. Venite, andiamo nel mio studio. Là potremo discutere al riparo da occhi e orecchie indiscreti.» Così dicendo, li invitò a seguirlo fuori dalla sala. Nel passare tra due file di studiosi adoranti, ignorò una volta di più i loro untuosi inchini. Dorian e Raduan gli vennero dietro, catalizzando gli sguardi di invidia: era raro che il padrone di casa si scomodasse a ricevere i suoi ospiti di persona. Salirono due rampe di scale e percorsero un breve corridoio, al cui fondo la porta dello studio di Zontar sbarrò loro il cammino: in legno massiccio, e rafforzata con inserti metallici, sembrava indistruttibile. Il Saggio estrasse una chiave dalla veste, e dovette dare diversi giri nella toppa prima che la porta si aprisse verso l’interno. Entrò per primo, e accese una lampada ad olio. La luce invase la piccola sala, proiettando ombre su uno scrittoio carico di pergamene, e sugli scaffali stipati di libri che tappezzavano le pareti. Zontar li fece sedere su comode sedie imbottite, mentre sprofondava a sua volta in una poltrona dall’alto schienale. Dorian e Raduan osservarono con timore reverenziale l’enorme quantità di libri e pergamene ammucchiati nella sala, permeata di antico sapere dal pavimento fino al soffitto. Appeso alla parete, alle spalle di Zontar, vi era un vessillo bianco con le immagini stilizzate di un sole e di una luna in un campo di stelle. Dorian riconobbe al volo il simbolo della Confraternita degli Illuminati, il cui Consiglio era presieduto dallo stesso Zontar. Si spremette le meningi per richiamare alla memoria ciò che Abel gli aveva insegnato. La Confraternita era un'alleanza di sapienti, nata grazie agli sforzi congiunti di Zontar e un pugno di altri studiosi. Composta da membri sparsi ai quattro angoli del Regno, aveva come unico obiettivo la conquista del sapere. Si diceva che fossero dotati di mezzi magici e arcani, grazie ai quali non conoscevano ostacoli. Questo era il punto che Abel non si stancava mai di ripetere: che proprio in virtù delle loro conoscenze, e della loro formidabile rete di informazioni, gli Illuminati erano una forza da non sottovalutare. Gli Illuminati si opponevano a un'altra congregazione di Saggi, altrettanto poderosa: si chiamavano i Figli della Notte, e avevano come scopo non dichiarato l'uso del sapere a fini di dominio sugli uomini. Crawl, capo sciamano delle tribù barbare del Nord, ne era il leader incontrastato, e non rinunciava ai mezzi più subdoli e meschini per ottenere ciò che voleva. Non era sempre stato così. In tempi più sereni, regnava l'unione tra i sapienti di tutte le terre, e le scoperte originate dai loro studi erano una benedizione per l'intera umanità. Ma quando re Feldnost era morto, causando la divisione del Regno in tre parti, l’unione tra i Saggi ne era uscita
compromessa, al punto di portare alla nascita delle due fazioni ostili. Questo era, per sommi capi, ciò che Dorian riusciva a ricordare delle lezioni di Abel. Non gli erano mai andate a genio, ma dentro di sé sapeva quanto fosse importante mantenersi informato sui giochi politici in atto nel Regno, e sui gruppi di potere che andavano formandosi e disfacendosi sulla scena. Erano tutte informazioni utili, tanto più adesso, che non aveva più il Viandante a fargli da balia. Per esempio, non era all’oscuro dell'influenza di Zontar su Feledan. Stando a credere alle voci, il Saggio stava preparando il pavido principe alla guerra contro suo fratello maggiore. «Ebbene» sbottò Zontar, rompendo il filo delle sue riflessioni «da quanto tempo il Viandante è scomparso?» I due sobbalzarono sulle sedie. «Come… come fate a saperlo?» balbettò Dorian, preso in contropiede. «Immagino che capiate» rispose Zontar, con una traccia di malizia nella voce «Un uomo nella mia posizione deve sempre stare alla pari delle cose.» «Spie?» «Preferisco chiamarli informatori. Sono i miei occhi e orecchie nel Regno, mi tengono al corrente dei fatti importanti, come questo. A dire il vero non ne avevo ancora certezza, prima di vedere le vostre facce.» Sorrise, e una ragnatela di rughe gli si formò agli angoli degli occhi. «Il Viandante agisce spesso in modo singolare, non sarebbe la prima volta che mi sorprende. Ma la vostra reazione mi fa pensare di aver visto giusto.» Dorian titubò, preoccupato. Se Zontar sapeva... quanti altri? La Compagnia si era fatta molti nemici giurati, nel corso degli anni. Appena avessero saputo che il Viandante era fuori gioco, sarebbero piombati su di loro come lupi! «Non preoccupatevi comandante. Il vostro segreto con me sarà ben custodito. So dei problemi a cui andreste incontro, se la notizia si diffondesse. Ho sempre considerato il Viandante un amico e un alleato, potete credermi. Anche se non mi ha mai rivelato molto su di sé, ha sempre dimostrato con i fatti che condividiamo gli stessi valori.» I suoi profondi occhi grigi si fissarono in quelli di Dorian. «E adesso, per favore, spiegatemi cosa gli è successo.» «Da dove cominciare?» chiese il guerriero, sospirando. Raduan gli rivolse un cenno d'incoraggiamento. «Comincia dall’inizio…» Il guerriero si impose di non tralasciare nulla che gli sembrasse importante: la misteriosa nota di commiato di Abel; gli inutili tentativi di ricerca; il proseguimento della missione della Compagnia; il ritorno di Iarmin, la mutazione e le sue ultime parole; l’incontro con l’Addestratore di Serpenti e il suo mostruoso cucciolo... Zontar lo interruppe più volte, desideroso di approfondire l’una o l’altra questione. Quando infine Dorian smise di parlare, il Saggio mantenne il silenzio per diversi minuti, senza alzare lo sguardo dalla superficie dello scrittoio. Era talmente immerso nelle proprie riflessioni, che Raduan pensò si fosse tramutato in statua. Quasi balzò di spavento, quando Zontar si riscosse e parlò. «Le notizie che portate sono gravi, è vero. Sarò sincero con voi: temo per la sorte del Bianco Viandante...» «Diteci» chiese Dorian, impaziente «Avete ricavato qualcosa dal mio racconto? Cosa pensate che sia accaduto ad Abel? E come possiamo evitare il peggio, sempre che non sia troppo tardi?» «Sono molti interrogativi, comandante» replicò Zontar, incrociando le dita sotto il mento «Vorrei potervi dare delle risposte chiare, ma purtroppo non ne ho. E mi turba la presenza dell'Addestratore di Serpenti. Non è la prima volta che questo nome giunge alle mie orecchie.» «Dite sul serio?» indagò Dorian, stringendo con forza i braccioli della sedia. «Negli ultimi anni, i miei informatori hanno riportato la sua comparsa nei luoghi più disparati, e sempre con le stesse conseguenze: violenza, morte. Non posso dire quale sia il filo conduttore delle sue azioni, ma senza ombra di dubbio possiede poteri speciali. Non ama uscire allo scoperto, e, che io sappia, chi gli ha rivolto la parola non è mai sopravvissuto per raccontarlo. E’ strano che abbia
deciso di farsi avanti con voi. Temo abbia a che vedere con la sorte del Viandante.» Fece un’altra pausa. I due lo fissavano muti, in attesa. «Vorrei almeno poter scovare un significato nelle parole del vostro moribondo» proseguì poi «Ho già udito parlare della Valle della Luna, questo è certo, ma...» «Ma?» Ancora un po', e Raduan sarebbe balzato in piedi sul tavolo. Perché il vecchio non si sbrigava a parlare? «Non è altro che un mito, una leggenda! Si narra che secoli orsono un gruppo di esploratori si imbatté in una valle così incantevole da causare lacrime di felicità a chi la guardasse. Per questo la battezzarono con un nome tanto evocativo. E guarda caso, in mezzo alla valle sorgeva un tempio d'oro massiccio. Tornarono sui propri passi per radunare altri uomini, ma non appena diedero le spalle alla valle, scoprirono di averla perduta per sempre. Un sortilegio, forse, o chi lo sa. Le leggende sono piene di stranezze. Fatto sta che non riuscirono mai più a posarvi gli occhi.» Esibì un sorriso ironico. «Molti altri tentarono dopo di loro, senza successo. Nel tempo, la Valle della Luna è diventata sinonimo di illusione. Favolosa e splendente, sì, ma pur sempre un'illusione. Come la luna riflessa in fondo a un pozzo. Mi sorprende che non ne abbiate mai sentito parlare! Le antiche leggende stanno perdendo il proprio fascino...» «Eppure sono certo di aver udito quel nome uscire dalla bocca di Iarmin!» insistette Dorian. «Idem» confermò Raduan. «Non so che dirvi. Non possiamo escludere l'ipotesi che stesse vaneggiando, però. Era o non era in punto di morte?» Dorian strinse i denti, timoroso di veder sfumare l'unica pista che gli restava. «Sono certo del contrario! Era ancora lucido!» «Potete crederlo, se volete» rispose Zontar, liquidando l'assunto con un gesto della mano «Servitevi pure della mia biblioteca per saperne di più, se vi va: vi renderete conto che è uno sforzo inutile, una storia senza né capo né coda. Di certo una chimera non vi metterà sulle tracce del Viandante.» Dorian si sentì aggredire dalla frustrazione, e lo sguardo cupo che Raduan gli rivolse rispecchiava il suo disanimo. Si trovavano di nuovo al punto di partenza, a discapito delle speranze accumulate lungo il viaggio. «Non disperate» disse Zontar, soffocando un colpo di tosse «Credo comunque di potervi aiutare.» «Come? Spiegatevi!» sbottò Raduan, piegandosi in avanti sulla sedia. Zontar gli rivolse un lieve sorriso. «Calma, mastro Raduan. Tutto a suo tempo.» Raduan fece per replicare – la calma era l'unico bene di cui fosse davvero a corto - ma Dorian lo mise a tacere con un brusco movimento della mano. «Perdonate la nostra impazienza, saggio Zontar, ma... Provate a mettervi nei nostri panni! Abbiamo un disperato bisogno di risposte!» Zontar li mise a disagio col suo sguardo indagatore. Si schiarì la gola. «Ditemi: che ne sapete delle Arti Arcane?» La domanda fu tanto inaspettata, che non seppero dare una risposta sensata. Si limitarono perciò a strabuzzare gli occhi di fronte all’anziano Saggio. «Ne deduco che il Viandante non ha condiviso con voi i suoi studi» continuò questi, sorridendo con aria cospiratrice «Credo che almeno un'infarinatura sia necessaria, a questo punto. Caso contrario, non riuscireste a comprendere la proposta che intendo farvi.» «Arti Arcane?» ripeté Dorian, senza nascondere la propria incredulità «State parlando di... magia?» «Ebbene sì, magia, se volete!» rise Zontar «Leggo scetticismo nei vostri occhi, comandante. Eppure, di quanti eventi soprannaturali siete già stato testimone?»
«Più di quanti vorrei. Però…» «So che non siete il genere d'uomo che ami porsi domande» tagliò corto Zontar «E so che avete sempre svolto il vostro compito con onestà, senza dubitare della parola del Viandante. Ma credo sia giunta per voi l’ora di aprire gli occhi. E' la migliore opportunità che vi resta, credetemi. Più tardi mi capirete.» Dorian e Raduan si guardarono, interdetti. Non avrebbero mai immaginato che il discorso prendesse quella piega, ma pareva chiaro ad entrambi che era inutile discutere con Zontar. Del resto, non si erano recati alla Torre Grigia proprio per quello, perché il Saggio indicasse loro il cammino? «Siamo nelle vostre mani, Zontar» disse Dorian, aprendo le braccia. «Non indugiamo oltre, allora!» esclamò il Saggio, alzandosi con malcelato entusiasmo «Venite: varchiamo insieme la soglia del mistero!»
X - Per le Vie di Dekka
La strada, un sottile nastro di terra rossastra, si snodava per miglia e miglia lungo il margine dell'altopiano, costeggiando il verde declivio che scendeva al mare. Più in basso, le onde si infrangevano ritmicamente contro la scogliera, tingendo l'acqua di bianco. Il verso dei gabbiani, trasportato dal vento, faceva da sottofondo all'immagine dei pescherecci a vele spiegate nelle acque soleggiate della baia. Kyra sospirò, lanciando un ultimo sguardo ai tetti di Mirna già lontani, e si augurò con tutto il cuore di tornare a vederli quanto prima. Sorrise dentro di sé, pensando alle stranezze del destino. Un mese prima, il suo viaggio verso Dekka si era arrestato in quel medesimo crocevia: allora una notte al villaggio le era parso tempo buttato, ora provava l'esatto opposto. Non si illudeva riguardo al risultato della sua missione. Trovare Ethan tanti giorni dopo la scomparsa, e ricondurlo a casa sano e salvo, era un'impresa molto difficile, se non impossibile. Il pensiero di tornare a mani vuote, o peggio ancora con tristi notizie, la turbava, ma era una possibilità dinanzi alla quale non poteva chiudere gli occhi. In ogni caso, avrebbe fatto tutto ciò che poteva per salvare il giovane, e anche di più. In verità si sentiva in debito con Ezer. Il pescatore, senza neanche rendersene conto, le aveva ridato quella serenità e quell'equilibrio di cui sentiva un disperato bisogno, dopo l'abbandono della Compagnia del Viandante. Con la sua dedizione e la sua burbera amicizia aveva compiuto in lei un vero e proprio miracolo, una rinascita. L'avrebbe ricambiato nel migliore dei modi. «Ci rivedremo presto...» sussurrò. Poi diede le spalle al villaggio, e si incamminò. Era una mattinata piacevole. La brezza proveniente dal mare le accarezzava la pelle, e il cammino si stendeva di fronte a lei fino all'orizzonte, carico di promesse. Camminò senza intoppi durante l'intero arco della giornata, attraversando di buon passo il piatto e verde altipiano. Alla sua destra, il luccichio del mare l'accompagnò lungo l'intero tragitto. Dal lato opposto, il pianoro si stendeva immutato a perdita d'occhio, una linea orizzontale senza interruzioni. Non incontrò molti viaggiatori lungo la strada. La stagione non era ancora propizia al commercio, ma lo sarebbe divenuta nel giro di poche settimane. Allora lunghe carovane di mercanti, con i loro carri carichi di tessuti e manufatti di ogni genere, sarebbero partite da Dekka verso i confini del Principato. Da oriente, in direzione opposta, sarebbero giunti i cacciatori di pelli, per vendere il loro prodotto nella grande città. Se ne avesse incrociato uno lungo il cammino, al suo ritorno da Dekka, avrebbe comprato una bella pelle d'orso per il vecchio. Gli inverni a Mirna dovevano essere molto rigidi. Passò la prima notte di viaggio in una piccola ma confortevole locanda a metà strada tra Mirna e Dekka. Si rifocillò con un'abbondante porzione di pesce alla griglia con verdure, una specialità della regione, accompagnata come sempre da un generoso boccale di limpaq. Quando ebbe calmato fame e sete, fu assalita da una grande spossatezza. Occupò la migliore stanza della locanda, un raro lusso per lei. Quasi non riusciva a rammentarsi l'ultima volta che aveva goduto di tanto conforto: fece un bagno caldo a lume di candela, e si spazzolò con tutta calma i lisci capelli castani, finché il letto la sedusse col richiamo del suo materasso di piume. Dormì sino all'alba un sonno tranquillo e privo di sogni. La seconda parte del viaggio non fu così piacevole: piovve sin dall'inizio della mattinata, una pioggerella fine e pungente che in breve si trasformò in acquazzone, inzuppandola dalla testa ai piedi. La strada di terra battuta si tramutò in un pantano, costringendola a rallentare il passo. A un certo punto si sentì in dovere di aiutare una coppia di mercanti intrappolata con il carro nella morsa del fango. Riuscì nell'intento solo a costo di grande sforzo, e con imprecazioni tali da far arrossire la
giovane moglie del mercante. Come risultato, a parte la gioiosa gratitudine dei due, si lordò di limo fin tra i capelli. A completamento della pessima giornata, si rese conto che non sarebbe riuscita a raggiungere Dekka prima del tramonto, e che non c'era l'ombra di una locanda in quel tratto di strada. Entrò di soppiatto in una stalla, muovendosi leggera per non irritare i bovini. Si adagiò in un canto su un mucchio di paglia, e chiuse gli occhi, cercando di dormire. Questa volta il sonno non venne così in fretta, per via del lezzo, e delle tante aspettative in procinto di realizzarsi. Ancora mezza giornata di cammino, e sarebbe stata di fronte ai cancelli della città, pronta a dare inizio alla sua missione.
----Quando Dekka finalmente apparve alla sua vista, fu un’esperienza allo stesso tempo sorprendente ed inquietante. Dalla cima del colle, Kyra poté godere di una visione globale della città, che le rammentò un enorme insetto dalle zampe grigie protese verso il mare. Una fitta distesa di case occupava l’intero tratto di terraferma antistante la baia - la più ampia di tutto il Mare Interno, secondo Ezer - e verso l’entroterra le costruzioni si abbarbicavano fin sulle pendici dei colli, dando l’impressione di poter rovinare a valle da un momento all’altro. Si distaccava dalla massa, vicino al porto, una costruzione molto vasta, un parallelepipedo sormontato da ciminiere che vomitavano nubi di fumo nero. Kyra rabbrividì quando il suo sguardo fu catturato da quell'edificio: la Fabbrica, con ogni probabilità. Era spaventosa, anche a quella distanza. Una cosa estranea, aliena a tutto ciò che conosceva. «Pensa positivo» si disse. Nessuno l'avrebbe costretta ad avvicinarsi alla Fabbrica. Anzi, adesso che l'aveva vista, era ufficialmente cancellata dalla lista dei luoghi che intendeva visitare. Volse lo sguardo in direzione del porto, immerso in frenetica attività. Mai in vita sua Kyra aveva visto una tale concentrazione di imbarcazioni: navi, zattere, barche da pesca, vascelli mercantili dalla forma agile e scattante, e una miriade di barchette a remi e catamarani sospinti dal vento. Si sorprese di come tutte quelle imbarcazioni riuscissero a muoversi senza causare continue collisioni. Pareva che ogni timoniere sapesse il fatto suo, dentro quel caos. I moli erano affollati all'inverosimile: marinai, pescatori, portatori, commercianti, soldati, e innumerevoli altri personaggi si muovevano come formiche lungo i traballanti pontili di legno. Alcuni trasportavano vasi pieni d'olio e vino, altri trascinavano reti e cordame, altri ancora pattugliavano i moli. Qualcuno di certo si procurava da vivere infilando le mani nelle tasche altrui. Riuscì persino a distinguere un paio di ubriaconi abbracciati alle loro bottiglie: se qualcuno non li metteva in riga, avrebbero presto fatto compagnia ai pesci. Sorrise. La vita del porto di Dekka era persino più attiva e frenetica di come se l’era immaginata, soprattutto confrontandola con la quiete dei moli di Mirna. Ma nonostante la meraviglia del primo contatto, non le sfuggirono particolari poco edificanti: tanto per cominciare, l’aspetto delle acque era scuro e torbido, dello stesso colore del fumo esalato dalle ciminiere non lontane. A tratti, la superficie del mare diventava oleosa. Anche da quella distanza riusciva a vedere i mucchi di rifiuti ammassati come montagne alle spalle dei moli. Strinse gli occhi: erano uomini o cani randagi, quei puntini che si accalcavano sulle pendici di scarti, contendendosi miseri resti? Da lassù, nella viva luce pomeridiana, la prima impressione che Kyra ricavò di Dekka fu quella di una città con molte ombre, e molti scheletri nell'armadio. Prima di intraprendere la discesa verso i cancelli, lanciò un’occhiata alla mastodontica torre che si ergeva al centro del groviglio di abitazioni. Il Palazzo del Governo, senza dubbio. Era impressione sua, o il Palazzo era ingobbito sulle case di Dekka come un avvoltoio? Scosse la testa per scacciare l'immagine. Si stava facendo influenzare troppo da quello che le avevano raccontato. Forse il Governatore non era così terribile come lo dipingevano. E chissà dov'era Ethan, perso in quel marasma di gente. Sarebbe stato come cercare il classico ago nel pagliaio. Meglio sbrigarsi, perciò.
Scese a valle ad ampi passi, rischiando più di una volta di scivolare sul fango traditore venuto a galla la notte precedente. Incrociò una carovana in difficoltà nel risalire il ripido e scivoloso pendio, ma questa volta decise di tirar dritto: aveva già ricevuto la sua dose di fango incrostato tra i capelli. Abbastanza, forse, da far sì che le guardie dei cancelli la buttassero fuori come una vagabonda. Deglutì a vuoto, man mano che si avvicinava, e i cancelli di Dekka si ingigantivano dinanzi a lei. Li avevano ricavati da imponenti tronchi d’albero, stretti assieme da funi e corazzati con spesse placche di metallo brunito. Non avrebbero trattenuto a lungo un esercito invasore, ma senza dubbio facevano onore all'autorità della Guardia Cittadina. Approssimandosi, Kyra sentì una fitta di apprensione. Le guardie stavano controllando con attenzione tutto ciò che entrava e usciva dalla città. E se non l'avessero lasciata passare? Peggio ancora: e se, una volta entrata, non fosse più riuscita ad uscire? Era sempre così, con le grandi città: le davano un senso di claustrofobia. Aveva passato troppo tempo all'aria aperta, con la Compagnia, per riabituarsi. Quando passò sotto l’ampio arco dei cancelli, stava trattenendo il respiro. E proprio quando pensava di essere riuscita a passare senza problemi... «Ehi, tu! Fermati!» Represse l'impulso di correre, e restò ferma dov'era, rivolgendo un sorriso alla guardia che le aveva intimato l’alt. «C’è qualche problema?» chiese, con tono innocente. «Lascia che sia io a dirlo, donna!» rispose la guardia, piazzandosi di fronte a lei con una mano sul pomello della spada. La squadrò con aria truce, e Kyra avvertì la tensione nel suo corpo. «La tua faccia non mi piace per niente…» continuò il soldato, studiando la cicatrice che le attraversava il volto «Chi sei? Cosa ti porta a Dekka?» Attorno ai due si formò un capannello di curiosi, avidi di un po' di azione. Kyra li ignorò, concentrandosi sulla risposta. Come mille volte in passato, maledisse quel taglio che le solcava il viso, richiamando attenzioni indesiderate nei momenti meno opportuni. «Cerco lavoro» spiegò, cercando di apparire convincente «Vengo da Mirna, e là le cose non vanno affatto bene. Spero che qui al porto abbiano bisogno di due mani in più...» La guardia continuò a fissarla con sospetto, soppesando le sue parole. Con una mano accarezzava l'impugnatura della spada. Kyra si augurò che il suo mantello celasse a dovere la presenza dei pugnali gemelli. «Forse non sembra, me la cavo bene in mare» improvvisò, con un sorriso forzato «Questa cicatrice me l’ha fatta un terlick, se proprio lo vuoi sapere. Gran brutta bestia!» I terlick erano tra le creature marine più temute: lunghi fino a sei metri, i pesci di quella razza erano dotati di un affilato corno osseo, con cui sapevano difendersi fin troppo bene. Nel corso degli anni dozzine di pescatori imprudenti erano usciti storpiati dall’incontro con uno di quei pesci colossali, e chiunque fosse dotato di un briciolo di buon senso aveva imparato a tenere le distanze da loro. Al pronunciare il nome della terribile creatura, Kyra ottenne l’effetto sperato: mormorii di sorpresa e ammirazione serpeggiarono tra le persone accalcate attorno a lei, e persino la guardia fu presa in contropiede. Nel suo sguardo, oltre alla minaccia, Kyra vide affiorare una riluttante forma di rispetto. Continuò a studiarla per alcuni istanti, poi fece un passo di lato, aprendole il cammino. La sua prova di attrice era stata un successo. «Sia come sia, sta' attenta a quello che fai. Non ci piacciono gli stranieri che vengono a cercar grane!» «Sissignore» rispose Kyra. Gli rivolse un rapido inchino di gratitudine, poi se ne andò a passo svelto, mescolandosi tra la folla. Percorse in fretta alcune centinaia di metri, svoltando prima in una via e poi in un’altra, senza prestare attenzione a dove stava andando. Quando fu certa di averla scampata, si fermò. Appoggiò la schiena contro un muro, e tirò un sospiro di sollievo. Ma prima che avesse il tempo di raccogliere le idee, qualcuno le strattonò una gamba dei
pantaloni. Guardò in basso, stupita, e vide che un mendicante stava cercando di attirare la sua attenzione. Il poveruomo, con entrambe le gambe ridotte a moncherini, era adagiato su una rudimentale tavola di legno dotata di ruote. Parte del suo volto era fasciata, e dalle sue labbra screpolate scappava un alito pesante. Nell’insieme fu una visione davvero spiacevole, tanto che Kyra si scostò d'istinto, scalciando via la mano dell’uomo. «Che fai?» si lamentò questi «Hai forse paura che ti voglia aggredire, nelle mie condizioni?» «Mi hai spaventato, accidenti a te!» reagì lei, con una punta di rimorso. «Scusami, non era mia intenzione» disse l'uomo, esibendo un timido sorriso «Purtroppo mi capita spesso di non essere notato, nel mio triste stato...» «No, sono io che ti devo delle scuse» replicò Kyra, un poco confusa «Non c'era bisogno che reagissi in quel modo. Stavo pensando ad altro...» «Mmm, capisco. Eppure non sembri una che si spaventa facilmente.» «Che ne sai tu? E comunque, che vuoi per cominciare?» «Beh, non ti ho mai vista da queste parti prima d’ora, e mi chiedevo…» «Ti chiedevi se potevi spillarmi un po’ di quattrini, vero? Non credo proprio!» «No, no, mi hai frainteso! Pensavo di rendermi utile in qualche modo!» Kyra lo squadrò con occhi pieni di dubbio. Come poteva rendersi utile a qualcuno, in quello stato? L’uomo colse il suo sguardo, e assunse un’espressione da cane bastonato. «Ah, certo, dimenticavo! Otto Senza Gambe non è in grado di aiutare nessuno! Povero diavolo, non può neppure muoversi! Perché lo chiamerebbero Senza Gambe, altrimenti?» Sputò in terra con disprezzo, e a fatica, spingendo con le mani, ruotò la sua base d’appoggio in un’altra direzione. «Sciocco, inutile Otto, sempre a infastidire il prossimo!» continuò ad alta voce, teatralmente. Poi le mani gli slittarono sul selciato, e batté la fronte a terra con un lamento. Kyra sospirò, provando un moto di compassione. Quell’uomo non le piaceva per niente - per non dire che le faceva ribrezzo - ma allo stesso tempo non era da lei disprezzare qualcuno soltanto a causa del suo aspetto fisico. Non era proprio lei, in fondo, che odiava a morte essere giudicata per la sua cicatrice? «Aspetta!» esclamò. Otto si fermò all’istante, e girò il capo verso di lei, osservandola con la coda dell’occhio. «Nessuno ti obbliga a compatirmi, donna. Lascia che me ne vada, non ti darò più fastidio...» «No» disse lei «Dopotutto, credo che tu possa aiutarmi.» A quelle parole, Otto sollevò il proprio peso sulle braccia e rigirò la tavola con un fluido movimento, del tutto estraneo agli impacciati sforzi di poco prima. Le rivolse un sorriso mellifluo e calcolatore, e Kyra capì all’istante di essere stata raggirata. Ma non aveva intenzione di perdere altro tempo in giochetti, per cui andò dritta al punto: «Suppongo tu conosca bene la città...» «Come le mie tasche, signora» rispose lui, in tono servile «Voglio dire, se avessi delle vere tasche, eheheh!» aggiunse, scuotendo i lembi dei laceri indumenti che indossava. Kyra si sforzò di combattere una nuova ondata di ribrezzo, e proseguì: «Ho bisogno che mi guidi fino al porto. Cerco la bottega di un commerciante di tessuti di nome Leon. Lo conosci?» Le labbra di Otto si aprirono in un grottesco sorriso sdentato. «Ahh, Leon! Sì, lo conosco, so bene dove trovarlo! Ma è una lunga camminata, fino all’altro capo della città…» Strizzò un occhio a Kyra, facendole capire che non l’avrebbe aiutata per puro spirito di altruismo. «Saprò esserti riconoscente, non temere.» «Sei molto gentile, signora!» rispose Otto, chinandosi fino a toccare terra «Come ho detto, è un lungo cammino. Presto, seguimi!» Detto questo, prese a scivolare svelto lungo la via trafficata che tagliava la città in direzione
Nord, infilandosi tra le gambe dei passanti e spingendoli da parte senza tanti complimenti. Un donnone con una cesta di ortaggi in equilibrio sulla testa quasi inciampò su di lui, imprecando. Cercò di rifilargli una pedata, ma Otto schivò il colpo e le soffiò contro come una serpe inferocita. Poi si voltò sorridente verso Kyra, e le fece cenno di affrettarsi. «Andiamo, signora!» Seguì quello strano personaggio di malavoglia, sperando che non fosse un errore. Ma senza di lui non avrebbe saputo da che parte cominciare a muoversi: Dekka era un labirinto di vie grandi e piccole, attorcigliate su se stesse come la matassa di fili di un sarto incompetente. Otto slittava di fronte a lei sulle quattro ruote con l'energia di un leone, voltandosi in continuazione per sincerarsi di non averla lasciata indietro. Impegnata a non perderlo di vista, Kyra non poté osservare con calma l’ambiente che la circondava, ma ciò che vide confermò l'impressione avuta osservando la città dall’alto. Dekka era un luogo attivo e ricco di vita, ma non certo idilliaco. Ad ogni bottega che si affacciava sulla via, con una ricca selezione di prodotti in mostra sui banconi - vivaci tessuti ricamati, ad esempio, o cibi dall’aspetto tremendamente appetitoso - faceva da contraltare una baracca annerita e fatiscente, sulla cui soglia sedevano bambini dall’aria affamata. Ogni tanto la via si apriva su una sontuosa piazza alberata, adorna di statue e fiori profumati, ma ben più spesso era il lezzo delle fogne a cielo aperto ad aggredirle le narici. L’acqua sudicia scorreva in rivoli ai bordi della strada, offrendo malsane opportunità di gioco a bambini e cani randagi. C'era poco da fare, si sentiva a disagio tra i contrasti di quella città, che non sembravano invece scalfire l'indifferenza di chi incrociava lungo il cammino. Ognuno andava per la propria strada a testa bassa, incurante di ciò che avveniva intorno. I ricchi da un lato, i poveri dall'altro. Due mondi distinti, che non si toccavano, ma intrecciati nelle maglie della stessa città. «Sarà anche uno dei più grandi centri del Regno» si disse «ma c'è qualche problema nella distribuzione delle ricchezze...» Abituata allo stile di vita comunitario della Compagnia del Viandante, aveva difficoltà a comprendere una società in cui pochi prosperavano alle spalle di molti. Non che si facesse scrupoli morali, in realtà. Non ne aveva il diritto, si rammentò, con una punta di rimorso - non dopo aver “banchettato” sulle spoglie dei caduti in battaglia. Era piuttosto una questione di logica: ostenta le tue ricchezze a ogni piè sospinto, mentre metà del popolo fa la fame, e prima o poi quello stesso popolo ti si rivolterà contro per strapparti tutto. «Fa parte della natura umana» pensò, cogliendo con la coda dell'occhio due bambinetti smunti nell’atto di strappare il borsellino a una signora riccamente vestita. «Se non è troppo indiscreto da parte mia, signora, cosa ti spinge alla bottega di Leon?» le chiese Otto, interrompendo il corso delle sue riflessioni. «Semplici affari.» «Chiaro, chiaro. Non sei la prima persona che viene a mercanteggiare sui tessuti di Leon. La sua bottega sarà anche piccola, ma i prodotti sono di prima qualità. Col mio aiuto, riuscirai a negoziare un buon prezzo!» «Ci penserò su. Per adesso, per favore, limitati a condurmi da lui.» «Certo, signora, non ti preoccupare! Siamo vicini, ormai.» Procedettero affiancati, in silenzio. Il quartiere che stavano attraversando aveva un’apparenza tranquilla. Le vie erano strette e silenziose, contornate da abitazioni dalle pareti grigiastre. I suoni e i colori del commercio sbiadivano in lontananza, mentre si addentravano nel labirinto di case. A un tratto la strada sfociò in un crocevia. Otto accelerò, lanciando occhiate nervose alla sua destra. «Più in fretta, signora. Non è bene soffermarsi in questo luogo!» Per un momento Kyra non capì la ragione di tanto timore. Poi, all’improvviso, realizzò: poco distante da loro, oltre le acque di un canale maleodorante, sorgeva un colosso dalle pareti squadrate. Dalle ciminiere, appollaiate sul tetto come una fila di piccioni, si spandeva una spessa cortina di fumo. Il parallelepipedo della Fabbrica poggiava in terra con la pesantezza di una montagna, occupando un’area estesa quanto un quartiere. Non c'era anima viva nei dintorni. Soltanto
all’estremità più lontana della costruzione c'era del movimento: carri entravano ed uscivano in lenta processione, vuoti in un senso di marcia, carichi in quello opposto. Kyra restò a bocca aperta di fronte all’aspetto minaccioso e surreale del complesso. Spostò lo sguardo da un lato all’altro, affascinata, cercando di assorbire il più possibile. Otto prese a strattonarle i pantaloni al ginocchio. «Su, andiamo signora, per favore! Non c’è ragione di fermarci proprio qui!» Lo ignorò, continuando a esaminare il mastodontico edificio, finché qualcosa in particolare non attirò la sua attenzione: una figura si stagliava solitaria davanti alle mura della Fabbrica, perfettamente immobile. Sulle prime Kyra immaginò che si trattasse di una guardia dall’aspetto imponente, in armatura da battaglia. Ma, osservando meglio, si rese conto che c’era qualcosa di strano: anche a quella distanza, la figura pareva di gran lunga più alta di chiunque avesse mai conosciuto. E che dire dell’elmo che indossava? Aveva un nonsoché di bizzarro, era troppo stretto e allungato per contenere la testa di un uomo... Mentre si chiedeva il perché di queste stranezze, accadde qualcosa che le fece rizzare i peli sulla nuca: senza preavviso, i due cerchi scuri nell’elmo del soldato si accesero come tizzoni ardenti, e la sua testa si mosse di scatto nella loro direzione, con la fredda aggressività di un uccello da preda. Kyra balzò all’indietro, e quasi travolse Otto. «Dannato Automa!» gemette l’uomo, segnandosi la fronte in segno di scongiuro «Mi ascolti adesso, signora? Meglio andarcene, prima che quella maledetta macchina venga a prendersela con noi!» Questa volta Kyra non se lo fece ripetere: il timore ebbe la meglio sulla curiosità. Si guardò alle spalle una volta soltanto, mentre si allontanavano: l’Automa non smetteva di fissarla da lontano con quegli occhi infernali, rossi come lava. Rabbrividì, e si affrettò alle calcagna di Otto, già lanciato lungo la strada a forza di braccia. Durante il cammino, pensò ancora a lungo a quell'incontro. Non un incontro ravvicinato, a dire il vero, ma abbastanza da farle sentire sulla pelle l’alone di paura e mistero che avvolgeva quelle creature. Si augurò di non doverne incrociare altre durante la sua permanenza a Dekka - almeno non a una distanza minore di quella. In cuor suo, però, temeva l’esatto opposto.
----Era già pomeriggio inoltrato quando giunsero in prossimità della meta. Kyra lo capì dalla qualità dell'aria, salmastra e satura dei caratteristici aromi del porto - pesce, cordame bagnato e legno putrido, per non dire di peggio. La camminata era stata più lunga del previsto, benché Otto l’avesse avvertita sin dall’inizio. Dall’alto del colle, la distanza dai cancelli fino ai moli non le era parsa tanta, ma aveva sottovalutato la tortuosità del percorso. Otto continuava a procedere spedito, rivolgendole un cenno di tanto in tanto. Sembrava conoscere a menadito il cammino che li avrebbe condotti alla bottega di Leon, e a giudicare dall’entusiasmo con cui si trascinava avanti, non dovevano essere molto lontani. Kyra lo seguiva meccanicamente, la mente già proiettata all'incontro col mercante di tessuti: che tipo era? E soprattutto - pensiero che l'aveva sfiorata più di una volta, durante il viaggio - era davvero chi diceva di essere? O quella lettera era soltanto un'esca, per attirare il padre di Ethan in una trappola? Colpire i parenti di un dissidente era pratica comune, quando c'era di mezzo la politica... Persa in tali riflessioni, fino all’ultimo non si rese conto del pericolo: un sasso, scagliato con forza e precisione, colpì il selciato a una spanna di distanza dai suoi piedi. Si arrestò all'istante, le dita strette sulle impugnature dei pugnali gemelli, sotto il mantello. Valutò con un rapido colpo d’occhio la situazione in cui si era cacciata, e la prospettiva non la fece sorridere. «Dannazione!» esclamò. Era circondata da un nugolo d'uomini, brutti ceffi armati di fionde, catene e bastoni. Ciascuno portava un fazzoletto dai colori sgargianti avvolto intorno alla fronte, un simbolo di appartenenza a quella che era, con ogni probabilità, una banda criminale dei bassifondi di Dekka. Avevano formato un cerchio attorno a lei, materializzandosi dagli angoli bui ai lati della via. Per il momento si
limitavano ad osservarla, ghignando e rivolgendole epiteti poco edificanti. Cercò Otto con lo sguardo, e i suoi timori presero forma quando lo vide defilato ai bordi del cerchio, dietro alla prima fila di uomini. Le sue labbra erano arricciate in una smorfia maliziosa. «Maledetto! Avrei dovuto immaginarlo!» sbraitò Kyra, le vene del collo gonfie di rabbia. «Spiacente, signora» rispose Otto, irridendola «Un poveruomo come me deve pur guadagnarsi da vivere…» «Hai commesso un grave errore» replicò lei, in un tono di voce che non tradiva paura né esitazione. «Non scherzare, donna! Consegnaci i tuoi averi senza farti pregare, e giuro che te ne andrai senza un graffio! Non ti faremo del male, a meno di esserci costretti...» Kyra non gli credette neppure per un istante: i malviventi già si scambiavano occhiate inequivocabili, sogghignando alla prospettiva di spassarsela con lei. Doveva trovare il modo di fuggire, e in fretta. Tentò per prima la carta della diplomazia, benché sapesse di non poterci contare troppo. «Non ho nulla con me, a parte la mia borsa. Ve la darò, se mi aprite il cammino...» Otto fece una smorfia. «Non provarci nemmeno! Facci vedere sotto il mantello, piuttosto! Credi che non abbia notato come te lo stringevi addosso, lungo il cammino?» La spogliò con gli occhi, accecato dall’avidità, mentre alcuni dei suoi compari si facevano avanti. Per Kyra era venuta l'ora di agire. «Vuoi sapere cosa nascondo, miserabile?» lo sfidò «Eccoti accontentato!» Con un gesto del braccio si strappò il manto di dosso, gettandolo contro i due nemici più prossimi. Allo stesso tempo si buttò in avanti e rotolò sul dorso, sguainando le lame gemelle. Dopo un giro completo su se stessa, si ritrovò in mezzo ai due, impacciati dal mantello, e con una duplice rasoiata tranciò loro i tendini dietro alle ginocchia. Crollarono a terra ululando di dolore, mentre Kyra già piroettava in alto con la grazia di una ballerina. Falciati da quel turbine tagliente, altri tre uomini si accasciarono al suolo, stringendosi il petto. Il cerchio degli aggressori era rotto. Kyra si tuffò nel varco, pronta a fuggire tra le ombre prima che svanisse l’effetto sorpresa. Ma proprio all’ultimo una catena le si avvolse attorno a una caviglia, facendola incespicare. Chiunque fosse, non aveva intenzione di lasciarla scappare: con un violento strattone la fece cadere in terra, e la costrinse a mollare la presa sui pugnali. Prima che potesse recuperarli, Otto si mise in mezzo con la sua tavola a ruote, schizzandole fango negli occhi. Kyra imprecò, mentre la catena la trascinava indietro nel cerchio d’uomini. Si rigirò sulla schiena per vedere in faccia il suo avversario, e proruppe in un’esclamazione di sorpresa. L’uomo in piedi di fronte a lei, che la trascinava con la sola forza bruta della sua massa muscolare, era una delle figure più ripugnanti su cui avesse mai posato gli occhi. La sua bocca era larga e deforme, spalancata in un sorriso demente. Dalle labbra affioravano due folte file di zanne triangolari dai riflessi metallici, puntute come quelle di uno squalo. Due occhi a mandorla, piccoli e ravvicinati, la studiavano con la stessa divertita curiosità di un gatto che gioca con un topo. Sbavando dagli angoli della bocca, l’uomo continuò a tirare a sé la catena, insensibile alla disperata opposizione di Kyra. Nell’altra mano, agitava una clava dall'aspetto poco rassicurante. «Mwahahaha!» rise, producendo un suono gorgogliante. Mugolò qualcosa di incomprensibile, ma l'eccitazione nel suo sguardo non aveva bisogno di parole. Gli altri uomini lo incitavano, godendosi la scena. Nessuno distolse gli occhi per prendersi cura dei compagni feriti, che si rigiravano al suolo tra i lamenti. Kyra si rese conto che ogni tentativo di resistere a quella forza schiacciante era inutile. Un metro dopo l’altro, la distanza che la separava dalle fauci mostruose diminuiva inesorabilmente. Fu allora che venne a soccorrerla un ricordo emerso dal passato, racchiuso nella sua memoria da chissà quanti anni... Era poco più che una bambina a quel tempo, e un giovane Dorian le stava insegnando le basi
della lotta corpo a corpo. Ogni volta che lei gli si scagliava contro, cercando di colpirlo con un pugno o con un calcio, lui non si limitava a schivare il colpo, bensì lo accompagnava con la propria forza, facendole perdere l’equilibrio. Dopo diversi minuti di tentativi infruttuosi, frustrata come non mai, Kyra aveva smesso di lottare ed era rimasta accasciata a terra, sull’orlo delle lacrime. Dorian le si era avvicinato sorridente, e scompigliandole i capelli le aveva rivelato uno dei più semplici e importanti segreti delle arti marziali: «Quando lotti contro un avversario più forte di te, Kyra, fa’ come ti ho mostrato. Non opporti alla sua forza, assecondala piuttosto, e sfruttala a tuo vantaggio. A quel punto, ti sarai impadronita della migliore arma in suo possesso, e avrai già vinto la battaglia.» Era il momento di mettere in atto quella vecchia lezione: smise di strattonare la catena nel futile tentativo di opporsi alla forza del gigante, e concentrò invece i suoi sforzi nel cercare un punto d'appoggio per il piede ancora libero. Quando vi riuscì, fece leva su di esso e diede un gran balzo in avanti. L'avversario, preso in contropiede dal repentino disequilibrio di forze, barcollò all’indietro. In un battito di ciglia Kyra gli fu addosso, e gli affibbiò una violenta testata sul naso. Gli scagnozzi proruppero in un’esclamazione di sorpresa, ma nessuno osò intervenire. Kyra arretrò a distanza di sicurezza dal gigante, ma questi non si diede per vinto: non mollò la presa sulla catena, ancora avvolta intorno alla caviglia di lei, e con uno strattone la ricondusse a sé. Prima che Kyra potesse cercare una nuova via di fuga, la sferzò in pieno viso con un manrovescio talmente violento da farla girare su se stessa. Persino in quel frangente, Kyra riuscì a mettere in pratica quanto appreso in anni di duro addestramento a fianco dei migliori guerrieri del Regno: ignorando il dolore della botta, ne sfruttò la forza facendo perno su una gamba, spiccò un salto degno di un'acrobata, e atterrò alle spalle dello stupefatto avversario. Afferrò una sezione floscia della catena e gliela avvolse attorno al collo. L'energumeno, infuriato da quell'inaspettata resistenza, diede un altro strattone alla catena: gli anelli gli si strinsero sulla gola, affondandogli nella carne. Cadde in ginocchio, paonazzo in volto, e Kyra mollò la catena. Il bestione ne approfittò per liberarsi dalla morsa, ma indugiò a terra un attimo di troppo, in preda a un eccesso di tosse. Quando si riprese, si trovò a fissare a un palmo di distanza dal proprio naso la stessa clava che aveva lasciato cadere, adesso impugnata saldamente dalla sua avversaria. «Sogni d’oro!» disse Kyra, prima di colpirlo a una tempia. Stramazzò lungo disteso a terra, privo di sensi. Ridotto così, inerme e pancia all’aria, con la grottesca bocca spalancata, pareva in tutti i sensi un'enorme pesce fuor d’acqua. E dove un attimo prima l’aria ribolliva di grida e minacce, calò il completo silenzio. Nessuno si mosse, mentre Kyra si aggirava dentro al cerchio come una belva ferita, e per questo ancor più pericolosa. Cercò con lo sguardo i suoi fedeli pugnali gemelli, e se ne impadronì, mollando la clava. Ancora nessun movimento da parte dei membri della banda. Si limitavano a fissarla in silenzio, come in attesa di qualcosa. Era una situazione di stallo. La mossa giusta le avrebbe salvato la vita. Quella sbagliata... beh, meglio non pensarci! Decise di giocarsi il tutto per tutto. In ogni caso, non poteva peggiorare le cose. Erse il capo, raddrizzò la schiena, e squadrò i malviventi negli occhi, uno ad uno. Quindi si approssimò alla figura inerte del capo banda, e gli si inginocchiò accanto. Con un preciso affondo, estirpò di netto una delle sue zanne artificiali. Strinse tra le dita il macabro trofeo, si alzò e lo protese verso il cielo, in modo che tutti potessero vederlo. «E adesso vediamo che succede…» pensò, pregando di aver fatto la cosa giusta. Anche quello le era venuto in mente pensando alle lezioni di Dorian: «Cosa faresti, Kyra, se un branco di lupi ti circondasse? Non lo sai? Te lo dico io. Dovresti affrontare il capo branco, abbatterlo, e mozzargli la testa. Soltanto così gli altri lupi ti rispetterebbero, e ti lascerebbero vivere.» Con quella banda di miserabili era lo stesso, anche se si era accontentata di un dente, invece di una testa. Decapitare sconosciuti non era proprio il suo stile.
Gli attimi passarono in un silenzio teso. Poteva sentire le gocce di sudore scivolarle lungo il viso, e sgocciolare a terra. Poi, uno degli uomini si mosse. E un altro. E un altro. Uno ad uno, chinando il capo, i malviventi si inginocchiarono dinanzi a lei. Si tolsero i fazzoletti colorati dalla testa e li protesero nella sua direzione. Kyra deglutì a secco. Che stava succedendo? Uno degli uomini, biondiccio e smilzo, con il volto affilato simile a quello di un furetto, le si approssimò, rivolgendole uno sguardo calcolatore. Poi disse, con voce stridula: «Piacere di conoscerti, capo!» «Capo?» balbettò Kyra, più stranita che mai. «Saresti tu, da adesso» continuò l’uomo, abbracciando i compagni con un gesto del braccio «I temibili Ratti di Porto, al tuo servizio!» Le caddero le braccia lungo i fianchi, e non riuscì a spiccicare parola. «Evviva il nuovo capo!» urlò qualcuno. «Viva! Viva!» fecero coro tutti gli altri, gridando, battendo le mani e scagliando al cielo i fazzoletti colorati. «Che sogno bizzarro!» pensò Kyra «A partire da oggi, ho chiuso con il limpaq a cena!» Chiuse gli occhi, e si diede un forte pizzicotto. Quando li riaprì, erano ancora tutti lì, davanti a lei. Il biondo la fissava con preoccupazione. «Tutto bene, capo?»
XI - Leon
«Ridicolo!» pensò Kyra. Doveva ringraziare una divinità dal forte senso dell'umorismo, per quella situazione, o era meglio sbattere la testa contro un muro? Aveva varcato i cancelli della città da neanche un giorno, e già si trovava nei guai fino al collo! Pazienza per la trappola - pur se le bruciava esserci caduta con tanta ingenuità: Dekka era una città dai molti volti, avrebbe dovuto essere più prudente sin dall'inizio. Ma pensare di essere diventata così di punto in bianco un capobanda! Se lo avesse raccontato in giro, nessuno ci avrebbe creduto. Era una cosa davvero troppo assurda. E una fonte di innumerevoli problemi. «Fammi capire meglio» disse, rivolgendosi a faccia-di-furetto «Vorresti dire che tu e questi uomini adesso siete ai miei ordini? Io, una perfetta sconosciuta, sarei il vostro nuovo capo?» «Sono le regole» rispose l'uomo, con un'alzata di spalle «Hai sconfitto in duello il nostro vecchio capo, Kwan Denti di Squalo, per cui devi prendere il suo posto.» «Duello? Che sciocchezza è mai questa?» sbottò Kyra, inviperita «Stavo lottando per la mia vita! Non ho certo sfidato quel bestione perché mi andava di farlo!» «Bah, questo non cambia le cose!» insistette l'uomo, tra il meravigliato e l'offeso «Non sei contenta? Noi Ratti di Porto siamo la banda più temuta del... porto... per l'appunto. Molti ucciderebbero per essere al tuo posto!» «Non ne dubito...» sussurrò Kyra, guardandosi attorno. Era al centro dell'attenzione dei membri della banda, disposti in cerchio attorno a lei: ladri, farabutti, tagliagole e altri relitti umani di varia natura. L'unica cosa temibile era il loro odore. «Come ti chiami?» chiese a faccia-di-furetto, che tutto sommato le era parso abbastanza civilizzato. «Il nome vero non l'ho mai saputo, capo» rispose lui, con un mezzo sorriso «Ma puoi chiamarmi Lisca, come fanno tutti. Non so perché, ma la mia magrezza ha un effetto comico su questo mucchio di imbecilli!» «Lisca, eh? Molto appropriato...» asserì lei. L'uomo pareva uno stecco nei suoi abiti logori, più ampi del necessario di almeno due taglie. «Uhmpf! Se lo dici tu, capo.» «Dimmi una cosa, Lisca. Posso andarmene, adesso, o questa farsa durerà ancora a lungo?» Lisca scosse la testa. «Fossi in te non lo farei. Le regole, capisci. Un capo che dà le spalle alla sua banda non è degno di rispetto. E se non è degno di rispetto...» Si passò un dito sulla gola. Kyra sospirò. L'analogia col branco di lupi calzava a pennello a quella banda. Non le restava che stare al gioco, per il momento, e prima o poi l'occasione di fuga sarebbe giunta. Doveva solo tenere gli occhi aperti. «Allora, che vi aspettate che faccia?» «Non lo so, capo. Come ho detto, sei tu che decidi.» Non sapendo che pesci pigliare, Kyra restò a guardarlo con occhi supplicanti. «Forse potresti annunciare il tuo nome, tanto per cominciare» suggerì Lisca. «Geniale» sbuffò lei. Si girò a fronteggiare quel bizzarro pubblico di mascalzoni, nessuno dei quali aveva osato proferire parola fino ad allora. Tutti gli occhi erano puntati su di lei. Non fosse stato per lo squallore dell'ambientazione, e dei presenti in generale, il momento sarebbe parso solenne. «Il mio nome è Kyra» scandì, sfoggiando un cipiglio che nelle sue intenzioni doveva incutere
timore e rispetto «A quanto pare, da oggi sono il vostro nuovo capo. Il mio predecessore ha preferito rinunciare all'incarico» aggiunse, additando con disprezzo il corpo privo di sensi di Kwan Denti di Squalo. Fu una mossa azzeccata: vi furono parecchi ghigni di ilarità, e aperte risate. Quella reazione diede a Kyra un'idea ancor più interessante: c'era una cosa che desiderava fare ardentemente, sin dai primi attimi dell'imboscata... «Otto!» chiamò a gran voce, cercandolo con lo sguardo. Non ottenne risposta. «Fatti avanti, non essere codardo! Voglio premiarti per il meraviglioso dono che mi hai fatto!» Vi fu un movimento alla sua destra. Un paio d'uomini si scostarono, imprecando, ed Otto sbucò all'altezza delle loro ginocchia, spingendosi sul carrello a forza di braccia. Avanzò timidamente, lo sguardo fisso a terra, sino a ritrovarsi ai piedi di Kyra. «Eccomi, capo» disse, rivolgendole un sorriso di ingenua speranza. Kyra gli sorrise di rimando, con la dolcezza di un cobra. Poi, senza preavviso alcuno, gli rifilò un ceffone tanto violento da farlo ribaltare. Otto rimase intrappolato sotto la sua stessa piattaforma, come una tartaruga riversa sul dorso, e urlò il suo sdegno a pieni polmoni. Le sue grida furono sommerse da una valanga di fischi e risate. Adesso Kyra ne aveva la certezza: era partita con il piede giusto. Si accovacciò accanto alla tartaruga umana. «Con questo, Otto, consideriamo saldato il mio debito di gratitudine» disse, offrendogli la mano «E ritieniti fortunato.» Sulle prime Otto le ringhiò contro, rifiutandosi di accettare la pubblica umiliazione. Ma ben presto, immobilizzato e deriso, si rese conto di non poter far altro che ingoiare il rospo. Digrignò i denti, sputò, ed infine strinse la mano tesa di Kyra, accettando il suo aiuto. Questa lo tirò a sé con tale forza che il brigante quasi le rovinò addosso. Quando i loro volti si sfiorarono, Kyra gli sibilò in un orecchio: «Non provarci mai più, capito? Hai visto cosa sono capace di fare...» «Si, capo. Sei stata molto chiara!» rispose Otto, gemendo, mentre lei gli stringeva la mano con tale entusiasmo da fargli schioccare le ossa. Soddisfatta, Kyra mollò la presa. Otto schizzò via svelto come un ratto, tornando a nascondersi tra le risate. Lisca si approssimò, la bocca guasta aperta in un ampio sorriso a scacchiera. «Ben fatto, capo! Sei più in gamba di quanto pensassi! Ma, per essere una di noi, ti serve ancora una cosa...» Si inginocchiò accanto a Kwan Denti di Squalo, e con uno strattone gli strappò dal capo la bandana, tinta di rosso e nero a strisce alternate. Fece per voltarsi, poi parve ripensarci, e sferrò un calcio nelle costole del gigante immobile. Soltanto allora consegnò a Kyra la bandana. «Tieni, te la sei meritata.» «Ma che bellezza!» pensò Kyra «Un altro rituale del branco...» Cercando di non pensare a quanto quel fazzoletto fosse sporco e sudato, se l'annodò attorno alla fronte. I Ratti di Porto risposero con un ruggito d'esultanza. «Propongo un brindisi alla tua salute, capo!» esplose Lisca, alzando la voce al di sopra del clamore generale «Alla Vecchia Lanterna!» «Alla Vecchia Lanterna!» risposero tutti in coro. Kyra se ne accorse subito: in quel caso l'autorità non le sarebbe servita a nulla. Fu letteralmente trascinata via da un torrente d'uomini esultanti, sempre più a fondo, nei meandri male illuminati del porto. Che lo volesse o meno, la visita a Leon avrebbe dovuto aspettare.
----Il mattino seguente si svegliò di soprassalto, con una punta di panico, senza rammentare dove si trovasse, né perché. Le tempie le pulsavano come due tamburi.
Con qualche difficoltà nel tenere aperti gli occhi, irritati dai raggi di sole che filtravano attraverso le persiane, diede uno sguardo d'insieme alla stanza: un letto dalle lenzuola non proprio candide, mobili impolverati, e una tappezzeria che certamente aveva visto giorni migliori. In breve recuperò la memoria: immagini confuse di una festa, uomini che cantavano e danzavano, cori, risate, ma soprattutto litri e litri di limpaq scuro e corposo che scorrevano dai boccali... Si massaggiò le tempie. «Quando imparerai, Kyra?» Gli avvenimenti della notte prima apparivano sfocati e irreali nella sua mente, ma il fatto che si fosse risvegliata in una stanza della Vecchia Lanterna non lasciava spazio a dubbi. Era tutto reale: aveva davvero affrontato in duello Kwan Denti di Squalo e i suoi scagnozzi, ed era davvero diventata il nuovo capo di quella banda di delinquenti. «Ratti di Porto» pensò, sconsolata. Perlomeno il nome era azzeccato. Rare volte in vita sua aveva conosciuto gente tanto sporca e invadente. Per quel che aveva capito, non erano che un accozzaglia di criminali di mezza tacca. I personaggi davvero pericolosi tra di loro, assassini e simili, si contavano sulla punta delle dita. Il vecchio capo banda era tra questi: l'avevano informata che era un individuo squilibrato e violento, accettato come capo soltanto per paura, non certo per rispetto. Per questo motivo tutti quanti erano stati felici di vederlo a terra, sconfitto. E per lo stesso motivo Kyra aveva cominciato fin da subito a guardarsi le spalle. In effetti Kwan era comparso sulla soglia della taverna, poco dopo la mezzanotte: una massa imponente stagliata sul fondo scuro della notte, alla cui comparsa era caduto un silenzio di tomba. Si era avvicinato a Kyra con estrema lentezza, studiandola, mentre si apriva un varco tra gli uomini impietriti. Giunto a meno di un passo da lei si era fermato, torreggiante, e l'aveva squadrata dall'alto in basso con occhi indecifrabili. Ma un attimo prima che Kyra gli piantasse un pugnale nello stomaco - e con enorme sorpresa di tutti i presenti - Kwan aveva aperto le labbra in un raccapricciante sorriso metallico. Una finestrella scura dava bella mostra di sé nella sua bocca, dove Kyra gli aveva strappato il dente. Dopo averle rifilato un'amichevole e rimbombante pacca sulla schiena – per poco Kyra non aveva sputato i suoi, di denti – Kwan aveva strappato il boccale dalle mani di un poveretto, per poi brindare a Kyra con un mugugno e ingoiare il contenuto tutto d'un fiato. A quel punto, tra risate e acclamazioni, la festa era ricominciata come se nulla fosse, e Kwan si era confuso tra la folla, facendosi largo a spintoni nel mucchio di ubriachi. Sulle prime Kyra era rimasta di stucco. Poi, ripensandoci meglio, si era resa conto che non poteva andare altrimenti: «Come i lupi, sempre come loro!» Marginali come Kwan, privi dei più basilari principi etici, rispettavano una sola legge, e la rispettavano fino in fondo: la legge del più forte. Umiliandolo di fronte a tutti, e per di più da una posizione di chiaro svantaggio, Kyra gli aveva inflitto una lezione difficile da dimenticare. Come un cane – lupo? - addestrato a forza di bastonate, d'ora in avanti Kwan l'avrebbe seguita e obbedita senza discutere. Tornò con la mente al presente, e si accorse di essere ancora seduta sul letto. Se soltanto avesse potuto restarci tutto il giorno... E perché no? Era o non era il capo, del resto? Rise alla propria battuta, ma poi il volto angosciato di Ezer le passò davanti agli occhi, e il peso della responsabilità le fece morire il sorriso sulle labbra. Altro che continuare a poltrire. Doveva vergognarsi di tutto il tempo che aveva già perso. Ma quel giorno la musica sarebbe cambiata. Per prima cosa, avrebbe fatto visita al commerciante Leon come da programma, per ottenere informazioni più precise sulla scomparsa del giovane Ethan. Poi - la prospettiva aveva cominciato ad affiorarle nella mente la notte prima, durante la festa - avrebbe studiato il modo di farsi aiutare dai Ratti di Porto. Non erano un gruppo ben addestrato, né mostravano affiatamento, ma avevano i loro pregi: tanto per cominciare, godevano di un certo ascendente sugli abitanti della zona, per i reiterati sberleffi
alle odiate forze dell'ordine. La loro fama li dotava di ottime capacità di persuasione, che sarebbero venute utili nel rastrellare il quartiere in cerca di informazioni. Inoltre, i membri della banda condividevano un'invidiabile conoscenza dei bassifondi della città. Chi meglio di un Ratto, infatti, poteva aprirsi cammini inaspettati, e aggirare difese apparentemente impenetrabili? Di certo anche questo tipo di abilità le avrebbe fatto comodo. Un passo alla volta, però. Cominciando da Leon. Si lavò in fretta, indossò abiti puliti, e lasciò la stanza. Ad attenderla nella sala principale, al contrario delle sue aspettative, non vi era l'intera banda chiassosa, ma soltanto due facce ben note: Lisca, che sfoggiava il solito tremendo sorriso nel volto scavato, e un imbarazzato Otto, con lo sguardo fisso a terra. Entrambi portavano legati alla fronte i caratteristici fazzoletti a righe colorate della banda. Kyra pensò che le sarebbe toccato usare il suo, prima di offendere qualcuno. Li salutò, e si sedette al loro tavolo. «Dormito bene, capo?» domandò Lisca. «Come una pietra» rispose lei. «È stata proprio una bella festa... Dovremmo cambiare capo un po' più spesso!» «Davvero simpatico, Lisca. Ma dove sono tutti quanti?» «Oh, non ti preoccupare, sono usciti a sbrigare le faccende di routine. Siamo piuttosto indipendenti, come avrai modo di notare.» Kyra non nascose un sorriso d'approvazione. Aveva temuto di perdere ore nel distribuire compiti che non le interessavano, e nel dirimere questioni che non la riguardavano. Ora, invece, avrebbe avuto le mani libere per fare ciò che doveva. «Molto bene» disse «E voi due?» «Noi? Beh, abbiamo pensato che ti servisse una guida qui in città...» «L'ultima esperienza non è stata delle migliori» disse Kyra, squadrando Otto con occhio accusatore. Questi si fece piccolo e arrossì. «Eheheh, ne sono certo, ma faremo in modo che questa volta le cose vadano meglio!» intervenne Lisca. «Lo spero proprio.» Ancora alle prese con la sbornia della notte precedente, Kyra non mangiò nulla, e si accontentò di sorseggiare un infuso di erbe amare. L'oste la servì con malcelato timore, e la giovane intuì che l'uomo non avrebbe chiesto - né tantomeno ricevuto - il dovuto pagamento, tanto per la colazione, quanto per la festa e la stanza. Si ripromise di saldare il conto non appena possibile, anche se non sarebbe stato facile convincere gli altri membri della banda. Uscì poco dopo, fiancheggiata dai suoi strani angeli custodi. Si lasciarono alle spalle la quiete della taverna semivuota, e subito furono investiti dalla chiassosa vivacità del quartiere, affollato e colorito come non mai. Uomini e donne andavano e venivano a passo svelto, immersi nelle proprie faccende, mentre i commercianti vociavano dietro a banconi carichi delle merci più svariate. L'unica cosa che infastidì Kyra fu l'insopportabile lezzo che appestava le vie. Gli abitanti del quartiere parevano immuni, ma le sue narici furono quasi soffocate dal letale misto di aromi di frutta matura, pesce andato a male e acqua di scolo. Quando diede istruzioni a Lisca e Otto, lo fece coprendosi il naso con una manica della camicia. «Non ti piace l'aria pura del mattino?» scherzò Lisca. Kyra roteò gli occhi, cercando di non vomitare. «Ho degli affari da sbrigare con Leon, il commerciante di tessuti» farfugliò dietro alla stoffa «Potete condurmi da lui?» Otto si schiarì la gola. «Certo, capo! É a due passi da qui. Sul serio, stavolta.» «Andiamo allora. Ho già perso abbastanza tempo.» Questa volta Otto fu di parola: in meno di dieci minuti, la condusse fin davanti a un'anonima bottega, e annunciò che erano arrivati a destinazione. L'aria, lì, era meno pesante, e Kyra poté riprendere a respirare normalmente. Da una sola occhiata alla facciata, intuì che gli affari di Leon
non stavano andando troppo bene: le merci esposte erano poche, e l'aspetto della bottega lasciava piuttosto a desiderare, a partire dalle pareti scrostate e dall'insegna cadente. Dava l'idea di essere a un passo dal fallimento. Non le parve un caso isolato, al contrario. Dal suo arrivo a Dekka aveva notato molte altre botteghe in quelle condizioni. Le vennero in mente le farneticazioni di quel grasso mercante, al “Leone Danzante”. Non aveva mentito: la Fabbrica stava davvero facendo piazza pulita della concorrenza. Chissà qual era l'opinione di Leon sull'argomento. Doveva ricordarsi di chiederglielo. «Aspettatemi qui, se volete» disse. Lisca e Otto si guardarono a vicenda, poi il primo le sorrise. «Fa pure con calma, capo. Quando avrai finito, ci troverai qui dove ci hai lasciati.» «Come sono fortunata...» mormorò Kyra, tra i denti, mentre si girava. La porta di legno chiaro, con infissi in vetro lavorato, era davanti a lei. La spinse, ed entrò in un ambiente chiuso e mal illuminato. Rotoli di tessuto di varie dimensioni erano allineati a casaccio lungo gli scaffali. Al centro della sala troneggiava un massiccio tavolo da lavoro, assediato dalla polvere. Kyra si fece avanti, sollevando sbuffi di pulviscolo al suo passaggio. Stava cominciando a chiedersi se la bottega fosse abbandonata, quando un uomo sbucò dal retro, con aria sorpresa e quasi spaventata. Si aggiustò sul naso un paio di occhialetti rotondi, e strinse gli occhi per vedere meglio l'inattesa visitatrice. «Una cliente?» mormorò, con un abbozzo di sorriso «Stavo perdendo le speranze!» Dimostrava una quarantina d'anni, era di media statura, e la calvizie aveva messo allo scoperto buona parte del suo cuoio capelluto. Il volto, dagli occhi scavati e dalle labbra tirate, metteva a nudo una sorta di malessere. «Siete Leon, il commerciante?» «In persona» rispose questi, mentre un'ombra di dubbio gli attraversava il volto «Chi altri vi aspettavate di incontrare?» «Nessun altro, cercavo proprio voi» rispose lei, avanzando di un passo «Ma non sono qui per fare acquisti.» Leon incespicò all'indietro, agitando le braccia. «Lasciatemi in pace, ve ne prego!» piagnucolò «Vi ho già detto tutto! Non so altro, lo giuro!» Kyra mise avanti le mani. «Calmatevi, non avete nulla da temere da me! Vengo dal villaggio di Mirna, per conto di Ezer, il pescatore.» Estrasse da una tasca la lettera ingiallita, e gliela mostrò. Leon restò a fissarla a bocca aperta, ma il dubbio non svanì del tutto dai suoi occhi. «Se davvero lo conoscete, saprete il nome di sua moglie, no?» domandò, sospettoso. «Si chiama Anna. Il vecchio ha battezzato la sua barca con lo stesso nome.» «Giusto... E ditemi: come se la passa la cara Anna?» «Non troppo bene, a dire il vero. E' morta da anni. E, se avete finito con i giochetti, vorrei passare alle cose serie. Non ho fatto tutta questa strada per nulla.» Un'espressione di sollievo si formò sul volto di Leon. Si fece avanti e le strinse la mano con slancio. «Finalmente!» esclamò «Dunque la mia lettera è arrivata a destinazione! Ma ditemi, dov'è Ezer? Dov'è il padre del ragazzo?» «Non è qui.» «No? E voi chi sareste?.» «Mi chiamo Kyra, e diciamo che sono... un'amica di famiglia. Ho pensato che venir qui fosse troppo pericoloso per il vecchio, perciò sono venuta al posto suo.» «Decisione coraggiosa!» annuì Leon, studiandola. Poi, con occhi tristi, aggiunse: «Mi dispiace, non avrei voluto coinvolgere voi o nessun altro in questa brutta storia, eppure non c'era modo. Mi auguro di non avervi causato troppi guai...»
«Me la sto cavando benissimo» affermò Kyra, e quasi scoppiò a ridere al pensiero della faccia che il commerciante avrebbe fatto, una volta scoperto ciò che era riuscita a combinare in meno di una giornata a Dekka. «Ottimo. Dobbiamo conversare! Ma dove sono le mie buone maniere? Gradite una bevanda, forse una tazza di tè?» «No, grazie, non c'è bisogno di...» «Accomodatevi pure, se riuscite a scovare una sedia non troppo impolverata! Vado a prendere qualcosa da bere.» E così dicendo, si dileguò nel retrobottega, senza lasciare a Kyra il tempo di replicare. Sbuffando per l'impazienza, la guerriera si lasciò cadere sulla prima sedia che trovò, senza preoccuparsi della polvere. Leon fu di ritorno nel giro di qualche minuto, reggendo tra le mani un vassoio su cui poggiavano in precario equilibrio una teiera di porcellana e due vecchie tazze. Kyra si sforzò di ingoiare almeno un dito di quella bevanda verdognola, mentre snocciolava la sequenza di eventi che l'avevano condotta sin lì. Come aveva immaginato, il commerciante quasi balzò in piedi sulla sedia quando seppe dei Ratti di Porto. «Non ci posso credere! Volete dire che adesso siete voi il capo di quella banda di farabutti? Voi, da sola, avete sconfitto quella montagna di muscoli coi denti di ferro?» «Perché, lo conoscete?» Leon fischiò, in segno di ammirazione. «E chi non lo conosce? Sono senza parole, io al vostro posto me la sarei fatta sotto! Spero soltanto che questo trambusto non vi abbia attirato addosso le attenzioni della Guardia. Sarebbe molto sconveniente, soprattutto se avete intenzione di aiutarmi...» «Se così non fosse, mi sarei risparmiata il viaggio, non credete? Ma ho bisogno di informazioni più precise, la vostra lettera era fin troppo succinta. Cos'altro potete dirmi?» Lo sguardo di Leon si distanziò, mentre tornava con la memoria al recente passato. «Come avete letto nel messaggio, non c'è traccia del ragazzo da parecchi giorni... Da quella maledetta sera in cui ha voluto soddisfare la sua curiosità, ed io non ho cercato di trattenerlo...» Si aggiustò gli occhiali sul naso. «Quante volte gli avevo detto che era pericoloso aggirarsi vicino alla Fabbrica, e ancor più fare domande su di essa, o sugli Automi? Quei pochi che ci hanno provato, l'hanno pagata cara, potete credermi!» «Sapete chi c'è dietro?» «Dinor, il governatore, senza dubbio. E la Guardia Cittadina al suo soldo...» «Sono accuse pesanti. Avete delle prove?» «Sì, ho delle prove ben concrete» si lamentò Leon, arrotolando le maniche della camicia «E credo che me le porterò dietro per parecchio tempo!» I suoi avambracci erano marcati da una collezione di lividi bluastri, segno di un trattamento tutt'altro che amichevole. «Ecco perché mi sono spaventato tanto, quando avete detto che mi stavate cercando. Scusate se ve lo dico, ma non avete un aspetto molto rassicurante...» Kyra inarcò un sopracciglio. «Cos'è successo?» «La Guardia Cittadina. E pensare che dovrebbero proteggere gli onesti cittadini dai delinquenti. Puah!» Scosse la testa, disgustato. «Quando Ethan è scomparso, sono andato a chiedere il loro aiuto. Ma non è andata come avevo sperato. Prima mi hanno cacciato via in malo modo. Poi sono venuti qui, in tre. Hanno preso a interrogarmi, pensavano che sapessi cose che in realtà non so... E anche quando se ne sono convinti, mi hanno lasciato questi ricordini sulle braccia, per convincermi a lasciar perdere la faccenda. Ma hanno fatto male i loro conti!» Sbatté un pugno sul tavolo, poi lo ritrasse, arrossendo di vergogna. «Sono spaventato, lo ammetto, ma sono anche furioso! Non accetterò questa situazione!»
Rivolse a Kyra due occhi carichi d'intensità. «Ho già sofferto molto in passato, a causa di abusi come questo. Non voglio che la storia si ripeta.» «Vi credo» rispose Kyra «E il mio interesse coincide con il vostro: recuperare il ragazzo, e riportarlo a casa sano e salvo. Aiutatemi a farlo.» «Potete contarci! Dopo aver mandato la lettera, non sono rimasto ad aspettare con le mani in mano: ho ottenuto delle informazioni interessanti dagli amici più stretti di Ethan. A quanto pare, quello sciocco si è infiltrato varie volte nel terreno della Fabbrica...» La fissò con curiosità. «Sapete a cosa mi riferisco, vero? Da anni nessuno parla d'altro qui a Dekka, per cui non è più una novità. Ma immagino che al di fuori delle nostre mura Fabbrica e Automi non siano così noti...» Kyra annuì, tremando al pensiero dell'Automa guardiano visto il giorno precedente lungo il cammino. Quell'Ethan doveva davvero essere fuori di testa, per avvicinarsi alla Fabbrica di sua spontanea volontà! «Non esiste costruzione più imponente della Fabbrica in tutta Dekka, e forse nel Regno» spiegò Leon «Certamente supera qualsiasi altra struttura che io conosca. La cosa sorprendente è che è stata costruita in meno di un anno! E in condizioni a dir poco turbolente: un intero quartiere raso al suolo per lasciar spazio alle fondamenta, e la Guardia Cittadina impegnata a mantenere i curiosi a distanza.» «Come hanno fatto a lavorare così in fretta?» «Gira voce che un piccolo esercito di Automi si sia occupato dei lavori, e mi sento di crederci. Senza contare questo: nessuno di mia conoscenza, né un conoscente di conoscenti, è mai stato impiegato nei lavori, cosa piuttosto strana. Resta solo da capire da dove siano sbucate quelle maledette macchine! Non sono certo cadute dal cielo nelle mani del governatore...» «Torniamo ad Ethan. Perché la Fabbrica gli interessava tanto?» «Non lo so con certezza. A quanto dicono, l'unico scopo della Fabbrica è quello di produrre a più non posso. Che cosa? Qualsiasi cosa! Pensate a un oggetto, e vedrete che fa parte della lista. Da un lato entrano le materie prime, dall'altro escono i prodotti finiti, destinati al commercio. Almeno, questa è la facciata che tutti vediamo...» «Ma?» «Ma non si spiegano tante misure di sicurezza! Un modo per tener lontane le spie della concorrenza, come afferma Dinor? Ridicolo! Anche se io o chiunque altro avessimo tra le mani i progetti della Fabbrica, non sapremmo che farcene, senza una montagna di soldi da investire. Un governatore, invece, con accesso alle casse della città... Mah! Comunque, il ragazzo aveva notato delle anomalie nel trasporto dei prodotti fuori dalla Fabbrica: merce occultata in carri speciali, scorte di uomini armati, deviazioni improvvise di percorso... Insomma, sentì puzza di bruciato, e decise di investigare più a fondo.» «E scoprì qualcosa, vero? Qualcosa che lo sconvolse.» «Questo è ciò che i suoi amici mi hanno confermato, pur non sapendone molto più di me. Quella notte, quando Ethan venne a cercarmi in casa... Era davvero turbato, non l'avevo mai visto in quello stato. Quando è uscito, aveva una strana luce negli occhi. Temo che abbia fatto il passo più lungo della gamba, e si sia introdotto nella Fabbrica. Come se aggirarsi nei dintorni non fosse già abbastanza rischioso! Questa volta non è più tornato...» «Dunque è questa la vostra ipotesi: dopo aver cercato di coinvolgervi, quella notte, Ethan si recò di nuovo alla Fabbrica. Cercò di infiltrarsi, ma gli andò male. Qualcuno lo vide e lo catturò, o peggio. Resta da stabilire se fosse solo.» «Credo di sì. Nessuno dei suoi amici è mai stato tanto coraggioso - o meglio, tanto imprudente da seguirlo nelle sue esplorazioni. Non da quando cominciò a prendere di mira la Fabbrica. Qualsiasi individuo sensato eviterebbe quel luogo come la peste!» «Meglio per loro» rifletté Kyra «Sapete altro che possa venirci utile?» «No, purtroppo. Ethan agiva sempre con discrezione, e quella notte non ha fatto eccezione. Condivideva con gli amici soltanto il minimo indispensabile di informazioni, che è poi quel poco che sono riuscito a ricavare da loro.»
«Per cui, correggetemi se sbaglio, non ci resta che una cosa da fare» affermò Kyra, con gravità «anche se la prospettiva non mi attrae per niente. Se i nostri indizi puntano tutti alla Fabbrica, è da lì che dobbiamo cominciare le ricerche.» Leon aggrottò la fronte, preoccupato. «Vorrei poter dire il contrario, ma temo che abbiate ragione: la Fabbrica è la chiave di tutto.» Rimasero in silenzio per un po', considerando il da farsi, finché Kyra si convinse che era inutile perdere altro tempo. Aveva ottenuto le informazioni che cercava: ora spettava a lei organizzare un buon piano d'azione. «Grazie, Leon» dichiarò, poggiando sul tavolo la tazza tiepida che ancora stringeva tra le dita «Siete un uomo di buon cuore. Pochi altri si esporrebbero tanto per aiutare una persona come Ethan.» «Ethan era - no, è! - un ragazzo speciale» replicò Leon con un sorriso «Coraggioso, altruista, disposto a tutto pur di risolvere i problemi degli altri. E voi siete della stessa pasta, Kyra, la vostra iniziativa lo dimostra. Io, invece, non sono che un uomo pavido, che cerca di salvare quel poco di dignità che ancora gli resta. Vi passerò tutte le informazioni che vi serviranno, ma non chiedetemi di muovere un passo verso la Fabbrica, vi scongiuro! Io non... non ce la faccio!» Parve a Kyra che i pensieri dell'uomo si perdessero in un lontano passato. «Voglio che tutto si risolva nel migliore dei modi, credetemi! Se soltanto fossi un uomo d'azione, invece di essere ciò che sono...» «Non siate severo con voi stesso» disse lei «Abbiate fiducia, risolverò da me questa faccenda. L'ho promesso a un amico, ed io non prometto mai alla leggera.» «Mi conforta saperlo» disse Leon, abbozzando un sorriso. «Bene!» concluse Kyra, cominciando ad alzarsi «E' ora che mi dia da fare.» «Aspettate!» la trattenne lui «Non so come intendiate cominciare le ricerche, ma forse accetterete un buon consiglio...» «Sono tutta orecchi.» «Penso che sarebbe folle cercare di introdursi nella Fabbrica dalla superficie: andreste incontro a portoni corazzati, ronde di Automi, e chissà quali altre diavolerie. Il ragazzo aveva accumulato una certa esperienza in questo tipo di azioni, ma neanche a lui è servita.» «Cosa dovrei fare, dunque? Volare?» «No di certo. Ma immagino che i sotterranei offrano migliori opportunità di accesso.» «Quali sotterranei?» «Le antiche condotte fognarie: formano una rete sotto la città, e scommetto che non tutti i passaggi al di sotto della Fabbrica sono sorvegliati a dovere. Sicuramente qualcuno dei vostri Ratti conosce abbastanza le fogne da potervi condurre alla meta.» «Si, immagino che potrebbe funzionare...» «Un altro piccolo avviso, se mi permettete: i Ratti di Porto non sono certo l'unica banda di briganti di Dekka. Ve ne sono molte altre, e mi è giunta voce che una di esse abbia stabilito il suo quartier generale da qualche parte proprio nelle fogne. Sono numerosi, ben armati e conoscono i sotterranei come il palmo delle loro mani. Combatterli nel loro elemento sarebbe una pessima idea. Meglio guadagnarsi la loro collaborazione, piuttosto. Se mai doveste incontrare il loro leader, mostrategli questo.» Così dicendo, si sfilò dal dito un anello dorato, impreziosito da una gemma verde, e lo consegnò a Kyra. «Non ne sono certo, ma credo che vi sarà d'aiuto.» Kyra soppesò l'anello, e rivolse a Leon uno sguardo incuriosito. «Non chiedetemi altro su questa storia» disse questi, schivando la domanda inespressa «Saprete tutto a tempo debito, se sarà il caso. E fate in modo di non perdere l'anello, per favore, vorrei riaverlo indietro al vostro ritorno.» «Come volete» disse Kyra, infilandosi l'anello al dito «Grazie ancora, Leon. Siete un uomo pieno di risorse, lo sapete? Credo che non me l'abbiate raccontata tutta, su di voi...»
«Mi confondete!» rispose lui, accompagnandola alla porta «Siate prudente, mi raccomando. Non vorrei avere un'altra persona scomparsa sulla coscienza.» «Non temete, tornerò sana e salva, e con il ragazzo.» «Così vogliano gli Dei! Addio, Kyra.» «Arrivederci, Leon.» Non appena la porta si richiuse alle sue spalle, Lisca la chiamò con un fischio. Lui ed Otto stavano bighellonando a un angolo della strada. «Quanto tempo, capo! Cominciavamo a pensare che te la fossi svignata dal retro... Sei riuscita a sbrigare i tuoi affari?» «Bando alle chiacchiere, Lisca. Torniamo alla Vecchia Lanterna, ho bisogno del tuo aiuto per organizzare una certa cosa.» «Ohhh! Neanche un giorno al comando, e sei già pronta all'azione?» sogghignò Lisca «Siamo davvero fortunati!» «Non immagini quanto...» replicò Kyra, chiedendosi cosa ne sarebbe stato del suo entusiasmo una volta chiarito l'obiettivo della missione.
----Leon rimase a guardare finché i tre non scomparvero alla vista. Si tolse gli occhiali e li appoggiò su uno scaffale. Gli facevano venire un gran mal di testa ogni volta che li usava. Ma erano perfetti per dargli quell'aria da imbranato... La ragazza era stata un vero colpo di fortuna: usare il vecchio era una mossa disperata, senza speranze di successo, ma la comparsa di Kyra cambiava le carte in tavola... Pareva abile e scaltra, una guerriera. Forse avrebbe ottenuto da lei più di quanto osasse sperare. E senza esporsi, che era quel che contava. Una bella ragazza, tra l'altro. Peccato doverla mandare nella tana del lupo... Sospirò. «Quante menzogne, Leon. Fino a quando?» Su una cosa però non aveva mentito: la sua coscienza era già troppo pesante per sopportare un'altra perdita.
XII - Il Guardiano
Seduta di fronte allo specchio, Kyra si spazzolò i capelli lentamente, assaporando quel semplice gesto che la riconciliava con la sua femminilità. Negli ultimi tempi, pensò, aveva vissuto più come un uomo che come una donna, e la cosa la turbava non poco. Aveva già visto quella trasformazione in molte donne soldato: un giorno smettevi di prenderti cura del tuo aspetto, poi cominciavi a parlare, a vestirti, a bere come un uomo, e così via, finché ti ricordavi di essere una donna solo quando ti spogliavi... Osservò la propria immagine riflessa nello specchio, e ne rimase soddisfatta: zigomi alti, labbra piene, lineamenti regolari, pelle liscia e abbronzata. Nell'insieme, un volto capace di far cadere molti uomini ai suoi piedi. Si donò un sorriso carico di malizia, ma inevitabilmente il suo sguardo captò il riflesso dell'occhio sinistro. Attraversato da una sottile cicatrice sbiancata, l'occhio la fissava come se non fosse suo. Vuoto, spento e senza scopo. Come lo odiava. Se la ferita nella carne era ormai cicatrizzata da tempo, non altrettanto si poteva dire della ferita che le marcava l'animo. Ricordava bene gli angoscianti giorni dopo l'incidente, quando, divorata dal risentimento, avrebbe voluto cancellare il proprio volto, e rinunciare ad essere se stessa. Le ci erano voluti mesi per accettarsi di nuovo, e un po' alla volta tornare a sentirsi una donna completa. Dentro, però, il danno era stato enorme, forse permanente. Dissimulava bene il suo malessere, quand'era in compagnia, riuscendo a trasmettere l'idea di una donna forte e seducente, ma era un gioco che le costava grande sforzo. Pensò a Dorian, tanto lontano che stentava a rammentare gli spigolosi tratti del suo volto. L'unica persona al mondo che davvero tenesse a lei, l'unica con cui poteva essere se stessa, ed era stupidamente riuscita ad allontanarlo. Pensò anche a Raduan, al modo in cui si erano separati: il suo viso barbuto paonazzo per la rabbia, le sopracciglia aggrottate, i profondi occhi neri furiosamente fissi in quelli di lei. Sarebbe mai riuscito a perdonarla? Qualcuno batté alla porta, facendola sobbalzare. «Avanti» disse. Ripose la spazzola, e si preparò ad accogliere i suoi ospiti. «Con permesso, capo» rispose Lisca, infilando la testa nel varco della porta «Ho selezionato un paio di individui, come mi avevi chiesto.» «Bene, falli entrare. Voglio conoscerli di persona.» Lisca entrò per primo. Lo seguì una donna dall'aspetto altero: il suo volto duro, sormontato da una folta chioma di capelli corvini, non pareva né vecchio né giovane. Snella e minuta, vestiva abiti neri molto aderenti, e si muoveva come un felino. Kyra non ricordava di averla vista durante la festa. Quando le passò dinanzi, le rivolse un cenno di saluto. La donna non rispose, limitandosi a lanciarle un'occhiata piena di riserbo. La terza persona dovette chinarsi per entrare. E ancora una volta, Kyra si trovò a fronteggiare quel torvo sorriso affollato di zanne artificiali che ben conosceva. Kwan Denti di Squalo doveva aver stoffa da vendere, se Lisca l'aveva convocato nonostante il cattivo sangue che correva tra loro. La donna dai capelli corvini liberò una sedia dagli abiti che vi erano appoggiati, scrollandoli via senza tante cerimonie, e si sedette con le gambe accavallate. Kwan si lasciò cadere sul letto, e per un attimo Kyra pensò che si sarebbe persino sdraiato: annotò mentalmente la necessità di cambiare lenzuola alla prima occasione. Studiò i tre per un po', prima di prendere la parola: «Sapete perché vi ho fatti chiamare?» «Perché siamo i migliori, immagino» rispose la donna in tono sprezzante.
«Questo è ancora da dimostrare» ribatté Kyra. Gli occhi dell'altra si strinsero fino a diventare due strette fessure. «É già stato dimostrato innumerevoli volte in passato. E senza bisogno della tua approvazione.» «Come ti chiami?» domandò Kyra, scegliendo di ignorare la provocazione «E perché non ti ho vista prima?» «Se non mi hai vista è perché non c'ero, e non credo di doverne rispondere a te.» «Con buona pace della mia autorità...» pensò Kyra. «Come ti pare» disse «Ma mi è parso di aver chiesto il tuo nome.» «Bah!» sbottò la donna, irritata dall'impassibilità di Kyra «Se proprio ci tieni a saperlo, il mio nome è Selita.» «E sa muoversi nell'ombra come nessun altro» si intromise Lisca. «Taci, tu. Non so proprio come mi hai convinta a venire qui.» «Sarà per via del tuo innato senso del dovere...» «Taci, ti dico, o giuro che...» «Selita, dunque» proseguì Kyra, sorvolando sul battibecco «Se Lisca non mente, le tue abilità ci saranno di grande aiuto.» «Di aiuto per cosa, se non è chiedere troppo?» «Ogni cosa a suo tempo. E tu, bestione» disse rivolta a Kwan, che continuava a sogghignare «In che modo puoi renderti utile?» Invece di risponderle a chiare lettere, l'uomo si mise a gesticolare, tracciando segni per aria con la punta delle dita. Kyra rimase interdetta. Fu Lisca a spiegare: «Kwan dice che sei abile, capo, ma dice anche che potresti aver bisogno dei suoi muscoli. Ci sono casi in cui la forza bruta conta più dell'agilità.» «Beh... sono d'accordo, almeno credo...» rispose lei, spiazzata da quella strana forma di comunicazione. «Kwan è muto dalla nascita» la informò Lisca «Perciò si esprime a segni. Ed io ho dovuto impararli a forza di frustate, per trasmettere i suoi ordini. A volte la vita del braccio destro è proprio dura! Ma che ci vuoi fare, è la mia natura...» Squadrò Kwan con una smorfia di disprezzo, prima di continuare: «Comunque concordo con ciò che ha detto, per una volta: non troverai due braccia forti come le sue in tutta Dekka. Così come non troverai una mente più acuta della mia, perciò mi sono preso il permesso di partecipare a questa piccola riunione.» «Anche a modestia non scherzi!» rispose Kyra, ricambiando il suo sorriso. «Adesso che siamo tutti amici, possiamo sapere perché diavolo ci hai convocati, capo?» sbottò Selita, pronunciando l'ultima parola con evidente sarcasmo. Quella donna era una spina nel fianco, pensò Kyra. Per qualche oscuro motivo non sembrava disposta ad accettare la sua autorità. Come avrebbe reagito, allora, alla richiesta che stava per fare? Era giunto il momento di scoprire le carte, e vedere se sarebbero stati al gioco. «Volete il motivo? Semplice. Voglio che mi aiutiate ad entrare nella Fabbrica.» Le pupille di Selita si dilatarono per l'incredulità. Lisca reagì con una risata, ma Kyra non lo accompagnò, e la risata gli morì sulle labbra. Si fece pallido come un lenzuolo. «Ritiro tutto ciò che ho detto: per essermi presentato spontaneamente, sono di certo l'uomo più stupido dell'intera città!» «E' una specie di scherzo?» domandò Selita. «No, non lo è. Devo recuperare qualcosa di là, o meglio, qualcuno...» «Che assurdità! Non starò qui a perdere il mio tempo con questa follia!» esclamò Selita, facendo per alzarsi. «Vattene, allora, ma dovrai trovarti un'altra banda. Non c'è posto per i codardi tra i miei Ratti di Porto» dichiarò Kyra, accentuando di proposito la parola miei. Selita le rivolse un'occhiata affilata come la lama di un coltello, e per un attimo parve sul punto
di assalirla fisicamente. Poi, tremante di rabbia, tornò a sedersi. Kyra resse il suo sguardo furente, prima di rivolgere la sua attenzione agli altri due. Kwan, che non pareva molto scosso, si mise a gesticolare. Lisca sbuffò e rise. «Il nostro genio vuole sapere come faremo a sfondare il portone d'ingresso. Teme che gli Automi si rivelino troppo forti anche per lui!» «Può stare tranquillo: non è così che entreremo. Ma prima di passare ai dettagli, ho bisogno di sapere se siete con me, fino in fondo.» Kwan si limitò a grugnire, accennando in senso affermativo. Lisca diede una scrollata di spalle, sospirò, e a sua volta si dichiarò d'accordo. Si voltarono verso Selita: questa si morse un labbro, scosse la testa, ma alla fine assentì. «Potete contare su di me: non mi sono mai tirata indietro in vita mia, e non comincerò a farlo oggi» affermò, indirizzando a Kyra uno sguardo di sfida «Ma sappiate fin d'ora che è una pessima idea!» «Perfetto!» esultò Kyra, abbracciandoli con un sorriso di gratitudine. Benché tra loro non regnasse l'armonia, il comune assenso tra i membri della squadra era il primo passo avanti. Peccato che il piano d'azione che stava per proporre avrebbe causato nuovi litigi. «Per cominciare» disse «vorrei sapere che ne pensate di una gitarella nelle fogne della città...»
----«Geniale!» ringhiò Selita, scrollando uno stivale coperto di fango appiccicoso. Non fece il minimo sforzo di addolcire le parole, e non era certo la prima volta che accadeva, da quando avevano messo piede nei tunnel. «Se hai in mente un piano migliore, sono tutta orecchi» sbottò Kyra, stufa di quell'atteggiamento negativo. «A dire il vero un buon piano ce l'avrei! Giriamo i tacchi e torniamocene a casa, prima di soffocare in questo fetore...» Kwan grugnì di gusto, nell'imitazione di un'allegra risata. «Davvero molto divertente» sbuffò Kyra «Perché, invece di perdere tempo in spiritosaggini, non mi dite a che punto siamo?» Erano in cammino da un paio d'ore almeno, alla luce delle torce, in lento avvicinamento alle fondamenta della Fabbrica. Le ricognizioni dei giorni precedenti avevano dimostrato che era inutile tentare l'accesso ai sotterranei da un punto più vicino alla meta: proprio per prevenire un'intrusione di quel tipo, ogni possibile via d'entrata era stata sigillata dall'esterno, e questo nel raggio di un miglio dalla Fabbrica. Dinor aveva pensato a tutto. Dopo accurate ricerche, e con innegabile sconforto, avevano scoperto qual era il miglior punto d'accesso alle fogne: a un isolato di distanza dal porto, la nera bocca di un tunnel vomitava rifiuti direttamente in mare, ed era da lì che sarebbero dovuti entrare. Lo stomaco di Kyra si rivoltava al solo richiamare alla memoria quella parte della spedizione. L'unico dettaglio che ricordava con piacere era un ritaglio di cielo stellato all'imboccatura del tunnel, quando si era voltata indietro l'ultima volta, prima di dare inizio alla lunga marcia. A partire da lì, si erano affidati all'istinto di Lisca. Faccia-di-furetto aveva raccolto parecchie informazioni sulla rete di tunnel, e sapeva grosso modo come muoversi nella direzione giusta. O almeno questo era ciò che tutti si auguravano: pareva impossibile che Lisca non avesse ancora perso l'orientamento in quell'assurdo intrico di canali, botole e scalette, ancor più contando che si muovevano nel ristretto cerchio di luce delle torce. Un silenzio oppressivo aleggiava nei sotterranei, rotto soltanto dai loro passi e dallo squittio dei ratti. Dalla strada, qualche metro sopra le loro teste, non proveniva alcun suono: lo strato di roccia era troppo spesso. Perciò, erano del tutto soli nell'oscurità. «Dovremmo quasi esserci, capo» affermò Lisca, lasciando trasparire una certa esitazione «L'ampiezza dei canali sta diminuendo, per cui...» «Dovremmo esserci, o ci siamo?» lo interruppe Selita, acida.
«Ehi, è la prima volta che passeggio nelle fogne, va bene? Fattene una ragione! Ma stiamo andando nella direzione giusta, di questo sono certo. Come stavo dicendo, l'ampiezza dei canali diminuisce, man mano che ci spostiamo verso il centro della rete.» «Quindi stiamo per entrare nella zona calda...» commentò Kyra. «Esatto. Meglio stare all'erta: se si sono tanto sforzati di impedire l'accesso dall'esterno, è facile che vi siano misure di sicurezza anche qua sotto.» Continuarono a camminare in silenzio, guardinghi. Kyra notò che le pareti del tunnel diventavano sempre più luride. Se ne stava chiedendo il perché, quando una luminosità inaspettata, proveniente da un punto dinanzi a loro, catturò la sua attenzione. Si arrestarono, valutando la situazione. Kyra tese le orecchie, ma non avvertì niente di anormale. Fece cenno di proseguire, con cautela. Il tunnel si aprì in uno slargo fiocamente illuminato: la fonte di luce si rivelò essere una crepa nella roccia, all'altezza del soffitto. L'ambiente aveva una forma vagamente circolare, con una pozza centrale nella quale confluivano i liquami provenienti da tre diversi canali di scolo. In un angolo, un paio di ratti si contendevano un vecchio torsolo di mela. Considerata l'intensità della luce, commentò Lisca, doveva già essere mattina inoltrata. Questo significava che stavano sottoterra da più tempo di quanto Kyra avesse immaginato. «Facciamo una pausa» propose «Mi sembra un buon posto.» Nessuno protestò. Kwan si sedette per primo accanto alla pozza. Gli altri lo seguirono a ruota. Spensero le torce, godendosi quel poco di luce naturale che filtrava dall'esterno. Provati dalla lunga camminata, e non certo dell'umore giusto per conversare, ciascuno si mantenne nel silenzio dei propri pensieri. Kyra notò che Lisca continuava a studiare la triplice diramazione del tunnel, spostando lo sguardo da un canale all'altro con nervosi scatti della testa. Pareva confuso riguardo alla direzione da prendere. «Ammesso che non ci siamo già persi» esordì Selita senza preavviso «Come faremo a entrare nella Fabbrica? Di sicuro non ci stenderanno un tappeto rosso!» «Un problema alla volta...» rispose Kyra, stancamente. «Uhmpf! Grazie, adesso mi sento molto più tranquilla!» Kyra non raccolse. Ormai era immune alle costanti critiche di Selita. E finché si trattava soltanto di critiche verbali, che venissero pure: non la toccavano. Anzi, l'ostilità della donna le dava una sottile punta di piacere. Probabilmente, senza volerlo, l'aveva scavalcata nella lunga lista di pretendenti al comando della banda: questo avrebbe spiegato il suo astio insopportabile. Voleva il suo posto? Che venisse a prenderselo, la serpe! Sfoderò un sorrisetto innocente, e lasciò che Selita continuasse a guardarla in cagnesco. Kwan emise un grugnito, cercando di attirare la loro attenzione. Si portò un dito all'orecchio, per poi indicare l'imboccatura del tunnel centrale. Trattennero il respiro all'istante, e si concentrarono sui suoni provenienti da quella direzione. «Lo sentite anche voi?» chiese Lisca, alzando un sopracciglio. «Sentire cosa?» sbottò Selita. «Shhh!» intervenne Kyra «Sì, riesco a sentirlo... Ma cosa...?» Quello che all'inizio le era parso un borbottio distante, si stava trasformando in un gorgoglio di crescente intensità. Qualsiasi cosa fosse, avanzava con velocità nella loro direzione. Lanciò un'occhiata al punto in cui c'erano i due ratti: come temeva, il torsolo era stato abbandonato a sé stesso. Nessuna traccia dei roditori. E quando i topi abbandonano la nave... «In piedi!» esclamò «Non mi piace, torniamo indietro!» Non fecero due passi, che l'origine del preoccupante suono rivelò la propria natura: un torrente di liquido nero, scaturito dal canale di mezzo, avanzò a valanga verso di loro. Era spesso e oleoso, con un odore pungente, e trascinava con sé una mistura di rifiuti, detriti e ratti semi affogati. Lisca, con un gridò acuto, si arrampicò sulle spalle di Kwan, che fissava la scena inebetito. Kyra balzò su una parete, in cerca di appiglio, nell'esatto momento in cui Selita veniva inghiottita dal torrente nero. «E adesso?» pensò, frastornata. Doveva inventarsi qualcosa, alla svelta, o sarebbero affogati tutti
quanti! Si inerpicò sulla parete come un ragno, ringraziando le provvidenziali fessure tra i mattoni. Guardò in basso: in breve la massa nerastra le avrebbe avvolto le caviglie. Ancora un attimo, e... Il livello del liquido stava diminuendo, non aumentando! Mentre il suo cuore si gonfiava di sollievo, l'onda nera si attenuò e si spense, con la stessa velocità con cui era apparsa, e si disperse nei canali di scolo. Dietro di sé, lasciò uno spesso strato di catrame, e una Selita ricoperta di limo dalla testa ai piedi. «Coff! Coff!» annaspò «C-cosa diavolo è successo?» «Non ne ho idea!» rispose Kyra, saggiando il terreno con la punta di uno stivale. «Olio...» mormorò Lisca, ancora abbarbicato sulla schiena di Kwan come un uccello su un trespolo. Quando se ne rese conto, saltò giù con un gridolino di sorpresa, e arrossì fino alla radice dei capelli. Il gigante, sudicio fino al petto, si grattò la testa. Non si era neanche accorto di lui. Del resto, neppure la potenza dell'onda era riuscita a buttarlo giù. «Olio?» chiese Kyra. «Si, l'olio nero ingurgitato dagli Automi. A quanto pare è così che la Fabbrica se ne libera, una volta utilizzato.» «E da qui va dritto in mare...» «...si spande...» «...e i pesci tirano le cuoia!» «Pesci? Chi se ne importa dei maledetti pesci, accidenti a voi!» sbottò Selita, ridotta in stato pietoso. Kwan le scostò dalla fronte una ciocca di capelli appiccicosa, ridendo, ma lei schiaffeggiò via la sua mano. «Cerca di vedere il lato positivo, Selita» disse Lisca. «Per quanto mi sforzi, davvero non riesco a vederlo!» sputò fuori lei. «L'ondata d'olio non può che significare una cosa: siamo molto vicini alla Fabbrica, e il cammino giusto passa per il tunnel centrale!» «Con un po' di fortuna, non ci saranno controlli dove scaricano l'olio» osservò Kyra «Potrebbe essere proprio l'entrata che stavamo cercando!» «Meraviglioso, non vedo l'ora di infilare la testa in quel buco...» commentò Selita, ripulendosi il viso con un fazzoletto. «Muoviamoci» concluse Kyra «Non voglio trovarmi ancora qui quando arriverà la prossima ondata.» Si guardò attorno, e recuperò una delle torce: era ricoperta di catrame. La sciacquò, lasciando uno strato nero soltanto all'estremità. «Dicono che sia infiammabile: vediamo se è vero.» Si diede da fare con l'acciarino, e un istante dopo una fiamma rovente danzava sulla punta della torcia. «Confermato. Accendete pure le vostre, ma attenti a quello che fate, o finiremo arrosto. Soprattutto tu, Selita.» «Quanta simpatia!» Ripresero il cammino per la galleria centrale, avanzando a fatica nel pantano catramoso che si era venuto a formare. Man mano che procedevano, il tunnel si restrinse, fino a raggiungere un'ampiezza inferiore al metro. L'ambiente divenne ancor più claustrofobico di quanto già non fosse, e il buio ancor più opprimente, come una cosa viva: le torce non riuscivano a fenderlo per più di qualche passo. E come se non bastasse, l'aria era appestata dal lezzo acre dell'olio. Proseguirono così finché Lisca, in testa al gruppo, diede l'alt. Si portò un dito alle labbra, chiedendo il silenzio, poi tornò a scrutare le tenebre di fronte a sé. Kyra gli si accostò, tesa. Non riuscì a vedere o percepire nulla di strano, ma sentì un lieve malessere a livello dello stomaco, come se qualcosa di molto spiacevole fosse sul punto di accadere. Sbatté le palpebre, e due cerchi rosso fuoco apparvero nel buio di fronte a lei, facendola sussultare. Un forte ronzio pervase il tunnel, e ne fece vibrare le pareti. I due cerchi non si mossero, ma divennero di un rosso sempre più acceso. Vi fu un sonoro click!, e una luce violenta forzò i
quattro a ripararsi gli occhi. Kyra sbirciò tra le dita, semi-accecata, e notò che la luce veniva da una serie di tubi appesi al soffitto del tunnel. Non erano lampade normali: emanavano una luce fredda e bianca, aliena. Si sforzò di guardare avanti, tra le lacrime, verso i cerchi rossi, e dovette soffocare un'esclamazione: i due cerchi altro non erano che gli occhi di un Automa, la cui mole di metallo brunito occupava un'intera sezione della galleria. Udì un'imprecazione alle sue spalle, e capì che anche gli altri l'avevano visto. L'essere restò immobile, avvolto nel suo irritante ronzio. Era alto fino al soffitto, un massiccio tronco cilindrico sorretto da due pesanti ruote bordate di metallo. La testa era un rettangolo verticale innestato sulla parte superiore del busto, privo di fattezze ad eccezione degli occhi cremisi. Ma ciò che più impaurì Kyra furono le braccia della creatura: non due, bensì sei, lunghe, snodate e dotate di una tremenda serie di spuntoni, lame e uncini. Quello spaventoso arsenale non lasciava dubbi quanto alla funzione dell'Automa. Come temevano, la macchina si mise in moto: con un sinistro cigolio, prese ad avanzare nella loro direzione, lentamente prima, poi sempre più veloce. Grande com'era, non c'era modo di schivarla. Erano caduti in trappola: la Fabbrica era inaccessibile anche da quel lato. Con sorprendente sveltezza, Selita impugnò la piccola balestra che portava legata alla schiena. Prese la mira e scagliò due dardi in rapida successione. Entrambi colpirono con precisione il bersaglio in movimento, uno alla testa e l'altro al busto, ma rimbalzarono innocui sulla corazza di metallo. «Indietro, presto!» sbraitò Kyra. Diedero le spalle alla creatura e cominciarono a correre, nel tentativo di distanziarla. Era veloce, ma se fossero riusciti a raggiungere la diramazione tra i tunnel, sarebbero potuti sfuggirle. Quando Kyra alzò la testa, però, vide nella fredda luce bianca qualcosa che la fece gridare di frustrazione: all'imboccatura della galleria, pesanti sbarre di metallo erano sorte come dal nulla, bloccando il passaggio. Erano intrappolati come topi. Si fermò di botto, e gli altri quasi le rovinarono addosso. «Ma che diavolo...» cominciò Selita. Poi vide le sbarre, e gemette. «Non possiamo arretrare ancora!» esclamò Kyra «Ci schiaccerebbe contro le sbarre. Dobbiamo resistere qui!» «Facile a dirsi!» replicò Lisca, in preda al panico «Quella cosa ci passerà sopra senza neanche accorgersene!» L'Automa continuava la sua avanzata, accompagnato dal costante ronzio. Impressione loro, o il suono stava aumentando, come un mugolio di crudele aspettativa? I suoi occhi inumani ardevano con l'intensità di piccoli falò. Kwan scostò Kyra con una spallata. «Fermati! Non c'è modo di uscire!» Il gigante non la degnò di un'occhiata. Corse fino a un mucchio di rifiuti che quasi occludeva il passaggio - Kyra rammentò di averlo scavalcato qualche minuto prima – e rovistò freneticamente tra gli scarti, alla ricerca di qualcosa. Un attimo dopo, afferrò il bordo di un oggetto sommerso nel mucchio e tirò con tutta la forza di cui era capace, gonfiando i muscoli delle braccia. Il relitto di una vecchia porta emerse rovesciando rifiuti tutt'attorno: il tempo l'aveva resa irriconoscibile, ma aveva ancora un aspetto robusto. Intuendo le sue intenzioni, gli altri si piazzarono alle sue spalle. Kwan girò la porta in orizzontale, e la incastrò tra le pareti meglio che poté, puntellandola col suo peso. Protetti dallo scudo improvvisato, i quattro rimasero in attesa dell'inevitabile impatto con l'Automa. Lisca chiuse gli occhi e strillò, quando lo scontro avvenne e fece tremare le pareti. La porta però resse l'urto, scagliando schegge di legno tutt'intorno. Kwan lanciò un urlo di sfida, raddoppiando la pressione, e subito Kyra gli diede manforte. L'Automa non si diede per vinto. Arretrò di alcuni metri, poi tornò alla carica, una, due, tre volte, le ruote girando all'impazzata.
Mulinò le braccia armate, e cercò di trafiggere i quattro dall'alto, ma Kyra fece buona guardia, deviando ogni affondo coi suoi pugnali. Kwan, le vene del collo gonfie e i muscoli della schiena tesi al massimo, cominciò a dar segni di cedimento. «Non reggerà ancora a lungo, dobbiamo cambiare tattica!» esclamò Selita nel frastuono della lotta «Lasciatemi provare con questo!» Afferrò la torcia e fece per scagliarla sopra le teste di Kwan e Kyra, con l'intenzione di dar fuoco all'Automa. Lisca riuscì a bloccarla per un soffio, strappandole la torcia di mano. «Sei pazza?» gridò «Ti sei scordata che siamo inzuppati d'olio? Vuoi bruciarci vivi tutti quanti?» «Ahh! Lasciami fare, idiota! Hai forse un'idea migliore? Tra un attimo quel maledetto sfonderà la protezione, e ci farà a pezzi!» «Calmatevi! Ce la caveremo!» esclamò Kyra, continuando a tener testa alle braccia impazzite dell'Automa. A quel ritmo, pensò, l'essere meccanico avrebbe presto trovato un varco nelle sue difese. La velocità degli attacchi era sovrumana, e l'Automa non pareva dar segni di stanchezza. Al contrario di lei, e di Kwan, che presto avrebbero esaurito le energie. Almeno su questo Selita aveva ragione: bisognava cambiare tattica. Fece di tutto per mantenere la calma e riflettere, nonostante la situazione disperata – quante volte era successo, ai tempi della Compagnia? Lasciò che il suo corpo continuasse a lottare da solo, come una macchina dai riflessi automatici, e isolò la propria mente alla ricerca di una soluzione. Ogni nemico aveva un punto debole. Tutto stava nel trovarlo prima che fosse troppo tardi. Con una certa dose di incoscienza, accostò l'occhio a una crepa nel mezzo della porta. Doveva analizzare i movimenti dell'Automa. Freddamente, come se si trovasse a una lega di distanza da lì, ne studiò la figura: testa, busto, braccia, ruote. Tutto pareva costruito e assemblato con maestria, una perfetta macchina di morte. Ma forse... Doveva provarci. Se c'era anche soltanto una minuscola probabilità di successo, doveva darsi da fare, e subito. Una svelta occhiata alla sua destra confermò un dettaglio che la sua mente aveva registrato attimi prima, e che adesso le sarebbe venuto molto utile: afferrò il bastone e lo estrasse dai rifiuti. Era più robusto di quanto avesse sperato. Lo strinse in una mano, e si distese col busto al di sotto della protezione dalla porta. «Che fai? Sei impazzita?» squittì Lisca, terrorizzato. Per un attimo Kyra si trovò alla mercé dell'avversario, imponente sopra di lei. Poi, con un colpo di reni, gli incastrò il bastone tra i raggi di una ruota. L'essere affondò le braccia per inchiodarla al suolo, ma trapassò soltanto la nuda terra: Kyra era già scivolata indietro, al riparo. «Indietro!» urlò, strattonando Kwan perché abbandonasse lo scudo improvvisato. La seguirono di corsa verso il fondo del tunnel. Alle loro spalle, la cacofonia dell'Automa non accennò a diminuire. Giunti a ridosso delle sbarre di metallo, a un impossibile passo dalla libertà, si voltarono in tempo per testimoniare la distruzione della vecchia porta. Le infaticabili braccia della creatura meccanica avevano finalmente avuto la meglio. Col cammino libero dinanzi a sé, l'Automa fece per avanzare, ma il bastone incastrato nella ruota glielo impedì. Il ronzio del corpo di metallo crebbe d'intensità, e un fumo grigiastro cominciò a uscirgli dalle giunture, come se lo sforzo lo stesse spingendo ai limiti della rottura. «Così!» lo incitò Kyra, accompagnata dagli sguardi speranzosi dei suoi compagni «Così, insisti, maledetto! Va' in frantumi!» L'Automa parve raccogliere la sfida, e rinnovò i suoi sforzi. Lo stridore divenne quasi insopportabile. Il fumo uscì a fiotti, spesso e scuro, e invase il tunnel. «Avanti!» esclamò Kyra, alzando i pugni al cielo. Con un forte schiocco, un paio di raggi della ruota dell'Automa andarono in frantumi. Il bastone piazzato da Kyra schizzò di lato, sbattendo contro una parete, e la ruota si trovò libera. Selita si lasciò sfuggire un grido di disperazione, e affondò le unghie nel braccio di Lisca. La mossa di Kyra non era servita ad altro che a rallentare l'inevitabile.
L'Automa riprese la sua inarrestabile carica. Era di nuovo libero di attaccare, e i suoi occhi ardevano come le fiamme dell'inferno.
XIII - Piccoli Esperimenti
Seguirono Zontar lungo gli angusti corridoi della Torre Grigia, scendendo sempre più giù nel silenzio della notte. Dorian provò un brivido involontario, quando la luce argentea della luna, infiltratasi attraverso una feritoia, investì il volto del Saggio: gli parve uno spettro che scivolava nella quiete notturna della torre. Raduan seguiva l'amico a un passo di distanza, anche lui piuttosto inquieto, chiedendosi che cosa li attendesse. Magia, aveva detto Zontar, ma con un tono di voce che tradiva divertimento. Eppure il Saggio non sembrava uomo da ridere delle Arti Arcane: si diceva che gli Illuminati ne facessero ampio uso, e se Zontar era il loro capo... Dal canto suo, l’unico contatto mai avuto con le Arti Arcane era stato attorno ai falò estivi, quando orribili creature e maghi impavidi prendevano vita nei versi dei bardi. Senza contare, forse, il Rituale della Liberazione. Ma anche quella era magia? O era qualcosa di differente, qualcosa che soltanto Abel poteva spiegare? Continuarono a scendere alla tremula luce di una lanterna, finché raggiunsero gli oscuri livelli sotterranei della Torre, che si spingevano nel sottosuolo fino a profondità incalcolabili. L'umidità era così elevata che la roccia grezza delle pareti grondava acqua, formando pozze sul pavimento. Numerosi passaggi si aprivano ai lati del corridoio principale, perdendosi nel buio. «Il numero di tunnel scavati quaggiù è talmente grande che ne conosco una minima parte soltanto» disse Zontar, anticipando la curiosità dei suoi ospiti «La Torre Grigia nasconde ancora parecchie sorprese. Forse qualcuna delle creature che dovetti affrontare tanti anni fa si è rifugiata qua sotto, al riparo dagli occhi del mondo...» Nel dubbio, non sapendo se il Saggio dicesse sul serio o si stesse prendendo gioco di loro, Dorian e Raduan accelerarono il passo, attenti a non uscire dal cerchio di luce proiettato dalla lanterna. Dopo un numero imprecisato di svolte, giunsero di fronte a un portale che pareva scolpito nella roccia, tanto era massiccio e solido. Curiosamente, non era dotato di maniglia, serratura o qualsiasi altro meccanismo di apertura: la superficie era levigata e uniforme, ad eccezione di un simbolo argenteo nel mezzo, una torre in miniatura. «Questo mi aiuta a dormire sonni tranquilli» affermò Zontar «Osservate.» Appoggiò la punta del dito pollice sulla figura intarsiata, e mormorò una parola che i due non riuscirono a intendere. In risposta, il simbolo emise un alone di tenue luce bianca. Si udì uno scatto secco, come l'aprirsi di una serratura, e la porta scivolò verso l'alto con un fruscio, scomparendo nel soffitto. «Un uso piuttosto banale delle Arti Arcane» affermò il Saggio, affrontando con un sorriso gli sguardi stupiti di Dorian e Raduan «Ma non potrei chiedere protezione migliore per il mio laboratorio: la porta si apre soltanto alla pressione del mio pollice, e con una parola chiave. Non c'è modo di forzarla.» Fecero un passo avanti, nel buio. Un attimo dopo, con un flash di luce abbagliante, decine di lanterne si accesero all'unisono. Raduan si lasciò sfuggire un'esclamazione: dinanzi ai loro occhi si era aperto uno spettacolo sorprendente. La sala era vasta, occupata da un numero imprecisato di banconi da lavoro, scaffali e strani apparecchi di ogni forma e dimensione. Vi erano attrezzi, libri e provette sparsi dappertutto. Liquidi colorati gorgogliavano in pentole e alambicchi. Sbuffi, fischi e ronzii riempivano l'aria con un'incessante sinfonia da laboratorio. Nel complesso, il locale sembrava dotato di vita propria. «Le luci si accendono da sole, un'altra piccola comodità. E scusate il disordine, è solo apparente: come saprete, conduco vari esperimenti...» Zontar sprizzava orgoglio da tutti i pori. «Meraviglioso, vero?» «É davvero... affascinante» dichiarò Dorian.
«Già... affascinante» concordò Raduan, giusto per dire qualcosa. Non aveva mai messo piede in un luogo simile, prima di allora. «Grazie» rispose Zontar, affabile «Seguitemi, per favore. C'è qualcosa di piuttosto intrigante che vorrei mostrarvi.» Seguirono Zontar nello stretto spazio tra due file di alambicchi. Dorian prestò la massima attenzione a dove metteva i piedi, attento a non calpestare nulla. Raduan quasi si ustionò, quando urtò senza volerlo un calderone rovente. «Attenzione a come vi muovete!» esclamò Zontar «Se volete rimetterci un arto, cercate almeno di non farlo a scapito dei miei esperimenti!» «Chiedo scusa» si difese Raduan, massaggiandosi il braccio offeso. «Uhmpf! Pazienza, manca poco. Anzi, ci siamo!» Zontar si accostò a un bancone di pietra situato al centro della sala, e prese a tamburellare con le dita sulla superficie ruvida. Lo sguardo dei due fu catturato dagli oggetti appoggiati sul bancone: una spada, uno scudo e un paio di stivali. A prima vista, niente di speciale. «Vorrei che mi aiutaste a realizzare una piccola esperienza» disse Zontar, sorridente «Niente di pericoloso, non preoccupatevi. Servirà a farvi comprendere meglio. Comandante Dorian, calzate gli stivali per favore: credo che siano della vostra misura. Prendete anche spada e scudo, visto che ci siete.» Dorian obbedì, un po' intimorito. Raduan lo accompagnò con un ghigno, felice che non toccasse a lui fare da cavia. «Adesso voi, mastro Raduan. Per cortesia, prendete quella mazza e quello scudo.» Fu la volta di Dorian sorridere, mentre Raduan faceva a malincuore ciò che gli era stato richiesto. «Bene!» proseguì Zontar, tradendo una certa eccitazione «Adesso insceneremo una breve lotta! Ma, come vedrete, non tutto è ciò che sembra!» «Siete certo che...?» Raduan protestò, ma subito il Saggio lo tranquillizzò: «Non correrete alcun rischio, state tranquillo. E ora allontanatevi di alcuni passi l'uno dall'altro... Ecco, così, perfetto! Diamo inizio alle danze! Mastro Raduan, attaccate il vostro comandante. Quanto a voi, Dorian, non cercate di parare il colpo: schivatelo soltanto. E prestate attenzione al vostro equilibrio!» Raduan, nervoso, si preparò ad attaccare. «Sei pronto?» chiese. «Fatti sotto» rispose Dorian, strizzandogli un occhio. Raduan avanzò e sferrò un colpo dall'alto verso il basso, senza molta intensità. Dorian, come gli era stato richiesto, schivò balzando all'indietro. Con sua grande sorpresa, pur avendo impiegato un minimo d'energia per sottrarsi alla portata di quel colpo fiacco, si ritrovò a fluttuare a un metro di altezza dal suolo. Riatterrò malamente sui talloni, e per poco non cadde a sedere. Raduan lo fissava a bocca aperta. «Molto bene!» rise Zontar, battendo le mani «Vi è piaciuta l'esperienza, comandante?» «Ma... come...?» balbettò Dorian, guardandosi i piedi. Da dove era venuto tutto quello slancio? «A dopo le spiegazioni, proseguiamo con l'esperimento! Ripetete la sequenza, per favore. Ma questa volta, Dorian, parate con il vostro scudo. E voi, mastro Raduan, un po' più d'animo nei colpi, per favore!» Raduan rivolse all'amico uno sguardo dubbioso, come per chiedergli se fosse davvero il caso di continuare. Dorian fece un cenno affermativo col capo. Avanzò nella sua direzione, muovendosi quasi in punta di piedi nel timore che gli stivali gli giocassero un brutto scherzo. Come d'accordo, Raduan ripeté l'attacco precedente, ma con maggiore slancio. Dorian si piantò sulle gambe e levò lo scudo rotondo verso l'alto, a protezione del capo. Nell'attimo in cui la mazza di Raduan toccò la superficie dello scudo, questo fu avvolto da una vampa di luce azzurra, e l'arma gli rimbalzò contro come se respinta da un'invisibile barriera. Un lampo blu si propagò dallo scudo alla mazza, sfrigolando giù fino a toccare l'impugnatura, e la
mano che la stringeva. Raduan lanciò un gridò di dolore e mollò la presa, lasciando cadere l'arma in terra. «Che scherzo è questo?» esclamò, infuriato. La mano gli era diventata inerte come un pezzo di legno. «Calmatevi, mastro Raduan! Passerà in un attimo. Lo scudo è regolato per stordire, non certo per ferire, o peggio» disse Zontar. «Incredibile!» mormorò Dorian, non riuscendo a distogliere lo sguardo. La luce azzurra sullo scudo si attenuò con un ronzio, fino a sparire. «Un mezzo difensivo formidabile» affermò il Saggio «Ma non abbiamo ancora finito. Manca la spada! Sono certo che vi piacerà ancora di più!» «Non ne sarei troppo sicuro...» si lamentò Raduan, preoccupato dalla piega che stavano prendendo gli eventi. «Non temete mastro Raduan, faremo in modo di non causarvi danno, questa volta! Reggete lo scudo dinanzi a voi, lontano dal corpo. E voi, comandante, colpitelo con la spada!» «Perché devo sempre essere io a prenderle?» borbottò Raduan, ma il Saggio non gli diede ascolto. Dorian studiò la lama per alcuni istanti, chiedendosi cosa sarebbe successo questa volta. Poi attaccò: diresse un fendente indeciso sullo scudo di Raduan, timoroso di ferirlo. Raduan irrigidì i muscoli e trattenne il respiro, aspettandosi chissà quale violenta reazione. Clang! Raduan si sporse oltre il bordo dello scudo, e interrogò Dorian con lo sguardo. L'amico diede una scrollata di spalle. Non era successo nulla. «Dimenticavo!» esclamò Zontar «La spada ha bisogno di un... pizzico di magia... in più. Mentre colpite, comandante, pronunciate questa parola: Azvan! Il resto verrà da sé.» «Come volete.» Dorian ripeté l'attacco. Questa volta, un attimo prima che la spada compisse il suo arco, scandì la parola con voce decisa: «Azvan!» Con uno sfrigolio, la lama si accese di una rovente luce color arancio, simile a una saetta infuocata. Affondò fino all'elsa nello spesso metallo dello scudo di Raduan, tagliandolo in due come se fosse burro. La metà recisa cadde in terra con i bordi bruciati e fumanti, l'altra restò appesa alle dita dell'esterrefatto Raduan. Il guerriero fissò la lama incandescente, ferma a una spanna di distanza dal suo naso, e una volta di più si chiese se il Saggio meritasse davvero quell'appellativo. Dorian, da parte sua, restò senza parole. Un'arma del genere rendeva inutile l'uso di qualsiasi armatura. Con ogni probabilità, era persino in grado di aprire una breccia nelle mura di una fortezza. «Le vostre espressioni dicono tutto» osservò Zontar, con aria compiaciuta «Ma questo non è che un piccolo esempio del potere delle Arti Arcane.» «Un potere terrificante, a mio vedere» replicò Dorian, preso tra esaltazione e paura. «Senza dubbio, comandante. E questo spiega perché tratto la questione con tanta discrezione. Se artefatti come questi dovessero cadere nelle mani errate, sarebbero fonte di enormi problemi per tutti.» Si aggiustò le spesse sopracciglia. «A dire il vero, sono strumenti instabili, e non godono di autonomia infinita. Per questo, da soli, non potrebbero mai rendere un uomo onnipotente. Tuttavia, la tentazione di possederli può diventare irresistibile...» Squadrò Dorian con aria ambigua. «A proposito, restituitemi gli oggetti, per favore. L'esibizione è terminata.» Dorian obbedì senza batter ciglio. Neppure per un istante gli era passato per la testa di fare altrimenti: spada, scudo e stivali non gli piacevano, nonostante gli straordinari poteri di cui erano dotati. Forse proprio a causa d'essi. «Grazie, comandante» disse Zontar, riponendo gli oggetti al loro posto «Immagino che a questo punto vogliate saperne di più sul funzionamento dei tre. Come ho detto, non sono che una goccia
d'acqua nel mare di possibilità delle Arti Arcane. Ma in fondo tutti gli oggetti di questo tipo – oggetti magici, se volete - si assomigliano. Hanno la stessa radice in comune. Vorrei spiegarvi meglio, se mi permettete. Mettiamoci comodi.» Sgombrò una panca da libri e provette, liberando spazio per i due guerrieri. Si accomodò a sua volta, e cominciò a spiegare: «Da sempre l'uomo si è interessato allo studio dei fenomeni naturali, e dei meccanismi che si celano dietro ad essi. Non è certo una novità. Prendiamo il fuoco, ad esempio. La sua scoperta è stata una delle prime esperienze scientifiche della nostra civiltà. Da quanto tempo sappiamo come accendere un fuoco, come mantenerlo vivo, come utilizzarlo per i più diversi scopi? Da sempre, direi! Le generazioni si tramandarono le conoscenze nei secoli, ampliandole e migliorandole nella misura del possibile, e il fuoco non fa eccezione: oggi abbiamo lampade, forni, fucine, tutti strumenti un tempo impensabili, ma tutti basati sulla scoperta iniziale del fuoco.» «Vero» commentò Raduan. Dorian si limitò ad annuire. «Se fate attenzione, noterete che questo processo si ripete in ogni area del sapere. Per prima cosa avviene una scoperta, basata sull'osservazione di un fenomeno naturale. Quindi la scoperta viene estesa e approfondita, per servire a qualche scopo concreto. Gli studi vengono messi in pratica creando strumenti e utensili, via via più raffinati. E quando possibile, i dettagli di ogni fase del processo sono annotati per iscritto, condivisi tra gli studiosi e tramandati alle future generazioni.» Zontar fece una pausa prima di proseguire, assicurandosi che i due membri della Compagnia non avessero perso il filo del discorso. «Fin qui niente di nuovo, vero? Scusate il lungo preambolo, quando parlo di certe cose perdo la nozione del tempo!» «Non abbiamo fretta...» «Bene, ma è ora che venga al punto. Vi è una sola area del nostro sapere in cui il processo funzioni al contrario: mi riferisco proprio alle Arti Arcane, che gli ignoranti chiamano magia. Con esse possiamo forgiare manufatti di grande potere, come avete visto. Ma la cosa assurda è che nessuno ha idea di come e quando le Arti Arcane abbiano avuto origine! Nessun resoconto, nessuna graduale evoluzione nel tempo... La verità è che basiamo i nostri studi su un esiguo numero di artefatti, rinvenuti negli anni ai quattro angoli del Regno, ecco tutto. Artefatti antichi, già pronti, capite! E in buona parte dei casi non riusciamo neppure a capire il loro funzionamento, figuratevi imitarlo o alterarlo!» Dorian e Raduan si scambiarono sguardi costernati. Tutte le leggende e le storie fantastiche udite fin da bambini indicavano i Saggi come legittimi creatori e custodi delle Arti Arcane! Nessuno dei due si aspettava che questa consolidata tradizione di pensiero venisse messa in forse proprio dal Saggio Zontar, guida degli Illuminati. «In pratica, come avrete intuito» continuò Zontar, con un sorriso mesto «Non siamo poi così esperti come dicono. Da qualche secolo i Saggi impegnano tempo e risorse nella ricerca di antichi artefatti di potere, per poterne studiare il comportamento e cercare di riprodurlo. Spesso senza efficacia, o peggio, con effetti disastrosi. Per questa ragione, ogni volta che uno studioso di Arti Arcane ottiene successo in uno dei suoi esperimenti, ha il dovere di mettere tutto per iscritto, perché il prezioso risultato non vada perduto.» «Buona idea» commentò Raduan. «Fu uno dei motivi per cui sorse l'antica Corporazione dei Saggi: la necessità di condividere e tramandare le conoscenze acquisite. Purtroppo, fu anche la causa della frattura in seno alla Corporazione, e della separazione dei Saggi tra la Confraternita degli Illuminati, che io stesso ho fondato, e i Figli della Notte. Alcuni di noi pensano che il sapere possa essere condiviso e utilizzato per il bene dell'umanità. Altri ritengono che debba diventare uno strumento di potere...» «Crawl...» mormorò Dorian, memore degli insegnamenti di Abel. Lo Sciamano Nero era la colonna portante dei Figli della Notte. «Esattamente. Lui e molti altri della stessa pasta, purtroppo» lamentò Zontar, aggrottando la fronte «Il mondo sarebbe un posto migliore, se i Saggi fossero ancora accomunati dallo stesso
proposito, come un tempo.» Sospirò. «Ma stiamo divagando. Scusatemi se batto di nuovo sullo stesso chiodo: che non ci sia giunta alcuna testimonianza antica sull'uso delle Arti Arcane, è un fatto davvero peculiare. “Degli Artefatti di Potere”, scritto dal grande Ceilon, è il più antico testo conosciuto sull'argomento, ma non contiene altro che la descrizione per sommi capi di oggetti già esistenti! Tutto indica che gli artefatti siano venuti fuori dal nulla, senza l'intervento dell'uomo, in un imprecisato momento del nostro passato!» Zontar lesse sgomento sul volto dei due. «Mi rendo conto di quanto ciò suoni assurdo, e condivido i vostri dubbi. Vi dirò di più, però: nonostante tanti dubbi sulle origini, numerosi passi in avanti sono stati compiuti durante i decenni. Oggi siamo in grado di spiegare, e in parte riprodurre, fenomeni che i nostri predecessori avrebbero considerato di natura divina. Avete potuto sperimentarlo sulla vostra pelle!» Il Saggio strizzò un occhio a Raduan, poi esibì uno smagliante sorriso di orgoglio. «I tre oggetti che avete visto all'opera sono frutto della mia modesta abilità. Ho cercato di riprodurre il comportamento di manufatti che avevo studiato, e ci sono riuscito meglio di quanto immaginassi. Volete sapere come ho fatto?» I suoi occhi si fecero grandi, quasi a voler saltar fuori dalle orbite. «Prestate molta attenzione, perché vi spiegherò la base di tutto ciò che riguarda gli artefatti di potere e il loro funzionamento. La radice stessa delle Arti Arcane...»
XIV - La Caverna
L'Automa avanzava implacabile verso di loro. La fine era prossima: soltanto un miracolo a quel punto poteva salvarli. Kwan afferrò le sbarre che li separavano dalla fuga, e prese a scuoterle con tutta la forza di cui era capace - senza risultato. Ormai l'Automa era vicino, già potevano avvertire sulla pelle il calore del suo corpo di metallo rovente. «Piegatevi, maledette sbarre, piegatevi!» urlò Selita, unendo i suoi sforzi a quelli di Kwan. E il miracolo avvenne: si udì uno scatto secco, e le sbarre scivolarono cigolando verso il soffitto, rientrando nelle aperture da cui erano uscite. I quattro non persero tempo a chiedersi come o perché. Si tuffarono fuori dal tunnel non appena il varco fu alto due spanne, decisi a mettere la maggior distanza possibile tra sé e l'incubo a sei braccia. Sgusciata per ultima da sotto le sbarre, Kyra si alzò e si mise a correre. Si gettò una sola occhiata dietro le spalle, ma ciò che vide la spinse a fermarsi di botto: nascosti ai lati dell'imboccatura del tunnel – erano passati in mezzo a loro senza neppure vederli - stavano in agguato una decina d'uomini magri ed estremamente pallidi. Ognuno stringeva tra le mani una corta fune dotata di uncino. Quando l'Automa apparve all'imboccatura, come un sol uomo i misteriosi personaggi scagliarono le funi, mirando alle braccia e alle ruote. Non appena gli uncini ebbero fatto presa, tirarono con forza, e l'Automa si trovò intrappolato, con le braccia immobilizzate. Cercò furiosamente di reagire, facendo girare le ruote all'impazzata in un senso e nell'altro, ma la forza di dieci uomini era troppa anche per lui. All'improvviso un altro uomo sbucò dall'ombra, snello e barbuto, a torso nudo. Con uno scatto fulmineo corse alle spalle dell'Automa, sfiorando le lame affilate che tentavano di squarciarlo. Si inerpicò sul dorso della creatura, e si avvinghiò alla sua testa. L'Automa cercò di scrollarselo di dosso, ma l'uomo mantenne salda la presa. La lotta continuò furibonda per lunghi minuti, sotto lo sguardo allarmato di Kyra e compagni. Era una situazione di stallo: l'Automa non era in grado di liberarsi dei suoi assalitori, ma allo stesso tempo li costringeva a spendere sempre più energie. Il barbuto, ancora abbarbicato in cima al suo busto cilindrico, cominciava a dar segni di cedimento. Con un ultimo tentativo, l'uomo riuscì a far presa con le ginocchia sulla testa dell'Automa, bloccandola e al contempo liberandosi le mani. Infilò entrambe in un incavo nella nuca della macchina, e tirò con forza, mentre il sudore gli scorreva lungo i muscoli tesi delle braccia. Un pannello di metallo saltò via dal collo dell'Automa, lasciando una serie di cavi allo scoperto. L'uomo li afferrò con entrambe le mani e li strappò. Nell'esatto attimo in cui i cavi furono divelti, l'Automa smise di muoversi, come una marionetta senza vita. Piegò il busto in avanti, le sei braccia gli ricaddero lungo i fianchi, inerti, e la luce cremisi dei terribili occhi si affievolì, fino a spegnersi del tutto. L'ossessivo ronzio e gli scatti metallici del corpo meccanico lasciarono finalmente spazio al silenzio - e ai sospiri di sollievo di Kyra e compagni. I loro misteriosi salvatori mollarono le funi, mentre l'uomo barbuto e seminudo saltava agilmente dal cilindro metallico. Un compagno gli offrì degli indumenti con cui coprirsi. «Che peccato...» osservò Selita a mezza voce. Tutti si voltarono nella loro direzione. Si fecero avanti in gruppo, il barbuto in testa agli altri. Dal modo in cui lo seguivano, Kyra intuì che doveva trattarsi del capo. «Grazie!» esclamò Lisca, avanzando di un passo «Vi dobbiamo la vita, amici! Se non fosse stato
per voi...» Non fece a tempo a terminare la frase, che ognuno degli estranei estrasse una corta lama dalla cinta. Nel giro di istanti, furono circondati. «Calma!» intervenne Kyra «Siamo amici!» «Questo saremo noi a deciderlo» disse il barbuto, posizionandosi un passo avanti agli altri «Tanto per cominciare, gettate le armi.» «Ascoltate, non abbiamo intenzione di...» «Non mi pare che siate nella posizione di discutere. Gettate le armi, adesso. Non lo ripeterò una terza volta.» Kyra scoccò una rapida occhiata ai compagni: nessuno aveva l'aria di voler opporre resistenza. «E va bene» disse, lasciando cadere i due pugnali in terra. Alle sue spalle, gli altri fecero lo stesso. «Adesso possiamo conversare?» Il barbuto non disse nulla, limitandosi a studiarli con lo sguardo. I suoi uomini strinsero il cerchio, senza abbassare le armi. Uno di loro commise l'errore di avvicinarsi troppo a Kwan, che sfoderò le zanne artificiali e gli rivolse un ringhio non proprio amichevole. L'uomo balzò all'indietro, creando una piccola confusione, ma ad un gesto del capo subito tornò la disciplina. Rivolse loro la parola, con voce dura: «Chi siete, e cosa state cercando quaggiù?» Kyra titubò alcuni istanti prima di rispondere: ancora non sapeva da che parte stessero quegli uomini, era meglio non rivelare troppo. «Non abbiamo niente da nascondere» affermò «Siamo della banda dei Ratti di Porto, e stavamo esplorando le fogne quando siamo caduti in trappola. Se non fosse stato per voi, ce la saremmo vista davvero brutta.» «Esplorando le fogne?» ripeté l'uomo, incredulo «E perché mai vi sareste presi questo disturbo? Dubito che qui possiate trovare qualcosa d'interessante per i vostri traffici.» «Vie di fuga sotterranee» replicò Kyra, prontamente «Suona ridicolo, vista la situazione in cui ci avete trovati, eppure è ciò che stavamo cercando...» «Spiegatevi meglio» intimò l'altro, inarcando un sopracciglio. «Se conoscete la nostra banda, saprete anche che non siamo in buoni rapporti con la Guardia Cittadina. E quei maledetti diventano sempre più furbi! Non tarderà il giorno in cui conosceranno le vie del porto meglio di noi, e allora non avremo più dove nasconderci...» «Per cui, vorreste farmi credere che stavate studiando vie di fuga alternative qui nel sottosuolo, per far perdere le vostre tracce sulla superficie in caso di guai con la Guardia?» «Esatto!» si intromise Lisca, annuendo con vigore «Nessuno riuscirebbe a starci dietro, in questo labirinto!» «Vero» ammise l'uomo. Poi, esibendo un sorrisetto sarcastico, domandò: «Perché non mi mostrate le mappe che avete tracciato? Conosco bene questi paraggi, potrei darvi qualche consiglio...» Kyra capì che la loro spiegazione non era stata abbastanza convincente. Il sorriso sparì dalle labbra dell'uomo tanto in fretta com'era apparso. Fece un passo avanti, fissandoli con occhi freddi come il ghiaccio. «Niente mappe, eh? É inutile che ci proviate: sento il puzzo delle vostre menzogne lontano un miglio. Vi dirò io perché siete qui.» Indicò il relitto dell'Automa alle sue spalle. «É per questo, vero? Per quella maledetta Fabbrica!» Nessuno rispose, ma il silenzio fu più che eloquente. «Lo immaginavo...» continuò l'uomo, scuotendo la testa «Non è la prima volta che qualche imbecille decide di sgattaiolare nella Fabbrica da qua sotto, e sapete che succede?» Fissò i membri del gruppetto, senza attendersi una risposta. «Succede che il malcapitato viene fatto a pezzi dagli Automi. E anche se ce la fa, con il nostro
aiuto, ci procura un sacco di attenzioni, cosa che proprio non vogliamo!» «Eppure vi fate in quattro per salvare i poveri mascalzoni...» commentò Kyra, con una punta di ironia. «Non siamo bestie, se è questo che state insinuando. Per quanto non ci piaccia l'idea che intrusi vaghino a piacere nei nostri tunnel, non significa che li lasceremmo morire senza per lo meno provare a salvarli!» «Nei nostri tunnel? Credete di essere i padroni di questo luogo?» «In un certo senso, lo siamo. Ma questo non vi deve interessare.» Il barbuto schioccò le dita, e subito i suoi uomini strinsero il cerchio attorno ai prigionieri. «I miei uomini vi scorteranno all'esterno» disse «e consideratevi fortunati. Avremmo potuto abbandonarvi al vostro destino, là dentro.» Detto questo, voltò loro le spalle, e fece per allontanarsi. «Aspettate!» esclamò Kyra «Non possiamo andarcene adesso! Abbiamo una missione da compiere!» «Potete giocare agli esploratori altrove, lontano da qui» rispose l'uomo, senza neppure voltarsi. Per un momento Kyra pensò di ribellarsi, ma una rapida occhiata alla punta di lancia vicino alla sua gola fu sufficiente a farle cambiare idea. Tanto più che i suoi tre compagni non parevano affatto propensi a lottare. Con rabbia, notò una punta di soddisfazione negli occhi di Selita dinanzi a quel fallimento. E fu allora che le venne in mente un dettaglio. «Rispondete almeno a questo!» sbraitò, mentre la spingevano indietro «Dicono che una banda controlli i sotterranei di Dekka! Siete voi?» Il capo banda rise sommessamente: «Che perspicacia! Non vedo altri da queste parti...» «Allora questo potrebbe interessarvi» dichiarò Kyra, estraendo di tasca l'anello che Leon le aveva dato, e di cui si era scordata fino a quel momento. L'uomo si fermò per pura curiosità, girando il capo. Ma quando il suo sguardo si soffermò sulla scintillante gemma verde dell'anello, gli occhi gli si dilatarono per lo stupore. Si voltò di scatto, e coprì ad ampi passi la distanza che lo separava da Kyra, scostando gli uomini al suo passaggio. Le fu addosso, e le torse il polso, costringendola a consegnargli il gioiello. «Dove l'avete trovato?» domandò, con voce tagliente «L'avete rubato?» «Mi offendete...» rispose lei con un sorriso forzato, cercando di ignorare il dolore. In qualche modo, la presenza dell'anello aveva cambiato le carte in tavola. Doveva approfittare di quell'occasione. «Parlate, o non risponderò delle mie azioni!» minacciò il capo banda. «Non l'ho rubato, se è questo che vi turba. Mi è stato consegnato da un uomo di nome Leon. Mi ha detto che poteva venirci utile, caso i nostri cammini si fossero incrociati.» L'uomo mollò la presa. Il suo sguardo si fece lontano, fisso in un altro tempo, e in un altro luogo. «Leon...» mormorò. Le facce dei compagni di Kyra tradivano stupore. Non aveva fatto menzione con loro dell'anello, né tantomeno del fatto che avrebbero potuto imbattersi in un'altra banda nel labirinto dei tunnel. Ragione in più perché Selita le scoccasse una delle sue occhiate di biasimo. Il capo banda si riscosse, studiandoli con rinnovato interesse. Chiamò a sé uno degli uomini, e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. «Ci sarà un piccolo cambiamento di piani» dichiarò poi ad alta voce, rigirando l'anello tra le dita «Verrete con noi al rifugio, ci sono alcune cose che vorrei chiarire.» Kyra capì che non era il caso di protestare. Ancora non intendeva quale fosse il significato dell'anello, ma se non altro avevano guadagnato tempo. Gli sviluppi avrebbero mostrato se era stata una mossa azzeccata, o se si stavano soltanto cacciando in guai peggiori. «Va bene» disse «Guidateci pure.» «Non che abbiate voce in capitolo... e non prima di prendere alcune precauzioni» osservò il capo banda, schioccando le dita «Vogliate per favore non opporre resistenza, mentre vi prepariamo per il
viaggio.» Kwan ringhiò, Lisca e Selita imprecarono, ma non ci fu nulla da fare: vennero bendati, e i loro polsi legati. Quando venne il suo turno, Kyra si lasciò bendare senza proteste, benché l'idea di camminare nelle fogne di Dekka senza poter vedere dove metteva i piedi non fosse una prospettiva molto rassicurante. A un segnale del capo banda, il gruppo si mise in marcia, con Kyra e i tre compagni sotto stretto controllo. All'inizio ebbero difficoltà a mantenere l'equilibrio, benché venissero quasi condotti per mano. Soltanto dopo una mezz'ora di cammino appresero a poggiare un piede davanti all'altro alla cieca senza troppo timore. Man mano che procedevano, pur non potendo distinguere alcunché attraverso le bende di panno che le coprivano gli occhi, Kyra percepì un progressivo mutamento nella qualità dell'aria: da spessa e maleodorante che era, si stava facendo a poco a poco più pura. Accolse con gratitudine la comparsa di un fievole alito di vento, che le donò l'illusione di essere uscita all'aria aperta. Speranza fugace, a giudicare dall'eco sorda dei suoi passi sul pavimento di pietra: senza dubbio si trovavano ancora sottoterra, nel labirinto di cunicoli di Dekka. Nessuno disse nulla durante l'intero tragitto. Quando uno dei prigionieri titubava, gli uomini lo pungolavano senza tanti complimenti, e la marcia proseguiva. Più di una volta Kyra si augurò che quell'anello non fosse fonte di nuovi guai. D'altro canto, non aveva motivo di dubitare delle buone intenzioni di Leon, quando questi glielo aveva consegnato. Ancora non riusciva a scorgere legami tra l'impacciato mercante di tessuti e il rude capo banda dei sotterranei, ma forse non avrebbe dovuto attendere molto per ottenere delle risposte. All'improvviso, il terreno sotto i suoi piedi si fece irregolare: la pavimentazione consunta lasciò spazio a un suolo ruvido e accidentato. Uno degli uomini la condusse per il braccio, evitando che incespicasse. Camminarono per un lungo tratto in quelle condizioni. Selita non perdeva occasione di esprimere la sua disapprovazione ad alta voce, sbuffando e imprecando ogni volta che metteva un piede in fallo, finché Kyra temette – o sperò? - che l'avrebbero messa a tacere con le cattive maniere. Proprio mentre si chiedeva se sarebbero mai giunti a destinazione, il suo accompagnatore la fece arrestare di colpo. Qualcuno allentò i nodi della corda che le imprigionava i polsi. In pochi istanti ebbe le mani libere, e poté massaggiarsi con sollievo la pelle indolenzita. «Potete togliervi le bende» disse la voce del capo banda. Così fecero. Da principio Kyra dovette farsi scudo con la mano, per proteggersi dalla luminosità che pervadeva l'ambiente. Quando riuscì a mettere a fuoco i contorni, spalancò gli occhi per lo stupore: si trovavano ancora sottoterra, ma non più negli angusti cunicoli della rete fognaria, bensì all'imboccatura di un'enorme cavità naturale, una caverna di straordinarie dimensioni che si apriva dinanzi a loro come le fauci di una balena. La luce penetrava da una serie di profonde spaccature nella roccia del soffitto, ed era riflessa e propagata tutt'intorno da una miriade di cristalli di quarzo vivo sporgenti dalle pareti di roccia. Da quel punto, a mezza costa lungo un declivio che digradava fino alla base della caverna, godettero di una visione completa del sorprendente scenario: numerose stalagmiti, delle dimensioni di piccole montagne, sorgevano dal suolo innalzandosi verso il cielo, e facevano da contraltare alle maestose stalattiti pendenti dal soffitto. Curiosamente, il suolo della caverna era ricoperto da un tappeto d'erba verde, e piante e arbusti crescevano in ogni canto. Il centro era occupato da un laghetto di acqua trasparente, come un cristallo incastonato nella roccia. La grotta non era disabitata, tutt'altro: nei dintorni del lago sorgeva un esteso raggruppamento di tende, con grande varietà di forme e colori. Vi era un buon movimento di persone, e numerosi falò accesi, benché da quella distanza non fosse possibile distinguere le attività in corso in quel villaggio improvvisato. A giudicare dalla sua estensione, Kyra calcolò che ci vivessero più di cento persone. «Che mi prenda un colpo!» esclamò Lisca, non riuscendo a trattenere la sorpresa. «Il nostro rifugio» disse il capo banda, senza nascondere un certo orgoglio.
Poi, recuperato il tono diffidente di sempre, continuò: «E non amiamo spie e intrusi. Rimarrete qui, sotto la nostra protezione, fino a quando non avremo chiarito la questione. Nel frattempo, niente passi falsi, o ne pagherete le conseguenze.» «Non lo metto in dubbio» tagliò corto Kyra «Ma anche se siamo prigionieri, spero non ci vogliate negare acqua e cibo. È stata una giornata piuttosto stancante...» «Bah! Non posso garantire sulla qualità del pasto, ma per il resto i vostri desideri saranno accolti.» Studiò l'inclinazione dei raggi di sole che filtravano nella caverna. «É pomeriggio inoltrato. Questa sera sarete nostri ospiti, e domattina vedremo di risolvere la faccenda. Adesso sbrighiamoci a scendere.» A un suo cenno, il gruppo riprese a muoversi lungo il precario sentiero scavato nella roccia. Man mano che scendevano, Kyra studiò i dintorni con interesse, pur tenendo sempre d'occhio il cammino tortuoso: una caduta da quell'altezza poteva rivelarsi fatale. Non avrebbe mai immaginato che un luogo simile potesse esistere, né tantomeno che un'intera comunità di uomini e donne potesse viverci, celata agli sguardi del mondo esterno. «Non siamo più sotto la città» commentò a voce alta. Aveva calcolato mentalmente la distanza percorsa da quando erano stati catturati. Quell'informazione, combinata con le colossali dimensioni della caverna, le dava ragione di credere che si trovassero al di sotto delle colline che cingevano Dekka nell'entroterra. Il capo banda non rispose, limitandosi a lanciarle un'occhiata di sghimbescio. Proseguirono con cautela, e in breve raggiunsero il fondo. Furono accolti da un altro gruppetto d'uomini, anch'essi magri e pallidi, armati di lance. A un cenno del capo, li affiancarono per scortarli fino al villaggio. Mentre camminavano sull'erba soffice, il loro passaggio era accompagnato dagli occhi bulbosi di decine di salamandre dalla pelle traslucida, forse le uniche creature adattatesi a vivere là in compagnia degli esseri umani. Quando fecero il loro ingresso nel cerchio di tende più esterno dell'accampamento, furono attorniati da uno sciame di bimbi smilzi, che sprizzavano curiosità da tutti i pori. Di fronte alle tende vi erano falò accesi, e donne intente a cucinare. Il pasto serale pareva tutt'altro che abbondante. Continuarono fino al centro dell'accampamento, uno spiazzo di terra battuta che si apriva direttamente sulla riva del lago. Vi era una colonna di persone in fila di fronte a un palco, e ciascuna reggeva tra le mani un recipiente di coccio, in attesa del proprio turno. Un uomo sedeva dinanzi alla fila, facendo annotazioni su un registro, mentre un altro separava e distribuiva magre razioni di cibo. «É l'ora della distribuzione» osservò il capo banda, anticipando l'eventuale domanda dei suoi prigionieri «Ciascuno ha diritto alla sua parte. Quel poco che ognuno di noi riesce a recuperare durante il giorno è messo a disposizione di tutti. E grazie alla vostra piccola avventura, né io né molti dei miei uomini abbiamo potuto fare la nostra parte, oggi.» Kyra notò nella fila una coppia di anziani scheletrici e zoppicanti, e provò una punta di rimorso. Ma non era stata quella, la loro intenzione... «Zio! Zio Aren!» gridarono all'unisono due bambinetti biondi di non più di sei anni, maschio e femmina, correndo incontro al capo banda. Prima che questi potesse trattenerli, gli balzarono al collo, abbracciandolo ed arruffandogli la folta barba scura. Il volto severo dell'uomo si aprì in un sorriso burbero, il primo che Kyra gli avesse visto sulle labbra da quando si erano incontrati. Aren scompigliò i capelli dei bambini, e li baciò sulla fronte, prima di staccarseli garbatamente dal collo e poggiarli in terra. Diede un buffetto sulle guance di ciascuno, e i due corsero via dando gridolini di allegria. Una donna ossuta, dallo sguardo stanco, li accolse nel suo abbraccio con un cenno di saluto al capo banda, che retribuì con un sorriso. «Aren, dunque...» commentò Kyra. «É il mio nome» confermò lui, di nuovo stizzito. «Io mi chiamo Kyra» continuò lei. Quindi, indicando i suoi compagni: «E questi sono Lisca,
Kwan e Selita.» «Lasciamo a domani le presentazioni ufficiali. Avete un'ora di tempo a partire da adesso, prima di ritirarvi per la notte, non un minuto di più. I miei uomini vi terranno d'occhio, per cui non tentate scherzi.» Kyra incrociò lo sguardo dei compagni e diede un'alzata di spalle. Per il momento non c'era altro da fare se non seguire le indicazioni di Aren. «Aspettate un attimo!» protestò Selita «Qualcuno di voi mi ha vista? Un'ora non mi basterà neppure per cominciare a scrostarmi di dosso questa roba!» Aren osservò meglio la donna, e dovette riconoscere che si trovava in uno stato davvero deplorevole, sudicia di catrame dalle punte degli stivali fino ai capelli. Il viso era l'unica parte di lei a risaltare nel mezzo del nerume: un viso dall'espressione decisa, labbra forti, occhi ribelli... «Va bene» acconsentì, senza ben sapere cosa l'avesse spinto a farlo «Qualcuno ti accompagnerà al lago. Ma non abusare della mia fiducia!» «Grazie» rispose lei, l'ombra di un sorriso sul volto. «Non c'è di che» farfugliò lui. Fece cenno a uno dei suoi di scortarla in riva al lago, quindi voltò loro le spalle e si allontanò, dirigendosi a una tenda isolata all'altra estremità dello spiazzo. Selita fu portata via per il braccio, e nemmeno si voltò a salutare gli altri tre. «Buon bagno!» le augurò Kyra, scocciata. Quella donna doveva sempre fare di testa sua! Sperò che non commettesse qualche imprudenza, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti quanti. «Lascia perdere» disse Lisca «Ci farai l'abitudine.» Furono a loro volta scortati a fare un bagno, ma non al lago: si innaffiarono da capo a piedi con secchi d'acqua fredda, e cercarono di sfregare via dal proprio corpo ogni maleodorante traccia del passaggio nelle fogne. Qualcuno ebbe uno slancio di generosità, ed offrì loro un pezzo di sapone che si rivelò estremamente utile. Ricevettero poi una scodella di cibo fumante ciascuno: era un brodo di riso e verdure, modesto ma ottimo per scaldare lo stomaco. Terminato il pasto, Kyra cercò di intavolare una conversazione con gli altri due, ma ricevette in cambio solo sguardi stanchi e affermazioni monosillabiche, e desistette. Senza troppa cortesia, un paio d'uomini armati li condussero a due tende piazzate a ridosso di una parete rocciosa, che chiudeva ogni possibile via di fuga. Fecero loro segno di entrare - Kyra in una, Kwan e Lisca nell'altra - e montarono la guardia davanti alle tende. Kyra si rattrappì in un canto dell'angusto riparo. Si sentiva esausta. Ignorando il suolo freddo e duro sotto di lei, si consegnò a un sonno profondo e privo di sogni.
----Dopo aver consumato il suo pasto, Aren uscì dalla tenda alla luce delle torce. Ispezionò un'ultima volta l'accampamento, come di consueto, per accertarsi che fosse tutto in ordine. A quell'ora molti stavano già dormendo. Triste ammetterlo, ma proprio quello era il momento prediletto di tanti: il sonno era l'unico toccasana davvero efficace contro quella vita magra di soddisfazioni. I pochi uomini ancora in piedi si raggruppavano attorno ai falò, fumando e chiacchierando. Le note nostalgiche di un flauto si libravano nell'oscurità, richiamando immagini di un passato più felice. Con la coda dell'occhio, Aren percepì del movimento inconsueto sulla riva del lago. Soltanto allora si rammentò di quella donna così impudente e graziosa... Selita, si chiamava? Decise di andare a dare un'occhiata. Raggiunta la riva, notò qualcuno appoggiato a un albero, spalle al lago. Era la scorta della ragazza. Quando vide Aren sopraggiungere, l'uomo scattò sull'attenti, con aria imbarazzata. Era giovane, poco più che un ragazzo. «Che stai facendo?» lo sgridò Aren «Non ti avevo detto di tenerla d'occhio?» «Sissignore» rispose il giovane, rosso in faccia «Ma riesco a sentirla da qui, mentre si lava.» Aren tese l'orecchio, e poté udire lo sciabordio d'acqua al di là della parete di arbusti. «Non volevo mancare al mio dovere!» continuò il giovane «Soltanto che... beh, è una donna... non sapevo se...»
«Capisco» borbottò Aren «Lascia che controlli lo stesso. Meglio non fidarsi troppo.» Cercò un varco tra i cespugli, e vi si infilò in silenzio. Giunto al lato opposto, si guardò attorno: una torcia incastrata tra le rocce proiettava il suo alone di luce sulla sponda del lago. Scorse una figura nell'acqua, immersa fino alle ginocchia, e gli si mozzò il fiato. Selita aveva quasi terminato l'opera: non vi era più traccia di catrame sul suo bel corpo nudo, deliziosamente esposto alla luce tremolante della torcia. Aren rimase incantato dalla vista, e non poté fare a meno di spiarla mentre si strofinava la pelle lucida d'acqua. Posando lo sguardo su quei fianchi torniti, su quelle gambe snelle, su quella cascata di capelli neri, sciolti, provò una fitta al cuore. Un ramoscello si spezzò tra le sue dita. «Chi va là?» strillò Selita, coprendosi. Aren si ritrasse in tutta fretta, maledicendosi per la propria goffaggine. Non aveva mai provato tanta vergogna in vita sua. Trattenne il fiato per diversi istanti, mentre lo sguardo di Selita si spostava verso di lui. Riusciva a vederlo, nel buio? Perché si era soffermata proprio in quella direzione? Selita si morse un labbro, e sospirò. Dopo un po', riprese a lavarsi come se nulla fosse, ed Aren poté tirare un sospiro di sollievo. Si ritirò con la massima cautela, scrollandosi di dosso foglie e rametti. Comunicò al giovane che non c'erano problemi, e se ne andò di gran carriera. Mentre tornava alla sua tenda, si diede dello sciocco innumerevoli volte. Che diavolo gli era saltato in mente? Una prigioniera, oltretutto! Che razza d'uomo si sarebbe comportato così? «Domani sarà ben differente!» si impose. Ma il suo cuore continuava a battere all'impazzata, e la sua mente era fissa su un'immagine soltanto. Si rese conto che quella notte avrebbe dormito ben poco.
XV - L'Eredità
Kyra si svegliò di soprassalto, pungolata al fianco. Reagì d'istinto, ruotando su se stessa nello spazio ristretto della tenda. Si trovò di fronte il muso irritato di Selita, una mano ancor tesa nella sua direzione. «Calmati!» sbraitò la donna «Non c'è bisogno di agitarsi tanto, volevo soltanto svegliarti!» Kyra si sentì disorientata. Non era da lei dormire tanto profondamente, al punto da trascurare le più basilari norme di sicurezza. Imbarazzata, diede il buon giorno a Selita, che scosse la testa con aria di rimprovero. «Lisca e Kwan sono già in piedi da un pezzo» osservò «Sono venuta a dirti che il capo banda è in attesa.» «Certo» rispose Kyra, con voce impastata dal sonno «Potete precedermi se volete. Ho bisogno di sciacquarmi il viso e mettere qualcosa sotto i denti.» «Non hai capito: è soltanto te che vuole vedere. Purtroppo» aggiunse Selita, mordendosi un labbro «E non credo che avrà la pazienza di aspettare.» «Mmm... D'accordo, vedrò di sbrigarmi...» Con un sonoro sbadigliò cercò a tastoni l'apertura della tenda. Mentre usciva carponi, Selita la trattenne. «Per favore» disse «Niente mosse sbagliate oggi, ok? Ieri abbiamo già corso fin troppi rischi, per i miei gusti.» «Risparmiati i consigli» reagì Kyra, scrollandosi di dosso la mano della donna «Non mi sembra che tu sia stata di grande aiuto, fino ad ora.» Selita le sibilò dietro una serie di imprecazioni, ma Kyra non se ne curò. Salutò con un cenno Lisca e Kwan, seduti accanto al fuoco. Accettò con gratitudine una tazza di caffè annacquato e bollente. Mentre la bevanda faceva il dovuto effetto, la incuriosì il pensiero di come quell'accampamento sotterraneo fosse ben organizzato. Non vi erano segni di benessere e abbondanza, ma tutto sommato le cose parevano funzionare bene. Era un luogo intrigante, e si augurò di poterne sapere di più da quell'Aren. Notò che una delle guardie la puntava con impazienza, per cui smise di sorseggiare il caffè e trangugiò ciò che ne restava in un'unica boccata. Si alzò in piedi e si avviò, scortata dalla guardia. «Buona fortuna, capo» le augurò Lisca, con scarso entusiasmo. Kwan le rivolse un gesto incomprensibile, che aveva l'aria di essere una forma di incoraggiamento. Camminò a testa alta attraverso lo spiazzo centrale dell'accampamento. Lungo il cammino incrociò lo sguardo sfuggente di poche persone, quasi tutte donne e bambini intenti a svolgere faccende domestiche. Nessuno la salutò. Fu condotta alla tenda del capo banda, rivestita con un misto di pelli consunte e ritagli di tessuto cuciti assieme. Il suo aspetto, semplice e privo di fronzoli, pareva riflettere ciò che Kyra aveva intuito dell'uomo che vi abitava: concreto e diretto, con poca propensione alle chiacchiere. «Entrate» disse la sua voce dall'interno. Kyra scostò il lembo di panno che copriva l'entrata, e fece il suo ingresso nella tenda poco illuminata. L'interno era spartano come l'esterno. Se Kyra si era aspettata tappeti, pellicce e ricchi ornamenti, per essere l'alloggio del capo, rimase delusa: sul suolo di terra battuta vi era soltanto una branda, che faceva il paio con un vecchio scrittoio e due sedie. Aren sedeva su una di esse, in attesa. Una pipa gli pendeva dalle labbra, esalando un filo di fumo. «Sedetevi» le disse, con apparente cortesia, ma il tono era quello di un ordine. Kyra si accomodò, lievemente a disagio sotto lo sguardo di quegli occhi indagatori.
«Allora, che ne pensate del nostro rifugio?» le chiese Aren, rigirando la pipa tra le dita. «Beh... A dire il vero, ancora adesso stento a crederci: un'intera comunità, qua sotto....» «Eppure è realtà. Ed è mio compito far sì che continui ad esserlo, lontano dagli occhi del mondo esterno.» Il suo sguardo si fece più intenso. «Questo, lo dico una volta di più, è il motivo della vostra prigionia. Non posso permettere che un gruppo di estranei vaghi nel nostro territorio, soprattutto quando questi estranei attirano l'attenzione su di sé con qualche mossa stupida.» Kyra aggrottò le sopracciglia. «Vi assicuro una volta di più che non era nostra intenzione...» «Basta!» la interruppe lui «Non mi interessa sapere se avevate o meno intenzione di crearci dei problemi, fatto sta che ci siete riusciti. Quando si accorgeranno che l'Automa è fuori combattimento, si metteranno sulle nostre tracce. Dovremo farlo sparire prima che accada, ma anche così correremo dei rischi.» Sospirò, ignorando ancora una volta il tentativo di lei di replicare. «Lasciate che vi spieghi meglio la situazione» disse, continuando a fissarla con i penetranti occhi azzurri incassati nel pallore del volto barbuto «Come vi sarete resa conto, la nostra comunità non è così piccola. Vi chiederete chi siamo davvero, e perché abbiamo scelto di vivere nel sottosuolo. Sopravviviamo soltanto grazie alle nostre scorribande in superficie, e a quel poco che riusciamo a coltivare quaggiù. Non è una vita facile. Eppure abbiamo un motivo serio per resistere.» Fece una pausa, intrecciando le dita. «Siamo esuli, reietti della società. Siamo il frutto amaro di una persecuzione che dura ormai da anni, indesiderabili che a stento sono riusciti a sottrarsi alla legge corrotta della città... Ma leggo scetticismo nei vostri occhi: forse non credete alle mie parole?» «Anche i Ratti di Porto si proclamano fuggiaschi e reietti, come voi» dichiarò Kyra, con un mezzo sorriso. «Non è la stessa cosa!» tuonò Aren, battendo un pugno sul tavolo «Io ho riunito questa gente con un proposito! Ho dato loro un posto da chiamare casa, ho dato loro la possibilità di guardare al futuro! Conoscevo molti di loro, e li chiamavo amici, già prima che la disgrazia si abbattesse su di noi... Perciò non osate paragonarci a una banda di criminali e accattoni, senz'altro scopo se non quello di vivere come topi di fogna!» «Questo lo dite voi! E di che disgrazia state parlando?» «Sono io che faccio le domande, nel caso l'abbiate dimenticato» tagliò corto lui. Le labbra gli tremavano di rabbia. Rovistò nelle tasche, e ne estrasse l'anello che aveva strappato a Kyra il giorno prima. «Conosco questo anello. Lo conosco molto bene. Avete affermato che ve l'ha dato un uomo di nome Leon, ma non vedo il motivo per cui avrebbe dovuto farlo. Penso che siate una bugiarda, e che l'abbiate rubato.» «Non osate chiamarmi bugiarda!» ribatté lei «Quanto ho detto è la pura verità: Leon mi ha dato l'anello di sua spontanea volontà! E senza molte spiegazioni, devo dire... Sapevo soltanto che avrei dovuto mostrarvelo in caso di problemi...» Scosse la testa. «Finora, a dire il vero, non è servito a molto.» Aren poggiò l'anello di fronte a sé sullo scrittoio. La superficie della gemma, priva di imperfezioni, brillava alla tenue luce della lanterna. «Spiegatevi meglio» disse «E fate attenzione a ciò che dite. Dalla risposta potrebbe dipendere la vostra libertà, e forse la vostra stessa vita.» La minaccia era esplicita. Kyra deglutì a secco, riflettendo su come cavarsi d'impiccio: Aren non aveva bevuto la storiella del giorno prima, questo era chiaro. Forse era il caso di confessare la verità. I dubbi c'erano, però: chi era davvero quell'uomo? Da che parte era schierato? Avrebbe potuto denunciarli, e consegnarli
alle stesse persone che avevano catturato Ethan... D'altro canto, era improbabile che lo facesse, tanto più che li aveva salvati dall'Automa... «Dunque?» insistette Aren. «E va bene!» sbottò lei. Era prigioniera in un luogo sconosciuto, sepolto sotto tonnellate di terra; Automi assassini da un lato, e dall'altro una specie di tribù armata fino ai denti! Che aveva da perdere? Raccontò per sommi capi tutto ciò che le parve pertinente, a partire dalla sua amicizia con il pescatore Ezer e la scomparsa di Ethan, passando per il rocambolesco scontro con i Ratti di Porto e l'incontro col commerciante Leon, fino alla malaugurata spedizione nelle fogne, dove per poco non avevano perso la vita. Parlò senza fermarsi per diversi minuti, e col procedere della narrazione Aren parve sempre più assorto. Un'espressione di sincero stupore andò formandosi sul suo volto. Quando ebbe finito, Kyra fissò lo sguardo in quello indecifrabile di lui, nella speranza di leggervi un segnale positivo. Aren prese a mordicchiarsi l'unghia di un pollice, mettendo da parte la pipa ormai spenta. Sembrava che le parole di Kyra l'avessero colto di sorpresa, e stesse valutando come comportarsi dinanzi a quel repentino cambio di prospettiva. «La vostra è una storia piena di avventure e colpi di scena, Kyra» asserì, chiamandola per nome per la prima volta «Eppure mi sembrate sincera.» «Non avrei motivo di mentirvi» rispose lei, allargando le braccia. «L'avete già fatto una volta» insinuò lui. «Ieri era diverso: quando sono circondata da uomini armati, tendo a mettermi sulla difensiva...» «E adesso, vi fidate a sufficienza?» «Non ho altra scelta. L'unico modo che i miei compagni ed io abbiamo di andarcene da qui, e riprendere la nostra missione, è con il vostro assenso.» Aren chiuse gli occhi, in preda al dubbio. Kyra capì di dover sfruttare quella breccia. «Ascoltatemi, Aren. Non vi conosco, ma già so che siete un uomo di buon cuore: altrimenti non ci avreste salvati dall'Automa, né vi prendereste cura di tutta questa gente. Perciò date retta al vostro cuore, e lasciateci andare. Siete vittima della legge corrotta di Dekka, l'avete affermato voi stesso. Beh, anche Ethan, il giovane di cui vi ho parlato, lo è. Lasciate che lo cerchiamo. Lasciateci fare la nostra parte. Forse è ancora vivo...» «O forse è già morto da un pezzo.» «Finché non ne avrò la certezza, devo andare avanti! Avete sentito la mia storia: ho fatto una promessa a un amico, e intendo mantenerla!» Il volto di Kyra si indurì, rispecchiando la sua determinazione. Per un momento, si sorprese delle sue stesse parole: avevano il sapore della vecchia Kyra, la donna che credeva in Abel e che lottava contro i Demoni per la vittoria della Compagnia. Ancora esisteva in lei quella persona? C'era ancora una fiamma di calore nel cuore distaccato della nuova Kyra, la cinica, l'avventuriera in fuga dalle proprie responsabilità? «Non metto in dubbio la bontà delle vostre intenzioni» proseguì Aren, ignaro del conflitto interiore che intorbidiva i pensieri di Kyra «Ma ciò non toglie che la vostra maldestra intrusione abbia messo a rischio la nostra sicurezza. Credo che sarebbe sciocco da parte mia lasciarvi andare. Non fareste che mettere di nuovo a repentaglio la vostra vita, e le nostre, e tutto per salvare un uomo che probabilmente è già morto.» «Un uomo che condivideva i vostri stessi ideali, maledizione!» lo interruppe lei, con enfasi. Doveva giocarsi quell'ultima carta. «Non vi rendete conto che Ethan lottava, come voi, per una nobile causa? Ha abbandonato suo padre e il suo villaggio, ha corso enormi rischi, e per cosa? Per mettere i bastoni tra le ruote a chi uccide il mare! Per gettare luce sull'ingiustizia, sul gioco sporco di chi messo in piedi quell'obbrobrio di Fabbrica, coi suoi Automi repellenti!» Puntò un dito contro Aren, sul cui viso poteva leggere un misto di offesa e incredulità. «Non siete forse voi, Aren, per vostra stessa bocca, il frutto amaro di questi giochi di potere? E per paura di esporvi lascerete che l'abbiano vinta, che schiaccino Ethan come un insetto?» «Basta così, insolente!» irruppe Aren, rosso in viso, afferrando i bordi del tavolo con tale forza
da far scricchiolare il legno «State tirando troppo la corda! Paura di esporci! Non sapete di che state parlando! Vi credete nel diritto di parlarmi in questi termini, senza nemmeno conoscermi! Voi... Voi...» La voce gli si ruppe in gola. Con un estremo sforzo di autocontrollo, chiuse gli occhi ed inspirò una boccata d'aria. Il sangue tornò a fluirgli dal viso, restituendogli l'abituale pallore. Fu come se una tempesta l'avesse attraversato, rapida e violenta, carica di nubi nere. Ma altrettanto in fretta le nubi si erano squarciate, ed Aren fu scosso da una tonante risata, che nacque impercettibile e finì per squassargli l'intero corpo, librandosi all'interno della tenda. Kyra lo fissò inebetita, certa che fosse impazzito. «...Voi avete assolutamente ragione!» concluse Aren, non appena riuscì a controllare il riso «Siete testarda e arrogante a rivolgervi a me in questo modo, sapendo di essere mia prigioniera, ma la vostra sincerità mi ha aperto gli occhi!» «Non so che dire...» rispose Kyra, grattandosi la nuca. «Avete già detto abbastanza, credetemi» la tranquillizzò lui «La verità è che io ho torto, e voi ragione. Avete visto in che stato viviamo?» Lei annuì. «Non era questo ciò che volevo, quando ho creato questo rifugio. Sono diventato troppo protettivo nei confronti dei miei uomini e delle loro famiglie. E di me stesso. Da quanto, ormai, passiamo il tempo preoccupandoci della nostra misera sopravvivenza, invece di lottare per il nostro futuro? Non lo so, ho perso il conto dei mesi, degli anni...» Sorrise con calore. «Immagino che il nostro incontro fosse scritto nel destino, Kyra. O forse c'è lo zampino di qualcuno che conosco. Sapete qual è il significato dell'anello che mi avete mostrato?» Prese il gioiello e se lo infilò al dito: entrò senza sforzo, come se gli appartenesse da sempre. «Questo anello è l'unica eredità rimasta della mia famiglia: appartiene a me, e a mio fratello Leon. Se ve l'ha dato, significa che siete una persona degna di fiducia.» «Fratello?» balbettò Kyra, nell'inutile sforzo di indovinare una somiglianza fisica tra i due «Per cui Leon immaginava fin dall'inizio che vi avrei incontrato... Perché non mi ha avvisata prima? E perché tanto mistero? Avrebbe potuto risparmiarci un mucchio di problemi!» Aren esibì un sorriso amaro, rimuginando sul passato. «Dubito che sapesse dove mi trovavo. Mio fratello ha soltanto una vaga nozione del luogo in cui vivo, e di ciò che faccio. Anni fa, abbiamo scelto cammini differenti.» «Non c'è dubbio» affermò Kyra «Che legame potrebbe mai esistere tra un commerciante della città e ...» «...e un reietto che vive nelle fogne?» completò Aren «Molto più di quanto possiate immaginare.» «Va bene: avete risvegliato la mia curiosità!» «Cercherò di spiegarvi, ma è un passato che non amo ricordare.» Si schiarì la gola, e cominciò. «Come già vi ho detto, vivo nascosto come un bandito a causa di una persecuzione che ha le sue radici nel passato, e che ha toccato tanto me quanto chiunque altro dei miei. Tutto ebbe inizio molti anni fa: all'epoca, Leon ed io eravamo poco più che ragazzi, rampolli viziati di una delle famiglie più ricche e influenti di Dekka, gli Erbecker.» Kyra inarcò un sopracciglio: le riusciva difficile riesumare le tracce di un glorioso passato, tanto nel pallido volto barbuto che le stava dinanzi, come nella figura impacciata di Leon. «Mi rendo conto di quanto sembri assurdo» proseguì lui, leggendole nel pensiero «ma è la verità. Leon ed io eravamo due giovani superficiali, inseparabili nelle attività mondane. Il nostro problema più pressante era capire quale paio di scarpe combinasse meglio col vestito, o quale fosse la capigliatura più alla moda del momento. Non c'era salotto nel quale non fossimo ben noti, né donzella a cui non avessimo rubato per lo meno un bacio!» Rise, scuotendo la testa.
«I nostri genitori erano troppo seri per approvare la nostra condotta. Facevano entrambi parte del Consiglio Cittadino, e portavano avanti la tradizione politica della famiglia: da secoli gli Erbecker facevano la loro parte nell'amministrazione della città, e sempre con atteggiamento liberale. Allora non lo capivo, addirittura lo trovavo sciocco e controproducente per una famiglia ricca come la nostra. Ma mio padre e mia madre sostenevano un'idea nobile, che soltanto adesso comprendo: il potere ha senso soltanto se usato come uno strumento al servizio dei più, e non il contrario.» Sospirò. «Come potete immaginare, non erano in molti nel Consiglio a pensarla come loro. Erano malvisti dalla maggior parte dei pari grado, eppure nessuno aveva il coraggio di schierarsi apertamente contro di loro, almeno finché ricevevano l'appoggio del governatore.» «Ma qualcosa successe...» indagò Kyra. «Ebbene sì, qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato» rispose Aren digrignando i denti, come se il ricordo lo riempisse di collera «Nel giro di poche settimane, il governatore perse completamente il senno. Cosa sia accaduto nella sua mente è tuttora un mistero, per me e per chiunque altro. Dimenticò il proprio dovere, mise da parte ogni equilibrio e moderazione. Prese ad agire nell'ombra, senza rispettare le decisioni del Consiglio, e creò alleanze con le fazioni più pericolose.» «Intossicazione da potere?» commentò Kyra, sarcastica. Aren ignorò la battuta. «Da un momento all'altro, chi osava opporglisi non era più considerato un semplice avversario politico, bensì un ostacolo da rimuovere con la forza. Nel vortice della menzogna e dell'iniquità, i moderati caddero uno dopo l'altro, mentre il Consiglio si tramutava in una dittatura personale del governatore.» Deglutì, sviando lo sguardo da Kyra. «I nostri genitori furono gli ultimi a cadere, quando si opposero alla costruzione della Fabbrica. Sapevamo che navigavano in cattive acque, ma non eravamo neanche lontanamente preparati a ciò che sarebbe accaduto.» «Che cosa?» «Una notte fummo svegliati di soprassalto nei nostri letti: l'amico Nestor, un tempo braccio destro del governatore, era venuto ad avvisare i nostri genitori di un'imminente catastrofe. Senza darci il tempo di protestare, costrinsero Leon e me ad abbandonare la casa in tutta fretta, fuggendo nella notte con Nestor. Passammo ore nascosti in una stalla fetida, smarriti e confusi come bambini.» Fissò gli occhi tristi in quelli di Kyra. «Il mattino seguente, Nestor ci informò che i nostri genitori erano morti. La proprietà, in fiamme. I nostri averi, dispersi come sabbia al vento. In una sola notte, la follia di Dinor aveva posto fine ai secoli di storia della famiglia Erbecker, e al nostro futuro.» Rimasero in silenzio per un certo tempo, finché Kyra, a costo di apparire indiscreta, volle sapere perché i due fratelli non fossero rimasti uniti dopo quel tragico evento. «Ci credevano morti, e fu un bene. Abbiamo dovuto scegliere come ricominciare» spiegò Aren, pensieroso «Leon scelse l'anonimato. Rimase nascosto per un periodo, in attesa che le acque si calmassero, poi con l'aiuto di Nestor si costruì una nuova identità, quella del commerciante. A differenza di lui, io non riuscii mai a convivere con ciò che era successo. Volli cercare un modo di vendicarmi, ma capii che affrontare Dinor a viso aperto sarebbe stata una follia. Così cominciai a fuggire, vivendo all'addiaccio, spostandomi da un luogo all'altro alla ricerca di una soluzione.» Kyra annuì. Al suo posto, avrebbe fatto lo stesso. «Col tempo» continuò Aren «mi resi conto di non essere l'unico a vivere in disgrazia a causa dei soprusi del governatore: molti amici e conoscenti, appartenenti alle famiglie della vecchia nobiltà, condividevano la mia situazione. Quando scoprii senza volerlo questo luogo - immaginate a che punto si erano spinte le mie peregrinazioni! - fu come un'illuminazione: capii che il mio destino era quello di riunire e organizzare gli altri fuggiaschi, e prepararli alla ribellione!»
Rise tra sé, sommessamente. «Oggi come oggi, mi rendo conto di non aver fatto altro che prolungare la sofferenza mia e di questa gente. Guardaci! Ridotti in miseria, innocui e pallidi come spettri, mentre Dinor stende i suoi tentacoli sulla città!» Scosse la testa. «All'inizio odiai Leon per la sua scelta, considerandolo un codardo. Oggi comincio a pensare che la sua decisione sia stata più saggia della mia. Perlomeno lui non ha coinvolto nessuno nella disgrazia, come ho fatto io coi miei stupidi sogni di vendetta!» «Ciascuno di noi è artefice del proprio destino» affermò Kyra, mentre il suo pensiero correva agli amici della Compagnia del Viandante, così lontani nel tempo e nello spazio, ma così vicini al suo cuore. «Dobbiamo scrivere la nostra storia, ogni giorno. Ma non possiamo rifiutare chi siamo, e il passato che ci ha resi così. Quando cominciamo a dubitare di noi stessi e delle nostre scelte, allora sì abbiamo fallito.» Aren annuì, e nei suoi occhi brillò una luce calda. «Parlate con saggezza, per essere così giovane. Dovrei prendere esempio da voi!» Si alzò, e prese a camminare in circolo nel ristretto perimetro della tenda. Kyra lo osservò senza dire una parola, nell'attesa di un verdetto. Dopo un tempo che le parve lunghissimo, Aren le si piazzò dinanzi, e le tese una mano callosa. «Non so come» disse «ma mi avete convinto. C'è qualcosa di speciale dentro di voi, che mi spinge a darvi retta, e ad appoggiarvi. Vi aiuterò nella vostra missione, e se ancora esiste una speranza di salvare quel giovane coraggioso, ebbene lo salveremo!» Kyra afferrò la mano e gliela strinse con gioia. Finalmente le cose tornavano ad andare per il giusto verso.
XVI - Nel Ventre della Fabbrica
«Meglio avvisare i tuoi compagni» disse Aren, accompagnando Kyra fuori dalla tenda. Due uomini armati si fecero loro incontro, ma Aren li dispensò con un gesto della mano. «Non serve più: a partire da adesso, questa donna e gli altri tre non sono più nostri prigionieri.» I due assentirono, e si fecero da parte. Kyra si sentiva molto più leggera. Vedendola camminare a fianco del capo, i membri della comunità le rivolsero cenni di saluto e qualche raro sorriso. Aren salutava ognuno per nome, spesso fermandosi a conversare. Domandava dei figli e della salute, ed era prodigo di consigli con tutti. Ogni volta presentava Kyra come se fosse una vecchia amica. Così, incontro dopo incontro, quando giunsero al lato opposto dell'accampamento era già passata un'ora. Kyra guardò Aren di sbieco, piegando un angolo della bocca in un sorriso. «Lo so, lo so» disse lui «Ci abbiamo messo un bel po' di tempo. Ma un capo deve conversare con la sua gente.» «Niente da dire. Sei bravo in quello che fai, migliore di tanti altri che ho conosciuto.» «Bah! Le lusinghe non funzionano con me!» affermò Aren, ostentando indifferenza, ma Kyra notò divertita che un lieve rossore gli si diffondeva sulle gote pallide. Quando giunsero alle tende, l'uomo che montava la guardia fu informato delle novità, e si affrettò a chiamar fuori gli ex-prigionieri. Scostato un lembo della tenda, Lisca mostrò un viso pallido e tirato quasi quanto quello del suo carceriere. Anche gli altri non sembravano avere una buona cera. Non appena Kyra ebbe comunicato la situazione, il loro aspetto migliorò a vista d'occhio. Aren si presentò ufficialmente, stringendo loro le mani, ma si soffermò più del dovuto con quella di Selita tra le sue. Con sorpresa di Kyra, che la considerava una donna sfrontata e arrogante, questa sorrise timidamente e non resse lo sguardo di Aren per più di un istante, prima di inchiodare gli occhi al suolo. Terminate le presentazioni, il capo banda invitò i quattro a sedersi in circolo con lui, per discutere sul da farsi. Incrociò le gambe e li fissò negli occhi uno ad uno, brevemente, prima di prendere la parola: «Come ho detto a Kyra, non solo ho deciso di liberarvi, ma mi offro di aiutarvi nella vostra missione. Ciò che state facendo è molto nobile, e merita tutto il mio appoggio.» Rivolse un ampio sorriso a Selita, che annuì convinta. «Ipocrita!» pensò Kyra, sorpresa da ciò che stava nascendo tra i due. «Dobbiamo agire in fretta» proseguì Aren «É forse questione di ore prima che scoprano l'Automa fuori uso. A quel punto rafforzeranno i controlli, e sarà molto più difficile avvicinarci alla Fabbrica. Propongo che ci muoviamo domattina, sul presto: vi ho già trattenuti troppo a lungo.» «Ci muoviamo?» gli fece eco Lisca «Avete intenzione di accompagnarci di persona?» «Senza dubbio» affermò Aren, con decisione «Anche perché soltanto io so come entrare nella Fabbrica.» «Conoscete un passaggio?» chiese Selita. «Ebbene sì, un passaggio che ci porterà dritti dentro alla Fabbrica, in un magazzino. Un tempo lo usavano per lavare i macchinari, per cui vi è un canale di scolo aperto sulle fogne. Quando la sala venne trasformata in deposito, dimenticarono di ostruire la grata. L'ho scoperto alcuni mesi fa, e con l'aiuto dei miei uomini sono riuscito ad allargare il passaggio a sufficienza da permetterci di entrare e uscire, uno alla volta.» «Senti senti» disse Kyra «Pensavo che la riteneste una follia...» «A volte il bisogno l'ha vinta sulla prudenza. Ma mi rendo conto che è molto rischioso. Abbiamo usato il passaggio un paio di volte soltanto, giusto il tempo di cercare qualche oggetto di valore.»
«Dunque avete un'idea di come è fatta la Fabbrica all'interno?» «Non proprio, in realtà. Non avevamo motivo di spingerci più in là del magazzino.» «Capisco. Quindi, una volta dentro, dovremo fare una ricognizione. Non mi va di muovermi alla cieca.» «Lo penso anch'io, ma è un compito pericoloso. Dal poco che ho visto, quel luogo pullula di Automi e guardie armate.» «Posso farlo io» dichiarò Selita, dimostrando per la prima volta entusiasmo di fronte a un compito impegnativo e rischioso. «Mi muovo bene nell'ombra, e so essere piuttosto silenziosa...» continuò, scostandosi dalla fronte una ciocca di capelli corvini. «Siete una donna coraggiosa» approvò Aren, squadrandola con ammirazione. Kyra strabuzzò gli occhi, reprimendo la voglia di scoppiare a ridere. Notò che Kwan e Lisca facevano altrettanto sforzo per mascherare la sorpresa. «E dopo la ricognizione, scopriremo se davvero il ragazzo è tenuto prigioniero là dentro. Se sì, lo libereremo e lo porteremo via con noi. Facile, no?» scherzò Aren, cercando di apparire ottimista. «Sicuro!» rispose Kyra, stando al gioco «I dettagli li discuteremo una volta dentro, quando avremo informazioni più concrete.» «Bene, allora. Ci sono domande? Dubbi?» chiese ancora il capo banda, senza rivolgersi a nessuno in particolare. I tre Ratti di Porto si guardarono a vicenda, ma nessuno pareva intenzionato a discutere. Kwan rivolse una serie di rapidi gesti a Lisca, affinché li traducesse, ma la mimica fu subito chiara a tutti. «Ahahah! Certo Kwan, certo!» rise Aren «Non partiremo da qui prima di esserci rifocillati a dovere. Abbiamo poco da offrirvi, ma lo condivideremo con molto piacere. Nel frattempo, dovremo mettere assieme un minimo di equipaggiamento per la missione. Kyra, volete darmi una mano?» Lei per un attimo non rispose: stava ammirando l'acqua invitante del lago, in cui un gruppetto di bambini sguazzava tra spruzzi e risate. Non era certo il mare, ma valeva la pena farci un bel tuffo rinfrescante. «A dire il vero» disse «sento di aver urgente bisogno di una nuotata. Se non vi spiace, chiederò a Selita di prendere il mio posto.» Si girò verso di lei e le strizzò l'occhio, facendola arrossire come un peperone. «No, nessun problema!» disse Aren, con un sorriso raggiante «Vogliamo andare, Selita?» Le toccò una spalla, invitandola a seguirlo, e si allontanarono conversando. «Strano che non le abbia offerto il braccio!» esclamò Lisca, e sputò in terra. «Geloso?» chiese Kyra, rivolgendogli un ghigno malizioso. «Geloso di quella, io? Non scherziamo!» sbottò lui, e rientrò nella tenda con fare offeso. «Quante sorprese oggi!» rise Kyra. Poi, rivolta a Kwan: «Non so tu cosa ne pensi, bestione, ma io ho una dannata voglia di buttarmi in quell'acqua fresca!» Lui concordò, col suo solito sorriso metallico. «L'ultimo che arriva è un pappa molle!» esclamò Kyra, e prese a correre a gambe levate verso il lago. Kwan la inseguì con la grazia di un rinoceronte, allarmando donne e bambini al suo passaggio. Ma non riuscì ad acchiapparla prima che si fosse tuffata, completamente vestita, nell'acqua limpida.
----Lasciarono l'accampamento il mattino dopo, con Aren e due dei suoi. Questi ultimi non si sarebbero infiltrati con loro nella Fabbrica: avevano il compito di tenere sotto controllo il passaggio, e coprire un'eventuale ritirata. Ciascuno portava con sé, oltre ad armi e provviste, una parte dell'equipaggiamento che era stato selezionato il giorno prima. L'oggetto che più risvegliò l'interesse di Kyra fu un piccolo cilindro di metallo dalla superficie liscia. Aren le aveva spiegato che era un nuovo tipo di arma, capace di scatenare un'esplosione paragonabile a quella di una cannonata. Era l'unico esemplare su cui fosse mai riuscito a mettere le mani, ma era pronto a farne uso in caso di necessità. Il resto dei loro bagagli era leggero: corda, torce, un piede di porco, e poche altre cose.
«Strano che ci abbiamo messo un giorno interno a selezionare queste quattro cose...» pensò Kyra. Aren e Selita erano spariti insieme fin dal mattino, e nessuno li aveva più visti sino a notte inoltrata. Lei era tornata alla tenda col viso arrossato e i capelli scompigliati. Si erano date la buona notte senza commenti, ma di certo qualcosa era successo. Lanciò un'occhiata ai due, che camminavano fianco a fianco, quasi sfiorandosi. «E bravo il nostro capo banda!» rise tra sé e sé. Poco prima di partire, Aren le aveva restituito i suoi pugnali, complimentandosi per la letale bellezza delle lame gemelle. Approfittando dell'occasione, le aveva anche riconsegnato l'anello della famiglia Erbecker. «Prendetelo» aveva insistito, dinanzi alla reticenza di lei «Mio fratello conta che glielo restituiate, se non sbaglio.» «Perché non lo fate voi, di persona, quando questa storia sarà finita?» «Non so se è una buona idea, sono passati tanti anni... Magari lo farò, ma per adesso è meglio che siate voi a tenerlo in custodia. Abbiatene cura, è un cimelio di grande valore affettivo...» Dopo un paio d'ore di cammino nei cunicoli, guidati da Aren con mano sicura, giunsero a destinazione. Pareva un tunnel come tutti gli altri, stretto e buio, ma Aren fece loro segno di fermarsi, tendendo l'orecchio. Soddisfatto, diede un segnale ai suoi uomini. I due si posizionarono al centro della galleria, le braccia intrecciate a mo' di supporto. Aren salì sulla scaletta improvvisata, saltò, e sparì dentro a una cavità nel soffitto. Nessuno degli altri l'aveva notata fino a quel momento. Si udì un raspare metallico, mentre Aren scostava la grata che tappava il passaggio. Per diversi istanti nessuno udì più nulla, pur trattenendo il fiato. Proprio quando cominciavano a innervosirsi, una corda cadde dall'apertura. Senza indugiare, Kyra e i tre compagni si issarono uno ad uno lungo la fune, lasciando i due uomini di Aren a montar la guardia nel tunnel sottostante. Sbucarono in un locale vasto e ricco di ombre, la cui unica fonte di luce era una torcia inchiodata a una parete lontana. Cercando di evitare ogni rumore, si accovacciarono spalla contro spalla dietro a una fila di casse impilate, dove Aren li stava attendendo. «Sembra tutto tranquillo» disse sottovoce «Possiamo proseguire. Selita si incaricherà della ricognizione... a meno che voglia ripensarci.» Lei scosse la testa. «Nessun problema, starò attenta.» «Bene. Penso che anche Kyra ed io dovremmo approfittare di questo tempo per dare un'occhiata in giro, senza allontanarci troppo. Tre paia d'occhi cercano meglio di uno. Che ne pensate, Kyra?» «Per me va bene. Ma è meglio che Kwan e Lisca aspettino qui. Se andiamo in troppi rischiamo di dare nell'occhio.» «Concordo!» affermò Lisca, a cui tremavano le gambe al solo pensiero di dover sgattaiolare per i corridoi della Fabbrica «Ma fate in fretta, mi raccomando: non possiamo restare qui ad aspettarvi all'infinito.» «Non temete» lo rassicurò Aren «Andiamo, non c'è tempo da perdere.» Avanzò carponi verso l'uscita del magazzino, cercando di mantenersi il più possibile nell'ombra. Kyra e Selita lo seguirono a un passo di distanza, lasciando gli altri due al riparo dietro le casse. Uscirono in un corridoio silenzioso e poco illuminato, che si perdeva nel buio da ambo i lati. «Kyra ed io andiamo a sinistra. Voi, Selita, a destra» disse Aren «Ci rivediamo tra non molto al deposito. Fate attenzione, mi raccomando...» Selita non rispose, ma prima di dileguarsi nell'oscurità con passo felpato gli rivolse un sorriso che valeva più di mille parole. Aren sospirò, poi fece cenno a Kyra di seguirlo in direzione opposta a quella presa da Selita. Ben presto giunse alle loro orecchie una baraonda di suoni: si stavano approssimando al Nucleo della Fabbrica, sussurrò Aren. Era lì che funzionavano i macchinari. L'aveva visto una sola volta, di sfuggita, prima che la voce della prudenza avesse la meglio. Camminarono rasente alle pareti, fermandosi a scrutare nel buio ogniqualvolta incappassero in
una nicchia poco illuminata. A un tratto, furono sorpresi da un improvviso clangore metallico, e tornarono precipitosamente a nascondersi nell'ultima rientranza che avevano superato. Rimasero là, schiacciati contro la parete senza fiatare, mentre il rumore si avvicinava. Quando lo videro passare, protetti dalle ombre, Kyra ebbe un sussulto: era un Automa, un modello di grande stazza che avanzava pesante su sei paia di ruote, e trascinava dietro di sé un carrello carico di casse, probabilmente destinate al magazzino. Per loro fortuna, la macchina non girò la testa oblunga nella loro direzione, e proseguì la sua marcia senza rallentare. Tirarono un sospiro di sollievo. «È stato per poco!» sussurrò Aren «Speriamo bene per Lisca e Kwan...» Kyra diede una scrollata di spalle. «Quei due se la sanno cavare: non si faranno scoprire, ne sono certa.» Proseguirono con cautela raddoppiata, fino a raggiungere il fondo del corridoio. Aren si sporse dall'angolo per dare un'occhiata. Con un cenno del capo, invitò Kyra a seguirlo di soppiatto, e così procedettero, sempre nell'ombra, per un lungo tratto. Guardando di sbieco, Kyra notò che stavano costeggiando il bordo di una sala di dimensioni colossali, nel mezzo della quale ferveva grande attività. Aren diede l'alt ai piedi di un'imponente impalcatura di ferro. La struttura si innalzava dal pavimento fino al soffitto, fungendo da base a una piattaforma sopraelevata. Kyra si sporse con cautela da dietro al massiccio pilastro di ferro: vide numerosi Automi allineati in file parallele, al lavoro attorno a ingombranti macchinari. Notò anche altri bestioni, del tutto simili a quello che avevano incrociato, impegnati a fare la spola da un lato all'altro della sala, trasportando pesanti carrelli. Come se la presenza di tanti esseri meccanici non fosse abbastanza per farla innervosire, vide anche pattuglie di guardie armate che facevano la ronda attorno alla sala. «Impressionante!» commentò con Aren, il quale non poté far altro che concordare. «Voglio vederci chiaro» disse poi, mettendo a tacere sul nascere le proteste di lui. «State tranquillo» lo rassicurò «Non ho intenzione di passeggiare in mezzo ai nemici. Stavo piuttosto pensando a...» Indicò una scala a pioli saldata all'impalcatura di metallo, grazie alla quale avrebbero potuto raggiungere una vantaggiosa posizione sopraelevata. Aren sospirò e scosse la testa, poi le fece cenno di salire per prima. Si inerpicarono fino alla piattaforma, posta ad almeno sei metri d'altezza. In quella posizione erano più esposti: compensarono il problema sdraiandosi pancia a terra, e sporsero la testa dal bordo di quel tanto che bastava a sbirciare in basso. Dall'alto, l'immagine dell'efficiente organizzazione della Fabbrica fu ben più convincente. Né Kyra né Aren avevano mai visto nulla di simile in vita loro: gli Automi erano organizzati in gruppi di lavoro separati, una dozzina in tutto, ciascuno composto da per lo meno una decina di elementi. Erano impegnati nella manifattura di oggetti di diverso tipo. Il gruppo più vicino a loro, notò Kyra, produceva comuni sedie in legno, ma lavorando con una velocità e una precisione che non avevano eguali in nessuna bottega artigiana. Quegli Automi erano differenti da quelli che Kyra aveva già visto, soprattutto per il fatto di essere inchiodati a terra nella loro posizione, privi di ruote o di qualsiasi altro mezzo di locomozione. Schiavi, rifletté, la cui unica ragion d'essere era quella di ripetere all'infinito i passi della stessa sequenza: uno degli Automi misurava e tagliava le assi, uno le forava, un altro torniva le gambe della sedia, o lo schienale, un altro ancora inchiodava assieme le parti, e così via. Da un lato giungevano carrelli zeppi di legname, dal lato opposto ne partivano altrettanti carichi di prodotti finiti, pronti ad essere smerciati. Il tutto avveniva a ritmi impressionanti. I due si scambiarono espressioni meravigliate. Era una visione sorprendente, e in un certo senso spaventosa. Pochissimi altri avevano goduto di quel privilegio. Eppure, almeno per il momento, non avevano notato nulla di sospetto. Kyra cominciò a chiedersi se tutto quel parlar male della Fabbrica non fosse altro che un preconcetto – Automi guardiani assetati di sangue a parte. Ma allora qual era il motivo delle imponenti misure di sicurezza? Per quale ragione l'accesso alla Fabbrica era proibito alla quasi totalità dei cittadini? E dov'era finito Ethan? Aren si poneva domande simili, mentre scrutava da un lato all'altro in cerca di risposte.
Erano sul punto di ritirarsi, quando il destino lanciò i suoi dadi: davanti ai loro occhi, un Automa trasportatore si arrestò di colpo nel mezzo della sala, senza motivo. Un altro Automa, che stava sopraggiungendo a grande velocità, non riuscì ad evitare lo scontro. La collisione tra i due bisonti di metallo fu violenta, e il contenuto dei loro carrelli si sparse nel raggio di parecchi metri. Kyra ed Aren sgranarono gli occhi, increduli, non per l'incidente in sé, ma a causa di ciò che era venuto fuori. Gli oggetti sparsi al suolo, infatti, non erano certo sedie, né utensili. Erano armi, balestre affusolate dall'aspetto insolito e letale. «Che io sia dannato!» esclamò Aren. «Armi!» gli fece eco Kyra «E in grande quantità! Questo spiega molte cose...» Prima che potessero fare congetture, una figura entrò nel loro campo visivo, e si diresse a passi lenti verso il luogo dell'incidente. Era un uomo alto, dalle spalle larghe, vestito con una tunica nera bordata di rosso che gli scendeva fino alle caviglie. Un ampio cappuccio, altrettanto nero, celava il suo volto alla vista, avvolgendolo in un alone di mistero. C'era qualcosa di inquietante nella sua stazza e nel suo portamento, tanto che Kyra provò un brivido di malessere. Osservarono la figura avvicinarsi ai due Automi, per poi esaminarli e tastarli con delicatezza, quasi come se li stesse accarezzando. Kyra poté giurare di averlo visto sussurrare qualcosa all'orecchio di una delle creature meccaniche, come un genitore apprensivo che consolava il figlioletto dopo una brutta caduta. Un altro personaggio fece la propria comparsa sulla scena. Non potevano vederlo in volto, giacché dava loro le spalle, ma dall'andatura curva e claudicante, e dai capelli radi sciolti sulle spalle, intuirono che si trattava di un uomo di età avanzata. Pur zoppicando vistosamente, il vecchio avanzava con passo rabbioso, appoggiandosi a un alto bastone sormontato da una pietra azzurra tagliata in foggia di piramide. L'incappucciato si chinò a terra e raccolse una delle balestre. Benché paresse pesante, la soppesò tra le mani guantate come se fosse un giocattolo. Prese di mira un punto nella parete opposta della grande sala, e premette il grilletto: non uno, ma dieci o più dardi affilati uscirono in rapida successione dalla bocca della balestra, andando a conficcarsi nel muro con una serie di schiocchi violenti. I due osservatori rimasero di stucco dinanzi a quella dimostrazione delle capacità balistiche dell'arma. Era fin troppo ovvio che un esercito dotato di quegli strumenti avrebbe ottenuto enormi vantaggi in battaglia. Con tali ritmi di fuoco e la lunga gittata, un qualsiasi mediocre balestriere sarebbe stato in grado di competere con i migliori arcieri del Regno! «Vi sembra il momento di fare giochetti?» domandò il vecchio con voce stridente, quando ebbe raggiunto l'uomo incappucciato. Questi gettò l'arma con disprezzo, e incrociò le braccia sul petto imponente. Dinanzi a lui, sempre di spalle, il vecchio pareva insignificante, come una fragile bambola di pezza. Quando l'uomo parlò, la voce che fuoriuscì dal cappuccio scuro sembrò provenire dall'oltretomba, talmente bassa e innaturale che i due infiltrati stentarono a intenderne le parole: «Stai forse dimenticando il rispetto che mi è dovuto?» disse l'uomo, curvandosi sopra l'anziano, che arretrò di un passo e si aggrappò al bastone con le due mani. «Non era mia intenzione...» si difese, flebilmente «Chiedo scusa. E' per via degli intoppi di questa settimana... Troppi incidenti, e ogni volta perdiamo del tempo prezioso!» «Le mie macchine non sono perfette, eppure lavorano più sodo degli umani. Dove troveresti tanta infaticabile lealtà?» «Lo so, Caleb, lo so. E non ho mai scordato il mio debito con voi, credetemi, neppure per un istante.» Girò il capo verso i due Automi inerti. «Hanno subito danni?» «No» rispose Caleb, la cui voce cavernosa raschiava la penombra della sala «Sono inattivi, in attesa di istruzioni.» «Che si rimettano al lavoro, dunque!» esclamò il vecchio.
Schioccò le dita, e due guardie accorsero al suo fianco. Diede loro istruzioni di raccogliere le armi sparse in terra, e rimetterle nei carrelli. Poi, con un certo sforzo, alzò il bastone verso gli Automi e pronunciò una frase che suonò incomprensibile alle orecchie di Kyra. La pietra azzurra sulla punta del bastone, come in risposta a un comando, prese a pulsare di una luce bluastra, emettendo al contempo un ronzio intermittente. «Magia!» sussurrò Aren, gli occhi dilatati per lo stupore. Reagendo agli impulsi della pietra, i due Automi ripresero vita. I loro occhi si accesero di luce cremisi, le braccia si mossero, e le ruote ripresero a girare, permettendo loro di disincagliarsi. Erano apparse vistose ammaccature nel metallo dove era avvenuto l'impatto, ma a parte ciò le due macchine non parevano danneggiate. In pochi istanti ripresero il normale corso di attività, trascinando i rispettivi carrelli in direzioni opposte. Il vecchio tornò ad appoggiarsi al bastone, la schiena più curva di prima. «Per lo meno questa volta non ci sono stati ritardi. Il tempo stringe, e non siamo ancora pronti per la consegna, dannazione!» «Non dovresti preoccuparti tanto» rispose Caleb «Mio fratello è un uomo paziente...» «Non è di vostro fratello che mi preoccupo» replicò il vecchio «É di quello sciocco presuntuoso di Hiram. Sapete cosa penso? Che quando avrà tutte le armi ci si rivolterà contro come una vipera!» «Hiram!» imprecò Aren, affondando le dita in un braccio di Kyra «Il principe Hiram! La Fabbrica produce armi per il nemico! Ecco il perché di tutto!» Le rivolse uno sguardo allucinato. «Lo stesso spettacolo di cui Ethan è stato testimone, ne sono certo! Non mi sorprende che abbia perso la calma e si sia fatto catturare: dannati vigliacchi traditori!» Lei annuì in silenzio, altrettanto turbata dalla rivelazione. I giochi condotti tra le mura della Fabbrica erano più sporchi di quel che si era immaginata. Tese l'orecchio: la conversazione tra i due personaggi nel mezzo della sala non era ancora terminata. «Hiram non sarà un problema» affermò Caleb, con un tono che non ammetteva dubbi. «Invidio la vostra sicurezza» rispose l'altro. Caleb sembrò non gradire affatto la punta di sarcasmo. «Non hai più fiducia nelle mie parole, Dinor?» Non appena quel nome fu pronunciato, Aren, che un attimo prima era sdraiato al fianco di Kyra, cacciò un urlo e balzò in piedi. Soltanto grazie ai suoi riflessi la giovane riuscì ad afferrarlo per una caviglia e a trascinarlo di nuovo in terra. Ma il danno forse era fatto: la conversazione tra i due uomini si era interrotta di botto. Scoccando un'occhiataccia ad Aren, rosso in viso per la collera, Kyra temette il peggio. Dopo alcuni attimi di esitazione, osò sporgere la testa di una spanna fuori dalla piattaforma. Dovette ritrarsi immediatamente: i due volti erano puntati nella loro direzione. «Che sarà stato?» chiese il vecchio, la cui identità non era più un mistero: il governatore Dinor, l'uomo il cui compito ufficiale era quello di garantire la prosperità e sicurezza della città di Dekka. Un traditore. Una sola occhiata al suo volto rugoso, dal naso adunco e i denti giallastri, era bastata a Kyra per leggervi vigliaccheria e corruzione. «Probabilmente nulla» rispose Caleb, senza manifestare emozioni. Kyra ed Aren rimasero schiacciati pancia a terra sulla piattaforma sopraelevata, immobili come pietre. Lui continuava a schiumare di rabbia, stentando a controllarsi. Era stato un brutto colpo: lo stesso uomo che aveva causato la rovina sua e della sua famiglia, oggi era in combutta coi nemici del Principato, forse allo scopo di causare la caduta dell'intera città! «Andiamo» concluse la voce stridula di Dinor, a mala pena udibile nel frastuono delle macchine al lavoro «Torniamo alle nostre occupazioni.» Caleb non rispose, ma Kyra poté udire il ritmico battito del bastone mentre il vecchio si allontanava, tornando da dove era venuto. Aren le toccò un braccio, e indicò la scala alle loro spalle. Avevano visto abbastanza, era ora di tornare al deposito. Lei annuì, poi gli fece segno di pazientare ancora. Si sporse un'ultima volta, per accertarsi che le acque fossero davvero tranquille. Rimase paralizzata. Caleb era ancora là, immobile, le braccia incrociate sul petto. Kyra poté giurare che la stesse
fissando dall'interno del cappuccio. Come un moscerino invischiato nella tela del ragno, in attesa del morso fatale, non riuscì a far altro che fissarlo a sua volta. Poi, dopo attimi che parvero eterni, l'uomo perse interesse e le diede le spalle. Si allontanò. Kyra tirò un sospiro di sollievo. Dopotutto non erano stati scoperti, grazie alla distanza e al fatto che la piattaforma fosse tanto alta da offrir loro la protezione delle ombre del soffitto. Non volle correre altri rischi, però, per cui si ritirò alla svelta come Aren le aveva consigliato. Rapidi e silenziosi, scesero al suolo. Sempre muovendosi con la massima cautela, fecero a ritroso il percorso che li aveva condotti fin lì, lasciandosi il Nucleo alle spalle. Di nuovo incrociarono il cammino di un Automa, ma anche questa volta seppero anticiparne il passaggio nascondendosi in una rientranza scura. Raggiunto l'ingresso del magazzino, entrarono nell'ambiente buio. Nel silenzio si udì un sonoro 'clic', come di una balestra pronta a scoccare il suo dardo. Una goccia di sudore scese dalla fronte di Kyra, scivolandole lungo il viso alla luce incerta dell'unica torcia appesa alla parete. «Tutto bene, Selita!» sbraitò la voce familiare di Lisca «Sono loro, puoi riporre l'arma.» «Grazie agli Dei!» rispose la voce di lei, sollevata. Kyra ed Aren coprirono a passi rapidi la distanza che li separava dai compagni, e andarono ad accovacciarsi dietro alla protezione delle casse. «Che è successo là fuori? Avete delle facce!» commentò Lisca, notando l'espressione tirata sul volto dei due. «Diteglielo voi, Kyra! Io mi sento ribollire al solo pensiero!» sputò fuori Aren, disgustato. Lei sospirò, quindi, dinanzi agli sguardi incuriositi degli altri tre, fece un rapido riassunto di ciò che avevano scoperto. Seguirono imprecazioni e manifestazioni di incredulità, ma Kyra le troncò sul nascere: «Ci penseremo più tardi. Adesso abbiamo un compito da svolgere, o ve ne siete scordati? Selita?» Questa, inaspettatamente, le rispose con un sorriso. «Buone notizie. Se il ragazzo è ancora vivo, so dove lo tengono prigioniero!» A quelle parole, Kyra si sentì rinascere. Strinse i pugni con forza. «Andiamo a prenderlo, allora! Che stiamo aspettando?»
XVII - Lotta Disperata
«Per prima cosa, sono arrivata in fondo al corridoio» raccontò Selita, sotto un fuoco incrociato di sguardi. «Mi sono dovuta nascondere nell'ombra per schivare un Automa – bestione impressionante, credetemi - ma a parte questo è andato tutto bene. Al primo incrocio ho svoltato a sinistra. Non sapevo bene cosa cercare, così mi sono lasciata guidare dal naso...» Sorrise. «Profumo di cibo, capite? Man mano che mi avvicinavo alla fonte, ho capito che si trattava di una cucina. E poco più avanti ho cominciato a distinguere suoni familiari: piatti, tegami, quel genere di cose.» Kwan mugugnò qualcosa, ma Selita lo zittì con un gesto della mano. «Mi sono fatta avanti in punta di piedi e ho sbirciato all'interno: c'era un uomo grande e grosso, di spalle, intento a cucinare una zuppa o qualcosa di simile. Canticchiava tra sé, rigirando il mestolo in una pentola.» «E poi?» «A un tratto si è voltato: per un soffio non mi ha scoperto! Mi sono appiattita contro la parete, e l'ho udito armeggiare con il mestolo, come se stesse riempiendo delle scodelle.» «Mi sta venendo fame, ma ancora non capisco dove tu voglia arrivare...» intervenne Lisca, spazientito. Ricevette un'occhiataccia di censura da parte di Aren, che al contrario di lui pendeva dalle labbra di Selita. «Come stavo dicendo» continuò questa «Ho pensato che se il cuoco stava preparando un pasto caldo, era per portarlo a qualcuno. Potevo seguirlo, e vedere dove mi avrebbe condotto. Muovendomi da sola in questo labirinto, dubito che avrei scoperto qualcosa in così poco tempo.» «Dunque l'idea è servita...» azzardò Kyra. «Più di quanto sperassi» confermò Selita, con aria compiaciuta «Non ho dovuto attendere molto, prima che il cuoco uscisse dalla cucina con un carrello carico di scodelle fumanti. Non ha mai smesso di canticchiare, e non mi è stato difficile stargli alle costole senza farmi notare. L'ho seguito così per un po', sempre attenta a non avvicinarmi troppo ed evitando la luce. Come sapete, me la cavo piuttosto bene in questo genere di cose.» Aren concordò, rivolgendole un sorriso caloroso che non passò inosservato ai presenti. «Dapprima mi ha guidata fino a un refettorio dov'erano radunati per lo meno una decina d'uomini. Non mi sono avvicinata tanto da poterli contare, ma li ho sentiti accogliere il cuoco con una serie di battute.» Fece una smorfia. «A quanto pareva il sapore del cibo non era all'altezza del suo aroma. Comunque, dopo aver risposto per le rime a quei tipi, il cuoco è ritornato sui suoi passi. Quell'accoglienza lo aveva lasciato di cattivo umore, perché aveva smesso di cantare e spingeva il carrello con rabbia. Abbiamo rifatto l'intero percorso a ritroso, tanto che cominciavo a chiedermi se non stesse tornando in cucina. Ma c'erano ancora delle scodelle piene sul carrello.» «Il pranzo di altre guardie?» «Meglio! Come speravo, abbiamo superato la cucina senza fermarci. Dopo un paio di svolte, il corridoio si è trasformato in una rampa in discesa: ho dovuto accelerare il passo per stargli dietro. Ma in fondo alla rampa ho avuto una bella sorpresa: poco più in là il passaggio era bloccato da una grata di ferro con un cancello nel mezzo.» «Una prigione!» esultò Kyra. Selita annuì con un brillio negli occhi. «Mi sono accovacciata in un angolo, e ho visto il cuoco approssimarsi alle sbarre col suo carrello. Dall'altro lato della grata, gli è venuto incontro un uomo, armato. Si sono salutati con un
cenno, poi il secondo uomo ha aperto il cancello, usando una delle chiavi che portava alla cintura. Ha portato il carrello all'interno, lasciando il cuoco ad aspettare fuori. È riapparso qualche minuto dopo, col carrello carico di scodelle sporche, l'ha restituito, e si è richiuso dentro. A quel punto avevo visto abbastanza, per cui mi sono allontanata di soppiatto e sono tornata qui.» Fece gli occhi dolci ad Aren. «Ma voi non c'eravate ancora... Vi abbiamo aspettato per un bel po', cominciavamo a temere il peggio!» «Per questo ci avete quasi piantato una freccia in mezzo agli occhi?» osservò Kyra, pungente. «La prudenza non è mai troppa» disse Lisca. «Davvero un ottimo lavoro, Selita!» esclamò Aren, cui il resoconto della donna sembrava aver rinfrancato lo spirito. «Grazie» rispose lei «Ma non so dire se la persona che stiamo cercando sia tenuta là dentro.» «Di sicuro è il posto migliore in cui cercare.» «Sperando che sia ancora vivo...» «Cerchiamo di essere ottimisti» disse Kyra, spostando lo sguardo dall'uno all'altro «Tutto quel che ci serve è un buon piano d'azione.» Kwan, col suo solito misto di gesti e grugniti, diede a intendere che era pronto a menare le mani, ma Kyra scosse la testa. «Dobbiamo giocare d'astuzia, bestione. Non possiamo permetterci un attacco frontale.» L'energumeno sbuffò per la frustrazione, ma Lisca gli rivolse un sorriso enigmatico: «Credo di sapere come darti sfogo!» Divenne il centro dell'attenzione. «Ho in mente qualcosa che potrebbe funzionare. Ascoltatemi...»
----Il cuoco imprecò ad alta voce quando una goccia d'olio rovente gli schizzò su un braccio. Non era la prima volta quel giorno, doveva fare più attenzione. Sollevò la padella dal fuoco e le diede una leggera scossa, facendo sì che i tranci di pesce si distribuissero sulla superficie oleosa. Aggiunse un pizzico di erbe alla frittura dorata e croccante, che già esalava un profumo delizioso. Eppure il cuoco non aveva appetito, né era dell'umore adatto per apprezzare il frutto del suo lavoro. Lavoro ingrato, pensò, ora dopo ora rinchiuso in quel buco sottoterra, sempre a cucinare per quel branco di imbecilli. Per quanto si sforzasse di mostrar loro un po' d'arte culinaria, quegli ignoranti continuavano a pretendere sempre le stesse cose. Patate, fagioli, puah! Quella monotonia offendeva le sue ambizioni, e rischiava di uccidere il suo amore per la cucina. Maledisse i nomi dei quattro Dei. Avrebbe dovuto pensarci due volte, prima di accettare quell'impiego. Ma la paga era parsa così buona, e l'idea di metter piede nella Fabbrica, scoprire i suoi segreti... Pessima, pessima idea. Nessuno gli aveva detto che una volta dentro non sarebbe potuto uscire per chissà quanto tempo. Né che tutto ciò che avrebbe visto della Fabbrica sarebbe stata quella maledetta cucina, il refettorio, e poco altro. Si sforzò di pensare ad altro, per non avvilirsi troppo. Immaginò sua moglie, in casa, immersa nelle faccende domestiche, o mentre giocava con il piccolo. Presto li avrebbe riabbracciati, e avrebbe passeggiato con loro sotto i raggi del sole. Avrebbe rivisto il mare scintillante tra i moli della città! Prese a fischiettare un motivo allegro, e tornò a concentrarsi sul pesce. Una richiesta personale del governatore. Se l'avesse bruciato, rischiava di giocarsi quel poco di reputazione che gli restava. A un tratto credette di udire dei passi alle sue spalle, ma lo trovò piuttosto improbabile: nessuno veniva a fargli visita in cucina, e non gli avevano mai assegnato l'aiutante che aveva richiesto. Si girò pigramente, e sbarrò gli occhi di fronte alla spaventosa dentatura di un uomo alto e massiccio
quanto lui, se non di più. «Ma cosa!?» fece a tempo a spiccicare, prima che un pugno pesante quanto un macigno gli piombasse sul mento, facendogli perdere i sensi.
----La guardia sbadigliò sonoramente, di nuovo. Aveva perso il conto, quella mattina. O era notte? Scrollò le spalle: aveva poca importanza. Laggiù, nella perenne semioscurità delle torce e delle lampade ad olio, il tempo non aveva un senso compiuto. D'altro canto, pur essendo così noioso, l'impiego di carceriere gli costava poca fatica. Prima che gli dessero quell'occupazione, si era dovuto sorbire mesi di ronde nel Nucleo. Non provava alcuna nostalgia del frastuono insopportabile, delle marce ininterrotte attorno al perimetro della sala, degli incidenti, né tantomeno degli occhi infuocati di quegli Automi ripugnanti. No, fare il carceriere era molto meglio. Gli era stato espressamente ordinato di non rivolgere la parola ai prigionieri per nessun motivo, e di non prestare orecchio alle loro suppliche. Tutto bene per lui, anche perché quegli uomini erano tutt'altro che loquaci. Non sapeva quale fosse il motivo della loro condanna, né perché stessero rinchiusi là dentro invece che in una delle carceri di Dekka, ma aveva appreso che era meglio non indagare troppo su certe cose. C'era un unico aspetto del suo lavoro che trovava quasi intollerabile: le visite dell'uomo incappucciato. Compariva di quando in quando, senza preavviso, a volte solo, a volte assieme al governatore. Entrava in una delle celle, e subito dopo cominciavano le grida. Grida di dolore, implorazioni disperate. Gli si rizzavano i capelli sulla nuca al solo pensiero. Quando l'incappucciato se ne andava, restavano soltanto i gemiti. Un rumore improvviso sulla rampa d'accesso lo fece sobbalzare. Per un momento si maledisse, credendo di aver invocato senza volerlo la comparsa di quell'uomo, ma presto riconobbe l'irritante cigolio del carrello della cucina. Possibile che avesse perso a tal punto la cognizione del tempo? Gli pareva di aver ricevuto il cuoco appena un paio d'ore prima... Si alzò dalla sedia con le ginocchia scricchiolanti, e si approssimò al cancello. In pochi istanti, la familiare sagoma del cuoco apparve alla luce delle torce, rivolgendogli un cenno. Gli rispose di riflesso, ma c'era qualcosa di strano: il cuoco portava un fazzoletto a coprirgli la bocca e buona parte del volto. Che si fosse ustionato? Lasciò che si avvicinasse alle sbarre, come di consueto. Notò che il carrello era imbellito da una tovaglia candida. «Ehi, se stai andando a servire il governatore, hai sbagliato strada!» esclamò, ridendo. Ma adesso che il cuoco era così vicino, e in piena luce, notò particolari allarmanti: gli abiti, tanto per cominciare, gli scoppiavano addosso. Né rammentava che il taglio dei suoi occhi fosse così particolare, simile a quello dei barbari del Nord. Purtroppo per lui, era tardi per riflettere: due braccia ossute sbucarono da sotto la tovaglia che copriva il carrello, e gli afferrarono i polpacci. Cacciò un urlo di sorpresa e cercò di liberarsi, scalciando. Il falso cuoco passò le braccia attraverso le sbarre, serrandogli la testa in una morsa tra le mani gigantesche. Lo strattonò con forza, e gli fece sbattere la fronte contro la grata. Svenne prima di poter accennare una reazione.
----«Tienilo ben stretto, bestione, non lasciartelo sfuggire!» esclamò Lisca, uscendo a fatica da sotto la tovaglia. Era così rattrappito che quasi inciampò nei suoi stessi piedi. Kwan diede un grugnito d'assenso dietro al fazzoletto che gli copriva la bocca, e si assicurò che il corpo inerte del carceriere non gli scivolasse tra le dita. Ci vollero alcuni istanti prima che Lisca, palpeggiando il corpo dell'uomo svenuto al di là delle sbarre, trovasse ciò che stava cercando: strappò il mazzo di chiavi dalla cintura a cui era fissato, poi alzò il pollice a Kwan, che mollò la presa. Fischiò tre volte.
Dall'oscurità della rampa alle loro spalle apparvero gli altri membri del gruppo, armi alla mano. Lisca ciondolò le chiavi a mezz'aria, con aria compiaciuta, e strizzò loro un occhio. «Gran bel lavoro, smilzo!» esclamò Aren, che in origine aveva dimostrato perplessità di fronte a quel piano improvvisato. Kyra rivolse un largo sorriso a Kwan, impegnato a strapparsi di dosso gli abiti troppo stretti del cuoco. «Sbrighiamoci a entrare, adesso!» disse Selita, guardandosi alle spalle «Non credo che nessuno ci abbia seguiti, ma ho una brutta sensazione...» «Concordo» annuì Kyra «Il cancello Lisca, rapido!» «Sissignora!» Armeggiò con la serratura fino ad azzeccare la chiave giusta, e aprì il cancello. «Rimanete qua fuori, e tenete d'occhio la rampa» ordinò Kyra, rivolta a Kwan e Lisca «Voglio che ci avvisiate al minimo segnale di pericolo, capito?» «Puoi contare su di noi, capo.» Kyra oltrepassò le sbarre, seguita da Selita ed Aren. Imbavagliarono il carceriere svenuto, gli legarono mani e piedi, e solo allora si dedicarono al loro compito principale. Il corridoio interno della prigione era corto e male illuminato. Una decina di celle si affacciavano su di esso dai due lati, equamente divise e protette da spesse sbarre di ferro. L'umidità era grande, e dalle celle emanava un forte lezzo. Sbirciando dietro alla prima fila di sbarre, Kyra provò un moto di compassione: un uomo di età avanzata giaceva tremante su un pagliericcio, scalzo e seminudo. Capelli e barba erano lunghi di mesi, e gli davano l'aspetto di un cane randagio. Quando l'ombra proiettata da Kyra lo toccò, l'uomo gemette e si ritrasse strisciando sul pavimento, cercando riparo nell'angolo più lontano della cella. Aren toccò una spalla di Kyra, invitandola a proseguire la ricerca: il poveruomo non era certo chi stavano cercando. Con tristezza lei distolse lo sguardo. Le due celle successive erano vuote, benché il pavimento della prima fosse lordo di un liquido rossastro che pareva sangue. Selita, che procedeva un passo avanti a loro, si soffermò dinanzi alla quarta cella, avvicinando una torcia alle sbarre. Un attimo dopo si girò con una luce di eccitazione negli occhi. «È lui?» chiese Kyra, sporgendosi in avanti. «Può essere!» In effetti la giovane età del prigioniero corrispondeva a quella di Ethan. Aveva un pessimo aspetto, coi capelli arruffati, un occhio malconcio e la mandibola gonfia da un lato. Stava seduto in terra, la schiena appoggiata al muro, stringendosi in grembo un braccio che pareva rotto. Se aveva percepito la loro presenza, non lo diede a vedere, e mantenne lo sguardo fisso dinanzi a sé. «Ethan!» chiamò Kyra un paio di volte, nell'infruttuoso tentativo di attirare la sua attenzione. Batté sulle sbarre, ma di nuovo non ottenne risultato. Sembrava che il giovane stesse dormendo ad occhi aperti. «Questa non ci voleva!» imprecò Selita. Aren non restò a guardare. Si spostò di cella in cella, da un lato all'altro del corridoio, e si sincerò che nessuno degli altri prigionieri corrispondesse all'immagine di Ethan quanto quel giovane. «Ma non otterremo nulla in questo modo» osservò «Devi entrare a parlargli, Kyra. E nel caso peggiore ce lo porteremo via così com'è.» «Hai ragione» disse lei «Selita, la chiave.» Aprì la porta con un cigolio, entrò, e andò ad accovacciarsi dinanzi al giovane. Gli prese una mano, lo chiamò per nome, ma ancora una volta non vi fu reazione. «Ethan, svegliati! Siamo qui per liberarti! Sappiamo tutto, delle armi, e del tradimento! Devi tornare con noi a Dekka, gli abitanti hanno il diritto di conoscere la verità dalla tua bocca!» Ebbe l'impressione di scorgere un lampo di consapevolezza negli occhi del ragazzo, ma non fu che un istante. «Su, alzati, andiamo!» lo spronò «Non puoi restare a marcire in questa cella! Tuo padre ti aspetta, vuoi forse abbandonarlo?»
Per la prima volta, gli occhi del giovane si mossero, mettendola a fuoco. «Sì, tuo padre! Ezer! Ti attende a casa, a Mirna! Ha bisogno di te, se davvero sei suo figlio...» Una lacrima scese lungo il viso del ragazzo, e un gemito gli sfuggì dalle labbra. Era la conferma di cui Kyra aveva bisogno. «É lui!» esclamò «Sbrighiamoci, dobbiamo portarlo fuori di qui alla svelta!» Senza indugi, aiutarono Ethan a rimettersi in piedi. Il giovane non oppose resistenza, benché malridotto e indebolito dalla prigionia. Aren e Selita lo sostennero per le braccia, aiutandolo a muovere i primi incerti passi. Zoppicava vistosamente, ma fu in grado di camminare con il loro sostegno. «Andiamo! Ci abbiamo messo fin troppo tempo» disse Kyra, precedendoli fuori dalla cella. In quel preciso istante, Lisca le piombò addosso in una corsa forsennata, e l'impatto gettò entrambi a terra. «Che diavolo ti è preso?» sbraitò Kyra, cercando di rimettersi in piedi. Il volto magro di Lisca, sudato e con gli occhi dilatati, esprimeva assoluto terrore. Con mano tremante, indicò l'esterno della prigione immerso nel buio. I tre seguirono il suo dito con lo sguardo, e accadde qualcosa di spaventoso: udirono un gemito di dolore, poi apparve Kwan scagliato a mezz'aria come una bambola. Sbatté con violenza contro le sbarre di ferro, e scivolò a terra privo di sensi. «Impossibile!» esclamò Kyra. Chi - o che cosa – poteva fare ciò a un gigante come Kwan? Ethan, nel suo primo attimo di lucidità, proferì un nome che le fece rizzare i peli sulla nuca: «Caleb!» «Dunque non mi ero ingannato» disse una voce raschiante nel buio «La mia Fabbrica è infestata dai topi... O pensavate che non me ne fossi accorto?» La sagoma dell'uomo incappucciato si stagliò nel varco del cancello, e soltanto allora Kyra realizzò quanto fosse gigantesco: avrebbe potuto stritolarli tutti quanti con un'unica stretta di quelle braccia! «Ma che sorpresa!» proseguì Caleb, studiandoli «Mi chiedevo quale fosse il vostro scopo, e adesso lo vedo. Siete venuti a liberare il nostro giovane ospite. Che peccato!» «Fatti da parte! Siamo in quattro contro uno!» urlò Kyra, sforzandosi di apparire minacciosa nonostante la paura che le stringeva lo stomaco. Dal cappuccio uscì una risata lunga e profonda. «Sono desolato, ma avreste dovuto pensarci prima. Per colpa della vostra stupida curiosità morirete qui tutti quanti.» Si udì lo scatto di un grilletto: un dardo scoccato dalla balestra di Selita sfiorò il collo di Kyra, diretto alla testa incappucciata. Non arrivò mai a destinazione: Caleb intercettò la freccia a mezz'aria con un riflesso sovrumano, e la spezzò tra le dita guantate. «Non ci credo!» mormorò Selita «Nessun uomo potrebbe farlo!» «Uomo?» rispose la voce raschiante, in tono di scherno. Nella vuota oscurità del cappuccio apparvero due tizzoni ardenti, occhi incandescenti come quelli di un Automa. «Visto che siete già morti» continuò la voce «Vi concederò un piccolo privilegio. Esultate, perché pochi prima di voi hanno avuto l'onore di posare gli occhi sul mio corpo. É una visione che porterete con voi nella tomba!» Kyra e i suoi, raggelati, restarono ad osservare come ipnotizzati mentre Caleb si spogliava: tolse i guanti per primi, rivelando mani grandi come pale, ricoperte di lucido metallo. Ma non stava usando alcun tipo di armatura: le dita e il dorso delle mani, in qualche modo sorprendente, erano fatti di metallo. Slacciò la veste all'altezza della vita, e l'aprì: gambe, ventre, petto, braccia, ogni singola parte del suo corpo massiccio era striata di fasce di metallo brunito che si fondevano con la carne. Lisca emise un gemito d'orrore mentre Caleb si liberava del cappuccio, l'ultimo capo di vestiario che ancora risparmiasse ai presenti parte di quella raccapricciante visione. Fu difficile accettare
l'esistenza di un volto tanto disumano, totalmente glabro e lucido, come se un fabbro impazzito gli avesse martellato un elmo sulla testa sino a farglielo aderire alla pelle. La fronte era sproporzionata, la sommità del capo oblunga e protesa all'indietro, simile a un casco. La bocca altro non era che una fessura frastagliata, priva di labbra, e al posto del naso due sottili ugelli si aprivano nel viso piatto e inespressivo. Gli occhi erano forse l'elemento che più disturbava in quell'aspetto da incubo: incastonati in orbite metalliche, avevano apparenza umana, se non per il colore rosso fuoco che pulsava al loro interno. Per chi vi fissasse lo sguardo, erano uno scorcio di visione sulle fiamme dell'inferno. «Mostro!» gridò Selita, e scoccò altri due dardi, ricaricando la balestra con la massima velocità. Questa volta Caleb non si preoccupò di parare i colpi. Lasciò che le frecce rimbalzassero innocue sul suo petto corazzato, e ricadessero a terra con le punte spezzate. Aren, pronto ad agire, scavalcò con un balzo Lisca, accovacciato al suolo con la testa tra le mani, e attaccò con un affondo della sua lancia. Come già era successo con le frecce, la punta dell'arma colpì senza effetto il carapace di Caleb, e la vibrazione quasi strappò l'arma dalle mani di Aren. Questi non si perse d'animo, e continuò a impegnare l'avversario con una sequenza di rapide stoccate. Caleb parò tutti i colpi, nessuno escluso, con precisi movimenti delle braccia bronzee. Dalla calma efficienza con cui si difendeva, traspariva un assoluto controllo della situazione. Lasciò che l'inutile serie di attacchi continuasse, quindi afferrò la lancia nel mezzo e la spezzò con una secca torsione del polso. Aren fissò scioccato ciò che restava della sua arma, prima che il nemico lo percuotesse in volto con l'estremità mancante. L'impatto lo mandò gambe all'aria contro una parete, strappandogli un lamento. Selita urlò come se il dolore dello schianto stesse attraversando il suo proprio corpo, ma non riuscì a reagire: la paura aveva saldato i suoi piedi al terreno come cemento. Kyra capì che era giunto il suo turno: sfoderò le lame gemelle e attaccò. Ancora una volta, Caleb alzò le enormi mani per proteggersi il volto. La guerriera interruppe all'ultimo momento la traiettoria del colpo, si chinò di scatto, e diresse una delle lame verso le ginocchia del nemico. Ma il pugnale non trovò il bersaglio di tenera cartilagine, bensì uno stinco duro come il ferro: con prontezza fuori del comune, Caleb era riuscito una volta di più a vanificare l'attacco. Kyra tentò il tutto per tutto balzando in alto dalla posizione in cui si trovava, decisa ad affondare i coltelli nella gola scoperta del nemico. Proprio quando credeva di avercela fatta, entrambi i suoi polsi furono schiacciati in una morsa terrificante dalle onnipresenti mani di Caleb. La pressione crebbe finché Kyra dovette allentare la presa sulle armi, lasciandosele scivolare tra le dita. Pensò che l'avversario le avrebbe stritolato le ossa, mentre la sollevava da terra come un fuscello. Poi, quando il livello di dolore si stava facendo insopportabile, il suo braccio destro si trovò improvvisamente libero. Ma le cose non migliorarono, al contrario: la presa di Caleb si era spostata sul suo collo, e Kyra si trovò sospesa a mezz'aria, semi soffocata nella stretta di quelle dita implacabili. «Sei abile, al contrario dei tuoi patetici compagni» la voce cavernosa soffiò sul suo volto «Ma hai giocato abbastanza. Adesso è il mio turno.» Raccogliendo tutto il coraggio di cui era capace, Kyra gli sputò in faccia. Il sorriso arrogante scomparve dal volto di Caleb, lasciando spazio a una furia assassina che gli trasudava dagli occhi come lava. Ciò che accadde in seguito sarebbe rimasto per sempre scolpito nella mente di ciascuno dei presenti, tanto fu brutale e inumano: senza smettere di stringere il collo di Kyra con una mano, Caleb usò l'incredibile forza dell'altra per castigarla, torcendole il braccio destro. Diede un giro completo all'avambraccio, e le ossa si spezzarono con uno schiocco nauseante. Kyra non svenne nel mezzo di quella terribile agonia, per quanto meglio sarebbe stato per lei: impotente e stordita dal dolore, non poté evitare di assistere con occhi sbarrati mentre l'avversario continuava a torcere e tirare crudelmente, finché, accompagnato da un alto grido d'orrore – suo, o di qualcun altro? - l'intero avambraccio fu estirpato dalla sua sede.
Impossibile descrivere la sofferenza e il senso di sconfitta che avvolsero Kyra in quegli attimi, che immaginò essere gli ultimi della sua vita. Scagliata in terra con disprezzo, rimase faccia nella polvere, gli occhi inondati di lacrime, le orecchie piene dei suoi stessi lamenti e della risata gutturale del nemico. Udì le urla disperate dei compagni, la lotta, il cozzare di metallo contro metallo, ma i suoni parevano ovattati e distanti, filtrati dal velo di dolore che la stava rapidamente portando all'incoscienza. Percepì che qualcuno la rigirava su un fianco, vide il volto carico d'ansia di Lisca che le gridava qualcosa di incomprensibile, scuotendola. Poi sentì mani forti che la sollevavano da terra, e che la issavano su un paio di larghe spalle. «Lasciatemi!» voleva gridare «Il... il dolore! Fatelo cessare! Non voglio più sentirlo, non voglio!» Ma dalle sue labbra non uscì che un basso lamento. Il mondo prese a sobbalzare intorno a lei mentre la portavano via. Si sforzò di reagire. Alzò la testa, pesante come un macigno, e scorse la sagoma gigantesca di Caleb impegnato a lottare contro un uomo barbuto, armato soltanto di una lancia spezzata. Tentò di gridargli di scappare, di chiamarlo a sé, ma era troppo debole. Sempre più distante, nella cornice luminosa della prigione alle sue spalle, vide Aren aggirare Caleb con una piroetta, e saltargli al collo. Scosso da un lato e dall'altro come un moscerino, l'uomo lottava per mantenere la presa, cercando sulla nuca del nemico quei cavi che gli avrebbero permesso di renderlo inoffensivo, alla stregua di un Automa. Purtroppo, Kyra lo sentiva dentro di sé, non c'era alcun cavo da strappare in quella letale fusione di carne e metallo. Anche Aren se ne rese conto, e prese una decisione estrema. Estrasse dalla giubba il piccolo cilindro di metallo che le aveva mostrato all'accampamento, e lo strinse tra le dita. Kyra gridò. Un attimo prima che il caos dell'esplosione le rubasse per sempre l'immagine di Aren, i loro sguardi si incrociarono, e attraverso le lacrime le parve di scorgere un triste sorriso, il sorriso di un uomo che sacrificava la propria vita per la sua. «Aren!» riuscì ad urlare, prima che le forze la abbandonassero. Tutto si fece scuro. Una pioggia di calcinacci attorno a lei, polvere sui suoi capelli. Passi rapidi sulla roccia. Respiro affannoso. Sudore. I singhiozzi di una donna. Poi più nulla.
XVIII - L'Origine delle Arti Arcane
Dorian e Raduan si sporsero sulla panca, pendendo dalle labbra di Zontar come insetti ipnotizzati dalla luce. Il Saggio riprese a parlare. «Una sola cosa accomuna ogni artefatto magico: ciascuno d'essi è costituito - almeno in parte - di minuscoli elementi forgiati con un metallo sconosciuto, e connessi tra loro a formare una sorta di rete, tanto sottile da risultare invisibile ad occhio nudo! Incredibile, non è vero?» I due annuirono come scolaretti. «Ceilon battezzò questi elementi manàlorin, che nell'antica lingua significa “Fonte del Potere”. E proprio su di essi si concentra buona parte dei nostri studi: cosa sono, quanti sono, come si combinano tra loro, e così via. Abbiamo fatto molti progressi, ma la questione fondamentale, ovvero come forgiare un manàlorin, ancora elude i nostri sforzi.» «Com'è possibile?» chiese Raduan «Voglio dire... Voi Saggi...» Zontar sorrise. «Vi ringrazio per l'alta opinione di noi, mastro Raduan. Ma vi sono cose che persino i Saggi non riescono a fare. Per esempio, non riusciamo a comprendere del tutto i manàlorin. Ma ciò non ci ha impedito di imparare parecchie cose interessanti. Venite a vedere coi vostri occhi.» Invitò Dorian ad accostare un occhio all'estremità di un curioso strumento. Sotto di esso, collocò la spada usata nell'esperimento. «Cos'è quest'apparecchio?» domandò Dorian. «Il vero nome neanche me lo ricordo. Tra di noi, lo chiamiamo Occhio Profondo.» «Strano nome...» «Ma molto appropriato, ve lo assicuro. Con esso, vedrete particolari che i vostri occhi, da soli, non potrebbero mai scorgere. E' come... tuffarsi dentro quello che state esaminando, non so se mi spiego... Ma provatelo, su! L'esperienza vale più di mille parole.» «Come volete.» Dorian appoggiò l'occhio sul beccuccio dell'Occhio Profondo, e subito arretrò con un sussulto. «Tutto bene?» chiese Raduan. Il comandante aggrottò la fronte. «S-sì, tutto bene...» «E' sempre così, la prima volta» sogghignò Zontar. Dorian ci riprovò, e di nuovo fu come se la realtà gli balzasse contro, e lo sommergesse. Adesso capiva bene la metafora del tuffo: la spada non era più davanti a lui, era attorno a lui, da tutti i lati. Come se si fosse tramutato in uno gnomo minuscolo, e la lama fosse la via su cui stava passeggiando. Si sorprese coi particolari: quella che da fuori pareva una superficie liscia e senza difetti, celava in realtà una miriade di dettagli. Crepe, raspature, ondulazioni... l'intera storia di quell'arma, marcata in modo indelebile sulla sua lama, come anni di intemperie marcati sulla superficie di una strada. In che stato doveva essere, allora, la sua spada, quella che portava in battaglia? Sarebbe riuscito a non pensarci, la prossima volta che l'avesse usata? Si guardò attorno, esplorando quel nuovo mondo, e subito una cosa gli balzò agli occhi: una sequenza ininterrotta di oggetti luccicanti, disposti attorno al filo della spada come una collana di perle preziose. Zontar toccò qualcosa sulla base dell'Occhio Profondo, e Dorian si vide proiettato in avanti. Adesso era come stare sdraiato sulla lama, e poté studiare gli oggetti luccicanti da vicino. Da quella distanza, parevano gli anelli di una catena, robusti e delicati allo stesso tempo, la creazione di un artista. Sforzandosi, riuscì a captare la presenza di linee rette, punti in rilievo ed altre forme geometriche sulla superficie di ogni anello della catena. «Manálorin...» commentò Zontar.
Nel suo mondo in miniatura, la voce suonò a Dorian come quella di un Dio orgoglioso della propria creazione. E a ragione: quei... manàlorin?... erano la cosa più affascinante che avesse mai visto. Notò che non tutti erano uguali, per forma e colore. Poteva distinguerne tre file separate: gli anelli della fila esterna, per esempio, erano più spigolosi e brillanti, mentre quelli della fila interna avevano dimensioni maggiori degli altri. Quelli di mezzo erano ancora diversi, più elaborati. Allungò una mano per toccarli, ma si era scordato che le sue dita erano grandi come montagne rispetto al minuscolo creato in cui l'Occhio Profondo l'aveva proiettato. Il risultato fu un piccolo terremoto. Si scostò dall'apparecchio, e si stropicciò gli occhi. Impugnò la spada e la guardò da vicino: nulla. Pur sapendo che la catena di manàlorin era là, non riusciva a distinguerla. «Meraviglioso, vero?» osservò Zontar «Adesso voi, mastro Raduan! Vedo che siete impaziente...» Raduan non se lo fece ripetere: appoggiò l'occhio sullo strumento, e gli scappò un fischio di sorpresa. «Grande Abidan! Davvero sorprendente!» esclamò. Aveva il sorriso di un bambino. E dopo un po': «Quelli sono i manàlorin di cui parlavate, vero? Quanti! Ma perché sono così differenti tra loro?» «Vedo che siete dei buoni osservatori» rispose Zontar «Non starò a spiegarvi le cose nel dettaglio, ma un breve sunto non ve lo risparmia nessuno... Non è un caso che abbia scelto di mostrarvi la spada: in essa, infatti, sono rappresentati tutti e tre i tipi base di manàlorin.» «Le tre file colorate?» «Esatto, mastro Raduan. Possiamo suddividere i manàlorin in base alla funzione che svolgono. Insieme, disposti secondo uno schema ben preciso, formano la rete che dà potere all'artefatto.» «Quelli della fila interna sono... non so, più grossi? Sembrano un po' delle coppe» «Ben osservato. Li chiamiamo Calici: hanno il compito di distillare energia dall'ambiente circostante, e poi concentrarla o immagazzinarla per uso futuro. Alcuni artefatti ricavano energia dalla luce del sole, altri dal corpo umano, o dal suolo... Certi oggetti sono ancora in grado di funzionare anni dopo l'ultimo contatto con una fonte di energia, altri si scaricano da soli nel giro di un attimo. Dipende molto dalla funzione, e dall'uso.» «E quelli di mezzo? Sono pieni di linee, spirali, e nodi... Sembrano sculture.» «Quelli sono i Cuori: sono loro che danno a un artefatto le sue capacità, sfruttando l'energia raccolta dai Calici. Vi sono Cuori in grado di raggiungere all'istante temperature altissime, come quelli della spada – per questo può tagliare il ferro come se fosse burro. Altri creano una barriera di energia, come nel caso dello scudo. Altri ancora possono dare impulso, come accade con gli stivali. E così via. Le possibilità sono pressoché infinite, credetemi.» Raduan annuì, senza staccare l'occhio dallo strumento. Dorian cominciò a chiedersi se l'amico avrebbe mai lasciato di sua spontanea volontà quel seducente Occhio Profondo. «L'ultima fila è interessante! Sono così luccicanti che quasi non riesco a guardarli.» «State osservando i manàlorin Corazza, mastro Raduan. Non sono indispensabili, al contrario degli altri due tipi, ma permettono che l'artefatto resista a danni gravi. Sono in grado di assorbire un urto violento, per esempio, o di rendere un oggetto inattaccabile dal fuoco, o insensibile al gelo. Non dico che un artefatto dotato di Corazze sia indistruttibile – qualche scalfittura è inevitabile - ma è una bella garanzia.» «Impressionante!» commentò Dorian, ripetendo la lezione «Calici, Cuori e Corazze... Non voglio immaginare cosa accadrebbe, se qualcuno decidesse di produrli in serie. Avrebbe il mondo ai suoi piedi!» «In teoria, comandante. Ma nella pratica ciò che dite è impossibile, per almeno tre ragioni.» «Quali?» «La prima, che è anche la più rilevante, è che non siamo assolutamente in grado di fabbricare nuovi manàlorin. Questo significa che per i nostri esperimenti dobbiamo riutilizzare ogni volta i pochi esemplari che riusciamo a trovare, dispersi per il mondo. Spesso, tra l'altro, non abbiamo neppure il coraggio di toccarli, perché da essi dipende il funzionamento dei nostri artefatti. Finché il
mistero dell'origine dei manàlorin non sarà risolto, dovremo sempre fare i conti con la scarsità di materiale. È un serio problema dal punto di vista accademico, ma concordo con voi che sia un bene per il mondo.» «Sono felice di sentirvelo dire!» «Una seconda ragione riguarda l'assembramento delle parti: connettere tra sé i manàlorin in modo appropriato, senza danneggiarli ed ottenendo l'effetto sperato, è una vera e propria arte. Un'arte complessa, ve l'assicuro. Per aiutarci, siamo soliti disegnare schemi come questo.» Estrasse una pergamena da un cassetto. Fece spazio sul bancone e la distese. Quel che apparve agli sguardi incuriositi dei due guerrieri fu un disegno molto dettagliato, arricchito da innumerevoli linee, simboli ed annotazioni. Si chiesero come una cosa del genere potesse essere d'aiuto ai Saggi. Zontar colse i loro dubbi: «Non pretendo che riusciate a interpretare questo schema alla prima occhiata, ma vi garantisco che è il miglior modo che abbiamo di descrivere una rete di manàlorin. Lo chiamiamo Mappa di un artefatto.» «L'avete inventato voi?» «No di certo, comandante. I Saggi che disegnarono le prime Mappe si ispirarono ad alcuni esemplari di origine sconosciuta, forse provenuti dalla stessa fonte che originò i manàlorin. Non fu facile interpretarle, ed è anzi un'opera lungi dal compimento, ma ci ha fornito indizi preziosi nello studio dei manàlorin. Gli schemi disegnati da me e dagli altri Saggi non sono che mere imitazioni degli originali.» «Se lo dite voi...» mormorò Raduan, perdendosi nella miriade di simboli dello schema. «E come se tutto ciò non dovesse bastare, a complicare i nostri studi ci sono anche le Parole di Comando...» «Parole come Azvan?» commentò Dorian. «Esatto!» concordò Zontar «Come avete visto, certi artefatti non funzionano con il solo gesto. In questi casi, è necessario pronunciare una Parola di Comando al momento giusto. Vi lascio immaginare quale enorme ostacolo ciò rappresenti per la nostra immatura comprensione delle Arti Arcane!» «Come avete fatto a scoprirlo?» «Il mito vuole che sia stato Lindo Vinoria, un Saggio vissuto circa cento e cinquanta anni orsono, a scoprire per caso l'influenza delle Parole di Comando sugli artefatti. Un giorno, dopo aver perduto mesi nel capire perché un paio di cesoie dotate di manàlorin si rifiutassero di fare qualsiasi cosa degna di nota, batté un pugno sul tavolo, esasperato, e scagliò un'imprecazione al cielo. In risposta alle sue parole, le forbici si animarono di vita propria e gli tagliarono la barba in due!» Raduan si lasciò scappare una risatina. «Lo so, lo so, è una storia piuttosto sciocca. Ma da allora i Saggi si resero conto che può servire una Parola di Comando per attivare un artefatto. E purtroppo, in casi come questo, non c'è altro da fare se non sperimentare migliaia di suoni differenti, nella speranza di trovare quello giusto. Per nostra fortuna, abbiamo decifrato dalle antiche Mappe vari esempi di Parole di Comando, e abbiamo capito una cosa: esistono dei suoni base, che sovente si ripetono all'interno delle Parole stesse. Così, perlomeno, non avanziamo alla cieca.» «Suona molto complicato» ammise Dorian. «E lo è, nel bene e nel male» confermò Zontar. Dorian si sentì riconfortato. Con tanti ostacoli sul cammino della comprensione, l'uso di artefatti magici in grande scala era una realtà ben lungi dal prendere piede. «Questo è più o meno tutto ciò che avevo intenzione di spiegarvi» concluse Zontar «Spero che il riassunto vi sia piaciuto. Il Viandante doveva avere le sue ragioni per tenervi all'oscuro durante tutti questi anni, ma credo che meritiate una visione più ampia delle cose.» «Vi siamo grati per la lezione, Zontar» dichiarò Dorian. «E fate bene ad esserlo: adesso ne sapete più di molti di quei rompiscatole, lassù nel refettorio!» Rivolse un sorriso divertito al comandante. «In realtà, ne sapevate già parecchio, senza rendervene
conto.» «Io?» si schermì Dorian. «Pensate forse che non sia a conoscenza del Rituale della Liberazione?» «Questo cos'ha a che vedere con...» Si interruppe di botto, sconcertato dall'evidenza. «Ma certo! Lo stendardo! Le Parole di Comando!» Fissò Raduan, che già sospettava la verità. «É uno di quegli artefatti, dunque! Intessuto di manàlorin!» «Ne sono quasi certo, ma vorrei poterlo confermare di persona» disse Zontar. La sua espressione si indurì. «Il Viandante è molto geloso dei suoi trucchi. Per quante volte lo abbia implorato, ha sempre trovato qualche scusa per non farmi neanche sfiorare quel suo stendardo...» «Perdonatemi, Zontar» lo interruppe Dorian. Per un po' si era scordato della ragione per cui erano lì, ma udire il nome del Viandante gli aveva rinfrescato la memoria. «All'inizio della serata, ci avete parlato di una proposta, per aiutarci a cercare Abel. Avete aggiunto che, per comprenderla, avremmo dovuto saperne di più sulle Arti Arcane. Ma ancora non capisco...» «Non ve l'ho ancora detto, infatti» replicò Zontar, assumendo un'espressione maliziosa «Forse quella che vi farò sembrerà una proposta egoista da parte mia, ma spero che capirete.» Dorian alzò un sopracciglio. «Non teneteci sulle spine, per favore. Che cosa volete, in cambio del vostro aiuto?» «Lo stendardo!» rispose Zontar «È un oggetto formidabile, senza eguali. Un artefatto sul quale qualsiasi studioso delle Arti Arcane vorrebbe poter mettere le mani. Se mi permetterete di studiarlo da vicino, vi aiuterò nella ricerca. Anzi, direi che le due cose vanno a braccetto.» Dorian e Raduan non seppero che dire. Se Abel si era sempre rifiutato di mostrare lo stendardo a Zontar, probabilmente aveva le sue buone ragioni. Le conseguenze potevano rivelarsi insidiose. «Non fraintendete i motivi del mio interesse, comandante Dorian» continuò Zontar, con voce calma «Non è la proposta nobile e disinteressata che forse vi aspettavate, vero, ma non nascondo nessun secondo fine. Il Viandante è un uomo con troppi segreti - lo sapete meglio di me - e temo che adesso ne stia pagando le conseguenze. Voglio aiutarvi a far luce sulla faccenda, a modo mio.» «Spiegatevi meglio.» «Ne avete il diritto» annuì Zontar. Si grattò un orecchio, imbarazzato. «Spero che ciò che sto per raccontarvi non getti una cattiva luce sulla mia persona, ma del resto ogni uomo ha i suoi difetti. Il mio è una certa propensione a investigare i segreti altrui, anche quando non dovrei...» Si schiarì la gola. «Il fatto risale a un paio d'anni fa. Abel venne a farmi visita, per trattare di certe questioni. Come sempre, trovammo anche il tempo di discutere la grande passione che avevamo in comune: le Arti Arcane.» Dorian si sentì stupido: possibile che in tanti anni di convivenza non avesse mai notato quel lato di Abel? O forse gli era stato nascosto di proposito, per ragioni che non riusciva a immaginare? «Come ogni volta» proseguì Zontar «mi negò uno sguardo ravvicinato allo stendardo della Compagnia. Ma quella volta - non so dire se fu il troppo vino, o la frustrazione per l'ennesimo rifiuto - decisi di non arrendermi tanto facilmente. Istruii uno dei miei a stargli alle costole durante la sua permanenza alla torre, e a riferirmi nei dettagli ogni cosa sospetta.» «Spiaste uno dei vostri ospiti, un amico per giunta?» proferì Raduan, un'espressione di disgusto stampata sul volto. «Non pretendo che capiate il mio stato d'animo d'allora, mastro Raduan. Ma se mi permettete di terminare il racconto, scoprirete anche voi come, col senno di poi, sia stata una mossa azzeccata.» Raduan diede un grugnito di disapprovazione, ma lasciò che il Saggio continuasse la sua narrazione. «Di tutto ciò che la spia mi riferì, una cosa in particolare attirò la mia attenzione: pare che una notte, rinchiuso nella sua stanza e credendosi al riparo da occhi indiscreti, Abel fosse impegnato in un'attività alquanto bizzarra... Parlare da solo dinanzi allo stendardo!» «Che cosa?» «Suona assurdo, me ne rendo conto, ma il mio uomo non aveva dubbi. Eccovi la scena: il
Viandante pronuncia una strana parola, poi lo stendardo prende a emettere un lieve ronzio, e il Viandante comincia a parlargli come se fosse una persona in carne ed ossa, commentando i fatti degli ultimi giorni e confidandogli i suoi pensieri. Va avanti così per una buona mezz'ora, senza fermarsi.» «Era forse ammattito?» insinuò Raduan, ignorando lo sguardo di riprovazione dell'amico. «Sulle prime lo pensai anch'io. Fortuna che mi venne in mente un certo artefatto che avevo avuto modo di studiare anni prima. Aveva un'eccezionale proprietà: poteva catturare voci e suoni, per poi ripeterli a comando!» Zontar batté le mani come un bambino, al ricordo. «Fu una rivelazione! Ecco perché Abel non permetteva a nessuno di metterci le mani sopra! Oltre a servire per il Rituale, lo stendardo racchiude in sé, nascosta...» «Una cronaca!» sbottò Dorian, seguito a ruota da Raduan. «Proprio così!» annuì Zontar «Un diario personale nel quale devono essere registrati per filo e per segno tutti gli eventi e le riflessioni del Bianco Viandante di questi ultimi anni! Ditemi voi se ho ragione: esiste un modo migliore di scoprire ciò che gli è accaduto?» «Assurdo!» dichiarò Dorian, prendendosi la testa tra le mani «Tanto tempo speso in inutili ricerche... e la chiave di tutto è sempre stata sotto i nostri occhi! Se l'avessimo saputo prima...» «Non dimenticate la Parola di Comando, comandante» aggiunse Zontar, senza sorridere «Soltanto io la conosco. Il che ci riporta alla mia proposta. Permettetemi di studiare lo stendardo, e avrete le vostre risposte. Altrimenti, per quanto mi dolga dirlo, dovrete trovarvi un altro modo.» Dorian lo squadrò di traverso, un po' deluso. Zontar era un grande Saggio, senza dubbio, conosciuto e rispettato in ogni angolo del Regno. Ma nulla impediva che persino un uomo come lui cadesse preda dell'ambizione e dei desideri più oscuri. E se lo studio delle Arti Arcane non fosse per lui l'unica ragione di volere lo stendardo? Se poi non l'avesse restituito, cosa ne sarebbe stato del Rituale? No, era troppo rischioso! «Va bene» disse una voce dentro di lui «Non darglielo. Salutalo, vattene, e tanti auguri per la tua ricerca. Ti verrà qualche altra bella idea, no?» Scosse la testa. Era in un vicolo cieco. Che fare? Rivolse uno sguardo silenzioso a Raduan, in cerca di aiuto. L'amico continuò a lisciarsi la barba per un po', riflessivo. Infine diede una scrollata di spalle. Non aveva risposte migliori da dargli. «E sia» disse Dorian «Accettiamo le vostre condizioni.» «E' fatta, dunque!» asserì Zontar «Non ve ne pentirete, potete starne certi!» «Lo spero... Lo stendardo però non è qui con noi. L'abbiamo lasciato con la Compagnia, a Bezer.» «Vi accompagnerò nel viaggio di ritorno» dichiarò il Saggio «Ma prima devo occuparmi di alcune questioni che non posso lasciare in sospeso. Immagino che possano volerci dei giorni. Nel frattempo, consideratevi miei ospiti graditi: mi assicurerò che non vi manchi nulla.» Dorian e Raduan si scambiarono uno sguardo. «E sia» disse poi il comandante. Il Saggio si alzò dalla panca. «Credo che per stasera abbiamo conversato fin troppo. Si è fatto tardi, vi riaccompagno alle vostre stanze.» Si diresse verso l'uscita del laboratorio, con la lunga coda svolazzante di capelli d'argento. A Dorian e Raduan non restò che seguirlo, nella speranza di aver preso la giusta decisione.
XIX - Cicatrici
Voci, nella sua testa. Dapprima flebili, poi sempre più forti. Cercò di scacciarle, ma continuavano a tormentarla, a strapparla al suo dolce sonno... E la luce! La sentiva premere sulle palpebre, bianca e ardente, anch'essa un'odiosa nemica. Esasperata, aprì lentamente gli occhi. Lasciò che la nebbia si dissipasse. Era sdraiata su un pagliericcio, in un luogo vasto e scuro che le parve di riconoscere... Una caverna, un lago, un gruppo di tende. Persone, molte persone, in piedi attorno a lei. Facce pallide e tristi, rigate di lacrime, mani nei capelli. Avrebbe voluto parlare con loro, capire cosa fosse accaduto, ma c'era in lei qualcosa di sbagliato. Un pulsare sordo nelle vene, fitte di dolore... Ne cercò la fonte con lo sguardo, e si ritrovò a fissare un moncherino insanguinato al posto del suo braccio destro. Convulsioni. Mani e voci che cercavano di calmarla, rassicurarla. Ma non provò alcun conforto. Roteò gli occhi all'indietro, e svenne di nuovo.
----Fu svegliata dalla brezza sul viso, aromi pungenti nelle narici. Sollevò le palpebre, pesanti come saracinesche, e vide il porto, il mare, il cielo stellato. Girò la testa. Era su una lettiga, trasportata a braccia nel buio della notte da due sagome familiari. Puntò lo sguardo sul firmamento, stanca e vuota di ogni emozione. Si assopì col lamento dei gabbiani nelle orecchie.
----Riversa al suolo in mezzo alla via, era incapace di rialzarsi. Gemeva, implorando soccorso, ma i passanti si limitavano a guardarla. Uno di loro, una bambina, le rifilò un calcio, schernendola. Quando la guardò, si accorse che i suoi occhi erano rossi come sangue. Tutti quanti avevano occhi rosso sangue: uomini, donne, bambini. Poteva sentire il loro odio, la loro crudeltà. Sapeva che l'avrebbero lasciata morire in terra, come un cane, e non c'era niente che potesse fare. Ma proprio quando stava per arrendersi, una figura luminosa, bianco vestita, si fece largo tra la folla, aprendosi un varco col suo tocco gentile. Venne a lei, e si inginocchiò, tendendole una mano candida come neve. I suoi occhi chiari, calmi e sorridenti, la incoraggiarono ad alzarsi. Afferrò quella mano, mentre il calore della gratitudine si diffondeva nel suo corpo martoriato. Con gioia, pronunciò il nome di quell'uomo. «Abel...» mormorò, emergendo dal sonno profondo. Lisca sospirò di sollievo: era il segnale di vita che stavano aspettando da giorni. Kyra aprì stancamente gli occhi, e si ritrovò a squadrare un basso soffitto a botte. Si guardò attorno. Era sdraiata su un letto, in una stanza piccola e spoglia. Raggi di luce entravano da un lucernario sulla parete opposta. Seduto accanto al letto, Lisca la osservava.
«Finalmente sei sveglia, capo!» disse, con uno sguardo che esprimeva un misto di preoccupazione e speranza. Lei fece per rispondergli, ma aveva le labbra tanto secche che non riuscì a spiccicare parola. Soltanto dopo aver bevuto un sorso d'acqua, e dopo lungo tossire, recuperò la facoltà di parlare. «Dove mi trovo?» domandò «Come sono arrivata qui?» Lisca abbassò lo sguardo. «Non ricordi nulla?» Lei scosse la testa. Le venivano in mente soltanto immagini confuse, prive di una precisa sequenza temporale. Con la coda dell'occhio, notò che il moncherino del suo braccio era stato fasciato con bende pulite. Pulsava, ma il dolore non era troppo intenso. «Da quanto?...» volle sapere. «Tre giorni» rispose lui. Poi, visto che lei si limitava a fissarlo inebetita, proseguì: «Ti trovi nella soffitta di una vecchia casa di periferia. Ti ci abbiamo portato Kwan ed io, con l'aiuto di Selita. Non è stato facile trovare una via d'uscita dalla Fabbrica, e dalle fogne. Una vera e propria corsa contro il tempo, con te in quelle condizioni e gli uomini di Dinor alle costole... Ce l'abbiamo fatta soltanto grazie all'aiuto degli abitanti del sottosuolo.» Kyra annuì, pescando sprazzi di memoria che la vedevano ferita e riversa al suolo nella grande caverna, circondata da un nugolo di uomini e donne disperati... Fu in quel preciso istante che il pensiero la toccò, gelido e tagliente come una lama di ghiaccio. «Aren!» esclamò, cercando con gli occhi quelli di Lisca, nell'assurda speranza che le dicesse che il capo banda stava bene, che era rimasto nella caverna con la sua gente... Lisca evitò il suo sguardo implorante. «Non c'è stato nulla da fare, capo. Lo hai visto anche tu.» Le parve di rivivere il fragore dell'esplosione, e brividi freddi le corsero lungo il corpo. «No. No. No!» furono le uniche parole che riuscì ad articolare. «È merito di Aren se siamo sopravvissuti» continuò Lisca «Il suo coraggio ha distolto da noi l'attenzione del mostro, l'ha confuso. Poi è successo quel che è successo... Quell'uomo è stato un vero eroe! E, grazie agli Dei, Kwan si è ripreso appena in tempo. Ti ha caricata in spalla, e siamo corsi via come il vento!» «Perché? Perché non siete rimasti a lottare al suo fianco?» balbettò Kyra. Avrebbe voluto urlare per la frustrazione, ma non ne trovò la forza. «Capo, Aren era un uomo dal cuore grande, e non certo uno stupido. Si era reso conto che quella sarebbe stata la nostra tomba. Di tutti noi. Per questo ha preso la sua decisione, e l'ha seguita fino in fondo.» Kyra sapeva che era la pura verità. Si aspettò di versare fiumi di lacrime, per onorare il sacrificio di quell'uomo altruista e coraggioso, ma non accadde nulla. Provò soltanto una profonda amarezza, e il rimorso. Era come se stesse affogando. Ancora una volta, la tragedia della morte le correva appresso. Lontana dalla Compagnia, lontana da Abel, ma sempre a un passo dalla mietitrice. Eppure il suo turno non arrivava mai: ogni volta erano gli altri, i suoi amici, a dover pagare il prezzo più alto... «Devi fartene una ragione, capo» concluse Lisca, intromettendosi nel cupo corso dei suoi pensieri «Non c'è più nulla da fare. Un'altra persona che conosci per poco non è tornata alla Fabbrica da sola, a farsi ammazzare. L'abbiamo dovuta legare e trascinare via come un animale!» Selita. Kyra si rammentò degli sguardi di complicità tra lei ed Aren, dei gesti e delle parole cariche di sottintesi. Il fiore di una passione appena sbocciata, annichilito nella stretta mortale di quel mostro. Poté soltanto immaginare la sofferenza che di certo riempiva il cuore della donna, un impietoso connubio di rimorso e sentimenti soffocati sul nascere. «Sta meglio adesso, almeno credo. Ma continuiamo a tenerla d'occhio, per precauzione» commentò Lisca.
«E quel...? Quella cosa?» domandò Kyra, tra i denti. Non voleva pronunciare il suo nome. Caleb. Lisca scosse la testa. «Niente da fare, purtroppo. Non so come, ma è riuscito a sopravvivere all'esplosione. Gli uomini di Aren l'hanno visto aggirarsi nei tunnel poco dopo la nostra fuga, come un segugio. Per fortuna hanno coperto le nostre tracce, o ci avrebbe seguiti fino in superficie...» Kyra accolse stoicamente la notizia: non ne sapeva il perché, ma era certa che il mostro fosse ancora in vita, anche prima che Lisca glielo confermasse. Quel crudele volto di metallo l'aveva visitata molto spesso, nel delirio. Rimasero in silenzio. Le cose da discutere erano molte, ma nessuno dei due aveva davvero voglia di continuare. Era come sfregare sale su una ferita ancora aperta. «Non sento più molto dolore» osservò Kyra, sforzandosi di vincere la ripugnanza che le impediva di posare lo sguardo sul braccio amputato. «Chi mi ha curato?» «Una sacerdotessa di Edessa. Sono le migliori in questo genere di cose, lo sai. Ti ha mantenuta incosciente durante tutto questo tempo, con una mistura d'erbe. Ha ripulito la ferita, l'ha cucita e fasciata, e in questi giorni ti ha visitata varie volte, per accompagnare i tuoi progressi.» Si grattò una guancia. «A dire il vero, eravamo tutti molto preoccupati. Ci aveva detto che eri fuori pericolo, ma che soltanto tu avresti potuto decidere se, e quando, ritornare a vivere. In teoria, avresti potuto rimanere addormentata per sempre...» Per un momento, Kyra preferì aver fatto quella scelta. Cercò di scacciare l'idea dalla sua mente, ma essa rimase lì, in agguato. «Chi ha condotto qui la sacerdotessa? A chi devo la mia gratitudine?» «Qualcuno che conosci» rispose Lisca, sibillino «Ma è meglio che sia lui a spiegarti, di persona. Credo che stia venendo a farti visita, sento dei passi sulle scale.» Era vero. Kyra udì uno scricchiolio di assi fuori dalla porta, vide la maniglia ruotare, e due uomini entrarono nella stanza. «Grazie agli Dei siete tornata fra noi!» esclamò il primo, illuminandosi in volto al vederla sveglia. Era Leon, seguito dal giovane Ethan. Leon, l'unico fratello del defunto Aren, tutto ciò che restava della famiglia Erbecker. Le venne voglia di nascondersi tra le lenzuola e sprofondare. L'uomo dovette percepire il suo stato d'animo. Con delicatezza le strinse una spalla. «Sono felice che stiate bene.» Kyra lo squadrò con occhi pieni di disperazione, senza trovare conforto in quelle parole. Fece per alzarsi su un gomito, rovistando freneticamente sotto le coperte con l'unica mano che le restava. Ma non avrebbe mai trovato ciò che cercava: i suoi abiti erano stati sostituiti da un camice leggero. Dov'era finito, maledizione? «State calma, non è il caso di agitarvi» la rassicurò Leon «Mi sono preso la libertà, mentre dormivate.» Le mostrò la mano destra: l'anello di famiglia, con lo smeraldo vivo e scintillante, era infilato al suo dito. «Non è stata colpa vostra» disse, fissando gli occhi sereni in quelli di lei «Aren era fatto così, era inevitabile. E non riesco a pensare a una fine più onorevole, per un uomo coraggioso come lui.» Si schiarì la gola. «L'unica cosa che conta, adesso, è la vostra salute. E il fatto che il ragazzo sia qui, sano e salvo, grazie a voi.» Rivolse ad Ethan un sorriso gentile. Il giovane, che si era tenuto in disparte fino ad allora, fece un timido passo in avanti. Di media statura, il suo tratto più vistoso era una ribelle criniera di capelli castani, le cui ciocche ricadevano in disordine sul viso intelligente. Gli stenti della prigionia gli avevano lasciato addosso un tetro pallore, oltre a numerose tumefazioni, e un braccio appeso al collo.
Aprendo e richiudendo le mani nervosamente, resse lo sguardo di Kyra per un attimo soltanto. «Grazie!» disse «Vi... vi devo la vita!» La risposta di Kyra fu dura, nata da un risentimento radicato nel profondo dell'anima: «Non ringraziarmi» disse, con voce piatta «Una vita in cambio di un'altra, ecco cos'è stato.» Poi, guardandolo fisso: «Non sarei mai dovuta venire qui, non importa l'amicizia tra tuo padre e me. Tu, soprattutto, non saresti mai dovuto venire. Ma ormai è tardi.» Ethan, ammutolito, continuò a fissare il pavimento. «Capo...» tentò Lisca, ma Kyra non lo lasciò parlare. «É sempre così, la storia si ripete. Tutti i rischi, la paura, il dolore non servono che a peggiorare le cose... Siamo fantocci nelle mani degli Dei...» «Smettetela!» la interruppe Leon. La sua voce, adesso, era dura, come l'espressione del suo volto. La maschera di calma e serenità era svanita. «È assurdo pensare che sia stato tutto inutile!» affermò «Ethan è libero, e potrà riabbracciare suo padre. Non era forse questo l'obiettivo della vostra missione?» Kyra non aprì bocca. Leon era cambiato, sembrava molto più forte e sicuro di sé della prima volta che l'aveva incontrato. Anche nel suo portamento c'era un nonsoché di diverso, una palpabile fierezza. E non portava più quei ridicoli occhialetti rotondi. «Meglio ancora! Non pensate alla scoperta che avete fatto?» continuò lui. Chiuse una mano a pugno. «Vi rendete conto di quanto sia importante ciò che avete visto? Per gli Dei, siamo sull'orlo di una guerra civile, e Dinor sta fabbricando armi per il nemico sotto il nostro naso!» «Non è affar mio» ribatté Kyra, acida. «Statemi a sentire!» sbraitò Leon, ogni traccia di pazienza svanita dalla sua voce «Nessun sacrificio sarà stato inutile: non certo quello di mio fratello, né quello di Ethan, né il vostro!» «Non lo vedete? Vostro fratello! La vostra famiglia!» replicò lei, quasi urlando «Sono sempre quelli che amiamo a pagare il prezzo più alto, e per che cosa? Per niente!» Sollevò il braccio amputato, e lo avvicinò al marchio che le attraversava l'occhio sinistro. «E a noi restano soltanto le cicatrici...» Nessuno dei presenti seppe cosa risponderle. «Quest'occhio» continuò lei «Volete sapere come l'ho perso? Lasciate che ve lo racconti!» Per la prima volta in vita sua sentiva la necessità di condividere con qualcuno quella storia, di cui soltanto Dorian era a piena conoscenza. Voleva che capissero, che vedessero tramite lei come gli Dei ridevano in faccia agli uomini, implacabili nei loro sordidi capricci! «Ho passato la maggior parte dei miei anni combattendo nella Compagnia del Viandante» dichiarò «Credo ne abbiate sentito parlare.» La risposta era affermativa, a giudicare dalle reazioni dei presenti. Lisca quasi si alzò dalla sedia. Gli altri due si scambiarono occhiate di incredulità. Pochi avevano visto di persona la Compagnia in azione, ma le dicerie sorte sul suo conto col passare degli anni erano senza fine. Guerrieri leggendari per alcuni, pericolosi stregoni per altri. In ogni caso, un nome che non passava inosservato. «Fu in una maledetta foresta tra le montagne di Skopal...» proseguì Kyra «C'era un villaggio di taglialegna, prima della piaga, una comunità isolata. Gente chiusa, devota agli spiriti della montagna. Un emissario fu inviato al villaggio, poiché ritardavano nel pagare i tributi dovuti alle casse del principato. Andò incontro a una brutta fine. Non tornò mai indietro, e lo stesso accadde ad altri due o tre dopo di lui. Allora mandarono una squadra di uomini armati: soltanto uno sopravvisse, ma con ferite tali da condurlo alla tomba in pochi giorni.» Lisca deglutì a secco. «Quando i signori nella capitale ebbero udito dalla sua bocca ciò che era accaduto, non videro altra soluzione se non invocare l'aiuto della Compagnia del Viandante.» Kyra sorrise cinicamente. «Come sempre, Abel non si tirò indietro. Raccogliemmo le nostre cose e ci mettemmo in marcia. Abel non ci disse dove andavamo o perché, non lo faceva mai. Ma quando giungemmo là, ci fu
subito chiaro.» Fece una pausa, fissando Leon negli occhi. «Demoni. Esseri umani tramutati in mostri, se nessuno ve l'ha mai detto. Il nostro pane quotidiano. Fu un'ecatombe, come sempre. Avrebbe potuto essere un'altra battaglia soltanto, una tra tante. Ma non quel giorno...» Rinchiusa tra le sbarre dei suoi ricordi, Kyra arricciò le labbra, come un animale intrappolato: «Uno dei nostri perse il controllo. Non era la prima volta e non sarebbe stata l'ultima, con tutto quello che ci toccava sopportare. Cominciò a gridare come un ossesso privo di senno, menando colpi alla cieca. Non appena me ne accorsi, mi feci strada fino a lui. Quando lo raggiunsi, vidi qualcosa che mi turbò: c'era una bambina rannicchiata al suolo ai suoi piedi. Si nascondeva il viso tra le mani, e singhiozzava.» Kyra deglutì, tergendosi una goccia di sudore dalla fronte. «Stava per attaccarla! Cosa avrei dovuto fare, se non fermarlo? Lo afferrai per le spalle, e lo girai a forza verso di me, decisa a farlo ragionare.» Chiuse gli occhi, prima di continuare. «Un istante più tardi, cadde morto tra le mie braccia, trafitto alla schiena. Non dimenticherò mai lo sguardo d'accusa nei suoi occhi... Scivolò in terra, e alle sue spalle stava quella bambina, una bambina con lunghi artigli coperti di sangue, e occhi inumani come quelli dell'essere che ha ucciso Aren. Mi fu addosso prima che potessi reagire. Una rasoiata, e il mio occhio era storia.» Poggiò due dita sulla cicatrice, percorrendola dall'alto verso il basso, senza distogliere l'altro occhio dal volto di Leon. «Se non fosse intervenuto uno dei miei, oggi non sarei qui a raccontarvelo. E qual è la morale di questa favola?» Li guardò tutti, uno ad uno, ma non ottenne risposta. «Nessuna, dannazione! Credendo di fare del bene, ho seguito Abel ciecamente per anni, e ho visto la morte di tanti che amavo! Credendo di fare del bene, ho causato l'uccisione del mio compagno, e ho perso un occhio! Credendo di fare del bene, ho provocato la morte di tuo fratello, e mi sono fatta strappare un maledetto braccio!» Una risata sommessa le uscì dalle labbra. «Non lo vedi, Leon? Non vedi l'assurdità del mio, del nostro destino? Siamo marionette appese a un filo! Perciò non venirmi a parlare di lotta, e di sacrificio... É tutta una follia, un'enorme follia senza scopo!» Detto ciò, ammutolì, e il suo sguardo si perse tra le pieghe delle lenzuola. Leon scosse la testa, abbattuto. «Siete sconvolta» disse «E avete bisogno di riposare. Lo capisco.» Kyra rimase in silenzio. Leon rivolse un cenno agli altri due. Insieme si avviarono verso la porta. Prima di richiuderla alle sue spalle, si voltò un'ultima volta. «Cercate di rimettervi in sesto, Kyra. Parleremo un altro giorno.» Lei non gli rispose, né alzò lo sguardo dal letto.
----Passarono giorni prima che Leon tornasse a farle visita. Kyra, col cuore pesante, si trascinava apatica da un'alba alla successiva. Se le sue condizioni fisiche miglioravano a vista d'occhio, non altrettanto si poteva dire del suo morale. Sentiva di aver fallito sotto tutti i punti di vista, e non trovava un solo motivo che la spingesse a continuare a lottare. Ogni tanto pensava a quello strano sogno, alla mano di Abel tesa verso di lei per sollevarla da terra. Ma non serviva a darle coraggio, anzi, la riempiva di rancore. Perché gli Dei si prendevano gioco di lei persino durante il sonno? Di tutte le persone al mondo, Abel era quella di cui meno volentieri avrebbe accettato l'aiuto. Abel era morto - e se non lo era, avrebbe dovuto esserlo. Sua era la colpa maggiore, per aver
rovinato la vita di tanti uomini e donne con la sua inutile causa. Adesso le era chiaro: che le persone si tramutassero in Demoni, era il frutto della perversità del mondo. Perché opporsi alla naturale evoluzione delle cose? Perché lottare contro l'inevitabile? Per un breve periodo, nel villaggio di Mirna e durante i suoi primi giorni a Dekka, lei stessa aveva vissuto un'illusione: l'illusione di lottare per qualcosa di buono, di poter davvero migliorare le cose. Ma un'altra era la realtà che aveva riscoperto nel cuore nero della Fabbrica: uomini che tradivano, uomini che torturavano e uccidevano, uomini che in fondo già erano Demoni, pur non avendone l'aspetto. E insieme a loro, un Demone vero e proprio, venuto dall'inferno! Cosa avrebbe mai potuto fare, contro un mostro come quello? Era meglio andarsene, lasciare che si ammazzassero l'un l'altro per il potere, e che le cose seguissero il loro corso verso la rovina. Che gli Dei cogliessero pure la loro messe insanguinata! Quando Leon bussò alla porta, Kyra non fece neppure lo sforzo di invitarlo a entrare. L'uomo avanzò con passo incerto fino al suo letto, accarezzandosi il cranio calvo con una mano. Passarono diversi istanti prima che si decidesse a rivolgerle la parola. «Vedo che state meglio Kyra, il vostro viso ha ripreso colore. Mi fa piacere.» Nessuna replica. Leon sospirò. «Scusatemi per aver perso la pazienza l'altro giorno. Avrei dovuto capire come vi sentivate, dopo aver sofferto tanto. I tempi sono duri anche per me, come potete immaginare.» Intrecciò le dita, evitando di guardarla negli occhi. «Ma volevo che capiste che non tutto è perduto. C'è ancora molto che possiamo fare.» Kyra gli rivolse un sorriso di scherno. «Ve l'ho già detto, io ho chiuso con questa storia. Appena potrò farlo, mi alzerò da questo letto e lascerò la città.» «Non sarà così facile...» «Che vorreste fare? Tenermi qui prigioniera, sperando di riuscire a convincermi delle vostre idee? È tempo sprecato, non otterrete nulla!» «Per quanto la cosa non mi sorrida, sono disposto a lasciarvi andare quando volete, Kyra. Siete la sola padrona del vostro destino. Ma la situazione in città è peggiorata parecchio da quando vi siete infiltrati nella Fabbrica.» «In che senso?» «A quanto pare il vecchio Dinor non l'ha presa bene, e posso capirlo. Ciò che avete visto mette a repentaglio la segretezza del suo tradimento. Vi vuole morti, voi, i vostri tre compagni, ed Ethan.» «Maledizione!» imprecò Kyra, stringendo i denti. «Hanno piazzato posti di controllo in tutta la città» continuò Leon «Soprattutto ai cancelli e al porto. Fuggire senza essere notata sarà quasi impossibile. E la Guardia Cittadina sta rastrellando ogni quartiere: per questo ho nascosto voi e i vostri amici in questa casa, lontano da occhi indiscreti. Di certo qualcuno dei Ratti di Porto avrà già aperto bocca di fronte alla prospettiva di un bel gruzzolo, ma non temete: nessuno sa dove vi trovate.» «Vi ringrazio per la premura, Leon» disse Kyra, con una lieve sfumatura di sarcasmo «Ma qual è il vostro piano? Tenerci rinchiusi qua dentro per mesi, finché le acque non si saranno calmate? E quanto ad Ethan? A quest'ora il vecchio Ezer deve aver già perso la speranza...» «Gli ho già inviato un messaggio: mi auguro che arrivi a destinazione come quell'altro, senza intoppi. E per quanto riguarda voi, Ethan e gli altri tre, la mia idea è un'altra.» Distolse lo sguardo, cercando le parole giuste per farle capire ciò che aveva in mente. Quando risollevò gli occhi, brillavano di una strana luce. «Kyra» dichiarò, con voce ferma «Che lo vogliate o meno, avete messo in moto un meccanismo inarrestabile. Avete scoperchiato le carte di un pericoloso avversario. Da ciò che accadrà nelle prossime settimane dipende non soltanto il mio e il vostro futuro, ma il destino dell'intera città. E non intendo restare con le mani in mano a vederla affondare.»
Lei gli rivolse uno sguardo dubbioso. «Da soli, voi ed io non siamo in grado di fare granché, me ne rendo conto» proseguì lui «Ma unendo le nostre forze, e facendo leva sui punti giusti, possiamo causare una valanga destinata a travolgere Dinor e i suoi complici!» «Vi ho già spiegato che non voglio aver più nulla a che fare con questa faccenda!» «Abbiate la pazienza di ascoltarmi, per lo meno!» Kyra imprecò, ma glielo concesse. «Come ho appena detto, si tratta di applicare la giusta pressione dove necessario. Il nostro avversario ha dalla sua parte le forze armate di questa città. Ma sono in netta minoranza, se confrontati con l'intera popolazione di Dekka. E oltretutto, sono convinto che buona parte della Guardia gli si rivolterebbe contro, se scoprisse la verità.» Kyra si mosse a disagio sul letto, cominciando a capire dove voleva arrivare. Prima che potesse esprimere le sue perplessità, Leon glielo confermò. «Una rivolta» affermò «Una sommossa popolare contro il governatore.» «Ah! Come potete anche soltanto pensare di...» «Non c'è altro modo, Kyra! Contro una forza tanto superiore alla nostra, è l'unica via d'uscita! E soltanto noi, da dentro, possiamo farcela. Credete che a qualcuno, là fuori nel Regno, importi qualcosa della nostra situazione? La guerra è alle porte, hanno ben altro a cui pensare!» Lei non seppe come ribattere. Lo fissò, sconsolata, e vide che un sorriso enigmatico affiorava sulle sue labbra. «Non è tutto, vero?» chiese. «In realtà, la sommossa non sarebbe che una parte del piano. C'è un'altra azione che ci sta a cuore, e dalla quale forse dipende il nostro successo...» «E quale sarebbe questa azione?» domandò lei, sorvolando sul 'ci' e sul 'nostro'. Una domanda alla volta: Leon era uno scrigno di sorprese. «Impadronirci della Fabbrica, e distruggerla. Rimuovere una volta per tutte quel cancro che appesta la città!» «Siete pazzo...» rise Kyra, scuotendo la testa. «Perché lo dite?» si animò Leon, agitando un pugno per aria «Voi stessa avete dimostrato che la Fabbrica non è inespugnabile. Immaginate cosa si potrebbe fare con un gruppo d'uomini ben addestrati e la vostra conoscenza del luogo, approfittando del tumulto causato da una ribellione!» «Non voglio neanche stare ad ascoltarvi, non...» «E che dire della gente del sottosuolo? Non rinuncerebbe per nulla al mondo all'occasione di vendicare la morte di Aren! Al momento si sono dispersi, per sfuggire ai rastrellamenti, ma sono certo che non si sono fatti catturare, non nei sotterranei che conoscono come il palmo delle loro mani.» «...un gruppo d'uomini ben addestrati... Vi rendete conto di quello che dite? Non vi hanno raccontato chi - che cosa - abbiamo trovato ad attenderci all'interno della Fabbrica? Vi hanno detto come è morto vostro fratello, oppure no?» Leon si rabbuiò in volto, ma Kyra volle dire la sua fino in fondo. «È un mostro, Leon, uno stramaledetto mostro! Persino un battaglione avrebbe difficoltà a tenergli testa!» «Non se possiamo combatterlo con le sue stesse armi!» Kyra rimase a bocca aperta. «Non capisco... Che intendete dire?» Per un momento, Leon parve indeciso sul come affrontare la questione. «In questi giorni, non ho smesso un solo istante di pensare a quell'essere, potete credermi. Ho interrogato varie volte i vostri compagni, e mi sono fatto raccontare tutto per filo e per segno. Non ho alcuna spiegazione da dare sul come, dove e perché quella creatura abbia messo piede nella nostra città, ma conosco qualcuno che potrebbe avere delle risposte.» Si massaggiò la radice del naso.
«E c'è di più: non è la prima volta che sento parlare di una simbiosi tra carne e metallo...» «Cosa?» esclamò Kyra, rizzandosi sul letto. «Se volete saperne di più, devo essere certo che collaborerete» affermò Leon, fissandola nel profondo degli occhi «Non pretendo che promettiate fin da subito di appoggiare la mia causa, ma voglio per lo meno sapere che considererete la cosa, prima di prendere una decisione.» Kyra chinò il capo, in conflitto con se stessa. Non aveva senso, come si stava ripetendo da giorni. Accettando, non avrebbe fatto altro che rinnovare lo stesso ciclo di errori del passato. «Allora?» insistette Leon, prima che si ritraesse in se stessa «Non avete molta scelta, al presente. Non potete lasciare la città, non nelle vostre attuali condizioni, e non con tutti i controlli che ci sono in giro. Inoltre, sono certo che dandomi retta finirete per ottenere più di quanto non immaginiate.» Lei tornò a fissarlo. La curiosità cominciava ad avere la meglio sui dubbi. Che cosa doveva fare? Arrendersi, come aveva già deciso da giorni, e svignarsela da quella disgraziata città alla prima occasione? O dargli retta, e magari questa volta lasciarci la pelle? Girò la testa verso la parete, e, senza sapere bene perché, mormorò un flebile: «Va bene.» L'aspettava una dura battaglia interiore, quella notte. Il volto di Leon si rasserenò. «State facendo la scelta giusta, Kyra.» «Ma davvero? Andatevene, adesso, prima che cambi idea.» «Come volete» disse Leon «Riposatevi, ne avete ancora bisogno. E riflettete su quanto vi ho detto. In breve tornerò a farvi visita.» «E quanto alle risposte?» «C'è una persona che intendo farvi conoscere. Vi darà tutte le risposte che vorrete, pazientate ancora un poco.» Si soffermò sulla soglia, prima di uscire. «E vi devo delle spiegazioni anche su altre cose. Cose che mi riguardano, e di cui non sono orgoglioso. Le avrete, un giorno, ve lo prometto.» Uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle, abbandonando Kyra ai suoi pensieri e emozioni confuse.
XX - Nestor
Due figure incappucciate scivolavano sui moli del Porto Vecchio di Dekka, rischiarati dalla luna piena. A quell'ora nessuno sguardo indiscreto era in azione, non certo in quella parte della città: il Porto Vecchio era un quartiere segnato dal tempo, dalle cui strutture fatiscenti sbiadiva giorno dopo giorno il ricordo di un passato di fervorosa attività. Dekka era nata da quel nucleo di vecchie case e moli di legno consunto, e poi l'aveva fagocitato nella sua crescita disordinata. Oggi ci vivevano in pochi, esclusi dai sogni di grandezza della città. Neppure le bande dei bassifondi avevano interesse a controllare quel quartiere spento e senza vita. Per questo le due figure camminavano senza fretta, certe di raggiungere la loro meta indisturbate. «È là, siamo arrivati» disse Leon, indicando un vecchio battello da pesca all'ancora. Dall'acqua bassa affiorava metà dello scafo butterato di alghe e conchiglie. «Era ora» rispose Kyra, sollevando il cappuccio. Ancora non capiva come Leon l'avesse convinta a seguirlo in quel postaccio ammuffito. Aveva freddo, e le tremavano le gambe. Il moncherino del braccio pulsava dolorosamente sotto la fasciatura. Si augurò che ne valesse la pena. Leon dovette leggerle nel pensiero, e le rivolse un sorriso di incoraggiamento. Le assi del molo gemettero sotto i loro piedi, mentre coprivano la breve distanza che li separava dal battello. Non fu uno scherzo, con tanti squarci nel legno putrido. Un'asse inchiodata al suolo a mo' di passerella li aiutò a salire a bordo. Non appena poggiarono i piedi sul ponte, una sola occhiata li convinse che l'imbarcazione non prendeva il largo da anni. Più che una barca, era una casa galleggiante: la casa di Nestor, ex consigliere personale e braccio destro del governatore Dinor, ex membro di rilievo della Confraternita degli Illuminati, nonché amico di lunga data della famiglia Erbecker. Era l'uomo che aveva permesso la fuga di Leon ed Aren la notte dell'assassinio dei loro genitori. Lo stesso che aveva aiutato Leon a mascherare la propria identità e a cominciare una nuova vita. Lo stesso che, ad ascoltare Leon, avrebbe dato a Kyra una nuova speranza di vendetta. Vendetta. Kyra sentì la parola vibrarle dentro come un amuleto. Era la formula magica che l'accompagnava nella sua lenta e penosa guarigione, l'unico fuoco che animava i giorni grigi e frustranti passati rinchiusa nella casa di Leon. Quella notte era la prima volta che usciva all'aria aperta. Si sentiva stanca, disorientata, e, malgrado le costasse ammetterlo, un po' impaurita. Ma ogni ostacolo rimpiccioliva dinanzi all'idea di una rivalsa contro Caleb, che le aveva strappato un braccio e la volontà di vivere. C'era voluto del tempo per recuperare il desiderio di lottare, ma alla fine c'era riuscita, come Leon aveva profetizzato. In quel tragico scontro nelle carceri della Fabbrica, la parte buona di sé quella parte che a stento era tornata a galla dopo aver lasciato la Compagnia del Viandante - era affondata di nuovo. Restava soltanto il buio in fondo al pozzo della sua anima, e la vendetta era l'unica corda a cui potesse aggrapparsi per tornare in superficie. Era decisa a andare fino in fondo questa volta, anche a costo della vita. «Ecco perché sono qui» si disse, stringendosi addosso il mantello sotto i colpi del vento freddo che soffiava dal mare. Leon si sporse sull'oblò circolare intagliato nella porta, e bussò tre volte. Si udirono rumori all'interno, ma nessuno venne ad aprire. Leon bussò di nuovo, con più energia. «Chi è?» sbraitò una voce impastata dal sonno «Non sapete che ore sono? Andatevene, lasciatemi in pace!» «Sono io, Leon!»
«Leon? Che ci fai qui a quest'ora, ragazzo?» «Ragazzo...» rise lui «Fammi entrare e te lo spiego.» Udirono una serie di passi pesanti sempre più vicini alla porta, quindi il tonfo di qualcosa che cadeva al suolo, seguito da un'impressionante sfilza di improperi. Passarono dei minuti prima che la porta si spalancasse dinanzi a loro, lasciando sfuggire una perniciosa nube di fumo giallastro. Kyra non poté evitare di inspirarne un po', e tossì con forza. Riconobbe all'istante l'odore pungente della kitanga, la droga ricavata dai fiori dell'albero omonimo. «Un punto in meno per il vecchio Nestor» pensò, storcendo le labbra. Rivolse uno sguardo corrucciato a Leon. «Altri dettagli che dovrei conoscere?» domandò. Lui si limitò a fare spallucce, imbarazzato. In quel preciso istante il padrone di casa fece la sua comparsa, avvolto da un'ultima zaffata di fumo che andò dissipandosi nell'aria fredda della notte. Era un personaggio di stazza elefantiaca, la cui rotondità era ancor più accentuata dal cranio calvo e lucido come un uovo di struzzo. Aveva labbra spesse, orecchie minute, guance glabre e paffute, e un paio di occhi porcini annebbiati dall'effetto della droga. I suoi arti nudi e grassocci sbucavano come talpe da una camicia da notte a righe, ampia come un tendone da circo. Kyra rimase esterrefatta dinanzi a quell'apparizione: non che si aspettasse granché fin dall'inizio, ma quello era decisamente troppo! Nestor ciondolò avanti e indietro un paio di volte, cercando di metterli a fuoco. «Che avete da stare lì impalati?» disse, con voce grossa «Già che siete riusciti a tirarmi giù dal letto, potreste almeno farmi il favore di entrare. Fa un freddo cane qua fuori!» Senza farselo ripetere, Leon afferrò la ricalcitrante Kyra per un braccio e la spinse dentro. Nestor richiuse la porta alle sue spalle, mugugnando qualcosa su come il clima fosse troppo rigido per la stagione. L'interno della casa galleggiante si rivelò ben più caldo e confortevole di quanto Kyra avesse sperato. Da un lato, tre sofà attorniavano un tavolino color ebano, sul quale dava bella mostra di sé uno sfarzoso narghilè dorato. Il lato opposto della sala era occupato da una sorta di banco da artigiano, ricoperto di parti metalliche e attrezzi accatastati alla rinfusa. Kyra si stava chiedendo come quell'uomo si guadagnasse da vivere, quando vide la risposta davanti ai suoi occhi: appesi alle pareti, al soffitto e in ogni canto, vi erano innumerevoli marchingegni, differenti per foggia e dimensioni, ma tutti in qualche modo simili. Ognuno possedeva un quadrante marcato da tacche, in cui due o più asticelle di diversa lunghezza ruotavano a velocità variabile. Nestor notò il suo interesse. «Ti piacciono i miei tempògrafi, ragazza?» domandò, con una traccia di orgoglio nella voce «Li ho costruiti con le mie mani, uno ad uno!» «A che servono?» chiese lei di rimando. «Il nome non dice forse tutto?» replicò Nestor, levando gli occhi al soffitto di fronte a tanta ignoranza «Che fine ha fatto l'educazione in questa città?» Kyra rivolse a Leon uno sguardo a metà tra l'irritato e lo sconcertato, ma questi si limitò a sorriderle in silenzio. «Significa che mostrano lo scorrere del tempo, ragazza!» continuò Nestor, l'indice grassoccio puntato sul naso di lei «Osservando la posizione delle lancette, in qualsiasi momento, chiunque può sapere a che punto si trova il giorno, o la notte. Geniale, non trovi?» Sbirciò uno dei quadranti. «Per esempio, adesso so che questa è una pessima ora!» «Ma... Qual è la ragione di tante... tempo... cose?» insistette lei «Una soltanto non sarebbe sufficiente?» «Uhmpf! Il tempo è il più sacro dei misteri divini, e credi che lo si possa interpretare tanto facilmente? No! Ci vuole molta perseveranza. E molti tempògrafi!»
Aprì la bocca in un profondo sbadiglio. «Ma perché perdo il mio tempo a spiegarti queste cose.... Tu chi sei, alla fine? E che diavolo volete tutti e due, a quest'ora?» «Lei è Kyra, la giovane di cui ti ho parlato» intervenne Leon, prima che il corpulento padrone di casa cominciasse a dare in escandescenze. «Ahh!» sospirò questi, strizzando gli occhi porcini. Si stropicciò le palpebre. «Dunque siete qui per quella ragione... Capisco. Sedetevi, per favore.» Li invitò ad accomodarsi su uno dei sofà. Non fecero un passo, che una serie di squillanti latrati assalì i loro timpani. Kyra si voltò di scatto, e soltanto allora notò la presenza di un minuscolo cane dentro a una cuccia poco più grande di uno stivale, con le orecchie triangolari appiattite all'indietro e i denti aguzzi allo scoperto. Gli occhietti neri e lucidi della bestiola la studiavano con sospetto. «Smettila, Fulmine!» gli intimò Nestor, mettendolo a tacere con un gesto della mano. Il cagnetto si zittì, ma continuò a fissarli con aperta ostilità dall'interno della cuccia. «Scusatelo. È come un figlioletto per me» spiegò Nestor, grondando affetto «E forse l'ho viziato un po' troppo. Per questo non ama gli intrusi.» «Intrusi!» rimuginò Kyra, mentre sceglieva uno dei sofà. L'ospitalità del padrone di casa era pari a quella del suo degno animale da compagnia. Nestor si abbandonò pesantemente su un altro sofà, dirimpetto a quello di lei. Coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e il viso nascosto tra le mani, dava l'impressione di potersi addormentare da un momento all'altro. Kyra scoccò un'occhiata di disapprovazione al narghilè posto di fronte a lei, e a seguire un'altra indirizzata a Leon. Questi non si scompose più di tanto: a quanto pareva un'accoglienza del genere non era una novità per lui. «Smettila di fissarmi in quel modo, ragazza» farfugliò Nestor tra le dita «Non sono un fenomeno da baraccone. Forse il mio amico Leon non ha fatto le dovute presentazioni.» Kyra fu pronta a rimbeccarlo: «Leon mi aveva parlato di un certo Nestor, un uomo saggio e pieno di risorse... Finora, però, ho visto soltanto un tipo strano, che fuma kitanga e vive in una barca col suo cane, circondato di aggeggi inutili...» Leon diede un colpo di tosse, come a dirle di non esagerare, ma era troppo tardi. Nestor sollevò la testa calva e la fissò con occhi carichi di disprezzo. «E Leon mi ha parlato di te, ma a quanto pare si è dimenticato di dirmi che eri una ragazzina insolente e spocchiosa. Va via! Non posso aiutarti, col caratteraccio che ti ritrovi!» «Calmatevi, per favore!» intervenne Leon «La colpa è mia, ho organizzato l'incontro senza le dovute premesse. Eppure siamo qui, tutti e tre, e credo che con un poco di pazienza e rispetto reciproco avremmo soltanto da guadagnarci.» «Bah!» sbraitò Nestor «Dillo a lei! Io vi ho accolti con le migliori intenzioni, e cosa ho ottenuto in cambio fino ad ora? Soltanto offese!» Kyra fece per protestare, ma si rese conto che continuando su quella linea non avrebbe ricavato nulla di buono. Tenne per sé i suoi dubbi, e decise di dare una seconda possibilità a quell'uomo. «Se vi ho offeso, vi chiedo scusa» dichiarò, tra i denti «Ho passato dei gran brutti momenti, negli ultimi tempi, per cui non sono molto socievole.» Nestor la fissò in silenzio per un po', prima di rendersi conto che quello era il massimo di scuse che avrebbe ricevuto. Inoltre, a dispetto delle parole da lui stesso pronunciate, l'aspetto e il carattere di quella donna esercitavano uno strano fascino su di lui. Non gli era difficile intuire perché Leon ed Aren avessero in qualche modo legato a lei il proprio destino. «Scuse accettate» disse, considerando chiusa la questione «Leon mi ha raccontato di te e della tua sfortunata spedizione alla Fabbrica. Una vera tragedia. Non vedevo Aren da anni, e adesso non lo vedrò mai più. Una morte ingiusta, ma del resto era fatto così: impavido e altruista fino al midollo. Era destino.» Nel breve silenzio che seguì, Kyra si sentì a disagio: Aren era morto a causa sua, c'era poco da fare. Al posto di quei due, non sarebbe rimasta così impassibile.
«Posso soltanto immaginare cosa provi, visto che eri là quando è accaduto» continuò Nestor, notando il suo malessere «Ma non sentirti tanto in colpa. La missione era nobile, e mi pare che anche tu abbia pagato un alto prezzo, pur di portarla a compimento.» Posò lo sguardo sul moncherino di Kyra, scuotendo la testa. Lei lo ritrasse tra le pieghe del mantello, pur sapendo che era un gesto sciocco. Ancora non si era abituata a suscitare quel genere di curiosità nelle persone. «Kyra è una donna forte, tanto nel corpo quanto nello spirito» affermò Leon, rivolgendole un sorriso fiducioso «Il fatto che sia qui con noi oggi lo testimonia. Non è vero, Kyra?» Lei pensò un poco prima di rispondere, rivolta a Nestor: «Non posso perdonarmi tanto in fretta per quello che ho causato, a me stessa e ad Aren. A volte dubito che abbia avuto un senso, anche se alla fine siamo riusciti a fare quello che dovevamo. L'unica cosa che voglio, adesso, è vendicarmi del maledetto che lo ha ucciso e che mi ha ridotto in questo stato... Non so come, dove o quando. So soltanto che intendo farlo, e che voi potreste aiutarmi. E' vero?» Un sorriso mesto si dipinse sul volto di Nestor. «Mi fa piacere vederti così motivata, ma non sarà facile contrastare quel demonio di carne e metallo.» Sospirò. «Caleb... Credevo che l'inferno l'avesse inghiottito!» «Lo conoscete?» domandò Kyra, sbalordita. Non credeva che qualcuno, a parte Leon, avesse preso sul serio l'esistenza di quel mostro – non era che la parola sua e di un pugno di delinquenti, contro ogni buon senso. Tanto meno perciò si aspettava che qualcuno dichiarasse di conoscerlo! «Sono stato un ingenuo, in tutti questi anni» disse Nestor «Ma adesso mi è chiaro che quell'uomo - se di un essere umano si tratta - è la vera fonte di ogni nostro problema. Dei miei, dei tuoi, di Leon, della sua famiglia... e adesso della città intera!» «Non capisco...» disse Kyra. «Dobbiamo fare un passo indietro... Immagino che Leon ti abbia spiegato che un tempo, prima di trasformarmi nell'uomo che hai davanti - e che forse merita parte del tuo disprezzo - ero una persona di una certa importanza. Mi consideravano il braccio destro di Dinor, e godevo di buona reputazione tra i membri della Confraternita degli Illuminati.» «Buona reputazione?» intervenne Leon, con un sorrisetto «Kyra, credetemi quando vi dico che non è mai esistito un esperto di Arti Arcane tanto dotato quanto il qui presente Nestor! Si dice che persino il grande Zontar ne abbia invidia...» «Sciocchezze!» si difese Nestor, facendogli segno di tacere «È vero, me la cavo bene. Ed è anche vero che il vecchio barba d'argento è venuto a chiedere il mio parere su certe questioni, un paio di volte. Ma questo non significa che io sia meglio di lui. E smettila di interrompermi, Leon, per favore!» Leon tacque, ma il sorrisetto non si spense sulle sue labbra. «Come stavo dicendo, Kyra, in quell'epoca frequentavo le alte sfere, e non posso negare che fin dall'inizio Dinor sia stato il mio mentore.» Kyra fece una smorfia di disgusto al ricordo di quel vecchio dall'aria truce. «Il suo nome oggi non impone molto rispetto, me ne rendo conto» osservò Nestor «Eppure allora era un punto di riferimento, per me come per l'intera città. Ponderato nelle decisioni, rigoroso con se stesso e compassionevole con gli altri, umile, parsimonioso... Per lunghi anni fu il mio modello, il tipo d'uomo che io stesso volevo diventare. Finché un giorno apparve quel dannato Caleb, e le nostre vite cambiarono per sempre.» Kyra sbirciò Leon, che sembrava sbigottito quanto lei. Quella storia doveva essere una novità anche per lui. Nestor deglutì a secco. «Ricordo come se fosse ieri la sua comparsa dinanzi allo scrittoio di Dinor. Era piena estate, eppure era avvolto da capo a piedi in uno spesso mantello con cappuccio. Il suo volto era celato da una maschera, ma gli occhi no... Quegli occhi dal bagliore rossastro... Fin da subito percepii il male
che era in lui. Lo interrogai, volli sapere chi era, da dove veniva e perché nascondeva il volto dietro a una maschera. Mi rispose con disprezzo, senza quasi degnarmi di uno sguardo. Affermò di essere uno studioso di Arti Arcane proveniente da una terra lontana, al di là dell'oceano.» «E la maschera?» «Disse che era la conseguenza di un esperimento disastroso, in cui aveva quasi perso la vita, e che gli aveva deformato il viso e il corpo in modo irrecuperabile. Scettico, gli posi a caldo una serie di quesiti sulla natura delle Arti Arcane. Ero sicuro che fosse soltanto un ciarlatano, uno dei tanti che venivano a incomodare il governatore. Quale non fu la mia sorpresa quando rispose a tutto con facilità, dimostrando conoscenze fuori del comune!» «Dinor come la prese?» «Abboccò come un pesce all'amo! Le parole di Caleb erano dolci come miele... Dichiarò che la fama di Dinor lo precedeva fino ai confini delle terre conosciute, e che per questo motivo lui era accorso a Dekka. Intendeva condividere con Dinor le proprie conoscenze, ed avviare una fruttuosa collaborazione. Bah! Quanto più io sentivo crescere il sospetto, tanto più Caleb pareva accattivarsi la simpatia del mio signore.» «Scommetto che da allora le cose non andarono troppo bene...» «Puoi dirlo forte! In capo a qualche giorno, già mi sentivo di troppo tra i due. Di cosa discutessero tutto il tempo, e quali progetti avessero in mente, lo ignoro, giacché fui escluso dalla loro presenza. D'un tratto il mio mentore e amico non ebbe più tempo per me. Poi abbandonò la scena pubblica, e mi affidò la responsabilità di comparire in sua vece dinanzi al Consiglio Cittadino.» «Quanto durò?» «Durò mesi, pieni di incertezza e inquietudine. Ma devo dire che rimpiansi quel periodo, non appena Dinor tornò a mostrarsi in pubblico... Era cambiato, dal giorno alla notte. Dopo il tempo passato in combutta con Caleb, ogni traccia di umiltà e compassione era svanita dal cuore del mio vecchio maestro. Prese a esigere lealtà assoluta dal Consiglio, usando le armi della minaccia e del ricatto, mentre sfoderava nuove leggi sempre più oppressive. Triplicò la Guardia Cittadina, che trasformò in un'estensione del suo braccio.» «Questo è il Dinor che conosco...» commentò Kyra. «Tentai di ricondurlo alla ragione, ma fu tutto inutile: l'uomo che conoscevo da anni era scomparso, al suo posto c'era un nemico. Caleb non compariva mai al suo fianco in pubblico, eppure ero certo che dietro a quei cambiamenti ci fosse la sua ombra. Quante volte cercai di mettere Dinor all'erta? Inutile! Alle fine dovetti oppormi a lui apertamente. Creai una corrente politica opposta alla sua, con l'appoggio delle poche famiglie nobili ancora dotate di buon senso e coraggio. Gli Erbecker erano tra loro.» Per un momento Nestor smise di parlare, spostando gli occhi pieni di rimpianto sulla figura ingobbita di Leon. Questi fissava il vuoto con espressione indecifrabile: quel racconto lo stava riportando indietro, ai giorni più cupi della sua esistenza. «Fu un totale fallimento» proseguì Nestor, la voce ridotta a un sussurro «La nostra opposizione fu spazzata via con la violenza nel giro di una sola settimana, con il colpevole silenzio di chi si era schierato dalla parte vincitrice. Riuscii a stento a salvare la mia propria vita, oltre a quella di Leon ed Aren. Ma non ebbi modo di aiutare il resto della famiglia, né tante altre come la loro. Quella notte, il volto della città mutò per sempre. E oggi, Kyra, grazie alle tue scoperte, so che la situazione è anche peggiore di quanto immaginassi.» Nestor si alzò, instabile sulle gambe goffe, e andò a prendere una bottiglia di vetro azzurro da uno scaffale. La poggiò sul tavolino di fronte ai sofà, e vi dispose attorno tre minuscoli bicchieri. «Estratto di lemur» spiegò, versandosene una generosa dose, che mandò giù in un'unica sorsata «Non c'è rimedio migliore per risollevare lo spirito!» Kyra e Leon bevvero a loro volta, per non apparire scortesi, ma quasi sputarono fuori il contenuto dei loro bicchieri, tanto era forte la bevanda. «Non mi avevi mai detto di Caleb» osservò Leon, giocherellando col suo bicchiere «Perché?»
«Non farmene una colpa, figliolo. In tutti questi anni, nessuno ne aveva più parlato, e non si è mai fatto vedere in pubblico. Ero certo che fosse scomparso di punto in bianco, così com'era apparso. Che avesse seminato il male, e se ne fosse andato in un altro posto, a fare lo stesso. Che ingenuo! Ciò che Kyra ha visto mi ha riaperto gli occhi.» «La tua storia è davvero interessante» affermò lei, sforzandosi di ignorare la gola in fiamme «E non fa altro che rafforzare il mio desiderio di vedere Caleb morto. Ma ancora non mi è chiaro quale sia il vostro piano...» «Piano? Chi ha mai parlato di un piano, ragazza?» negò Nestor, svuotando un altro bicchiere «Tutto ciò che abbiamo è una folle idea del tuo amico. E dubito che possa andare a buon fine.» Kyra rivolse la sua attenzione a Leon, che non tardò a rispondere: «La mia idea non è affatto folle, né priva di speranze. Tuttavia, Kyra, dipende in gran parte dal vostro coraggio.» «Spiegatevi meglio.» «Volentieri. Benché il diretto interessato non faccia che negare, vi ho già detto come Nestor fosse - e sia tuttora - la mente più brillante che abbia mai conosciuto. So che in tutti questi anni di anonimato non ha mai abbandonato le Arti Arcane...» «...con quel poco che sono riuscito a sottrarre al laboratorio di Dinor...» confermò Nestor, strizzandole un occhio. «L'argomento mi ha sempre incuriosito» continuò Leon «Per cui conosco quasi tutte le scoperte fatte da Nestor negli ultimi anni. Quando vi ho vista sofferente, Kyra, in fin di vita... quando vi ho visto rifiutare la vostra incompletezza... ho pregato che accadesse un miracolo, che un Dio benevolo vi concedesse la grazia di recuperare il braccio perduto. E il vostro occhio. Che cancellasse le vostre cicatrici e vi restituisse al campo di battaglia.» Kyra si chiese da dove venissero le parole di Leon, e di tutti coloro che l'avevano preceduto: Aren, Ezer, Dorian – Abel? Tutti costoro parevano aver scorto in lei una fiamma luminosa, e avevano fatto di tutto per aiutarla a brillare. Perché? Cosa aveva fatto per meritarsi tanta incrollabile fiducia? Stava per chiederlo a Leon, quando questi la sorprese: «Fu allora che mi venne in mente uno degli esperimenti di Nestor.» «Uno dei più assurdi» affermò il padrone di casa, scuotendo il capo. «Uno dei più geniali ed ambiziosi!» gli fece eco Leon. «Insomma, volete dirmi di che si tratta? E cosa centra il mio coraggio?» Leon e Nestor si scambiarono un'occhiata. «Mostraglielo» disse il più giovane. Nestor alzò le mani in segno di resa. Poi, con un fischio, chiamò a sé il cagnetto Fulmine, i cui occhi attenti avevano seguito l'intera conversazione dall'interno della cuccia. «Su, Fulmine, vieni, da bravo!» La bestiola non se lo fece ripetere due volte: balzò fuori dalla cuccia e corse allegramente dal suo padrone, saltandogli in grembo. Subito Kyra non intese come quel cane avrebbe potuto interessarla, ma quando lo vide esposto in piena luce, notò qualcosa di strano: una delle sue zampe posteriori era priva di pelo, e aveva un colore differente dal resto del corpo. Alcune parti erano lucide e scintillanti, come se... «Metallo!» esclamò Kyra, realizzando ciò che aveva di fronte agli occhi «Il vostro cane ha una zampa fatta di metallo! Com'è possibile? Siete stato voi a costruirgliela?» «Beh, modestamente...» «È incredibile, sembra vera! Non nell'aspetto, è chiaro, ma da come si muove...!» «Il tuo entusiasmo mi lusinga, ragazza, ma non esageriamo. Scommetto che il povero Fulmine continua a rimpiangere la sua vecchia zampa in carne ed ossa. Non è vero, Fulmine?» Arruffò il pelo sulla testa della creaturina, che gli mordicchiò le dita. «Sarà anche come dite» replicò Kyra «Ma continua ad essere qualcosa di eccezionale! Immaginate se...» All'improvviso, si rese conto di dove Leon volesse arrivare. Fissò entrambi a bocca aperta.
«Volete scherzare? Leon, credete davvero che io possa... Che Nestor possa...?» «Impossibile non è di certo» affermò Leon «Potete vederlo coi vostri occhi: questa bestiola aveva perso una gamba, e adesso cammina e corre come se niente fosse. Certo, un essere umano è diverso da un cane, ma...» «Nestor, può essere fatto?» domandò Kyra, augurandosi che la sua voce non suonasse implorante «Ditemelo, vi prego!» «Se può essere fatto? Vuoi una risposta sincera? Non lo so. Per questo ci serve il tuo coraggio.» «Ma il cane...» «Un cane è un cane, e le sue zampe non hanno certo la complessità di un braccio umano, con mano, dita e tutto quanto! Tuttavia...» «Tuttavia?» «Penso di poterci riuscire. È parecchio tempo che desidero realizzare questo esperimento. Non per niente ho preso in prestito tutto quel materiale dal laboratorio del mio vecchio amico Dinor! Mi mancava soltanto un soggetto adatto, se capisci cosa voglio dire.» Kyra rimase in silenzio, riflettendo. «Una cavia, dunque» commentò poi «L'idea di recuperare il braccio mi esalta, non lo nego, ma... in che modo aumenterà le mie possibilità contro Caleb?» «In realtà non pensavo soltanto al braccio» affermò Nestor «Credo di poter fare qualcosa anche per il tuo occhio...» «Dite sul serio?» «E non stiamo parlando di protesi qualsiasi, Kyra, come una gamba di legno o un occhio di vetro» intervenne Leon «Non solo Nestor può ridarvi l'arto perduto, e la parte di vista che vi manca: c'è di più, molto di più! Armi inusitate, con cui potreste affrontare qualsiasi nemico!» Kyra soppesò quest'ultima affermazione, sbalordita. Cercò conferma nello sguardo di Nestor. «È vero, ragazza. Ma è anche vero che il rischio dell'operazione è alto, non te lo nascondo. Sarebbe la prima volta che si tenta un esperimento di Arti Arcane di tale complessità - escludendo Caleb, è chiaro: non credo che sia così dalla nascita, non credo proprio...» «Quindi potrei lottare con lui ad armi pari?» «Non proprio ad armi pari, ragazza. Quello è un mostro. Ma direi che avresti molte più chance di prima, questo sì. Soprattutto con gli assi nella manica che intendo darti.» Kyra chiuse gli occhi per alcuni istanti, massaggiandosi le tempie. Quando li riaprì, brillavano di una luce rabbiosa. Vendetta, finalmente alla sua portata! Per Aren, e per se stessa! «Accetto» disse. Leon e Nestor si scambiarono uno sguardo. «Ne sei certa?» domandò ancora il primo, per togliersi ogni scrupolo. «Ve l'ho detto: accetto. Resta soltanto da chiarire una cosa. Perché state facendo tutto questo per me? Voglio la verità, senza giri di parole.» «Né avremmo cercato di nascondervela, Kyra» osservò Leon «Non fraintendetemi, siamo entrambi più che felici di potervi aiutare, anche senza secondi fini, così come voi avete aiutato quel ragazzo, Ethan. Ma in realtà il vostro... potenziamento, se così vogliamo chiamarlo, fa parte di un piano ben più ampio, che ha preso forma nella mia mente sin dal giorno in cui Kwan e Lisca vi hanno portata a casa mia in quello stato. Un piano che già vi ho citato, e che ci permetterà di liberarci una volta per tutte di Dinor e del suo ripugnante compare: una rivolta!» Incatenò gli occhi di lei ai suoi, parlando con enfasi: «Vogliamo Dekka senza Fabbrica e senza Automi, senza il maledetto olio nero che appesta il mare, senza una Guardia Cittadina corrotta e oppressiva! E ancora, vogliamo Dekka e la sua gente schierati con Feledan, come dovrebbe essere, e non contro di lui! Avrà bisogno di noi, per vincere la guerra.» Parlava di nuovo al plurale, notò Kyra, come la volta che l'aveva visitata nella sua stanza. «Vogliamo? Di chi state parlando? Voi due?» Leon le rivolse un mezzo sorriso.
«Dissi che vi dovevo delle spiegazioni. Eccovi la prima: quando ci siamo conosciuti, vi ho detto che non sopportavo più di starmene da parte come un codardo, vero? Beh, non sono stato del tutto sincero. In realtà, mi ero già mosso da tempo. Faccio parte di una piccola società segreta, anzi, si può dire che l'abbia messa in piedi io. Contro il parere di Nestor, a dire il vero.» «A che è servito fino ad ora?» domandò quest'ultimo. «Società segreta?» ripeté Kyra. «Sì, un gruppo di persone fidate, che condividono la mia visione delle cose. Il nostro nome è Liberazione, come lo scopo che ci prefiggiamo. Ci riuniamo in segreto, e agiamo in segreto, per mettere i bastoni tra le ruote a Dinor. Finora non abbiamo fatto altro che punzecchiarlo, ma adesso, grazie alla vostra scoperta, abbiamo in mano qualcosa di grosso. Una vera bomba, con la quale possiamo far saltare in aria l'intero governo! Possiamo finalmente realizzare quello che abbiamo sempre voluto!» «Volete parecchie cose, Leon» commentò Kyra, scettica «Ma l'unica cosa che io voglio è una rivincita contro Caleb, lo sapete.» «Avrete la vostra vendetta, ed io con voi. E riavrò indietro la città che amavo, e che oggi non riconosco più.» «Sei sempre stato un inguaribile ottimista, Leon» disse Nestor, che durante la conversazione aveva svuotato quasi l'intera bottiglia di lemur. «E tu un bevitore incallito e senza speranza» rispose l'altro «Ma questo non mi impedisce di credere in te e nelle tue capacità. Sei con me?» «Per quello che vale...» brindò Nestor, alzando il bicchiere. «E voi, Kyra, siete con me?» «Che alternative mi restano? Sono un'invalida, prigioniera di una città che mi detesta, alla vigilia di una guerra! Mi basta sapere che Caleb la pagherà cara, per mia mano. Il resto non mi importa. Sono con voi Leon... ma ad una sola condizione.» «Quale?» chiese lui, inarcando un sopracciglio. Lei sorrise in risposta. «Che Nestor smetta di bere a partire da adesso, e non tocchi più una goccia d'alcool, o peggio, fino al giorno dell'operazione.» «Maledizione!» gemette Nestor «Sapevo che era meglio tenermi fuori da questa faccenda!» Fulmine, accoccolato sul suo ampio ventre, cercò di consolarlo con una bella leccata sul naso.
XXI - L'Operazione
Lisca venne a prenderla al calare del buio, dopo una logorante giornata di attesa e cattivi pensieri. «Sei pronta?» le chiese, facendo capolino dalla soglia della stanza. Era una domanda ovvia, che non aveva bisogno di risposta. Kyra lasciò l'angolo del letto su cui era rimasta seduta nell'ultima mezz'ora. «Possiamo andare» disse. Lisca storse le labbra. «Non sei obbligata a farlo, capo...» Kyra guardò con affetto quel volto affilato, che era diventato per lei sinonimo di lealtà e amicizia. Si era immaginata che Lisca avrebbe cercato di trattenerla, ma era tardi: l'ora dell'operazione era giunta, non c'era più tempo per i ripensamenti. «Ho preso la mia decisione, Lisca, e tu lo sai. Farei qualsiasi cosa per ottenere ciò che voglio.» «Ma sei davvero sicura di ciò che vuoi?» «Non sono mai stata tanto sicura in tutta la mia vita, credimi.» Lui sbuffò. «Non c'è modo di farti cambiare idea, vero?» «No, non c'è. Per cui sbrighiamoci, il tempo corre.» «E sia... Andiamo.» La precedette lungo la ripida rampa di scale, scuotendo la testa a ripetizione mentre scendeva i gradini. Trovarono tre persone ad attenderli ai piedi della scala, tutte con facce da funerale. «Il mio funerale» pensò Kyra, cui la prospettiva di finire sotto i ferri di Nestor suonava sempre meno allettante. Ethan fu il primo a venirle incontro, e a stringerle la mano tra le sue con calore. Nei giorni precedenti avevano avuto modo di conoscersi meglio: il ragazzo si era recuperato in fretta dallo shock della prigionia, e passava ore a farle compagnia per mostrarle la sua gratitudine. Era un giovane aperto e gioviale, sempre pronto al sorriso e alle battute di spirito, al contrario del suo burbero genitore. Kyra l'aveva subito preso in simpatia, e a giudicare dal pallore del volto di lui in quel momento così difficile, l'affetto doveva essere reciproco. Gli arruffò i capelli, come avrebbe fatto con un ragazzino di dieci anni più giovane. «Non ti preoccupare» disse «Andrà tutto bene. E quando la faccenda sarà sistemata, tornerò con te a Mirna. Immagina lo stupore sulla faccia di tuo padre!» «Non vedo l'ora!» rispose Ethan, con voce rotta «Me l'hai promesso, ricordalo... Senza di te non torno!» Il giovane si fece da parte a malincuore, lasciando che Kwan stritolasse Kyra in un abbraccio poderoso, che diceva più di mille parole. Guardandolo in quegli occhi grandi e lucidi da bambino, Kyra stentò a riconoscere il violento energumeno che meno di un mese prima l'aveva affrontata in uno scontro all'ultimo sangue. «Che mi venga un colpo!» sorrise Lisca «Ti sei rammollito, bestione!» Quando Kwan mollò la presa su di lei, la semi soffocata Kyra lo ripagò con uno schioccante bacio su una guancia, che lo mandò in visibilio. Sentì rinascere dentro di sé un poco di buon umore, ma una sola occhiata all'ultima persona venuta a salutarla bastò a farle perdere ogni voglia di sorridere. Al contrario degli altri due, Selita non le venne incontro. Rimase ferma sull'uscio della casa, la schiena appoggiata contro uno stipite della porta. Una lucida cascata di capelli corvini le copriva metà del volto, mortalmente pallido. Non si era ancora ripresa dalla perdita di Aren. Forse non si sarebbe mai ripresa, pensò Kyra. Quell'uomo si era fatto strada nel suo cuore con una forza
dirompente, ma con altrettanta forza ne era stato strappato via, lacerandolo. Una ferita del genere non poteva rimarginarsi tanto presto. Kyra si avvicinò e le strinse un braccio, cercando di trasmetterle un po' di forza. Con sua sorpresa, Selita la restituì la stretta, mostrandole per la prima volta un segnale d'affetto. «Buona fortuna» le disse, evitando di guardarla negli occhi «Spero di rivederti sana e salva.» «Puoi contarci» rispose Kyra, aumentando la stretta «Abbiamo ancora parecchie cose da fare insieme.» «Una in particolare...» confermò Selita, scoprendo i denti. «Già, una in particolare» ribadì Kyra. Il regolamento dei conti era vicino. Se fosse sopravvissuta a quella notte. Si congedò da Selita senza bisogno di altre parole. Uscì, ed inspirò a pieni polmoni l'aria frizzante della sera, muovendo lo sguardo lungo la via deserta. Lisca rimase al suo fianco in silenziosa attesa. «Precedimi» gli disse, benché il suo cuore volesse altrimenti. «Come vuoi, capo» rispose lui, sospirando. Indicò una viuzza laterale immersa nell'oscurità. «Per di qua. Non vorremmo imbatterci in una ronda notturna.» «No di certo...» In una manciata di secondi si fusero tra le ombre, diretti al Porto Vecchio.
----«Benvenuta» disse Leon, aprendo la porta «Cominciavamo a temere che aveste cambiato idea.» «Abbiamo dovuto allungare un po' il cammino» spiegò Kyra «Il disegno della mia faccia è ancora appeso su tutti i muri della città. Sono famosa!» «Vero. Dinor deve rodersi le mani al sapervi ancora libera! Ma adesso entrate, per favore.» Attraversarono la soglia della casupola scelta da Nestor come teatro dell'operazione. Era piccola e fatiscente, ma pur sempre più adatta allo scopo della barca dove abitava: là, un rollio dello scafo nel momento meno opportuno poteva costare la vita alla paziente. «Entrate una buona volta, e chiudete quella porta!» sbraitò Nestor da dentro «O volete che tutto il maledetto quartiere sappia cosa stiamo facendo?» In effetti l'interno della casa saltava all'occhio, dopo che Nestor aveva tramutato il soggiorno in sala di chirurgia. Pavimento, pareti e soffitto erano stati coperti con ampli teli candidi, che davano all'ambiente un aspetto asettico. Al centro della sala vi era un tavolaccio, anch'esso avvolto nel tessuto bianco. Direttamente sopra di esso erano appese due lampade come quelle che Kyra e compagni avevano visto nella Fabbrica: proiettavano un alone di luce chiara e fredda, senza tremolii. Nestor si trovava nel bel mezzo del cerchio di luce, vestito in modo a dir poco singolare: indossava un camice bianco e pantaloni dello stesso colore, guanti candidi, e un fazzoletto legato alla testa. Kyra non si turbò a quella vista, anzi fu felice di notare che il volto rotondo di Nestor aveva un'apparenza ben più sana dell'ultima volta che si erano incontrati: il colorito rubizzo da bevitore incallito era scomparso dalle sue guance, e le profonde occhiaie erano state riassorbite. «Si, ragazza, puoi stare tranquilla» affermò Nestor con un sorriso, notando il suo sguardo «Ho fatto come mi hai chiesto, anche se non è stato facile.» Poi aggiunse, questa volta con gravità: «Anche se sono sobrio come non lo ero da anni, non posso garantirti il successo dell'operazione. Mi sento ottimista, però... se vuoi tirarti indietro, sei ancora a tempo. Nessuno te ne farà una colpa, vero Leon?» Questi concordò con vigore. «Ho già preso la mia decisione» replicò Kyra, cercando di mascherare l'inquietudine «E sapete come sia difficile farmi cambiare idea. Sono pronta, possiamo cominciare quando volete.» «Che sia, dunque! Per prima cosa, ho bisogno che ti spogli e indossi questa vestaglia» disse Nestor, porgendole l'indumento «Puoi usare una delle altre stanze, fa' pure con comodo.» Kyra seguì docilmente le istruzioni, con il cuore in gola. Si spogliò e indossò la vestaglia leggera
sulla nuda pelle. Il contatto dei piedi scalzi sul pavimento gelido la fece rabbrividire. «Sentirò freddo, quando mi taglierà?» pensò. Cercò di scacciare l'idea, e si strinse addosso la vestaglia. Quando tornò nella sala, Leon stava aiutando Nestor negli ultimi preparativi. Lisca, un poco defilato, sollevò il telo che copriva un tavolino accostato alla parete. C'era sotto qualcosa di sgradevole, a giudicare dalla sua espressione. «Ehi! Non toccare niente, sciocco!» lo redarguì Nestor cacciando un grido. Lisca alzò le braccia all'istante. Purtroppo per lei, mentre il telo ricadeva al suo posto, Kyra riuscì a scorgere il luccichio metallico degli oggetti disposti in file ordinate sul tavolino. Lame, trapani, martelli. Un campionario di attrezzi che avrebbe fatto impallidire un maestro di torture. «Su, cominciamo!» esclamò Nestor, per non darle il tempo di pensare «Vieni, ragazza, sdraiati sul tavolo. E voi due, sparite! Vi chiamerò quando e se ne avrò bisogno.» Con la coda dell'occhio, Kyra vide Leon e Lisca uscire rispettosamente dalla sala, ma non prima di averle lanciato un paio di occhiate apprensive. Avanzò fino al tavolo dell'operazione, lottando per controllare il tremito nelle gambe. Si sdraiò. La superficie sotto la sua schiena era liscia e fredda. La luce delle lampade la accecò. Nestor si chinò su di lei come un'ombra e le sorrise. Nella mano destra stringeva un lungo ago, collegato a un tubicino di vetro pieno di liquido trasparente. «Sentirò dolore?» chiese Kyra, cominciando a sudare copiosamente. «Soltanto una puntura, poi più niente, te lo prometto.» Un attimo prima che Nestor la pungesse, gli rivolse uno sguardo implorante. «Non temere» disse lui «Sei in buone mani. Tornerai tra noi in men che non si dica, e più forte di prima!» «Lo spero, lo spero proprio...» Avvertì una fastidiosa puntura nel momento in cui l'ago le forò la pelle del braccio. Chiuse gli occhi, e lasciò che la droga facesse il suo effetto. Nestor le aveva iniettato un estratto d'erbe abbastanza poderoso da stordire un cavallo, e sapeva che non si sarebbe risvegliata prima di un paio di giorni. Ma fu più rapido di quanto avesse immaginato. Nel giro di un minuto la sua mente fu invasa da una quiete innaturale, e si sentì leggera. Senza che potesse opporvisi, i suoi pensieri presero a vagare nel mare del tempo, mescolando fatti del presente e del passato. Con gli occhi della mente si rivide in sella al suo cavallo, tra le file della Compagnia del Viandante, trottando a fianco di Dorian e Raduan. La sagoma candida di Abel cavalcava di fronte a loro. Quindi si ritrovò su una barca in mezzo al mare, al tramonto, in compagnia di Ezer. Nelle orecchie, il canto nostalgico dei gabbiani. E poi, all'improvviso, stava sottoterra, in una fetida prigione, con dita enormi e pesanti come piombo strette attorno al collo. Si sentì morire, finché Aren apparve al suo fianco e la liberò con un tocco. Cadde, ma invece di sbattere sul fondo continuò a sprofondare nell'oscurità, affondando in acque tenebrose. La luce si affievolì, sempre di più. Divenne minuscola come un granello dorato, e poi si spense. Perse conoscenza.
----Il persistente ronzio di una zanzara la riportò a galla, e non fu una sensazione piacevole: sentiva nausea, le girava la testa, ed era fradicia di sudore da capo a piedi. Riconobbe a tastoni lo stesso letto in cui aveva passato le ultime settimane, nella soffitta della casa di Leon. Doveva essere notte fonda. Un sottile fascio di luce lunare, sgusciato tra le imposte, ritagliava i familiari contorni dei mobili della stanza. Le ci vollero alcuni istanti per riallacciare i fili della memoria, e convincersi di trovarsi davvero lì, ancora in vita. Il vecchio Nestor aveva mantenuto la parola. Si issò a fatica sul letto, appoggiandosi contro l'alto schienale, e lasciò che la vista si adeguasse all'oscurità. Non osava guardare il braccio amputato, ma già sentiva una differenza nel pulsare sordo
delle vene, e nella pesantezza dell'arto. Tastò la superficie avvolta nelle bende, usando le dita dell'altra mano, e avvertì la presenza di una protuberanza solida dove una volta c'era stato il suo avambraccio. Cercò di sollevarlo, sempre aiutandosi con l'altra mano, ma il peso era grande, se comparato alle sue attuali forze. La massa inerte del braccio ricadde sul letto, e quasi le strappò un grido di dolore. Toccò con le dita il tessuto ruvido della benda che le avvolgeva il capo, coprendole l'orbita dell'occhio sinistro. Anche là sotto, pensò, qualcosa era cambiato. Voleva vederci più chiaro - in tutti i sensi. Era buio, ma non ce la faceva ad attendere il mattino. Girò su se stessa e spinse le gambe fuori dal letto, poggiando i piedi nudi sul pavimento. Spostò il peso sulle gambe malferme e si alzò, senza fretta. Costrinse i piedi a collaborare, a stento, e appoggiandosi alla parete si spinse fino alle imposte della finestra. Le spalancò. La luce lunare invase la stanza, trasformando il buio in una penombra argentea. Spalle alla finestra, studiò meglio la fasciatura del braccio. Non era macchiata di sangue: i tagli si erano già cicatrizzati? Per quanto tempo aveva dormito? La fasciatura era spessa e uniforme, e lasciava intuire soltanto a grandi linee la forma che vi era avvolta. Kyra si sentì rodere dalla curiosità, e al tempo stesso in cui si ripeteva che era una grande imprudenza, già si stava dando da fare con la mano libera e i denti per squarciare l'involucro di bende. «Solo un pezzetto» si disse «Giusto per dare un'occhiata...» Tirò e strappò, finché le bende cominciarono ad allentarsi. Una alla volta, con suo comprensibile stupore, vennero alla luce delle corte protuberanze dai riflessi metallici, che sembravano in tutto e per tutto... «Dita!» esclamò, e in quel preciso istante esse si mossero obbedendo a un impulso involontario: si chiusero a pugno e si riaprirono, le giunture piegandosi con una naturalezza impressionante. Studiandole da vicino, Kyra si sorprese di come fossero simili a vere dita in carne ed ossa. Lucenti e prive di imperfezioni, parevano infilate in un guanto aderente di metallo brunito, sottile come seta. Superato lo stupore, si rese conto di poter controllare quelle dita artificiali come se fossero vere, a dispetto di qualche difficoltà. Con un po' di sforzo riuscì anche a piegare il polso imprigionato dalle bende. Vide una bottiglia appoggiata sul tavolo, e impulsivamente decise di usarla per testare i movimenti della mano. Le ci vollero cinque minuti buoni per compiere il semplice atto di stringerla tra le dita, e in più di un momento quasi le sfuggì. Quando credette di avercela fatta, alzò la bottiglia come un trofeo sopra la testa, e perse il controllo della protesi: le dita si strinsero sull'oggetto come una morsa d'acciaio, frantumandolo in mille schegge che ricaddero sulla sua testa. Era vetro spesso, ma ridurlo in pezzi non le era costato il minimo sforzo. Sorrise tra sé, mentre si spazzava via dai capelli i cocci taglienti. Sentendosi un po' sciocca, cominciò a ripulire il disastro che aveva combinato. Il frammento più grande, raccolto da terra, rifletté l'immagine del suo volto bendato come in uno specchio. Senza pensare, cedette di nuovo all'impulso della curiosità. Resse il coccio tra le dita artificiali, mentre con l'altra mano svolgeva cautamente le bende dal capo, uno strato alla volta. Da tempo non provava un'emozione così forte: l'idea di poter recuperare l'occhio perduto era tanto straordinaria da rasentare l'impossibile! Quante volte, dal maledetto giorno dell'incidente, aveva sognato un momento come quello? Avrebbe recuperato la vista? Come sarebbe stato il nuovo occhio? E se fosse stato simile ad uno vero, come la mano artificiale era simile ad una in carne ed ossa? Avrebbe fatto i salti di gioia! «Meglio non illudersi troppo» pensò, svolgendo l'ultima spira di fasce. Trattenne il respiro, e mantenne entrambe le palpebre serrate. Non osava guardare la propria immagine riflessa. Aveva atteso tanto quel momento, che ormai ne aveva paura. «Non essere sciocca» si disse «Non può essere peggio di prima, in ogni caso!» Sollevò la palpebra dell'occhio destro, quello buono. Vide che attorno alla palpebra chiusa dell'altro la carne era tumefatta e aveva un orribile colore olivastro, ma ciò non la sorprese. Era il minimo che si potesse aspettare, dopo un intervento di quel
tipo. Decise di contare fino a dieci, prima di aprirlo. Quando arrivò a cinque, sentì lo scricchiolio dei gradini fuori dalla porta. Il trambusto di prima doveva aver svegliato qualcuno! Smise di contare e aprì l'occhio di botto, prima che la privassero di quell'opportunità. Si trovò a fissare un cerchio perfetto di metallo dorato, dello stesso diametro del bulbo oculare che era venuto a sostituire. Dal centro della corona emanava una violenta luce cremisi, solcata da riflessi arancioni che imitavano la furia delle fiamme. O forse i riflessi erano parte integrante della sua nuova vista, che tingeva la stanza di un alone rossastro. Ecco il suo nuovo occhio, in tutto e per tutto uguale a quelli del suo peggior nemico. Un urlo di rabbia le scaturì dalla gola, e il coccio che stringeva tra le dita si sbriciolò in una miriade di schegge. Arretrò, ma le mancarono le forze ed inciampò nei suoi stessi piedi. Un attimo prima che si schiantasse al suolo, la massa di un uomo corpulento le fece da scudo, arrestando la caduta. «Sciocca!» la rimproverò la voce grossa di Nestor «Chi ti ha dato il permesso di togliere le bende? Rischi un'infezione!» Kyra gli inveì contro, sconvolta: «Perché non me l'avete detto prima, dannazione? Adesso sembro una di quelle maledette macchine! Sembro... lui!» «Non credo proprio! E se non ti piace, mettici sopra una benda, che è pure di moda! Puoi comprarne una giù al porto, da quegli stupidi pirati! Ma che bella riconoscenza...» Kyra rispose con una sfilza di improperi, ma a poco a poco si rese conto che Nestor diceva il vero. Doveva controllare le sue emozioni. L'aspetto dell'occhio non contava nulla. Non la rendeva simile agli Automi che tanto odiava. Anzi, le avrebbe dato la possibilità di combatterli con le loro stesse armi - se quanto le avevano detto prima dell'operazione corrispondeva a verità. Borbottò una serie di scuse, mentre Nestor l'appoggiava delicatamente sul letto. «Avrei voluto essere io a dirtelo, ma dovevi proprio scoprirlo da sola... Comunque, modestia a parte, questa volta posso davvero affermare di essere un genio: l'intervento è riuscito alla perfezione, al di là delle mie più rosee aspettative!» «Complimenti...» rispose Kyra, la voce carica di sarcasmo «Avete creato la prima donna-Automa del Regno! Immagino che tutti troveranno irresistibile il mio occhio diabolico!» «Molto simpatica! La cicatrice come vedi te l'ho lasciata, così sembri più umana.» Si fissarono in cagnesco per un po', finché la tensione si disfece come neve al sole. Le labbra di Kyra si piegarono in un sorriso. «E' vero quanto mi avete detto qualche giorno fa? Il mio nuovo braccio ha delle capacità speciali - a parte fare a pezzi le cose quando non voglio?» «Certo che sì, e l'occhio non è da meno. Tanto stupefacenti come i manàlorin di cui sono fatti!» «Che cosa?» «E' una lunga storia, te la racconterò quando avremo più tempo. Non resterai affatto delusa, te lo garantisco!» «E quando potrò fare una prova sul campo?» «Quando lo dirò io. E sta sicura che quel momento non arriverà mai, se continui ad alzarti dal letto e a fare di testa tua. Adesso sdraiati e sta buona, fino a nuovo ordine!» «Uff! Ci risiamo... Va bene, va bene! Qualsiasi cosa pur di lasciare una volta per tutte questo dannato letto! Mi sembra di aver passato più giorni della mia vita qui che in qualsiasi altro posto!» «Riposo assoluto!» le intimò Nestor, avviandosi alla porta. «Nestor...» chiamò ancora Kyra, a bassa voce. «Che c'è?» «Grazie!» Nestor non rispose, ma mentre usciva dalla stanza le sue guance assunsero lo stesso colore di quando aveva lo stomaco pieno di buon vino.
XXII - Un Oscuro Potere
«Ahh, finalmente!» esclamò Raduan, assaporando la carezza del vento. «Il momento migliore della giornata...» concordò Dorian. Chiuse gli occhi e alzò il viso al sole. Non che la Torre Grigia fosse sprovvista d'incanti, anzi: ma per quanto la biblioteca di Zontar fosse affascinante, non poteva competere col richiamo della natura e degli spazi aperti. Ogni volta che mettevano piede fuori dalla Torre, i due si sentivano rinascere. «Ecco che succede a passare la vita come vagabondi» rifletté Dorian, non per la prima volta. Da quanti giorni ormai si trovavano là? Quanto tempo ancora, prima che il Saggio sbrigasse le sue faccende e si decidesse ad accompagnarli nel viaggio di ritorno a Bezer? Pareva incredibile la mole di impegni che Zontar doveva sobbarcarsi: preso tra la conclusione di importanti studi e le questioni politiche del principato - per non dimenticare le interminabili visite dei colleghi studiosi aveva potuto dedicar loro pochissimo tempo negli ultimi giorni. Più di una volta i due guerrieri della Compagnia avevano cercato di attirare la sua attenzione e convincerlo a partire, ma la risposta era sempre stata la stessa: «Pazientate, amici. Riposatevi. Godete liberamente della mia ospitalità: in breve sarò pronto a venire con voi.» Per risvegliare la curiosità del Saggio - e accelerare i tempi - Dorian aveva accarezzato l'idea di mostrargli il guanto donatogli da Abel, che aveva poteri simili a quelli dello stendardo, sebbene in scala minore. Lo stesso guanto che aveva dovuto usare a Bezer, in quella tragica notte, per salvare l'anima di Iarmin. Zontar avrebbe messo da parte ogni incombenza pur di metterci le mani sopra, non c'era dubbio. Ma alla fine Dorian aveva preferito non muoversi in quella direzione, che poteva rivelarsi rischiosa. Se in passato Abel non aveva mai condiviso i suoi segreti con il Saggio, una ragione doveva pur esserci. Quindi lui avrebbe seguito lo stesso esempio. Raduan sbadigliò al suo fianco. «Chissà come se la passano i nostri, laggiù...» commentò. «Di sicuro non si annoiano come noi» rispose Dorian. «Certo che no! Seras li avrà messi a pulire le stalle, per pagarsi vitto e alloggio.» «Almeno non staranno fermi ad ingrassare.» «Ah, è così che ti preoccupi dei tuoi uomini, comandante?» «La forma fisica prima di tutto, soldato!» Risero. Ma in fondo Dorian non era così tranquillo. In circostanze normali, si sarebbe rifiutato di passare tanto tempo lontano dalla Compagnia. Era come lasciare il gregge senza pastore, avrebbe detto Abel, usando la sua metafora preferita. Anche se a dire il vero quelle pecorelle avrebbero potuto sbranare un intero branco di lupi. No, non c'era davvero di che preoccuparsi. Anche perché la posta in gioco era troppo alta: dalla loro buona relazione con Zontar dipendeva l'esito della ricerca di Abel. Oltretutto, il viaggio di ritorno a Bezer avrebbe richiesto almeno due settimane. Che senso aveva partire da soli per poi ritornare con lo stendardo? Meglio armarsi di pazienza e aspettare. In ogni caso Dorcas doveva già essere tornato da un pezzo, per avvisare gli altri. Li avrebbero attesi. Quel giorno - come tutti gli altri prima di quello - si erano stufati di vagare senza uno scopo nei bui corridoi della Torre. Era primo pomeriggio, e la luce del sole intiepidiva l'aria con il suo tocco. La bella stagione era arrivata, il verde vivo delle piante e i colori sgargianti dei fiori ne erano testimoni. Dorian riempì d'aria i polmoni, apprezzando i caldi raggi del sole sulla pelle. Si chinò ad accarezzare il manto d'erba vellutata, e affondò le dita nella terra. Terra scura, umida. Adorava stare all'aria aperta, e non gli importava che fosse campagna o foresta, pianura o montagna. Gli bastava non aver pareti attorno a sé, tuttalpiù il telo sottile di una tenda. Quanto più
passavano gli anni, tanto più amava questo aspetto della sua vita: gli accampamenti, le cacce, i falò notturni, il contatto con la terra. Neanche la quiete domestica di tanti anni prima, che pur ricordava con nostalgia, reggeva il confronto. «Stai rivolgendo le tue preghiere a Edessa?» domandò Raduan, con un sorriso sornione. «No di certo» rispose Dorian, rialzandosi e scuotendo via la terra dalle mani «Sai come la penso sugli Dei...» «Lo so, amico mio, e non lo capirò mai. Un uomo giusto e ponderato come te, che si rifiuta di dimostrare il dovuto rispetto per gli Dei: è molta presunzione!» «Sono io piuttosto a stupirmi» ribatté Dorian, restituendogli il sorriso «Come può una persona concreta e razionale come te credere in certe fandonie?» «Fandonie, dici... Tipo artefatti magici e simili?» «So dove vuoi arrivare, ma non mi lascio raggirare dai tuoi trucchi. Come lo stesso Zontar ci ha spiegato, non c'è nulla di divino o di soprannaturale nelle Arti Arcane. È una scienza, soltanto un po' più complessa delle altre.» «Ah, è così dunque? Ma spiegami, chi mai avrebbe potuto creare quei microscopici prodigi, i manàlorin? E chi mai avrebbe potuto disegnare quelle Mappe, tanto elaborate che neppure le migliori menti del Regno sono ancora riuscite a venirne a capo?» Fece una pausa, ma Dorian non sembrava aver voglia di replicare. «Gli Dei, naturalmente! Forse Barak, che comanda gli elementi. O il mio signore Abidan, maestro della Legge e dell'Ordine. Dubito sia opera di Edessa: non credo che la Dea della Natura veda di buon occhio strumenti così... innaturali!» «Ammesso che tu abbia ragione» affermò Dorian «sarei pronto a giurare che quei manàlorin sono frutto delle arti di Arla: solo la Dea della Guerra in persona avrebbe potuto concepire qualcosa di tanto letale.» Raduan si soffermò a riflettere: anche lui aveva provato una sensazione vicina alla ripulsa, in presenza degli artefatti magici. Come Dorian, non condivideva l'entusiasmo dimostrato da Zontar per le Arti Arcane. Era una disciplina pericolosa. Poteva esercitare una seduzione maligna sull'animo delle persone. Tant'è vero che lo stesso Saggio aveva accettato di aiutarli solo in cambio dello stendardo. Che razza di richiesta era quella? Di certo non se la sarebbero aspettata dal Saggio... «Credi dunque che la Dea Arla abbia posto lo stendardo tra le mani di Abel?» chiese, già sapendo la risposta che avrebbe ricevuto. «No» rispose Dorian, scuotendo la testa «Abel è differente da tutti noi, ma a suo modo è anche fin troppo umano. Non certo un messaggero degli Dei, a mio vedere.» «Anche perché non credi negli Dei, giusto?» «Ci risiamo...» «E che ne pensi della fissazione di Zontar per il nostro stendardo?» «La cosa non mi piace, lo sai. Ma non abbiamo scelta. Senza altre piste da seguire, dobbiamo accettare le sue condizioni.» «Credi davvero che ne ricaveremo qualcosa?» «Lo spero. Altrimenti, chi altri potrebbe aiutarci?» «Io un'idea ce l'avrei...» osservò Raduan, indicando di fronte a sé. Sulle prime Dorian rimase di sasso. Poi seguì con lo sguardo la direzione indicata dal compagno, e scosse la testa. Poco distante da loro, ai limiti della radura che circondava la Torre, sorgeva una bassa costruzione in pietra bianca, stagliata sul fondo dell'intrico di vegetazione. L'aspetto squadrato e levigato del piccolo edificio contrastava con la natura circostante, come se l'intento dell'architetto fosse stato proprio quello di marcare un chiaro confine tra l'uno e l'altra. Era un tempio del Dio Abidan. Dorian ne aveva visti a centinaia nel corso della sua vita, sparsi in ogni angolo del Regno, grandi o piccoli, ma tutti identici nel loro rigore privo di fronzoli. Abidan rappresentava l'essenza della Legge e dell'Ordine, e come tale in sua presenza non erano ammesse sfumature di grigio, soltanto il
bianco e il nero. Nessuna curva, soltanto linee rette. Notò come gli occhi di Raduan brillavano mentre affrettava il passo, ansioso di visitare il tempio. Dorian non conosceva in dettaglio il passato dell'amico, ma ricordava che all'epoca della sua adesione alla Compagnia indossava ancora l'abito del novizio di Abidan. Pur sprovvisto della fede necessaria, Dorian comprendeva la necessità di Raduan di aggrapparsi a quel Dio e a ciò che rappresentava: correvano tempi amari, pieni di difficoltà e insicurezza. Era bello immaginare che esistesse un ente superiore, immutabile, che sorreggesse con mano ferma le esistenze degli uomini. Non aveva niente in contrario alla fede negli Dei. Ma che la fede e le preghiere da sole potessero risolvere i loro problemi, questo no, non poteva crederlo. La vita gliel'aveva insegnato: ci voleva il buon vecchio spirito d'iniziativa degli esseri umani... e parecchia fatica. Rallentò il passo, lasciandosi precedere da Raduan. Questi, come raggiunse gli scalini del tempio, gli fece cenno di affrettarsi, ma Dorian scosse la testa in segno di diniego. Raduan, deluso, diede una scrollata di spalle ed entrò. Il comandante si accomodò su un vecchio ceppo, intenzionato a godersi un altro po' del tepore pomeridiano. La presenza umana nella radura era molto ridotta, notò, e concentrata a ridosso delle mura della Torre. Per il resto, l'ambiente era quasi selvatico: uccelli e scoiattoli ignoravano la sua presenza, gli uni volavano in piccoli cerchi, gli altri saltellavano di ramo in ramo alla ricerca di qualche noce. Una brezza fresca soffiava tra le fronde, e curvava dolcemente l'erba della radura. A un tratto, gli parve di scorgere con la coda dell'occhio una volpe dal manto rossiccio, affacciatasi al limitare del bosco. Quando girò lo sguardo, la volpe si era dissolta come un miraggio. Purtroppo, per quanto cercasse di distrarsi con il pacato spettacolo della natura, il suo pensiero girava in circolo, sempre sugli stessi tre volti: il primo era piatto e amorfo, come quello di un rettile; il secondo era pallido e sereno, incorniciato da una fine barba bionda; il terzo era un viso femminile, fiero, imbronciato, e bellissimo. L'Addestratore di Serpenti. Abel. Kyra. Del primo avrebbe voluto cancellare ogni ricordo. Gli altri due invece gli lasciavano in bocca un sapore dolce amaro. Aveva imparato a convivere con l'assenza di Abel, per quanto ne soffrisse, ma la brusca partenza di Kyra era stata uno shock dal quale non si era ripreso. Lo stesso valeva per Raduan, se ne rendeva conto: la sera precedente, di fronte a due boccali, l'amico aveva cercato di abbordare la questione, ma il dialogo era morto nel giro di pochi minuti. Non c'era molto da dire, o da fare, se non sperare che si presentasse l'occasione di rimettere a posto le cose. Ma quando? Sospirò e sollevò gli occhi al cielo, studiando il pigro movimento delle nubi. E pure là, neanche a dirlo, rivide i volti.
----Raduan uscì dal tempio mezz'ora più tardi, con un'aria rilassata e serena che Dorian subito gli invidiò. L'amico gli rivolse un sorriso, e lo invitò a continuare la camminata interrotta. Passarono così l'intero pomeriggio nei silenziosi dintorni della Torre, e si decisero a tornare indietro soltanto verso il tramonto, quando il sole già cominciava a tingere il cielo di rosso. Con sommo stupore, trovarono lo spiazzo attorno alla Torre affollato di cavalli riccamente bardati, senza insegne riconoscibili. Un gruppetto di soldati si stava rinfrescando alla fonte. Altri sedevano sull'erba, contendendosi i boccali di limpaq distribuiti controvoglia dall'allampanato maggiordomo di Zontar. Dorian e Raduan si scambiarono uno sguardo apprensivo: cosa poteva significare l'arrivo di quegli uomini? Si avviarono verso l'ingresso della Torre. Al loro passaggio, molte teste si girarono a squadrarli. «Credo sia meglio cercare Zontar...» disse Dorian a bassa voce, entrando. «Guai in vista?» «Lo sapremo presto.» Salirono ai piani superiori, scalando a due a due i gradini di pietra. All'ultima svolta, Dorian quasi sbatté contro una figura che veniva in direzione opposta. Si fece da parte, rivolgendo una
parola di scusa: chi gli stava di fronte era un uomo corpulento, il cui ventre prominente rischiava di lacerare gli aderenti abiti da viaggio che indossava. Aveva una testa grande e massiccia quanto quella di un toro, sormontata da sparuti ciuffi di ricci rossastri. Il viso, dominato da un paio di sgradevoli occhi acquosi, era butterato in più punti. Dorian, benché colto di sorpresa, lo riconobbe quasi all'istante: cosa ci faceva quell'uomo alla Torre Grigia? «Levati di mezzo, idiota!» gli urlò in faccia costui, spingendolo da parte. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, e gli occhi gli stavano schizzando fuori dalle orbite. Raduan fece per reagire, ma Dorian lo trattenne. L'uomo li squadrò ancora per un istante, poi imprecò e proseguì con passo pesante lungo il corridoio, lasciandoseli alle spalle. «Chi diavolo si crede di essere?» sbraitò Raduan. «Un principe» rispose Dorian, serio in volto «Il principe Gomer, per l'esattezza.» Raduan impallidì. «Vuoi dire che quell'uomo..» «Proprio così. Sono sorpreso quanto te, ma non mi sbaglio: sono certo che sia lui, anche se è passato del tempo dall'ultima volta.» «E da quando frequenti personaggi del suo rango?» «In realtà non ci siamo mai rivolti la parola. Ho avuto modo di stare in sua presenza mentre facevo da scorta ad Abel, e questo è tutto. Dubito che abbia mai notato la mia esistenza.» «Non può essere una visita ufficiale» osservò Raduan, grattandosi un orecchio «Ci avrebbero per lo meno avvertiti!» «Sono d'accordo» annuì Dorian «Oltretutto, un uomo col carattere del principe non è solito far visita ai comuni mortali: ama riceverli alla sua corte, per dimostrare chi conta davvero, e per avere il controllo della situazione... Il fatto che sia qui di persona, e che sia giunto tanto all'improvviso, mi dà da pensare.» «Ragione in più per farci aggiornare dal padrone di casa...» «Senza dubbio. Muoviamoci!» Coprirono in pochi passi la distanza che li separava dallo studio di Zontar, e bussarono alla porta. «Avanti» rispose dall'interno la voce dell'anziano. Entrarono. Il Saggio era affondato nella sua poltrona dall'alto schienale, lo sguardo rivolto al soffitto. Lente spirali di fumo azzurrino si innalzavano dalla pipa che gli pendeva a un angolo della bocca. I due attesero educatamente presso la porta, finché Zontar non abbassò lo sguardo e li mise a fuoco. «Oh, siete voi» osservò, con voce preoccupata «Entrate, e chiudetevi la porta alle spalle, per favore.» «Non vorremmo disturbarvi in un momento difficile...» «Cosa vi fa pensare che lo sia, comandante?» indagò il Saggio, col suo sguardo penetrante. «I soldati là in basso, per cominciare. E il principe mi è parso di pessimo umore.» «Uhmpf! Lo conoscete, dunque. Quel pallone gonfiato! E non dico in senso letterale, per quanto davvero somigli a una mongolfiera...» «Una cosa?» volle sapere Raduan. «Niente, è un progetto a cui la Confraternita sta lavorando da un certo tempo. Lo vedrete in funzione tra qualche anno, se tutto va bene. Ma come stavo dicendo, quell'uomo è insopportabile. Arrogante coi più deboli, codardo di fronte ai più potenti. O meglio, di fronte al più potente, già che ne esiste uno soltanto!» «Suo fratello Hiram?» chiese Dorian. «Ovviamente. Il guerrafondaio.» Scosse la testa, angustiato, e tornò a rivolgere gli occhi al soffitto. «Non volendo sembrare troppo indiscreto» proseguì Dorian, visto che il Saggio pareva di nuovo perso nei propri pensieri «Cosa significa la presenza di Gomer qui alla Torre Grigia? E di quei soldati?»
«Non temete, sono già in partenza. È la scorta personale del principe. Si trova qui soltanto di passaggio, di ritorno a casa dopo una convocazione al palazzo di Hiram. Per quanto non voglia darlo a vedere, Gomer lo teme come la morte. Conosce fin troppo bene il suo carattere e la sua ambizione.» «Ma perché venire direttamente da voi dopo l'incontro?» «Brutte notizie purtroppo. Pessime davvero.» Zontar fissò i duri occhi grigi in quelli color ghiaccio di Dorian. «Guerra» disse «Avrà inizio nel giro di qualche settimana al massimo.» Dorian si sentì mancare la terra sotto i piedi. Sapeva che prima o poi sarebbe accaduto - nessuno parlava d'altro da mesi - ma una parte di sé aveva sempre sperato che fossero semplici illazioni. Poteva non credere alle chiacchiere degli ufficiali dell'esercito, e tantomeno ai discorsi da taverna... Se un'affermazione del genere usciva dalla bocca di Zontar, però, si poteva star certi che la guerra ci sarebbe stata. «Assurdo» commentò «Una guerra civile tra i principati... Non è mai accaduto prima!» «Non vi sbagliate. Re Feldnost ha commesso il peggior errore della sua vita proprio sul letto di morte: il Regno diviso dalle sue ultime volontà verrà riforgiato col sangue del popolo...» «Per quale motivo Gomer è venuto a dirvelo? Non sa che siete un oppositore di Hiram?» «Lo sa molto bene, tanto che gli avevo proposto un'alleanza con suo fratello minore - e mio protetto - il principe Feledan.» «Interessante.» «Bah! Come immaginavo, il vigliacco ha rifiutato per paura di ritorsioni. Preferisce ridursi a un pupazzo nelle mani del fratello maggiore piuttosto che rischiare di perdere le sue ricchezze, le sue pietanze sfarzose, e i suoi adorati schiavetti...» «Quanta regalità!» commentò Raduan, disgustato. «Gomer non capisce che unendosi a Feledan e lottando al suo fianco avrebbe l'opportunità di uscire vittorioso! Per lo meno gli è rimasto abbastanza amor proprio da venirmi ad avvertire della tempesta in arrivo. O forse anche questo fa parte dei piani di Hiram, chi può dirlo...» «Perciò Feledan rimarrà schiacciato nella morsa degli altri due?» «O si arrenderà ancor prima che il conflitto abbia inizio» Zontar sospirò «Feledan non è un codardo, ma decisamente non possiede la stoffa del guerriero. È un poeta, un artista, un uomo dall'intelletto raffinato. Ripudia la spada, e ritiene che ogni dissidio vada risolto con compromessi pacifici. Per quanto cerchi di aprirgli gli occhi, non si rende conto che suo fratello è come un falco, e lui una colomba.» «Se mi permettete...» intervenne Raduan, che di solito non si intrometteva in conversazioni di argomento politico «Visto che si dà per scontata la superiorità dell'esercito di Hiram, e Gomer non è interessato a un'alleanza, perché intestardirsi con l'idea della resistenza? Non sarebbe meglio cercare di ottenere fin da subito delle buone condizioni di resa, invece che mettere a repentaglio migliaia di vite in una guerra già persa?» Zontar lo fulminò con lo sguardo. «Tanto per cominciare, mastro Raduan, nessuna guerra è persa in partenza. E mi meraviglio che possano venire certe idee a un guerriero della vostra esperienza!» Raduan cercò di non arrossire. Adesso rammentava perché era meglio tenere la bocca chiusa, quando si discuteva di politica. «Seconda cosa» continuò il Saggio, in tono perentorio «L'idea di un Regno unito sotto il tallone di quel folle mi dà i brividi, è un'ipotesi che non posso accettare. In pochi mesi di governo cancellerebbe interi decenni di progresso, ve lo posso garantire. Avete attraversato le frontiere negli ultimi tempi? Non avete notato differenze, tra gli altri principati e il suo?» Il guerriero dovette ammettere che le differenze c'erano, e piuttosto grandi: per quanto aveva potuto osservare durante le peregrinazioni della Compagnia, il principato di Hiram era ben più povero e arretrato degli altri due. E gli abitanti avevano un'aria sofferta, lo sguardo allarmato di chi vive sempre nella paura e nell'incertezza.
«No» affermò Zontar «Non possiamo piegarci senza lottare!» Poi, rigirando la pipa tra le dita, aggiunse: «Tuttavia...» I due lo interrogarono con lo sguardo, incuriositi. «C'è una cosa che mi preoccupa, a dire il vero. Prima di oggi non avevo mai visto il principe Gomer tanto spaventato. Continua a darsi le solite arie da sbruffone, ma non è difficile leggergli dentro. L'ho messo alle corde, e sono riuscito a strappargli una mezza rivelazione.» Alzò gli occhi, incorniciati da una rete di piccole rughe. «A quanto pare Hiram ha un alleato. Un potere misterioso, che fino ad oggi era sfuggito alla mia conoscenza.» «A che vi riferite?» indagò Dorian. «Vorrei saperlo anch'io. Gomer era confuso, terrorizzato. Mangiava le parole mentre lo interrogavo. Non l'ha ammesso a chiare lettere, eppure ha visto qualcosa che l'ha convinto a desistere immediatamente da ogni tentativo di opporre resistenza al fratello. Qualcosa di spaventoso.» «Non avete altri indizi?» «Una frase soltanto, che ha pronunciato prima di sbattersi la porta alle spalle: “Il Male è molto più nero di quanto possiate immaginare”, ha detto...» «Soltanto questo?» «Soltanto.» Calò il silenzio. Dorian non seppe dire se era solo frutto della sua immaginazione, o se davvero l'aria si era fatta pesante, gravida di minacce inespresse. «Cosa farete?» domandò. «L'unica cosa che mi viene in mente, per adesso, è affrettarmi ad avvisare Feledan. Non so quanta verità ci sia dietro alle parole di Gomer, ma di una cosa ho la certezza: la guerra sta per avere inizio. Dobbiamo prepararci.» «Lo immaginavo» sospirò Dorian «E immagino anche che la nostra questione passi in secondo piano.» Zontar annuì con gravità. «Sì, purtroppo. Le priorità sono cambiate. Temo che dovrete tornare a Bezer da soli. Ma questo non vuol dire che il nostro accordo sia rotto: il mio desiderio di studiare quello stendardo non si è affatto affievolito!» «Così come il nostro desiderio di ritrovare Abel...» rintuzzò Dorian, frustrato dalla piega presa dagli eventi. «Me ne rendo conto» disse Zontar «In questi tempi bui, la luce del Viandante sarebbe di grande consolazione anche per me, non dubitate. Ma dobbiamo essere realisti, e affrontare i problemi più urgenti.» Si alzò in piedi, aggiustando le pieghe della lunga veste. «Credo sia giunto il momento di congedarci, comandante. Mi spiace che le cose non siano andate come avevamo sperato. Che avete intenzione di fare, adesso?» Dorian non esitò a rispondere: «Ciò che sempre facciamo: difendere il Regno dagli attacchi dei Demoni. Cacciarli. Distruggerli.» «Ma cosa farete quando la guerra avrà inizio? Non penserete di rimanere neutrali, spero...» «È proprio ciò che faremo. I nostri scopi non hanno nulla a che vedere con la guerra tra i principi, lo sapete bene.» «Non siate cieco di fronte alla realtà, comandante» replicò Zontar, stizzito «Per quanto lo desideriate, non avrete modo di restare neutrale. Hiram non vi conosce, e per questo vi teme, come molti altri. Cercherà di schiacciarvi alla prima occasione.» «E allora vedremo se è migliore l'addestramento delle sue truppe o il nostro.» Il Saggio digrignò i denti, ma subito recuperò la calma, e lasciò che un tenue sorriso gli affiorasse sulle labbra.
«Testardi come il vostro maestro» asserì, scuotendo la testa «Fate come volete, ma sappiate che il vostro appoggio ci farebbe davvero comodo. Non esitate a cercarmi, nel caso cambiaste parere.» Tese loro la mano, chiudendo il discorso. I due la strinsero con fermezza, sforzandosi di mostrare gratitudine per l'ospitalità e gli insegnamenti ricevuti, benché alla fine non ne avessero ricavato granché. «Grazie di tutto, Zontar» disse Dorian, quando fu il suo turno «Spero che possiamo tornare a incontrarci quanto prima, e terminare ciò che abbiamo cominciato.» «Lo desidero anch'io, Dorian. Mi auguro che troviate presto ciò che cercate, anche senza il mio aiuto. Rifornitevi qui di tutto ciò che vi serve per il viaggio, e che gli Dei veglino sul vostro ritorno.» «E sul vostro viaggio alla capitale.» «Così sia...» Si scambiarono un ultimo sguardo di reciproca amicizia, poi ciascuno andò per la propria strada.
----Il giorno seguente, al sorgere del sole, Dorian e Raduan montarono sui propri destrieri fuori dalle mura della Torre Grigia. Una nebbia gelida ammantava la radura come il telo di un fantasma, rifiutandosi di cedere il passo al calore del giorno che nasceva. Si avviarono al piccolo trotto verso i confini della radura, riflettendo sul viaggio che li attendeva, e sull'esperienza che si stavano lasciando alle spalle. Alla fine dei conti, pensò Dorian con una certa amarezza, tornavano indietro a mani vuote. Avevano appreso nozioni interessanti sull'origine delle Arti Arcane, questo sì, conoscenze che gettavano una nuova luce sul Rituale della Liberazione e sulla natura dello stendardo della Compagnia. Ma ciò non li portava di un solo passo più vicini a scoprire cosa fosse accaduto ad Abel. Almeno non fino al giorno in cui Zontar avesse mantenuto la sua parte dell'accordo. Una tenue speranza, in tempo di guerra. Tutto ciò che potevano fare era tornare a Bezer, e ricongiungersi al resto della Compagnia. Per prima cosa, decise Dorian, avrebbero studiato meglio lo stendardo. Anche se Zontar non poteva aiutarli di persona, forse avrebbero notato qualcosa che in passato avevano trascurato. A quel punto, ogni dettaglio contava. «Tutto bene?» domandò Raduan, cavalcando al suo fianco. «Tutto bene» rispose Dorian, scorgendo la sagoma dei cancelli nella foschia di fronte a sé «Non vedevo l'ora di andarmene da qui. Sbrighiamoci, ci stanno aspettando!» Non sapeva spiegarsene il perché, ma quel mattino sentiva un nodo allo stomaco. Un brutto presentimento, accentuato dall'opprimente muro di nebbia. Che fosse un eco della guerra imminente, o delle allusioni di Gomer all'oscuro potere che alimentava la follia di Hiram? O si trattava forse di qualcosa di più profondo, una sorta di sesto senso? In ogni caso, non c'era tempo da perdere. Affondò i talloni nei fianchi della cavalcatura, spingendola al galoppo.
XXIII - La Nuova Guerriera
I raggi di un sole feroce arroventavano la spianata alle spalle del cantiere, infierendo sui ruderi dell'antica struttura. Era uno dei tanti angoli fantasma del Porto Vecchio, un cumulo di ricordi sepolto da decenni di incurie e abbandono. «Come vi sentite oggi, Kyra?» domandò Leon, schermandosi gli occhi. «In perfetta forma» rispose Kyra, e piegò il busto in avanti fino a toccarsi le punte dei piedi. Rialzatasi, asciugò il rivolo di sudore che le scorreva dalla fronte. Da settimane non faceva altro che allenarsi, ansiosa di recuperare la forma perduta, con una profusione di sforzi che rasentava l'ossessione. Stava ottenendo ottimi risultati, poteva sentirlo: da tempo il suo corpo non era così flessibile e scattante, né la sua mente tanto concentrata. Pareva che il desiderio di rivalsa le avesse infuso una scorta di energia pressoché infinita. «E come stanno andando i vostri preparativi, Leon?» «Non mi lamento. In realtà, è anche per questo che sono qui oggi.» «Siete venuto ad assistere alla mia prova?» «A dire il vero, sì. Dobbiamo sapere se siete davvero pronta.» «Allora ve ne andrete di qui soddisfatto. Non lo dico per mancanza di modestia, ma ormai questi giocattoli hanno pochi segreti per me. E sono dei gran bei giocattoli, ve lo posso garantire!» Ruotò il braccio artificiale, con cui aveva fatto pratica ininterrotta per giorni. Il dolore e l'insicurezza che l'avevano accompagnata nelle prime prove sul campo erano ormai un ricordo. Il braccio meccanico era diventato parte integrante del suo corpo, in tempi tanto brevi da lasciare Nestor esterrefatto. Mai e poi mai si sarebbe aspettato una convalescenza tanto rapida: a operazione avvenuta, le aveva confessato che i rischi di rigetto erano altissimi, e che la sua fibra doveva essere davvero eccezionale per sopportare quei corpi estranei. Ammirò l'arto, scintillante nella luce del sole. Aveva l'aspetto di un cilindro d'acciaio brunito, ma era più leggero e resistente di quel che sembrasse, grazie alla lega di metalli rari con cui era stato forgiato. Pur con le dovute differenze, riproduceva un avambraccio umano: mano e dita erano perfettamente articolati, così come l'intera protesi a livello del gomito. Era più massiccio di un braccio normale, a causa della corazza e dei letali strumenti di cui era provvisto – e che fin da subito avevano mandato Kyra in visibilio. Oltre ad essere di per sé un'arma formidabile, l'arto poteva trarre vantaggi inusitati dall'uso combinato con l'occhio artificiale che le era stato impiantato nell'orbita sinistra. Era ciò che avrebbe dovuto dimostrare quel giorno. Osservare la realtà attraverso i due occhi allo stesso tempo, l'originale ed il nuovo, era stancante e poco pratico: la vista, perturbata da un alone rossastro, risultava sgranata e confusa. Meglio usare un occhio alla volta, coprendo l'altro con una benda. L'uno serviva in condizioni normali, mentre l'altro entrava in gioco nei momenti d'azione, grazie alle sorprendenti caratteristiche di cui era dotato. Nestor le aveva spiegato che tanto il braccio quanto l'occhio dovevano la loro straordinarietà agli invisibili componenti con cui erano stati plasmati: manàlorin li aveva chiamati. Kyra non aveva prestato molta attenzione alle spiegazioni del vecchio, che avevano a che fare con le Arti Arcane e altre cose del genere. Preferiva badare al sodo, e le bastava sapere cosa poteva e cosa non poteva fare con quei nuovi strumenti. Due cose soltanto aveva tenuto a mente, di tutto ciò che Nestor aveva cercato di insegnarle. La prima era di aspetto pratico, e aveva a che vedere con la fonte di energia utilizzata dalle protesi. I manàlorin chiamati Calici, le era stato spiegato, avrebbero ricavato l'energia necessaria direttamente dal suo corpo, risucchiandole le forze a poco a poco. «Ciò significa che non puoi sostenere scontri troppo prolungati, ragazza» le aveva detto Nestor
«Devi colpire duro, e in fretta. Non puoi correre il rischio di cadere a terra stremata a causa delle tue stesse armi, non credi?» «E se non ci fosse altro modo?» «Te l'ho detto: colpisci duro, e cerca di vincere la battaglia nel più breve tempo possibile. Dipende anche dai trucchi che vorrai usare. Alcuni sono più efficaci, ma consumano più energia. Dovrai decidere attentamente la tua tattica, caso per caso.» L'avrebbe ricordato, suo malgrado. Dorian le aveva insegnato a non lasciar mai nulla al caso, quando la sua vita era in gioco su un campo di battaglia. L'altra cosa interessante raccontatale da Nestor – interessante più che altro per la punta di soddisfazione che le aveva dato - era che sia l'arto che l'occhio erano stati rubati dal laboratorio del governatore. A quanto sosteneva Nestor, i due artefatti avevano visto la luce molti anni prima, in forma ancora incompleta, per mano sua e di Dinor – anch'egli, a quel tempo, membro rispettato della Confraternita degli Illuminati. Il progetto, interrotto dopo la rottura tra Nestor e il suo mentore, aveva fatto passi da gigante grazie alle misteriose conoscenze di Caleb. Ma Nestor continuava a ritenere quelle protesi una sua invenzione, poiché sua era stata l'idea, e suoi i fiumi di sudore versati sul progetto e sui prototipi. Così, alla prima occasione e con l'aiuto di un ben situato membro di Liberazione, era riuscito a recuperare il maltolto dal Palazzo del Governo. Oggi, i due manufatti erano finalmente completi e operanti, e in forma tale da superare anche le più ottimistiche aspettative del loro creatore. Erano senza dubbio il più alto prodotto delle Arti Arcane che si fosse mai visto tra i confini del Regno – Nestor glielo ripeteva tra le dieci e le venti volte al giorno - oggetti che avrebbero sbalordito Zontar e gli altri membri della Confraternita. Per Kyra, il bello era sognare di usarli a volontà contro Caleb e Dinor: che dolce ironia del destino, potergli incidere sul corpo una testimonianza indelebile della loro eccellente creazione! Caleb, soprattutto, avrebbe certamente gradito assaggiare un po' del suo amato metallo... «Bando alle ciance, ragazza!» esclamò Nestor, apparso al fianco di Leon. La sua grossa testa calva era lucida di sudore, e aveva l'aria di potersi sciogliere da un momento all'altro come un pupazzo di neve «Quando volete» affermò Kyra, saltellando sul posto. «I tuoi amici Ratti sono qui per darci una mano. Testeremo la tua abilità nel combattimento ravvicinato e a distanza... e alla fine ci sarà una sorpresa che ho preparato apposta per te! Sei pronta?» «Ve l'ho già detto, sono pronta. Ma queste protezioni mi irritano un poco.» Si grattò la pelle sotto il corpetto di cuoio rafforzato. «Sono abituata a combattere leggera: schivare è il mio genere.» «Mi spiace, ma la prova sarà piuttosto severa, e non sappiamo se sei già al cento per cento della forma. Meglio non correre rischi.» Kyra diede una scrollata di spalle. L'elmo e l'armatura, completa di gambali, non la facevano sentire a suo agio, ma avrebbe dovuto far buon viso a cattivo gioco. Nestor e Leon si allontanarono, andando a sedersi all'ombra tra le macerie di una costruzione. Kyra restò sola al centro dello spiazzo, sotto il sole cocente. La benda sull'occhio sinistro le dava un prurito dannato. «Chi sarà il mio primo avversario?» gridò, con un sorriso strafottente «Mi prudono le mani!» Da lontano, Nestor puntò il dito dietro di lei. «Gwahhhr!» ringhiò Kwan, calandole un pesante maglio sull'elmo. Era sbucato chissà come alle sue spalle, contando sulla sua distrazione per assalirla a tradimento, e non c'era più tempo per schivare il colpo. Guidata dall'istinto, Kyra si protesse il capo con l'avambraccio artificiale. Il maglio piombò con forza sulla corazza metallica dell'arto, facendole piegare le ginocchia. Kwan continuò a martellarla senza tregua, come se volesse inchiodarla al suolo, ma il braccio resistette ai violenti impatti senza ricavarne neppure una scalfittura.
Cogliendo il primo varco disponibile, Kyra si gettò di lato per sottrarsi alla tempesta di colpi del suo avversario. Kwan, che stava interpretando quella lotta senza mezzi termini, le avventò contro il maglio con la forza di entrambe le enormi braccia. Leon osservò la scena con una certa apprensione, chiedendosi se non avessero anticipato troppo quella dura prova. Ma in un solo istante ogni suo dubbio si dileguò: con uno schianto metallico, Kyra arrestò a mezz'aria l'avanzata del maglio, afferrandolo con le dita d'acciaio poco sopra l'impugnatura. Due getti d'aria compressa fischiarono dagli ugelli posti dietro al gomito artificiale, e le fornirono la spinta necessaria a contrastare la forza soverchiante di Kwan. «Adesso tocca a me, bestione!» Con una semplice torsione del polso, Kyra spezzò in due la robusta asta del maglio, la cui estremità superiore cadde al suolo con un tonfo. Kwan si ritrovò a fissare inebetito l'asta spezzata, e per poco non ricevette in pieno volto il pugno che Kyra gli scagliò contro. Riuscì ad alzare lo scudo appena in tempo, ma la botta fu talmente violenta da creare un bozzo sulla superficie di ferro. Kyra continuò su quella stessa linea, rendendogli pan per focaccia con una sequenza di colpi la cui forza e velocità erano ai limiti dell'incredibile. Kwan non ebbe modo di reagire, e si limitò a cercare protezione dietro allo scudo ormai deformato. «Sono stufa di questo gioco!» esclamò Kyra, mostrando i denti come un lupo «Ci penso io a farti venire allo scoperto!» Piegò il polso in avanti, e si udì uno scatto meccanico: quattro affilatissime lame ricurve fuoriuscirono a coppie dalle estremità del braccio artificiale, due dal dorso della mano, le altre poco sopra al gomito. Usandole alla stregua di artigli, Kyra le affondò nelle superficie dello scudo, passandolo da parte a parte. Strappò la protezione dalle mani del gigante e la scagliò lontana, lasciandolo del tutto privo di difese. «Kyaaahhh!» urlò Kyra, e le sue lame fendettero l'aria, arrestandosi a un palmo di naso dell'esterrefatto Kwan. Il gigante, inerme, si arrese con un mugolio di sconcerto. Quando Kyra abbassò l'arma, strizzandogli l'occhio, Kwan emise un sospiro di sollievo tra le file di denti acuminati. «Ci sei andato vicino questa volta, vero bestione?» lo irrise Kyra, smagliante «Pensavo avessi già capito che con me non hai possibilità!» «Aspetta a fare la sbruffona!» gridò la voce acuta di Selita. Distante da lei almeno una cinquantina di passi, stava prendendo la mira con una freccia incoccata nel lungo arco. «Combattimento a distanza!» annunciò Nestor dal suo riparo, battendo le mani. Leon scosse la testa: più che una prova d'addestramento, pareva uno spettacolo da circo messo su dal suo grasso amico per il proprio diletto. Con un gran balzo, Kyra si mise al riparo dietro a una parete diroccata, mentre Kwan si affrettava a uscire di scena in direzione opposta. La freccia scagliata da Selita fischiò innocua a pochi metri di distanza. «La prossima volta non sarai così fortunata!» esclamò la donna, incoccando un'altra freccia. «Lo vedremo!» ribatté Kyra, mentre scostava la benda dall'occhio sinistro. Lo sbalzo fu sgradevole come sempre: dalla realtà nitida e luminosa in cui si trovava, fu proiettata in un mondo dai toni rosso cupo, sgranato, in cui non riusciva a distinguere bene i contorni di ciò che aveva attorno. La cosa le dava invariabilmente un gran mal di testa. Ma in compenso la vista artificiale aveva grandi vantaggi, in situazioni come quella. «Avanti, che aspetti? Hai paura?» la schernì Selita. Kyra contò fino a tre, poi scivolò fuori dal suo nascondiglio. Senza pensarci due volte, Selita rilasciò la corda tesa dell'arco e scoccò un'altra freccia contro di lei. Una persona normale avrebbe ricevuto la freccia in pieno petto, e pur con la protezione dell'armatura ne avrebbe ricavato un grosso livido e un dolore lancinante. Kyra, invece, non si scompose. Nel suo spettro visivo tinto di rosso, la freccia in moto apparve evidenziata da una vistosa
cornice verde, che ne accompagnava la traiettoria come una sorta di marcatore. Il braccio seguì il movimento del marcatore, frapponendosi tra il proiettile e il corpo di Kyra, mentre uno scudo sottile e resistente si apriva dal suo dorso a mo' di ventaglio. La punta della freccia si infranse contro quel robusto velo di metallo, e andò in frantumi. Selita imprecò, e incoccò un altro dardo. Anche questo, così come tutti gli altri che scagliò contro Kyra in rapida sequenza, sbatté innocuo contro l'impenetrabile difesa dello scudo comandato dalla vista artificiale. «Bah!» sbottò Selita, senza darsi per vinta «Vediamo come te la cavi con questa!» Mollò l'arco, ed estrasse dal mantello la sua fedele balestra, ideale per attacchi a media distanza. «Eh no, non te lo lascerò fare!» ruggì Kyra, correndole incontro. Braccio o non braccio, Kyra restava pur sempre una guerriera agile e veloce: tutti i dardi che Selita le sparò addosso non incontrarono che il vuoto, mentre scattava di riparo in riparo. E quando la distanza lo consentì, contrattaccò. Premette una leva sul dorso del braccio artificiale, e un corto tubo di metallo fuoriuscì dal lato interno dell'avambraccio. Puntò l'arto come se fosse una balestra, e fece fuoco. Una pioggia di minuscoli dardi si abbatté ai piedi di Selita, dandole a malapena il tempo di ripararsi dietro a un cumulo di pietre. «Maledizione!» sbraitò Kyra. Poteva fare di meglio, con quell'arma. Attivò un'altra funzione dell'occhio con un lieve tocco a lato dell'arcata sopraccigliare, dove Nestor le aveva impiantato una serie di interruttori. Reagendo agli impulsi del suo nervo ottico, l'occhio tracciò un contorno blu attorno alla figura accovacciata di Selita, delineandola come bersaglio dietro al mucchio di pietre. Così, quando lei balzò fuori dal suo nascondiglio, Kyra sapeva già in che direzione si sarebbe buttata. Colpirla sarebbe stato fin troppo facile con quella specie di preveggenza, per cui decise di prolungare il gioco ancora un po': continuò a sfiorarla soltanto coi suoi proiettili, di proposito. Era divertente, molto divertente! Dopo un po', sfiancata, Selita fermò la sua corsa dietro al relitto solitario di una parete, rimasta in piedi in mezzo al nulla. «Che c'è Selita, hai perso la lingua?» rise Kyra, godendosi quella sensazione di onnipotenza. L'avversaria, smarrita e senza fiato, non rispose, e restò dov'era. Kyra decise di sperimentare un'altra delle meravigliose capacità dell'occhio. Focalizzò la sua attenzione sul bersaglio, e l'immagine prese a ingrandirsi fluidamente, rivelandole particolari impossibili da distinguere a occhio nudo alla distanza in cui si trovava. La punta della balestra di Selita, ad esempio, che spuntava appena dalla parete. «Ti vedo!» esclamò. Anche questa volta sfruttò a dovere la simbiosi tra occhio e braccio, formidabile in attacco come in difesa. L'arto seguì a dovere l'immagine impressa sulla sua retina, e il dardo che sparò colpì con micidiale precisione la balestra di Selita, strappandogliela di mano. «Ahi!» si lamentò la donna, scuotendo la mano. Alzò le braccia, e uscì allo scoperto sotto la mira della sua avversaria. «Ne ho abbastanza, mi arrendo!» sputò tra i denti «Hai vinto... Sei contenta?» «Non immagini quanto!» gioì Kyra, arricciando le labbra in un sorriso di trionfo. Pur se gli eventi del recente passato avevano avvicinato le due donne, rendendole quasi amiche, la loro rivalità non si era affatto attenuata. Perciò quella di Kyra era una vittoria dal sapore molto dolce. Si girò a fronteggiare Nestor e Leon, seduti al riparo dalla ferocia del sole. «Soddisfatti?» domandò, sprizzando orgoglio da tutti i pori «Sono invincibile, ormai!» «Forse, ragazza, forse» ammise Nestor, con un misterioso sorriso «Ma come ti ho detto, ho pensato bene di prepararti una sorpresa...» «Di che si tratta?» «Entra là dentro e lo scoprirai. Sempre se ne hai il coraggio.» «Non temo più nulla!» tagliò corto Kyra, e si avviò baldanzosamente verso la costruzione indicatale da Nestor. Era un edificio vasto e cadente, forse un vecchio cantiere di navi.
Kyra si fece strada tra gli ammassi di macerie ricoperte di rovi che ostruivano il cammino, e mosse alcuni passi nella penombra che mascherava l'accesso al cantiere. Nel giro di pochi istanti, si ritrovò immersa nell'oscurità della costruzione fatiscente. Fosse per l'avvertimento di Nestor, o anche soltanto per l'afa opprimente, quel buio assoluto le trasmise sgradevoli sensazioni. Tra l'altro, era certa di essere spiata da occhi invisibili. «Vediamo se riesco a scovarti, amico» proferì a mezza voce. Sfiorò un interruttore dell'occhio artificiale. L'uniforme parete rosso vivo - che nel suo spettro visivo rappresentava l'oscurità - fu sostituita da un'immagine confusa in molteplici tonalità di verde. Visione notturna. Non certo limpida e dettagliata, ma infinitamente migliore della cecità. Scandagliò il cantiere alla ricerca di una minaccia. Niente. Continuò ad avanzare tra i ruderi, con passo fermo adesso che riusciva a distinguere gli ostacoli nel buio. A giudicare dai mucchi di cianfrusaglie che le sbarravano il passo a ogni piè sospinto, il cantiere era diventato un deposito di rottami improvvisato: relitti di imbarcazioni, mobili sfasciati, cocci di vetro, arnesi arrugginiti, costituivano solo una piccola parte di quel vasto campionario di rifiuti. Si soffermò davanti a un grosso cilindro di metallo. In qualche modo le suonava familiare. Mentre cercava di ricordarsi dove l'avesse già visto, due fari accecanti si accesero all'altezza dei suoi occhi, stordendola. La visione notturna era ottima in condizioni di buio pesto, ma una fonte di luce la rendeva del tutto inutile. Cercò l'interruttore con le dita, e allo stesso tempo si fece scudo con l'arto artificiale. Fu una mossa saggia, poiché un istante più tardi venne investita dalla carica di una massa pesante quanto un macigno, che nel suo impeto la respinse indietro di parecchi metri. Un'altra carica la mandò gambe all'aria tra i rottami, procurandole diversi tagli. Nel mezzo di quel caos, non riusciva a spegnere la visione notturna, né tantomeno a capire cosa stesse succedendo. Il campo di battaglia le era troppo sfavorevole, per cui optò per la miglior soluzione: abbandonarlo. Senza attendere la successiva carica del nemico, balzò in piedi e corse a rotta di collo verso la parete più vicina. Se ricordava bene, le pareti dell'edificio erano fatte di legno, e non di mattoni. Pregando che la memoria non la stesse ingannando, si slanciò in avanti con tutto l'impeto di cui era capace. Come aveva sperato, il suo braccio meccanico, usato come rostro, sfondò senza problemi le assi di legno. Lo slancio la fece rotolare sul terreno impolverato fuori del cantiere, grata di sentire nuovamente i raggi del sole sulla pelle. Mantenne l'occhio chiuso fino a quando non riuscì a spegnere la visione notturna. Soltanto allora si voltò a fronteggiare il nemico, la cui sagoma si stagliava nel varco da lei aperto nella fuga. Non poté credere ai propri occhi - o meglio, al proprio occhio - quando riconobbe l'inconfondibile forma dell'Automa guardiano, lo stesso che per un soffio non l'aveva uccisa, assieme a tutti i suoi compagni, nel sottosuolo della Fabbrica. Com'era possibile? Non era stato disattivato da Aren, e lasciato ad arrugginire in una fogna molto lontana da lì? Eppure non c'era modo di sbagliarsi: quella testa oblunga, quel ronzio ossessivo, quelle sei terribili braccia armate... Erano stati i suoi occhi infuocati ad accecarla nell'oscurità del cantiere! Udì alle sue spalle la risata chioccia di Nestor: «E allora, hai gradito la sorpresa, ragazza? Il tuo vecchio amico di ferro è risorto dalla tomba per venire a farti visita!» «Ma come...?» «Lascia perdere, è una lunga storia, e in questo momento hai altro a cui pensare! Sappi solo che gli uomini di Aren l'hanno dovuto smontare pezzo a pezzo, per portarmelo, e rimontarlo mi è costato un sacco di fatica... Per cui trattamelo bene, mi raccomando!» «Scordatelo!» sbraitò Kyra. Superato lo sconcerto iniziale, si accorse di fremere di contentezza all'idea di poter lottare di
nuovo contro quel mostro di metallo, uno dei cuccioli di Caleb! Oltretutto, avevano un conto in sospeso... Sfavillante sotto la luce del sole, l'Automa l'attaccò usando la stessa tecnica di sempre: un assalto frontale, con le sei braccia che mulinavano all'impazzata con il loro arsenale di punte, lame e uncini. «Stavolta non funzionerà!» disse Kyra. Azionò il lancia dardi all'interno del suo avambraccio. Senza farsi impressionare dalla rombante avanzata del nemico, rimase immobile dov'era, ben salda sulle gambe. Lasciò che il sistema di puntamento dell'occhio artificiale facesse il suo dovere, direzionando il lancia dardi sui bersagli che si era prefissa. Soltanto allora sparò. Accompagnati da sibili fischianti, due dardi saettarono fuori dai loro alloggiamenti e andarono a conficcarsi negli occhi rosso fuoco dell'Automa, mandandoli in frantumi. La macchina non provò dolore - né avrebbe potuto - ma il suo senso dell'orientamento ne uscì disfatto: prese a muoversi in un patetico zig zag, cambiando direzione alla cieca ogni pochi metri. Finché non percepì la presenza di esseri umani. Non Kyra, bensì Nestor e Leon, che abbandonarono precipitosamente i loro posti. Per un istante, Kyra pensò che sarebbe stato divertente vederli alle prese con lo scherzetto che le avevano combinato, ma la cosa poteva diventare pericolosa. Corse dietro all'Automa, sbraitando e agitando le braccia, fino a quando la macchina non interruppe la sua cieca avanzata e si voltò a fronteggiarla. Non era in grado di vederla, eppure ciò non ridusse la sua furia. Menando colpi alla cieca a ripetizione, avrebbe ridotto in briciole qualsiasi altro avversario, ma non quella che si trovò di fronte. Grazie ai suoi istinti guerrieri, Kyra non avrebbe avuto difficoltà a parare tutta quella serie di colpi, anche con l'uso di armi normali. Ma con l'aiuto dei manàlorin, la cosa risultò addirittura banale: poteva anticipare ogni attacco con estrema facilità, prevedendone la direzione e l'intensità, e sapendo esattamente dove e come contrattaccare. Ad ogni affondo dell'Automa corrispondeva una rapida contromossa di Kyra, pugno, leva o gomitata che fosse. Nel giro di pochi minuti, quattro delle sei braccia meccaniche della macchina pendevano fratturate e inerti ai suoi fianchi. Ma proprio nel momento in cui Kyra estrasse le lame dal dorso della mano, decisa a incidere la parola fine sul corpo dell'avversario, le si annebbiò la vista. Di punto in bianco, si sentì svenire. Evitò per miracolo un colpo alla gola, buttandosi all'indietro. Incespicò, si sbilanciò e cadde al suolo. Cosa le era accaduto, così all'improvviso? Le tremava tutto il corpo, e sentiva una tremenda nausea. Non riusciva a mettere a fuoco le cose, ma percepì che il nemico le era quasi addosso, come un'ombra pesante che gravava su di lei. Le vennero in mente le parole di Nestor sul dispendio di energie causato dall'uso delle protesi. A quanto pareva si era lasciata prendere un po' troppo la mano! Si era messa a giocherellare coi suoi avversari, invece di chiudere lo scontro alla prima occasione. Adesso, come conseguenza, rischiava la vita. Capì di doversi giocare il tutto per tutto: avrebbe dato fondo alle sue ultime energie, per il gran finale! Si levò a sedere, alzò il braccio meccanico in quella che si augurava fosse la direzione giusta, e spinse una levetta: un incavo scuro del diametro di una mela si spalancò appena al di sotto del polso. Gli ugelli dietro al gomito risucchiarono l'aria con un sibilo raschiante. «Fammi vedere!» pensò Kyra. Cercò una frase ad effetto da urlare in faccia al nemico, ma con suo grande scorno non le venne in mente nulla. Un attimo più tardi, accadde il finimondo. Il braccio vomitò una vampata di fiamme roventi che le strinò le sopracciglia, e che inglobò l'Automa in una palla di fuoco. L'essere meccanico ruotò su se stesso come una torcia impazzita, cercando invano di sottrarsi al proprio destino. Il tutto non durò che pochi istanti: quando la fiamma si attenuò, dell'Automa non era rimasta che una massa incenerita e fumante. Kyra sorrise, il volto annerito dal fumo. Ricadde sulla schiena, quasi esanime. Le restava a malapena la forza di respirare.
«Kyra! Kyra!» chiamarono due voci, al di là della cortina di fumo nero. Nestor e Leon accorsero con occhi pieni di paura, sicuri che fosse accaduto il peggio. Quando videro Kyra distesa in terra, scossa dalla tosse ma ancora in vita, non nascosero il proprio sollievo. Nestor si inginocchiò al suo fianco, sorreggendole il capo tra le braccia. «Sciocca, per poco non ci lasciavi le penne!» esclamò, ridendo «E guarda cos'hai combinato al mio prezioso Automa! Meno male che ti avevo pregato di trattarlo bene!» «Allora, non avevo ragione?» disse lei di rimando, con un filo di voce. «Su cosa, ragazza?» Kyra atteggiò le labbra a un sorriso sbruffone: «Ve l'avevo detto. Sono invincibile!»
XXIV - Il Piano
Per la decima volta in quella sola mattinata, Kyra controllò le sue protesi artificiali: verificò che le giunture dell'arto fossero ben oliate, confermò la pulizia degli ugelli, testò una ad una le differenti forme di visione potenziata. Le armi retrattili scattavano avanti e indietro senza problemi. Per un attimo, si fermò a riflettere: faceva troppo affidamento su quei mezzi meccanici? Diede un'alzata di spalle. Forse. Ma d'altro canto, per portare a termine la missione che l'attendeva, avrebbe accettato ogni genere di aiuto. Compreso quello dei manàlorin. Le rodeva ammetterlo, ma l'esperienza e i riflessi da guerriera, da soli, non le sarebbero stati sufficienti contro Caleb - così come non lo erano stati la prima volta. Proseguì coi suoi controlli. Quando si ritenne soddisfatta, diede un'occhiata al tempògrafo che Nestor aveva tanto insistito per donarle. Un aggeggio bizzarro, e alquanto rumoroso, che però serviva bene al suo scopo: scoprì infatti di essere già in ritardo. Da un momento all'altro sarebbero venuti a chiamarla. Indossò una camicia leggera, a maniche lunghe, per non attirare attenzioni indesiderate, e un corsetto di cuoio sopra di essa. Vestì un paio di pantaloni legati sotto alle ginocchia, e i suoi stivali da battaglia preferiti. Si coprì l'occhio sinistro con una benda nera, e raccolse i capelli a coda di cavallo. Per ultimo, si annodò sulla fronte il fazzoletto colorato dei Ratti di Porto: ormai ci si era affezionata. Bussarono alla porta. «Avanti» disse. «Permesso» rispose Leon, entrando. «Buongiorno Leon. E' già tutto pronto?» «Credo di sì. Un po' di fortuna non guasterebbe, ma mi sento ottimista.» «Bene. Siamo in due.» Leon si pizzicò la radice del naso tra due dita, e rimase in silenzio, gli occhi fissi sul pavimento. «E allora? Sputa il rospo, su!» sbottò Kyra. Si davano del tu già da un po', da quando la loro collaborazione era sfociata in aperta amicizia. Anche perché Kyra non era avvezza alle formalità, e preferiva comunicare nel modo più diretto possibile. «Uhm...» «E allora, di che hai paura?» Lui parve arrossire per l'imbarazzo. «Se hai qualcosa da dire, fallo e basta!» proseguì lei «Anche perché tra un minuto esatto dovrò uscire da questa stanza, per andare dove tu sai.» Leon sospirò. «Non è facile come credi... Ricordi qualche tempo fa, quando ti dissi che avevo qualcosa da rivelare, su di me?» «Sì, mi ricordo» rispose Kyra, dubbiosa «Liberazione, il piano della rivolta...» «Anche, ma non solo...» «Allora, vuoi spiegarti meglio, o devo tirare a indovinare?» «Non credo che ci riusciresti» affermò Leon, con voce grave. Kyra capì che c'era in ballo qualcosa di serio, e smise di scherzare. «Hai presente la mia lettera a Ezer, quella in cui chiedevo aiuto dopo la scomparsa di Ethan?» continuò lui. «Certo! E' la ragione per cui mi trovo in questa fogna di città!» «E quella conversazione nella mia bottega, il giorno in cui ci siamo conosciuti?» «Ricordo bene anche quella. Dove vuoi arrivare?»
«Sappi che quella lettera non era del tutto sincera, e neppure le mie parole...» «Che vuoi dire?» «Persino i lividi che ti mostrai: un regalo della Guardia Cittadina, vero, ma non nel modo che ti ho detto.» Kyra aggrottò la fronte, non sapendo che pesci pigliare. «Mi dispiace, sul serio!» continuò Leon, accavallando le parole nella fretta di spiegarsi, adesso che era riuscito a superare lo scoglio iniziale «Le cose non erano andate secondo i miei piani, e avevo disperato bisogno di vederci più chiaro. Avevo bisogno di un'esca, così ho pensato al padre del ragazzo.» «Un'esca?» ripeté lei, ma fu subito interrotta. «Poi sei arrivata tu, Kyra, ed eri molto più di quanto avessi sperato! Così ti ho mandata a fare il lavoro sporco, quello che io da solo non sarei mai riuscito a fare. In un certo modo ti ho usata... E alla fine ce l'hai fatta, ma a che costo!» Si morse un labbro. «Volevo risparmiare me stesso, e gli altri membri di Liberazione. E come risultato, il mio unico fratello ha dovuto pagare con la propria vita! A volte il destino sa essere ironico, e crudele. O forse gli Dei hanno voluto punirmi per la mia falsità... Potranno mai perdonarmi? E tu, Kyra, potrai mai perdonarmi?» «Calmati Leon, accidenti a te!» esclamò Kyra, cercando di interrompere quel fiume di parole «Non capisco cosa stai cercando di dirmi! In che senso mi avresti usata? E che centra la morte di tuo fratello?» Leon inspirò profondamente, imponendosi la calma. La fissò negli occhi. «Il ragazzo, Ethan...» «Sì?» «Non è andato alla Fabbrica di testa sua. Ce l'ho mandato io, e più di una volta.» Kyra rimase senza parole. «Un'idea mia, e degli altri capi di Liberazione. Avevamo bisogno di capire cosa accadesse tra le mura della Fabbrica. Ci serviva qualcuno da mandare in avanscoperta, qualcuno abbastanza audace e imprudente da non fermarsi di fronte ai rischi. Ethan mi parve perfetto fin da subito, tanto più che era venuto a Dekka proprio a quello scopo!» Si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto. «La verità è che non è mai venuto a cercare lavoro nella mia bottega. Ma faceva domande in giro, troppe, così un giorno lo presi da parte e lo misi al corrente delle attività di Liberazione. Divenne subito il nostro membro più intraprendente. Non si rendeva conto dei pericoli che correva, o forse era troppo ingenuo per tirarsi indietro. Noi lo lasciavamo fare. Eravamo certi che grazie a lui avremmo finalmente scoperto ciò che volevamo.» La bocca di Kyra si fece arida. «Quindi erano tutte menzogne... Le sue scorribande solitarie, i tuoi rimproveri...» «Lasciami finire, te ne prego» implorò Leon «La notte in cui fu catturato, Ethan non voleva andare alla Fabbrica, aveva un brutto presentimento. Fui io che lo convinsi: sospettavamo che un carico sarebbe partito quella notte, e volevamo che il ragazzo scoprisse di che si trattava. Fu proprio allora che venne catturato.» «Non posso crederci!» sibilò Kyra, sentendo la rabbia montarle dentro. «Aspetta, la parte migliore deve ancora venire!» dichiarò Leon. Cominciò a singhiozzare, fuori di sé per il rimorso. «Credi che abbia chiesto il tuo aiuto per tirarlo fuori di là perché mi faceva pena? O perché mi ero affezionato a lui? No di certo! Avevo paura per me stesso! Avevo paura che mi denunciasse, che denunciasse tutti noi! Ci avrebbero uccisi!» Si coprì il volto con le mani. «Ma Ethan ha dimostrato di avere il cuore di un eroe, al contrario di me. Non ha aperto bocca una sola volta, nonostante le botte e le torture, nonostante le minacce di morte! Non una sola volta! Che stoltezza la mia, che vigliaccheria! Ma quando me ne sono reso conto, era troppo tardi. Tu
avevi perso un braccio, Aren la vita, ed io ero morto dentro.» La sua voce si spense. Kyra si sentì un groppo in gola. «Perché? Perché vieni a dirmelo proprio adesso?» domandò, con voce roca. Leon la guardò con occhi lucidi di lacrime. «Perché sono stanco di vivere nella menzogna. Forse oggi Liberazione realizzerà il suo sogno, il mio sogno, e sarebbe stato molto più facile tenere la bocca chiusa, continuare a mentirti. Ma voglio che questa volta tutti sappiano cosa stanno facendo, e per chi lo stanno facendo. Puniscimi se vuoi, uccidimi pure. Me lo merito. Ma non abbandonare questa città al suo destino, te ne prego! Senza di te, siamo destinati a fallire!» A Kyra venne voglia di ridere, un riso amaro come il fiele. Perché ogni volta che si fidava di qualcuno, ogni volta che cominciava a vedere una luce di speranza, tutte le certezze le crollavano addosso? Ad ogni passo che muoveva, diventava un burattino nelle mani di qualcuno. Dov'era l'indipendenza che aveva sognato nel lasciare la Compagnia del Viandante? Dov'era la sua libertà? Sciocca! Sarebbe stato mille volte meglio rimanere dov'era, e morire combattendo contro i Demoni... Quelli per lo meno non sapevano mentire, il loro cuore nero te lo scoprivano davanti agli occhi! Si stropicciò le palpebre, guardando per terra. «Va bene» si disse «Quest'ultima volta soltanto.» Alzò il capo, e sferrò un pugno micidiale. Con uno schianto di calcinacci, la mano metallica sprofondò nella parete fino al polso, a un palmo di distanza dal viso di lui, scagliando frammenti di mattone in ogni direzione. Leon restò impietrito, la morte negli occhi, mentre un rivolo di sudore gli scorreva dalla fronte. Kyra ritirò il pugno con studiata lentezza, evitando di guardarlo in faccia. Gli voltò le spalle, e si avviò alla porta. «Perdonami...» sussurrò Leon, accasciandosi al suolo. «Perdonarti?» ripeté lei, rallentando il passo «Sei tu che hai bisogno di perdonare te stesso. Compi il tuo dovere fino in fondo, oggi, come io compirò il mio, e forse ci riuscirai.» Varcò la soglia, e se ne andò.
----Il tenente Vay della Guardia Cittadina di Dekka non riusciva a credere alle proprie orecchie. Un'altra segnalazione dalle pattuglie di strada! Non era che metà mattinata, ma quel giorno i dispacci non finivano mai di arrivare, tutti dannatamente simili tra loro: guai, guai, e ancora guai! Tutto era cominciato qualche ora prima, quando la via principale del distretto era stata ostruita da un'incredibile serie di collisioni tra carri merci, provocando il caos. Aveva mandato un paio d'uomini per risolvere la faccenda, ma la situazione era degenerata in risse e tafferugli, con i conducenti dei carri e i passanti come protagonisti. Nonostante i rinforzi inviati, non era ancora giunta l'attesa notizia che la calma fosse stata ristabilita. Come se non bastasse, anche al porto la situazione era delicata: un bastimento di grossa stazza si era incagliato all'imboccatura delle acque portuali, chiudendo il passaggio alle altre imbarcazioni. Dinanzi alla palese incompetenza del capitano e ai patetici tentativi di manovra dell'equipaggio, la situazione non migliorava. Anzi, era scoppiato un putiferio, con interi equipaggi di altre navi pronti ad arrembare l'imbarcazione per rimuoverla a forza. Neanche a dirlo, aveva dovuto mandare un'altra squadra a mettere ordine. Anche qui, nessuna buona notizia. Non avrebbe pazientato ancora molto, prima di autorizzare l'uso delle maniere forti. Poi era cominciata l'ondata di furti, scippi e assalti alle botteghe, in metà dei quartieri della città! Mai, in vent'anni di onorata carriera, il tenente Vay si era trovato a dover fronteggiare un'azione criminale tanto vasta e ben coordinata, orchestrata da delinquenti appartenenti alle più svariate bande di strada: Cani Randagi, Anguille, Dita Svelte, e tanti altri, lavorando assieme in totale armonia! Da non crederci, eppure i rapporti erano chiari! Per cercare di contenere quel disastro, aveva dovuto ridisporre un gran numero di squadre,
alterando i turni di servizio, e mandando gli uomini in strada senza ordini dettagliati. Si augurò che sapessero organizzarsi da sé, poiché buona parte degli ufficiali erano già occupati nelle altre crisi, e la comunicazione stava diventando sempre più difficile. E adesso, un'altra patata bollente, la peggiore di tutte! Un fatto assurdo e senza precedenti. Sbatté un pugno sul tavolo. Perché proprio quel giorno? L'indomani avrebbe iniziato il suo meritato periodo di licenza! «Ripeti quello che hai detto!» sbraitò al messaggero. Questi obbedì con un filo di voce. Vay si prese la testa tra le mani. Aveva sentito bene, purtroppo. Un nutrito gruppo di soldati di ventura stava conducendo un assalto ai cancelli della città, nel tentativo di assumerne il controllo. E, cosa strana, qualcuno li stava appoggiando dall'interno. Una provocazione del principe Hiram? O una banda di briganti troppo audaci? In ogni caso la città correva seri rischi. «Sergente, mandate un dispaccio alla caserma Est» sbraitò «Date ordine a tutte le squadre a cavallo di muoversi con la massima urgenza: i cancelli della città sono sotto attacco!» «S-Sissignore!» La caserma non era distante da lì. Avrebbe atteso il ritorno del messaggero, con la notizia che gli uomini erano in movimento, prima di comunicare il fatto al capitano. Capitano, puah! Quell'uomo valeva davvero poco come ufficiale: avrebbe lasciato a lui, come sempre, i dettagli del caso. Se le cose fossero andate bene, si sarebbe preso ogni merito dinanzi al governatore. In caso contrario, lui stesso, tenente Vay, si sarebbe dovuto cercare un'altra occupazione. E un buon unguento per le frustate. Passò il quarto d'ora successivo camminando avanti e indietro nella sala, mordicchiandosi le unghie. Quando il messaggero riapparve, lo afferrò per il bavero. Da una sola occhiata, capì che qualcosa non andava. «Dunque?» esclamò «Le squadre si sono avviate?» «Ehm, signore, c'è stato un problema...» «Di che si tratta?» «I cavalli, signore. Più della metà sono scappati...» «Aaaar! Com'è potuto accadere?» «Giù alla caserma non ne sono certi, signore... Pare che qualcuno abbia aperto di proposito i cancelli delle stalle, e abbia fatto imbizzarrire le bestie. Stanno cercando di recuperarle, ma non sarà facile: si sono disperse per le vie. Tra l'altro, sono già arrivate parecchie lamentele dai cittadini...» «Onnipotente Barak!» pensò Vay «Inceneriscimi adesso coi tuoi fulmini!» «Maledizione!» urlò «Torna immediatamente alla caserma, e dì loro di fare il più presto possibile, o se la vedranno col governatore! Vai! Adesso!» «Sissignore!» rispose il soldato, e guizzò via. Vay riprese a mordersi le unghie. C'era qualcosa di sbagliato, non era possibile che tante cose andassero storte tutte insieme! E adesso gli restava una sola decisione da prendere, proprio quella che il capitano gli aveva raccomandato di non prendere mai, meno che in casi di eccezionale gravità. Casi come quello. Chiamò a sé l'ultimo uomo rimasto nella sala. «Sergente, recatevi alla Fabbrica» ordinò «Comunicate al più alto ufficiale in servizio che abbiamo bisogno degli uomini di stanza là, e subito, per affrontare l'emergenza ai cancelli della città. Se si oppone, mostrategli il mio sigillo. Tenete. E adesso andate, presto!» Il sergente uscì di gran carriera, lasciando Vay da solo nella sala, di solito affollata di persone. Era giunta l'ora di avvisare il capitano. Sapeva di non doverlo disturbare se non in casi estremi, ma non poteva rimandare ancora: aveva fatto tutto quel che poteva, e anche di più. A partire da allora, che si desse da fare qualcuno con più mostrine appuntate sulla divisa! Si calò il cappello sulle tempie ed uscì, abbandonando la sala di comando della Guardia
Cittadina a un inaudito silenzio.
----Leon si mantenne nell'ombra, spiando l'evolversi della situazione. Provò un brivido d'esultanza: i figuranti reclutati da Liberazione stavano facendo davvero un ottimo lavoro! A partire dal falso incidente tra i carri, avevano inscenato tutta una serie di diverbi e scaramucce, che erano sfociate in una grandiosa rissa. Tutti i presenti, dai passanti alle guardie accorse per sedare il disordine, ne erano stati coinvolti. E la via continuava a rimanere ostruita. Un completo successo. Gli era giunta notizia che anche al porto le cose stavano andando bene: la rabbia degli equipaggi bloccati dal bastimento montava sempre più, ormai si era a un passo dallo scoppio di un putiferio. Un bel grattacapo per la Guardia Cittadina. Altra legna sul fuoco per il successo del suo piano. E un'altra opportunità di redimersi. Sospirò. Aveva fatto bene a mostrare a Kyra i suoi scheletri nell'armadio. La reazione di lei era stata anche più comprensiva di quanto avesse sperato: gli aveva dato una seconda opportunità, un'occasione che non poteva sprecare. Perciò avrebbe mandato in porto quella rivolta, a qualunque costo. Soltanto dopo si sarebbe fermato per guardarsi alle spalle, e soltanto allora avrebbe compreso se gli errori del passato erano stati cancellati. Se poteva guardare al futuro da uomo nuovo.
----«Per di qua, Otto! Per di qua!» esclamò Lisca, richiamandolo dal suo nascondiglio. Otto accorse spingendosi affannosamente sulle braccia, con un portamonete stretto tra i denti. Lisca lo aiutò a nascondersi dietro alla bancarella, poi diede una sbirciata in strada: due uomini della Guardia passarono correndo, bastoni in pugno, convinti di essere ancora alle costole di Otto. Lisca sorrise soddisfatto. «E' andata! Ma la prossima volta non essere così imprudente. Lo sai che non sei svelto come gli altri!» «Sciocchezze!» rispose l'ansante Otto, lasciando cadere il portamonete in terra «E poi, questo frutto era troppo prelibato perché io non lo cogliessi...» Lisca rise di rimando. All'inizio era preoccupato, ma adesso le cose stavano andando meglio del previsto. Ogni delinquente impegnato nell'azione stava dando il meglio - o il peggio? - di sé, scippando e rubando a più non posso. Niente violenza, però, questi erano i patti. L'unico scopo era seminare il caos. Per ora tutto stava filando liscio. La parte difficile era stata organizzare le cose, nelle settimane precedenti. Riuscire non soltanto a riunire in assemblea i capi delle principali fazioni criminali di Dekka – già questa un'impresa titanica - ma persino convincerli a collaborare tra loro! Il merito di ciò si doveva a Leon, che negli ultimi tempi aveva subito un'evoluzione impensabile: dal mercante timido e impacciato che era - o che fingeva di essere - si era trasformato in un leader di assoluto carisma, capace di ottenere il successo in pochi giorni là dove anni di trattative avevano fallito. Lisca sospettava che ci fosse sotto anche qualcos'altro: una garanzia di impunità, o un grosso premio in denaro, forse... Ma non era poi così importante. L'importante era che per una volta le bande agissero insieme, d'amore e d'accordo. L'effetto si era dimostrato devastante per la Guardia. Per quanti soldati mandassero a rafforzare le maglie della rete, gli uomini dei bassifondi riuscivano sempre ad aprirsi uno strappo. Non c'era verso di arrestare quell'ondata di furti, con il caos che Liberazione stava causando nell'intera città! «Dannazione! Ci hanno trovati!» sbraitò Otto, tirando Lisca per una gamba dei pantaloni. Al fondo della via, le due guardie di prima li squadravano in cagnesco. «Ehi, voi! Fermi là!» «Non ci penso nemmeno!» urlò Lisca. Ignorando gli strilli di protesta del compagno, se lo caricò di peso in spalla e prese a correre lungo la via, coi due uomini alle calcagna.
«Ahahah!» rise, sentendosi vivo come non mai «Certo che negli ultimi tempi ne abbiamo fatte di cose, vero Otto? E tutto è cominciato grazie a te!» Tra un sobbalzo e l'altro, Otto rispose con parole tali da far arrossire persino un delinquente scafato come Lisca.
----«Prendi questo, maledetto traditore!» Il sergente Keller ricevette il manrovescio in pieno volto, e sputò sangue. Avrebbe dovuto sentirsi disperato, ma non lo era. Aveva fatto la sua parte con successo, nient'altro importava. Da tempo attendeva il momento di vendicare il massacro della sua famiglia. Era riuscito a infiltrarsi nella Guardia Cittadina con meticolosa pazienza, lottando contro se stesso ogni minuto pur di diventar parte del sistema che odiava a morte. La sua idea fissa era di poterlo distruggere dall'interno, un giorno. E quel giorno era arrivato. C'era voluto del tempo, prima di conoscere Leon e i suoi compagni, ma ne era valsa la pena. Grazie a loro aveva potuto dare un senso concreto alla sua vita. Non gli era stato difficile corrompere gli stallieri perché voltassero le spalle al momento combinato, dandogli il tempo di liberare i cavalli. Qualche frustata ben assestata era bastata per farli entrare in panico, poi era venuta la fuga e tutto il resto. Peccato che all'ultimo fosse stato spinto a terra da una delle bestie. Ci avevano messo un attimo a capire che era lui il responsabile, ma il danno ormai era fatto. «Cosa credevi di fare, bastardo?» Un'altra botta, questa volta nelle reni. Keller strinse i denti: non gli avrebbe dato la soddisfazione di sentirlo gridare. Cercò di guardare in faccia, attraverso il velo di sangue che gli oscurava la vista, il caporale che lo stava pestando, un energumeno dall'espressione tutt'altro che rassicurante. «Sei nei guai, amico, guai grossi!» gli sputò contro l'uomo, afferrandolo per il bavero. «Tu più di me, amico» si sforzò di ribattere Keller «Tu più di me...» Poco dopo perse i sensi, ma nessuno riuscì a cancellargli l'espressione di trionfo dal volto insanguinato.
----Selita incoccò un dardo nella balestra, e prese la mira. Premette il grilletto. Un'altra sentinella cadde dalla sua postazione sopraelevata, rovinando al suolo diversi metri più in basso. Selita sorrise. Sapeva che non era necessario uccidere, anzi, Leon aveva imposto a tutti di ridurre al minimo l'uso della violenza. Ma a lei non importava. Quegli uomini facevano parte del meccanismo che aveva strappato la vita ad Aren: provare pietà per loro era impossibile. Quanti più stramazzavano al suolo, tanto meglio sarebbe stato per tutti quanti. Si sporse a controllare la situazione. Da fuori giungevano le grida di battaglia degli assalitori. Era quasi fatta: da lì a poco si sarebbe aperto un varco, nonostante l'impegno dei difensori ammassati a ridosso dei cancelli. Usare quel drappello d'uomini di Feledan, travestiti da soldati di ventura, per simulare l'assalto ai cancelli della città, era stato un vero colpo di genio da parte di Leon. Sulle prime Nestor non aveva voluto dargli retta, ma alla fine si era lasciato convincere ad inviare un messaggio a Zontar, nella capitale. Il piccione con la risposta era arrivato in brevissimo tempo: Feledan si disponeva ad appoggiare il piano di rivolta, mettendo a disposizione il distaccamento d'uomini più vicino a Dekka, già pronto a ricevere ordini. Benché la notizia del tradimento di Dinor lo avesse sconcertato, il principe aveva accettato di non intervenire con l'esercito, non finché c'erano speranze di successo per il piano di Leon. In caso contrario, l'intera popolazione sarebbe rimasta coinvolta in un immeritato bagno di sangue. «Lassù!» gridò un compagno di Selita, indicando un paio d'uomini della Guardia indaffarati con un calderone di pece rovente. Selita conficcò un dardo nella gola di uno dei due, e il contenuto del calderone si rovesciò sull'altro uomo. Le sue urla di dolore si persero nel clamore della battaglia, sovrastate dalle grida di
incitamento e dal clangore delle armi. «Due in meno» pensò Selita.
----Dalla sua posizione, defilato rispetto ai cancelli che proteggevano l'ingresso della Fabbrica, Nestor attendeva con ansia un segnale di successo. Aveva piena fiducia nel concerto di disordini orchestrati da Liberazione, e doveva riconoscere che in quell'occasione Leon stava mostrando eccezionali doti di direttore. I suoi genitori sarebbero stati fieri di lui. «Dovunque voi siate» mormorò «Guardate con orgoglio alle sue gesta, e proteggetelo!» Un improvviso gemito metallico gli sferzò l'udito, quando i cancelli cominciarono ad aprirsi. Estrasse l'Occhio Lungo - un utile strumento di visione a distanza che stava ancora perfezionando. Accostò al viso il cilindro di metallo e inquadrò l'entrata della Fabbrica. Alzò le braccia in silenziosa esultanza: una fila d'uomini armati stava lasciando l'edificio in tutta fretta. Era proprio quello che volevano: farli allontanare da lì. Così la Fabbrica sarebbe rimasta sguarnita, giusto il tempo che serviva a Kyra per dare il via alle danze. Si era ripetuto più volte nel corso della giornata che la ragazza era pronta, e che sarebbe riuscita a portare a termine con successo la sua parte del piano. Ma erano i sentimenti della giovane a turbarlo: Kyra si era offerta di partecipare alla rivolta soltanto per potersi confrontare con Caleb, non certo perché animata dal proposito di liberare la città dalla tirannia. Rischiava di commettere un'imprudenza, e perdere la vita nello scontro, oltre che mettere a repentaglio la parte più delicata del piano. Con uno sbuffo, si scrollò i dubbi di dosso. La ragazza aveva il diritto di procedere come meglio credeva. Fino ad allora era lei che si era sempre dovuta mettere in gioco, ed era lei che aveva perso più di chiunque altro. «Ce la farà» si disse, osservando la fila di soldati che si snodava lungo la strada «Per sé e per tutti quanti noi...»
----Kyra sentì un tuffo al cuore quando raggiunsero lo slargo nelle fogne. Era lì che aveva conosciuto Aren per la prima volta. Poteva ancora vederlo balzare sulle spalle dell'Automa guardiano, incurante del pericolo, pronto a tutto pur di sconfiggerlo. Coraggioso ai limiti dell'incoscienza, com'era nella sua generosa natura. A quel tempo, il popolo del sottosuolo non si era dimostrato troppo amichevole. Ora, invece, li aveva tutti con sé, letteralmente: la banda di Aren al completo, pronta a seguirla fino alla morte, se necessario. Si voltò a guardarli: cinque file d'uomini dall'aria decisa, le cui torce si perdevano nell'oscurità dietro di lei. Nei loro volti pallidi e scavati non vi era traccia di paura o ripensamenti, soltanto l'espressione dura di chi esigeva vendetta a tutti i costi. La medesima espressione stampata sul suo volto. Li condusse lungo lo stretto tunnel in cui lei e i tre Ratti di Porto erano stati assaliti dall'Automa. Non incontrarono resistenza, questa volta. A quanto pareva l'essere meccanico non era stato rimpiazzato. Non che importasse più di tanto, pensò: ne avrebbe fatti a pezzi cento come lui, con le sue stesse mani, pur di raggiungere la sua meta finale. Caleb. Fremeva dalla voglia di trovarselo davanti, e di fargli assaggiare un po' della sua medicina. Non lo temeva, non più. Con le sue nuove armi, gli avrebbe fatto pagare ogni singola goccia di sangue versato. «Un passo alla volta!» si disse «Concentrati!» Caleb non era l'unico pericolo nella Fabbrica. Un attimo di distrazione, e la sua missione sarebbe terminata ben prima del previsto. Guardò avanti: in fondo alla galleria, il passaggio era interrotto da una parete, in cui si apriva una bocca di scarico lorda di catrame. Fece segno agli uomini di arretrare. Estrasse di tasca il regalo che Nestor le aveva dato, una piccola sfera rivestita di metallo. Premette i due interruttori posti ai poli
della sfera, e la gettò all'imboccatura dello scarico. Corse a distanza di sicurezza, e si accucciò. Questa volta non avrebbe strisciato nell'ombra, né avrebbe celato il rumore dei propri passi. Sarebbe entrata con la forza. Il tunnel fu squassato da una violenta esplosione, e uno squarcio si aprì nella roccia. Kyra non attese neppure che la nube di polvere si dissipasse. Levò un pugno al cielo e lanciò il suo grido di sfida, buttandosi alla carica attraverso l'apertura. Gli uomini di Aren le corsero dietro gridando a pieni polmoni, un rombo di tuono che annunciava tempesta.
XXV - L'Incubo
C'era qualcosa di strano... Dorian e Raduan se ne resero conto non appena misero piede nel villaggio, immerso nella fitta cerchia d'alberi della foresta: non c'era una persona in strada, neppure una voce, o il latrare di un cane. Il silenzio era assordante. Condussero i cavalli al passo lungo la via che tagliava in due il centro abitato, fiancheggiata da case vuote e abbandonate come carcasse, e si stupirono di come le cose fossero cambiate dall'ultima volta. Era lo stesso villaggio di boscaioli dove avevano lasciato Khorl e Sybil dopo il malaugurato incontro con l'Addestratore di Serpenti. Ma a quanto pareva gli abitanti erano svaniti nel nulla. Dorian strinse la presa sull'elsa della spada. Non riusciva a distogliere gli occhi dalle soglie vuote delle case, come se da un momento all'altro potessero vomitargli addosso orde di nemici. I pensieri di Raduan, che cavalcava al suo fianco, non erano differenti. Si terse il sudore dalla fronte. Il sole, all'apice del suo percorso, squadrava la terra come il feroce occhio di un ciclope. Ebbe la netta sensazione che passare di lì non fosse una buona idea. Avevano immaginato di potersi riposare all'ombra del grande olmo che si ergeva vicino al pozzo. Allo stesso tempo, si sarebbero informati sul destino della giovane madre che avevano salvato, e sulla salute di Khorl, che a quel punto doveva già essere tornato a Bezer insieme a Sybil. Invece erano capitati nel bel mezzo di un villaggio fantasma. Non vi erano segni di lotta o saccheggio: nessun cadavere, nessuna casa bruciata o porta sfondata. Era un buon segno, senza dubbio, ma non li aiutava a comprendere quel totale abbandono. Dorian arrestò il cavallo nel mezzo della via. «Voglio vederci più chiaro.» «Non credo che sia il caso...» protestò Raduan, guardandosi attorno nervosamente. «Dammi retta, non ci vorrà molto.» Scesero di sella con le armi strette in pugno. L'aria era pesante e immobile, senza un filo di vento. Si diressero alla casa più vicina, bassa e poveramente costruita come tutte le altre. Diedero un'occhiata attraverso la finestra, senza notare nulla di sospetto. Raduan appoggiò una spalla alla porta, e spinse: la porta cedette facilmente, aprendosi verso l'interno con un sinistro cigolio. Entrarono guardinghi, dando agli occhi il tempo di abituarsi alla penombra. Le sagome di pochi, semplici mobili presero forma di fronte a loro nell'unico ambiente che costituiva l'interno dell'abitazione. La tavola al centro della sala era apparecchiata: una forma di pane secco, del formaggio stantio, e tre scodelle di zuppa ormai fredda. Un lauto banchetto per le mosche. Tutto lasciava credere che gli occupanti se ne fossero andati in fretta e furia, in fuga da una minaccia. Cosa poteva averli spaventati a tal punto? Forse l'Addestratore di Serpenti era tornato sui suoi passi, intenzionato a fare altre vittime? Non pareva aver senso, anche perché di vittime non c'era traccia. I due arretrarono e uscirono dalla casa. Ne visitarono altre, ritrovando in tutte la stessa scena di abbandono improvviso. Nessun indizio che spiegasse quel mortorio silenzioso. Si trovavano vicini alla taverna del villaggio, quando giunse alle loro orecchie un inaspettato rumore di vetro in frantumi. Si scambiarono un'occhiata: un segno di vita, finalmente! Percorsero carponi la distanza che li separava dalla modesta costruzione di legno. Si appiattirono contro la parete ai due lati dell'ingresso. Dorian contò fino a tre, quindi spalancò la porta con un calcio e balzò dentro a spada tratta, subito imitato da Raduan. Una scena inaspettata si presentò ai loro occhi: riverso a terra sulla schiena, in mezzo a un nugolo di cocci di bottiglia, c'era un uomo di mezza età dal ventre gonfio come un pallone. Le sue labbra erano avidamente incollate al rubinetto di un barile di limpaq, e rivoli della bevanda scura gli scorrevano lungo le guance, andando a formare una pozza sul pavimento.
Non appena li vide, l'uomo cacciò un urlo di sorpresa, e un getto di liquido gli inondò il volto rubizzo. Rotolò su un fianco, tossendo e sputando come se fosse sul punto di soffocare. Dorian e Raduan continuarono a fissarlo inebetiti, mentre si alzava in piedi barcollando e imprecando: fece due passi incerti verso di loro, poi cambiò direzione di botto, e crollò all'indietro contro il bancone del bar. Prima che piombasse a terra, i due guerrieri corsero a sorreggerlo. L'ubriaco fece per protestare, ma Raduan lo afferrò saldamente per un braccio. «Calmati!» disse «Siamo amici, non ti faremo del male.» «Amisci?» rispose l'uomo, con voce impastata dall'alcool. Ruttò, e Raduan si sentì rigirare lo stomaco. «Sì, amici!» «Hank non ha amisci!» replicò l'uomo, strabuzzando gli occhi nel vano tentativo di metterli a fuoco «Gli amisci sono andati via tutti! Hanno lasciato Hank solo come un cane!» «Andati? Come? Spiegati meglio.» «Partiti, di corsa, tutti quanti! Ma nessuno si è ricordato di Hank! Abbandonato come un cane, come un cane!» Dorian gli poggiò una mano sul collo. «Hank è il tuo nome?» domandò. «Il mio nome, sì... Ma levami le manacce di dosso!» «Va bene, Hank, va bene!» L'uomo piagnucolò, lanciando un'occhiata piena di rammarico alla pozza di limpaq che si allargava ai piedi della botte. «Lasciatemi in pace! Hank sta molto bene, qui da solo!» Raduan gli diede una lieve scrollata. «Perché se ne sono andati, Hank?» «Perché? Perché?» ripeté l'ubriaco come un pappagallo. Poi si aprì una breccia nella sua mente inebetita dall'alcool: «Armi!» esclamò, rivolto al soffitto «Tanti uomini armati! Nella foresta, viscino al villaggio... Ma noi non siamo stupidi, noscignore! Abbiamo sentinelle! Hanno detto che era meglio scappare, lasciare il villaggio! Ma Hank non l'ha fatto!» affermò, battendosi un pugno sul petto «Hank non è un vile! Hank è rimasto qui da solo, a proteggere il villaggio! E loro, i vigliacchi, sono scappati...» Il suo sguardo si fece di nuovo opaco. «...abbandonato, come un cane...» «Hai detto uomini armati, Hank?» indagò Raduan, alzando un sopracciglio. «Sì, armati! Sei sordo? Erano molti... Nel buio, tra gli alberi, ma non facevano rumore... E c'era quel gobbo che volava sul tappeto!» Rise senza coerenza. «Ma non sono venuti al villaggio... Hank li aspettava qui, i codardi, ma non sono venuti, no, sono andati avanti...» Tornò a rivolgere la propria attenzione al barile di limpaq. «Solo io sono rimasto a far la guardia, per cui è tutto mio! Andate via! E' mio, mio!» Cercò di liberarsi dalla stretta di Raduan, afferrandolo per il bavero della camicia. Ma in quel preciso istante l'alcool ebbe la meglio su di lui, e con un sorriso ebete si afflosciò tra le braccia del guerriero, addormentato. «Ma che diavolo!» sbottò Raduan. Adagiò in terra il corpo privo di sensi. Gli si inginocchiò accanto e gli diede un paio di schiaffetti sul volto, ma non riuscì a farlo tornare in sé. Neanche una cannonata ci sarebbe riuscita, pensò, non prima che avesse recuperato qualche ora di sonno. Restarono a fissarlo per un po', ma non c'era nient'altro che potessero fare. «Bah! Lasciamolo qui. Se non ci ha mentito, tra poco i suoi compaesani saranno di ritorno e se la vedranno con lui.» «In tutti i sensi» aggiunse Dorian, scuotendo la testa di fronte alla devastazione della taverna. «Resta da capire cosa ci facesse quel plotone nella foresta, di notte... Dovevano essere parecchi
uomini, e di sicuro non portavano le insegne di Feledan, se gli abitanti si sono dati alla fuga.» «Forse li ha spaventati il gobbo che volava sul tappeto...» commentò Raduan con un sorriso ironico. «Vorrei avere il tuo senso dell'umorismo. Ma questa storia mi mette i brividi.» «Non dev'essere nulla di importante. Dopo la faccenda del serpente mangia-uomini, questa gente deve avere i nervi a fior di pelle. Scommetto che hanno scambiato una partita di caccia per un'invasione, e sono scappati come conigli. Torneranno a casa oggi stesso, vedrai, e ci rideranno su. L'unico che avrà poco da ridere sarà questo poveraccio!» «Spero che tu abbia ragione. Ma la cosa continua a non piacermi.» Sbuffò. «Sbrighiamoci, non c'è altro da fare qui. Abbiamo ancora una settimana di viaggio davanti a noi, come minimo.» «Hai ragione» annuì Raduan «Non vedo l'ora di tornare a casa!» E nel dire ciò non si riferiva certo alla fortezza di Bezer, che valeva come qualsiasi altro posto, bensì alla Compagnia del Viandante. Dopo un mese e più di lontananza, era grande la nostalgia dei compagni, che considerava la sua unica vera famiglia. Lo stesso valeva per Dorian. Usciti dalla taverna, recuperarono i cavalli e li guidarono al pozzo, per dissetarli. Si concessero qualche minuto di riposo, poi salirono in sella e ripresero il viaggio. Superata l'ultima casa, la foresta si richiuse su di loro, e inghiottì il villaggio abbandonato alle loro spalle.
----La seconda settimana di viaggio passò rapida e senza eventi degni di nota. Dorian e Raduan cavalcavano dall'alba al tramonto, ansiosi di ricongiungersi alla Compagnia. In più di un'occasione l'occhio attento dei due captò tracce del passaggio di uomini armati: lo dedussero dalle impronte di stivali nel fango, e dai resti di fuochi d'accampamento. Erano probabilmente gli stessi che avevano spinto alla fuga i boscaioli, e, in base alle tracce, li precedevano di un paio di giorni. Ogni volta che si imbattevano in un segno del loro passaggio, Dorian provava un'inspiegabile fitta allo stomaco. E il fatto che si muovessero nella loro stessa direzione non lo rendeva più tranquillo. Lungo il cammino, quando non erano occupati a fare congetture sul contenuto del diario di Abel, il fulcro della conversazione era sempre e solo quell'armata fantasma, che era sempre un passo dinanzi a loro. Chi erano? Perché si muovevano così in fretta? Qual era il loro obiettivo? Era un drappello di Hiram, infiltratosi per dare il via alla guerra? Una banda di briganti in fuga dalla legge? Mercenari, girovaghi, mercanti nomadi? Quale che fosse la risposta, Dorian non vedeva motivo di rilassarsi, e sempre più spesso affondava i talloni nei fianchi del suo stallone per spingerlo al galoppo. Quelli erano per lui gli unici momenti di sollievo: il vento tra i capelli, lo scalpitio degli zoccoli nelle orecchie, il martellare dei muscoli della cavalcatura sotto la sella... In certi momenti Raduan faticava a tenergli dietro: il suo destriero, dal manto nero come la notte, era robusto e affidabile, ma non poteva certo competere in velocità con la maestosa bestia di Dorian. Passarono l'ultima notte di viaggio accampati in una radura bordata da querce di venerabili dimensioni, le cui radici nodose si intrecciavano a formare un reticolo. Accesero un fuoco, e Raduan ne approfittò per cucinare quel che restava delle loro magre provviste. Negli ultimi giorni non avevano avuto né tempo né voglia di dedicarsi alla caccia, o di rifornirsi in qualche villaggio: quella notte avrebbero dovuto accontentarsi. Del resto, erano certi di raggiungere Bezer nel pomeriggio successivo. Anche per questo motivo nessuno dei due aveva molta fame. Dinanzi agli occhi della loro immaginazione, le fiamme guizzanti del falò assumevano le sembianze degli amici che non vedevano l'ora di riabbracciare. Si sdraiarono presto, immersi nei propri pensieri. Quando i primi raggi del sole restituirono i colori al mondo, entrambi si resero conto di aver passato una notte insonne. Durante l'arco della giornata divorarono le miglia che ancora li separavano dalla meta, nonostante il terreno boscoso e disagevole. Quella che avevano attraversato durante due settimane di viaggio era la regione più spopolata del principato di Feledan: l'unica traccia di presenza umana
erano i pochi e isolati villaggi di boscaioli. Proseguendo verso ovest, Bezer costituiva il primo grande centro abitato; tra la fortezza e la Torre Grigia, vi era poco o nulla che si potesse definire “civiltà”. Dorian condusse il cavallo attraverso una barriera di alberi e arbusti, e notò che l'intrico di vegetazione si apriva di fronte a loro in un'infilata priva di ostacoli. Al fondo di quel corridoio naturale, la luce rosata del sole pomeridiano risplendeva come una promessa. Luce. Spazi aperti. I campi di grano attorno alla fortezza... Lanciò uno sguardo sorridente a Raduan, dietro di lui, e questi capì subito di che si trattava. «Siamo arrivati!» esclamò. «Sì, amico mio, siamo arrivati» rispose Dorian. «Ma» aggiunse poi, strizzandogli un occhio «Ancora non sappiamo chi varcherà per primo i cancelli della fortezza...» «Vero...» Si fissarono a vicenda, sogghignando, poi Dorian diede uno strattone alle redini e fece impennare il suo cavallo. «Chi arriva ultimo paga da bere per una settimana!» dichiarò, e subito lanciò il destriero al galoppo, verso la luce. Raduan non aspettò un invito formale: piantò i talloni nei fianchi della sua cavalcatura, che balzò in avanti con un nitrito di protesta. I due cavalieri saettarono fuori dai confini della foresta, accecati dal vento tagliente e dalla sfera infuocata del sole sospesa dritto dinanzi a loro. L'erba scivolava come acqua sotto gli zoccoli dei cavalli al galoppo, aprendo una scia al loro passaggio. Dorian, girandosi, vide che Raduan stava perdendo terreno, e scoppiò in una tonante risata. Ma non appena tornò a guardare avanti, tutta l'allegria della corsa gli morì in gola, come se avesse inghiottito un secchio di pece. Una spessa colonna di fumo nero si innalzava dal centro della fortezza di Bezer, diluendosi in un manto di notte liquida nel cielo saturo di avvoltoi. Rallentarono l'andatura, scambiandosi sguardi pieni d'ansia, ma non fu che un istante. Poi spinsero le cavalcature in un galoppo sfrenato, temendo il peggio. L'odore acre di corpi bruciati assalì il loro olfatto ben prima che i loro occhi potessero distinguere con chiarezza ciò che era accaduto. E quando ci riuscirono, fu la conferma delle loro peggiori paure: decine e decine di soldati caduti di fronte all'ingresso del bastione, tutti con le insegne di Feledan, le armature dilaniate e strappate via da una serie di violentissimi urti. Il portone corazzato che un tempo si ergeva a difesa della fortezza, massiccio e in apparenza indistruttibile, giaceva ora in terra divelto dai cardini. Era spezzato e annerito in più punti, come se una pioggia di proiettili infuocati l'avesse investito. «Cosa diavolo...» sussurrò Raduan, con un filo di voce. Dorian, sconvolto, sollevò lo sguardo da quello scempio. Scrutò la linea dell'orizzonte, nella vana speranza che il nemico si trovasse ancora alla loro portata. Niente. Nessuna sagoma in lontananza, nessuna nube di polvere. L'armata si era dissolta nel nulla, anticipando il loro arrivo. Ruggì di rabbia. Scesero da cavallo, le armi in pugno, e si separarono alla ricerca di sopravvissuti. Si inoltrarono un passo dopo l'altro in quel macabro scenario, prestando attenzione a non calpestare i cadaveri. Gli avvoltoi erano già all'opera, e dovettero scacciarli a furia di calci e grida. Vi era una gran quantità di corpi ammassati di fronte al portone scardinato: a quanto pareva la guarnigione della fortezza era stata costretta ad uscire per affrontare a viso aperto il nemico. Una scelta rischiosa, considerando che Bezer avrebbe potuto resistere a un assedio di parecchie settimane. O i nemici erano giunti talmente all'improvviso da cogliere la guarnigione impreparata, ipotizzò Dorian, o disponevano di qualche formidabile asso nella manica. A giudicare dai resti della battaglia, si trovò a propendere per la seconda ipotesi: i suoi occhi erano allenati a riconoscere i tipi di ferita inflitti dalle più svariate armi, ma ciò che vide sfuggiva ai suoi parametri. Armature di ferro trapassate da fori del diametro di un pugno; elmi accartocciati; scudi bruciati e piegati in modo innaturale... Una vita passata sui campi di battaglia, e non ricordava di aver mai visto nulla di simile.
Senza riuscire a scacciare la sensazione di nausea che gli attanagliava lo stomaco, si guardò attorno alla ricerca di un viso conosciuto, o di un corpo con indosso la tunica bianca della Compagnia del Viandante. Non ne vide nessuno, ma la cosa non lo tranquillizzò. Mentre esaminava i cadaveri, Raduan percepì un movimento con la coda dell'occhio: un braccio alzato, dita che ghermivano l'aria. Corse in quella direzione, e vide che la mano apparteneva a un soldato il cui corpo era stato letteralmente sommerso da quelli dei suoi compagni. Chiamò Dorian con un fischio, e insieme si diedero da fare per scostare i cadaveri ammassati sul sopravvissuto. Quando ebbero terminato, fu per loro un'amara sorpresa riconoscere il volto del capitano Seras, l'ufficiale in capo della guarnigione militare di Bezer. Dorian ricordava bene le conversazioni avute con lui soltanto un paio di mesi prima: già allora Seras era pessimista sul futuro, e non si era sbagliato. Adesso la vita gli stava sfuggendo dalla miriade di tagli che gli dilaniavano il corpo. Era sorprendente come non avesse ancora perso conoscenza: Dorian gli sorresse il capo con un braccio, e gli appoggiò una mano sul petto, quasi cullandolo. Gli occhi di Seras erano velati e lontani, come se già stessero proiettando il loro sguardo sui campi sconfinati dell'aldilà. Raduan scosse la testa, convinto che non ci fosse più nulla da fare, se non star vicino al capitano nel suo ultimo viaggio. Quasi fece un balzo quando le dita fredde di Seras gli afferrarono un braccio, cercando di tirarlo a sé. L'uomo digrignava i denti, sibilando: stava spendendo le sue ultime energie per trascinarlo con sé nell'oltretomba, come un nemico. «Calmatevi Seras!» esclamò Dorian, dandogli una lieve scossa «Sono io, Dorian, della Compagnia del Viandante!» Seras smise di lottare. Aveva riconosciuto quella voce familiare, nella nebbia che gli intorpidiva la mente. «Voi...» mormorò, articolando le parole con difficoltà tra le labbra riarse «Siete arrivato tardi... Vi siete perso la battaglia...» «Cosa è avvenuto, capitano?» indagò Dorian «Chi è stato? Hiram?» Seras scosse la testa, tossendo sangue. «Nessuna insegna... Non più di cinquanta uomini, vestiti di nero...» «Cinquanta uomini?» ripeté Raduan, incredulo «Non è possibile che abbiano provocato tanti danni!» «Non loro!» sbraitò Seras, rivolgendogli uno sguardo allucinato «Il loro capo... Un maledetto storpio, sospeso a mezz'aria come un fantasma!» Il pensiero di Dorian corse al resoconto sconclusionato dell'ubriaco nel villaggio dei boscaioli: ancora una volta quell'immagine assurda del gobbo volante! «Un incubo...» continuò Seras, storcendo la bocca nel rivivere le sanguinose immagini della battaglia «Se ne stava là, sopra le nostre teste, avvolto dalla nebbia... Abbiamo cercato di abbatterlo dai bastioni, ma le frecce si congelavano e spezzavano prima di andare a segno... Da quella schiena deforme, sono uscite delle cose... sembravano rami, aste... E poi...» Fu scosso da un eccesso di tosse, e dovette interrompere il racconto per un buon minuto prima di poter proseguire. Dorian e Raduan lo fissavano in silenzio, timorosi di ciò che avrebbero udito in seguito. «Il cielo si è spaccato in due! Tuoni e lampi come non avevo mai visto né sentito... I fulmini si sono abbattuti sul portone, l'hanno sfondato... Ho chiamato a raccolta i soldati, ci siamo lanciati all'attacco... Ma non è servito: una pioggia di saette ci ha investito... Ci ha spazzati via, in un solo istante!» Seras tossì, sputando sangue. «I miei soldati... Gli uomini in nero hanno fatto il resto...» «È... assurdo!» obiettò Dorian, rifiutando l'idea che esistesse al mondo un uomo in grado di volare, e di usare i fulmini del cielo come frecce al suo arco. «Assurdo?» gli fece eco Seras, piegando le labbra insanguinate nella truce caricatura di un sorriso «Assurdo come la vostra dannata Compagnia portatrice di morte! Maledetto il giorno che vi
ho dato retta...» Con grande sforzo, il capitano torse il collo di quel tanto che bastava ad incatenare gli occhi di Dorian ai suoi. «Sono venuti per voi, comandante. Per voi!» Dorian sentì che il suo cuore perdeva un battito. «Perché lo dite?» reagì, scuotendo Seras con più forza del necessario. «Non lo so» rispose il capitano, il cui sorriso andava tramutandosi in una roca risata «Ma questa volta.... sì, questa volta avete pagato il vostro prezzo... il prezzo più alto...» La folle risata crebbe d'intensità. Dorian, senza rendersene conto, lo serrò in un abbraccio che rischiava di diventare una stretta mortale. «Dorian! Dorian!» esclamò Raduan, cercando di scuotere l'amico dalla specie di trance in cui era caduto. Dorian si alzò di botto, lasciando scivolare Seras in terra come un fantoccio. Non disse una parola, ma Raduan lesse nei suoi occhi un misto d'ira e ansia violento come un fiume in piena. Il comandante gli voltò le spalle, e avanzò ad ampi passi verso la fortezza. «Aspetta, non possiamo lasciarlo qui!» disse Raduan. «Non possiamo fare più nulla per lui!» ruggì Dorian «Muoviamoci!» Raduan si soffermò ancora un istante ad osservare il volto di Seras, sempre più pallido e contorto. La sua risata malevola non accennava a spegnersi. Il guerriero rivolse qualche parola di preghiera ad Abidan, poi corse dietro a Dorian, che già scompariva tra le macerie. Alle loro spalle, il folle ghigno del capitano morente ribadì: «Il prezzo più alto!» Poi la sua voce si sciolse in un ultimo rantolo.
----L'interno della fortezza era stato risparmiato dalla furia della battaglia, per lo meno nella struttura: gli edifici addossati al torrione centrale, che fungevano da abitazione per i soldati della guarnigione e le loro famiglie, erano rimasti pressoché intatti. Non altrettanto si poteva dire dei poveri abitanti: sparsi a decine nello spiazzo antistante i cancelli, e nelle viuzze che separavano una casa dall'altra, giacevano i corpi senza vita di uomini, donne e bambini. La crudeltà degli invasori non sembrava essersi fermata dinanzi a nulla, persino i cani e gli altri animali domestici erano stati abbattuti sul posto. Nel procedere a passi svelti verso il torrione, alle spalle del quale si trovava la caserma assegnata alla Compagnia, Dorian credette di avvertire il battito di un tamburo. Non era che il suo cuore, impazzito dalla paura. Continuò a camminare, incurante ai richiami di Raduan. Non ce la faceva, a fermarsi. Le parole di Seras gli risuonavano nella mente come una maledizione, e ad ogni passo gli tremavano le gambe. Poteva imporsi di ignorare quelle parole, di liquidarle come le farneticazioni di un moribondo, ma non poteva in modo alcuno chiudere gli occhi dinanzi alla colonna di fumo nero che si innalzava dietro al torrione. Pochi metri ormai lo separavano dalla verità, e accelerò il passo, pur contro il suo istinto e la sua volontà. Non udì una sola voce, un lamento: soltanto un crepitio sinistro, e l'odore acre della morte. Raduan lo raggiunse mentre svoltava dietro alle mura della torre. E allora videro. La realtà sbatté contro di loro con la violenza di una palla di cannone, fracassando il loro spirito in mille schegge di angoscia e dolore. Dorian fu il primo a urlare, e gli sembrò che il cuore fosse sul punto di scoppiargli. Al suo fianco, Raduan si affondò le unghie nella testa. Dinanzi a loro, impilati e dati alle fiamme senza pietà in una grottesca montagna d'incubo, c'erano i cadaveri dei membri della Compagnia del Viandante. Piantata in cima al mucchio ardente, come un crudele trofeo, videro l'asta spezzata dello stendardo. I due guerrieri restarono impietriti, ridotti a statue di sale dinanzi a quell'orrenda visione che aveva scagliato le loro vite in un abisso senza fondo. Dorian piegò le ginocchia di fronte a ciò che
quella immonda pila di corpi senza vita rappresentava: la fine di amicizia, amore e speranza, la fine di tutte le battaglie. La fine di un sogno chiamato Compagnia del Viandante. Raduan urlò di rabbia e frustrazione, un grido roco rivolto al cielo. Corse attorno alla pila ardente, le mani nei capelli: tra le fiamme, scorse i volti carbonizzati ma ancora riconoscibili delle persone che amava, i suoi fratelli e sorelle, la sua famiglia. Cercò vanamente di scagliare terra sul mucchio, si strappò la camicia di dosso e la agitò sulle lingue di fuoco, come se ciò bastasse a soffocarle. Si fermò soltanto quando Dorian lo affiancò, e lo serrò in un muto abbraccio. La sua frenesia si disfece in un torrente di lacrime amare. Ma neppure queste riuscirono a intaccare le fiamme. «Aaahhhh!» urlò «Perché, dannazione, perché? Non doveva finire così...» Dorian non aveva parole per rispondergli. «Chi sono io, adesso?» si chiedeva, gli occhi sbarrati dinanzi a quel turpe spettacolo, del tutto simile a un'altra scena che risorgeva a tormentarlo dagli abissi della memoria. Altri tempi. Altre morti. Stesso dolore. «Chi sono io?» Un padre senza figli. Un marito senza moglie. Un comandante senza soldati. I minuti passarono lenti nell'eco delle loro anime, prima che il torpore cominciasse a svanire. Dorian si sforzò di dare un senso a quella situazione, per quanto terribile essa fosse. Il significato di quanto avevano dinanzi agli occhi era inequivocabile: qualcuno aveva assalito Bezer con il preciso scopo di annientare la Compagnia del Viandante. E quel qualcuno era abbastanza potente da esserci riuscito senza sforzo. Scagliò un urlo al cielo. Un nemico inarrestabile, aveva detto Seras prima di morire, in grado di controllare gli elementi naturali a suo piacimento. Ma perché questo nemico aveva scelto la Compagnia? Mosse alcuni passi intorno alla terribile pira funeraria, senza distoglierne lo sguardo. Per quanto avesse sperato altrimenti, ogni occhiata confermava l'ipotesi peggiore, ossia che nessun membro della Compagnia fosse scampato al massacro. Riconobbe buona parte dei resti mortali così crudelmente esposti: Sybil, sempre pronta ad alleviare il dolore del prossimo con le sue arti mediche; il vecchio Dorcas, che tante volte li aveva condotti per sentieri sicuri; Khorl, il gigante senza paura, l'ascia stretta tra le dita anche dopo la morte; e un altro; e un altro; e un altro ancora... Un eccidio totale, senza un perché. O forse... Fissò lo sguardo sull'asta spezzata dello stendardo, in cima al mucchio. «Se soltanto fossimo arrivati prima...» gemette Raduan, asciugandosi le lacrime col dorso di una mano. «Non sarebbe servito a nulla» replicò Dorian, senza levare gli occhi dall'asta dello stendardo «Saremmo due corpi in più in cima al mucchio.» «Forse sarebbe stato meglio...» mormorò l'altro, chinando il capo. In quel momento la coscienza del proprio futuro si fece strada in Dorian con assoluta nitidezza. C'era un solo cammino da percorrere a partire da allora, una sola via d'uscita, un'unica realtà. Afferrò l'amico per le spalle, costringendolo a fissarlo negli occhi. «No!» disse, con gli occhi iniettati di sangue «Non voglio mai più udire queste parole!» Indicò i morti della Compagnia. «Chi ha fatto questo deve pagare, fino all'ultimo uomo! Non c'è nessun altro che possa vendicarli, Raduan, nessuno. Tu ed io soltanto.» «Vendetta?» ripeté Raduan. «Non ci resta altro...» «Ma... Abel?»
«Nient'altro!» urlò Dorian, trapassandolo con occhi gelidi che stentò a riconoscere «Non lo vedi? Come stolti abbiamo concentrato tutti i nostri sforzi su di lui, dimenticandoci di noi stessi! Ho mancato completamente ai miei doveri, e questo è il risultato! » «Non è vero!» protestò Raduan, ma subito intuì dallo sguardo furente di Dorian che non c'era modo di farlo ragionare. «Fa male ammetterlo, ma è così! Ho sempre creduto in Abel, e non smetterò di farlo adesso. Se ci ha abbandonati, non è certo perché tu ed io gli corressimo dietro come bambini sperduti!» Si morse le labbra. «Aveva lasciato a me la responsabilità, si era fidato di me ciecamente. E cosa ho fatto per meritarmi la sua fiducia? Guarda tu stesso... Ho condotto tutti quanti alla rovina!» Lottò per ricacciare indietro le lacrime. «L'unica cosa che mi resta è cercare vendetta, o morire nel tentativo! Lo devo a loro!» «Io soffro come te!» affermò Raduan, poggiandogli le mani sulle spalle «La Compagnia era tutto per me!» Sospirò. «Non posso e non voglio scordare l'insegnamento di Abel, neppure in questo momento. Dobbiamo trattenere la nostra ira, non lasciare che ci annebbi la mente! Non può venirne nulla di buono, lo sai: odio chiama odio, sangue chiama sangue, morte chiama morte...» «Morirei mille morti dolorose pur di fargliela pagare!» dichiarò Dorian, con lettere intinte nell'inchiostro di un odio senza limiti. E come se qualcosa si fosse rotto dentro di lui, in quell'istante si trasformò in un uomo completamente diverso. Un inatteso battere di mani fece eco alle sue parole. Un applauso, lento e ritmato, alle loro spalle. Si girarono, e si trovarono dinanzi l'essere alto e ripugnante che si faceva chiamare Addestratore di Serpenti. La creatura li osservava con occhi da rettile privi di espressione, la bocca larga e sottile atteggiata a un sorriso. E applaudiva. «Bel discorso, comandante Dorian» sibilò beffardo «O meglio, Dorian soltanto. Non comandate più un bel nulla!» Fu la goccia che fece traboccare il vaso, in quella cupa giornata di follia e morte. Prima che Raduan potesse impedirglielo, Dorian estrasse la lama dal fodero e corse a testa bassa verso il nemico. Con un poderoso urlo di guerra alzò la spada al cielo, e spiccò un salto. Verso la vendetta, o verso morte certa, per quello che valeva.
XXVI - Scontro all'Ultimo Sangue
Nell'impeto dell'assalto, Kyra e i suoi uomini per poco non si ruppero l'osso del collo, slittando sulle pozze d'olio nero sparse in ogni dove. Sbucarono incespicando in una vasta sala, dove una rete di passerelle correva tra dozzine di vasche piene d'olio fumante. Due enormi esemplari di Automa trasportatore se ne stavano da un lato, disattivati, con un paio di tubi di scolo connessi al dorso. Sul lato frontale, altri tubi li rifornivano di olio fresco. Con un rapido colpo d'occhio, Kyra captò la presenza di appena due uomini nella sala, impegnati a supervisionare il rifornimento degli Automi. Nessuna guardia in vista. Non c'era ragione di rallentare la carica. Strabuzzando gli occhi, i due uomini si videro piombare addosso dai camminamenti tra le vasche un centinaio di nemici, condotti da una giovane donna dall'aria feroce. Uno dei due provò a correre verso l'uscita, ma venne raggiunto e calpestato dall'orda urlante. L'altro cercò la fuga tuffandosi in una delle vasche, ma non ebbe fortuna: annaspò per diversi minuti prima di affondare nel liquido viscoso. Oltrepassata così di slancio la sala delle vasche, Kyra si trovò senza idee precise sulla direzione da prendere. Rallentò il passo, subito imitata dagli altri. Si guardò attorno, ma non riconobbe nulla che potesse servirle di riferimento. L'eco dei loro movimenti si perdeva nel silenzio delle gallerie male illuminate. Un'accoglienza piuttosto fredda, non certo quella che si era aspettata. In mancanza di un piano migliore, prese a seguire la galleria più larga e luminosa, nella speranza che sfociasse nel Nucleo della Fabbrica. Una volta là si sarebbero dati da fare. Non vedeva l'ora di demolire l'intera catena di montaggio! Caleb non sarebbe rimasto a guardare, oh no! Sarebbe accorso a difendere i suoi protetti, e allora... Un improvviso flash dell'occhio artificiale la mise in guardia contro un movimento all'altezza del bivio con un'altra galleria. Chiuse la mano a pugno, causando una brusca fermata degli uomini alle sue spalle. Proseguì da sola, un passo alla volta. Tese l'orecchio, nel tentativo di avvertire il familiare ronzio di un Automa, o i passi di un nemico in carne ed ossa. Nulla. Desiderò che l'occhio potesse fornirle più informazioni. Fu allora che la cosa balzò fuori dal suo nascondiglio e le saettò dinanzi, tagliandole la strada. Un gatto! Kyra tirò un sospiro di sollievo: dovevano aver disturbato la bestiola nella sua caccia quotidiana, ecco tutto. Si voltò e fece segno di riprendere la marcia. Fece un passo avanti, e qualcosa guizzò tra le sue gambe, proveniente dal passaggio laterale. Pensò che fosse di nuovo il gatto, ma dovette subito ricredersi quando una corda robusta, sospinta da un peso legato a un'estremità, le si avvinghiò attorno alle caviglie. Un forte strattone, e cadde schiena a terra. Mentre cercava di riprendersi dalla botta, udì un sibilo dietro alla nuca. Si fece scudo con l'arto artificiale, e un'altra corda, indirizzata al suo collo, vi si avvolse. Un istante più tardi, entrambe le corde si tesero con violenza in direzioni opposte, sollevandola da terra. Il suo corpo si inarcò con uno schiocco, strappandole un grido. Furono attimi di confusione: l'intera banda le corse incontro gridando, nell'intento di soccorrerla, ma una terza fune balenò tra le gambe dei primi, facendoli cadere. Una fila dopo l'altra, gli uomini capitombolarono al suolo, ostruendo il passaggio a quelli che li seguivano. Col corpo teso fin quasi al punto di rottura, Kyra si sforzò di capirci qualcosa. Seguì la corda con lo sguardo, fin dove questa si perdeva nel buio della galleria, tra una coppia di bagliori rossastri. Gli occhi di un Automa. Si era fatta sorprendere come una principiante, eppure avrebbe dovuto immaginarselo! Con tutto
il frastuono che avevano provocato - di proposito, oltretutto - era ovvio che li stessero attendendo al varco. «Sciocca!» si rimproverò. Era tempo di reagire. Piegò il polso, e con uno scatto secco la coppia di lame ricurve fuoriuscì dal dorso del suo braccio meccanico. Tirò con tutta la forza di cui era capace, raspando con il filo acuminato delle lame la fune più prossima, fino a tagliarla. Lo squilibrio di forze la spinse avanti di botto. Assecondando il movimento, Kyra si piegò in avanti con un colpo di reni, tranciò la fune legata alle caviglie, e spiccò un salto. Piombò come un falco sull'Automa nascosto tra le ombre. Quando affondò le lame, la testa della macchina esplose in una pioggia di schegge. La fune tranciata che gli sbucava dal petto continuò a frustare l'aria, come la coda di un rettile moribondo. Kyra non perse tempo a congratularsi con se stessa: tornò di scatto sui suoi passi, e corse incontro al secondo Automa. Il mastodonte di metallo non aspettava altro: si precipitò contro di lei, mulinando a mo' di artigli le spade infisse nelle braccia articolate. A metà della corsa, Kyra puntò il lancia dardi e gli scagliò un paio di proiettili dritto negli occhi. La sua mira si rivelò perfetta. L'Automa cieco proseguì nella sua avanzata incontro al violento pugno di Kyra. Al momento dell'impatto, il carapace della macchina si sfondò come il guscio di un uovo, e il pugno di Kyra lo trapassò da parte a parte, sbriciolandolo. I frammenti del corpo meccanico, ormai ridotto a rottame, piovvero al suolo come grandine. La vita artificiale dell'Automa si spense con un ultimo prolungato ronzio. Superati i primi attimi di confusione, i compagni di Kyra non stettero a guardare: avanzarono nel buio in massa compatta, e snidarono il terzo Automa. La lotta, rapida e furiosa, costò la vita ad uno dei combattenti, ma alla fine il mostro dovette cedere, neutralizzato dalla superiorità numerica di quegli uomini male in arnese. Le acque erano di nuovo calme. Kyra chiamò tutti a raccolta. «Da questo punto in avanti, dobbiamo prestare attenzione ad ogni passo» affermò «Come avete visto, sanno che stiamo arrivando, e di certo non ci stenderanno un tappeto rosso.» «Li faremo tutti a pezzi, quegli scarafaggi, tappeto o non tappeto!» sbraitò uno degli uomini, scuotendo la lancia. Gli altri gli fecero coro. Kyra approvò il loro entusiasmo, ma si ripromise di stare più all'erta. Se le fosse capitato qualcosa, gli altri non avevano speranze. Solo lei aveva i mezzi per difendere se stessa e tutti quanti, in caso di guai grossi. E i guai grossi sarebbero arrivati, ne era certa. «Dietro di me» disse, avviandosi «E tenete gli occhi ben aperti.» Le gallerie avevano tutte la stessa aria asettica e priva di vita, al punto che risultava molto difficile distinguere le une dalle altre. Spesso i passaggi si incrociavano, e qua e là si aprivano porte che davano su magazzini o altri spazi dall'uso imprecisato. Dopo un po', Kyra si accorse di aver perso del tutto l'orientamento. Ma ciò che più la lasciava sulle spine era la totale assenza di attività nelle gallerie. In occasione della sua precedente visita alla Fabbrica, più di una volta si era dovuta nascondere al passaggio degli Automi. Il ronzio delle macchine in azione, vicine o lontane che fossero, non l'aveva mai abbandonata. Ora, invece, era come passeggiare in una catacomba. Non le piaceva per niente, ma si costrinse ad avanzare. Continuarono a seguire le gallerie meglio illuminate, sforzandosi di mantenere sempre la stessa direzione, per quanto possibile. I corridoi parevano non aver fine, tanto che nacque in loro il sospetto di star camminando in cerchio. Un cupo silenzio era calato sugli uomini. L'entusiasmo iniziale si era esaurito, assorbito dal grigiore di quel paesaggio chiuso e immutabile. Kyra non osava ricorrere alla sua vista naturale, per paura di cader preda di un altro agguato. Utilizzare l'occhio artificiale, però, le dava un certo malessere. Non ne poteva più di vedere il mondo a tinte rosse, sgranato. E non le piaceva il modo in cui alcuni del suo seguito la fissavano, da quando si era tolta la benda: paura, rabbia, disgusto. Lo stesso che aveva provato lei, la prima volta
che si era vista allo specchio con quell'orbita rossa e pulsante incastonata nel volto. Tirò un sospirò di sollievo quando avvistarono il Nucleo. Lo scorsero da lontano, un immenso locale inondato di luce alla fine della galleria. E dentro il locale, intravidero i mastodontici macchinari che erano venuti a distruggere. Fecero due passi in quella direzione, e una barriera di Automi si materializzò dinanzi all'entrata della sala, frapponendosi tra loro e l'obiettivo. Al solo scorgere quegli occhi luminescenti e quelle corazze di metallo, Kyra si sentì fremere dalla voglia di combattere. «Siete pronti?» domandò. Non aveva davvero bisogno di una risposta, ma le fece piacere udirla, scandita a gran voce da ogni uomo e donna della banda di Aren: «Morte...! Morte agli Automi!» L'eccitazione della battaglia fluì come un torrente di adrenalina nelle sue vene. «Seguitemi! Per Aren!» Poi gli eventi si susseguirono con tale intensità che Kyra non ne avrebbe conservato un ricordo chiaro. Si tuffò nel mezzo della barriera di Automi roteando il braccio meccanico come una furia scatenata dagli Dei, facendo scempio di quelle creature artificiali. Pugni, rasoiate, dardi, fiamme: pur sapendo di dover risparmiare le energie per un altro scontro, ben più impegnativo, non seppe tirarsi indietro, e fece uso di tutto ciò che il suo arsenale le consentiva. Gli uomini di Aren sciamarono dietro di lei come un vento di tempesta, esaltati dalla presenza di quella condottiera feroce e spietata. Assaltarono gli Automi a gruppi di cinque e più uomini alla volta, usando lance, coltelli, bastoni, pietre, o qualsiasi altra cosa che servisse allo scopo. Nel turbine della battaglia, Kyra riuscì a sgusciare dentro all'enorme sala, aprendosi la strada tra i bestioni di metallo come se fossero fatti di fragile vetro. Fu a quel punto che qualcosa attirò la sua attenzione, spiccando tra i simboli e i colori che affollavano la sua vista artificiale: un uomo alto, dalle spalle larghe, incappucciato e avvolto in una tunica nera. Nell'attimo in cui Kyra notò la sua presenza, il gigante scomparve in un passaggio laterale. Era lui! Doveva essere lui! A partire da quel momento, Kyra si disinteressò della battaglia in atto. Con un fendente delle lame tranciò i cavi dell'Automa che le stava bloccando il passaggio, poi corse dietro a quell'apparizione svanita nel nulla. Imboccò uno stretto corridoio, che la condusse in un locale più piccolo. La luce era in parte prodotta dalle lampade bianche appese alle pareti, e in parte filtrava dall'esterno da un lucernario incassato nel soffitto. Nel mezzo della sala, abbandonata sul pavimento, scorse una tunica nera dai bordi cremisi che conosceva fin troppo bene. Si affrettò a raggiungerla, e la sollevò da terra. Il cappuccio vuoto si afflosciò tra le sue mani. Che stava succedendo? Avvertì un prurito sulla nuca. Un sibilo. Uno spostamento d'aria improvviso. Poi due braccia la avvolsero e la trascinarono a terra. Qualcosa balenò davanti a lei: una rete dalle maglie spesse, che cadde al suolo a una spanna di distanza. Non fosse stato per quella spinta inattesa, la rete l'avrebbe di certo ghermita. Le braccia mollarono la presa, lasciandola libera di rialzarsi e guardare in faccia il suo soccorritore. «Ethan!» esclamò al riconoscere il viso del giovane, seminascosto da un cappellaccio a larghe falde «Che ci fai tu qui?» «Credevi che me ne sarei rimasto in disparte?» rispose lui, strizzandole un occhio. «Non era questo il piano! Dovevi restare con Leon!» «Restarmene a guardare, là in superficie, mentre tu rischiavi la vita qua sotto? Neanche per sogno! Sapevo che avresti avuto bisogno di me!» «Sei un irresponsabile! Vuoi tornare da tuo padre in una bara?» «Ma avevo ragione!» ribatté Ethan, additando la rete afflosciata dinanzi a loro «E' proprio così che mi hanno catturato quella volta! Sapevo che avrebbero tentato un trucco del genere! Era mio
dovere guardarti le spalle, però non mi avresti mai lasciato venire con te... Così mi sono mascherato meglio che ho potuto e mi sono unito al tuo seguito.» «Scommetto che è stata un'idea di Leon! Ma questa volta non la passerà liscia!» ringhiò Kyra, stringendo i pugni. «No!» negò Ethan, serio in volto «E' stata una mia decisione, lo giuro, lui non centra!» «Perché l'hai fatto, allora?» «Perché non sono tanto diverso da te, Kyra! Anch'io, come te, non sopporto che il mio destino sia deciso dagli altri, o dai capricci del fato. Quali siano i frutti delle mie azioni, voglio essere io a piantarne i semi!» Kyra lo fissò in silenzio, valutò il peso delle sue parole e la lucida determinazione nel suo sguardo. Capì fin da subito che non c'era modo di fargli cambiare idea. «Alzati» disse, tendendogli una mano «Non c'è tempo da perdere. Ma non credere che finisca così!» «E...?» chiese lui, afferrando la sua mano. «E grazie per l'aiuto» sospirò Kyra, mentre lo aiutava ad alzarsi. «Davvero un'amicizia commovente...» si intromise una terza voce, bassa e raspante, una voce che entrambi avrebbero potuto riconoscere tra mille. Kyra sentì il proprio sangue gelarsi nelle vene: da quanto attendeva quel momento? Ma adesso che era finalmente arrivato, venne quasi sopraffatta da un'ondata di panico. E l'espressione di assoluto terrore dipinta sul volto di Ethan non le fu certo di incoraggiamento. Il tempo che impiegò a voltarsi le parve interminabile. Ce l'avrebbe fatta a dominare la paura? Aveva davvero qualche possibilità contro quel nemico? O si era fatta ingannare dalle sue patetiche speranze? Un istante più tardi lo vide, in alto su una piattaforma, nudo e imponente come la statua di un Dio. Dopo tanti incubi, finalmente rivedeva di persona quel corpo solcato da striature di metallo brunito, quella testa liscia e oblunga, quegli occhi crudeli... Caleb! La somma delle sue paure. L'apice della sua vendetta. Non vi era traccia su quell'orribile corpo dell'esplosione che aveva causato la morte di Aren. Neanche un graffio. Ed Aren era morto. Le bastò posare gli occhi su quel viso sadico e inespressivo perché ogni timore si liquefacesse al calore di un odio rovente. Avrebbe voluto urlargli contro con tutta la rabbia che aveva in corpo, ma non ne ebbe il tempo: Caleb spiccò un balzo a piè pari dalla piattaforma, avventandosi su di loro come un uccello da preda. Kyra spinse Ethan da un lato, e si gettò dall'altro. Il nemico piombò al suolo nell'esatto punto in cui si trovavano un attimo prima, sfondando con la sua mole i riquadri di pietra che rivestivano il pavimento. Se fosse rimasta intrappolata dentro alla rete, rifletté Kyra, Caleb l'avrebbe ridotta in poltiglia con un semplice salto. Ma non era andata così, e non avrebbe atteso un istante di più per mostrare al suo nemico che la musica era cambiata. Gli sferrò un diretto col pugno meccanico caricato al massimo dai getti d'aria, come Nestor le aveva insegnato. Una luce di sconcerto brillò negli occhi di Caleb, costretto a incrociare le braccia massicce davanti a sé per assorbire l'impatto: vi riuscì, ma la forza del colpo lo respinse all'indietro. Kyra rimase immobile a guardarlo, il pugno ancora levato in segno di sfida. Il suo occhio artificiale riluceva di un rosso intenso, riflettendo l'immagine del nemico sulla sua superficie vitrea. Caleb abbassò la guardia. Il suo volto era, come sempre, una maschera d'impassibilità, da cui non traspariva alcuna emozione. Ma, se dentro di sé stava provando qualcosa, doveva trattarsi di incredulità. La fissò senza capire per una manciata di secondi, poi un mugolio roco fuoriuscì dai bordi frastagliati della sua bocca: l'aveva riconosciuta.
«Tu! Dovresti essere morta!» «Si, quella volta mi hai ucciso» affermò Kyra «Ma sono risorta dalle ceneri, come puoi vedere.» Caleb rise, con un suono di vetri rotti. «Una graziosa fenice impudente! Come osi ripresentarti al mio cospetto? E a quanto vedo porti con te cose che mi appartengono...» L'additò con un'unghia spessa e affilata come un artiglio: «Quell'occhio e quel braccio sono una mia creazione, non lo sapevi?» Spostò il dito verso Ethan, che, rannicchiato in un angolo, pareva incapace di muoversi. «E anche quel ragazzo mi appartiene!» «Risparmia il fiato» ribatté Kyra «Il ragazzo non è proprietà di nessuno, né lo sarà mai. Quanto ai tuoi preziosi artefatti...» Con uno scatto, le lame slittarono fuori dal braccio meccanico. «...se davvero li rivuoi, vieni a prenderli!» Caleb la prese in parola: i muscoli delle sue gambe si tesero come cavi d'acciaio, e in un batter di ciglia le fu addosso. Cercò di colpirla al collo col taglio di una mano, ma Kyra non ebbe difficoltà a prevenirlo, grazie alle indicazioni impresse sulla sua retina artificiale. Caleb alternò una rapida serie di colpi con entrambi i pugni, eppure non trovò varchi nella difesa di Kyra. Lei, a sua volta, contrattaccò con tutta la forza e la velocità di cui era capace, tramutando la sua appendice meccanica in un turbine tagliente. Dal punto di vista dell'esterrefatto Ethan, era una battaglia tra titani. Osservando la fluidità dei movimenti di Kyra, e la padronanza con cui si opponeva al suo avversario, si convinse che aveva reali possibilità di vittoria. Ma Caleb non era da meno: non vi era traccia di stanchezza o paura sul suo volto, soltanto una fredda concentrazione. Parava ogni colpo con tranquilla efficacia, e replicava con energia raddoppiata. Dopo un po', Kyra si rese conto di non fare progressi. Stava lottando alla pari con il suo avversario – e questo era ottimo - ma non riusciva a mettere a segno nessun colpo decisivo. E sapeva che le sue forze andavano esaurendosi. Sarebbe accaduto lo stesso a Caleb? Anche lui soffriva degli stessi limiti? Non voleva doverlo scoprire sulla propria pelle. Doveva muoversi! Appoggiò un piede sulla coscia robusta di lui, e così puntellandosi si slanciò all'indietro. Piroettò a mezz'aria, sfoderò il lancia dardi dall'avambraccio, e una pioggia di proiettili si abbatté su Caleb. Il gigante chiuse le braccia a conchiglia davanti al volto, e intercettò i piccoli dardi senza problemi, invece di schivarli. Ma quando abbassò la guardia, capì di aver commesso un errore: Kyra era di nuovo davanti a lui, a un passo di distanza. E al posto della mano artificiale c'era un ugello scuro, puntato tra i suoi occhi. «Crepa!» gridò la guerriera, scagliando una vampata di fiamme violente che avvolsero la testa del nemico. Caleb urlò - di dolore forse, o di rabbia per essersi fatto sorprendere. Ma non si lasciò sottomettere: prima che il fuoco gli divorasse il volto, cercò di affondare la pianta del piede nel ventre di Kyra. Questa riuscì a scostarsi per un pelo, ma il getto di fiamme scaturito dal suo braccio cambiò direzione. Le ultime lingue di fuoco rovente si dispersero a mezz'aria, mentre Caleb soffocava a manate le braci formatesi sul suo volto. «Brava, ci sei andata vicina!» dichiarò, non lasciando trasparire rabbia nella sua voce dai toni metallici. «E il prossimo colpo sarà la tua fine!» rintuzzò lei. «O la mia?» pensò, sentendosi annebbiare la vista per un istante. Il dispendio di energie si stava rivelando eccessivo. Le restava poco tempo per vincere la battaglia. Doveva far ricorso all'asso nella manica donatole da Nestor. Ma aveva un'unica possibilità di farlo con successo. Quando? Caleb si tastò con la punta delle dita la carne annerita nel volto striato di metallo. Una scintilla di dolore gli passò negli occhi inumani. «Non solo sei sopravvissuta al nostro primo incontro, ma hai anche avuto il coraggio di tornare a sfidarmi...» disse «Sono curioso: chi sei tu, realmente?» «Non posso negarti le tue ultime volontà» rispose lei, sprezzante «Mi chiamo Kyra, Kyra della
Compagnia del Viandante.» L'espressione di Caleb assunse tratti di sincero stupore. Poi la sua bocca priva di labbra si storse in un sorriso malevolo. «La Compagnia del Viandante! Che incredibile coincidenza! Quando lo racconterò ai miei fratelli, non ci crederanno...» Kyra ne fu sconcertata. «Che significa?» «Ho già detto anche troppo» concluse lui, piegando in avanti la testa oblunga «Ora ucciderti sarà un mio dovere, oltre che un immenso piacere!» Scattò in avanti con l'impeto di una tigre, e si avventò su di lei. Senza lasciarle il tempo di reagire, le ghermì il braccio meccanico con entrambe le mani e lo immobilizzò contro la parete, gravando su di lei con la pesantezza di un macigno. Kyra avvertì il suo alito caldo sulla pelle, e non poté fare a meno di fissare il suo occhio in quelli di lui, tanto, troppo vicini. Ethan represse un gemito di disperazione. Pochi attimi prima pareva che la battaglia stesse andando per il verso giusto, ma adesso! Si sentì inutile: era venuto per aiutare Kyra nella sua missione - che lei lo volesse o meno - e invece se ne stava rintanato in un angolo come un bambino impaurito! Da solo non avrebbe potuto fare molto, era vero, ma... Nessuno dei due combattenti gli stava prestando attenzione. Sembrava che si fossero scordati della sua esistenza. «Ora o mai più» pensò. Alzatosi in silenzio, si defilò nell'ombra e tornò di corsa lungo il corridoio da cui era venuto. Se non poteva aiutare Kyra da solo, l'avrebbe fatto insieme a tutti gli altri. Mentre si allontanava, Caleb parlò, e la sua voce stridente graffiò i timpani di Kyra: «Hai commesso due gravi errori, ragazza. Il primo è stato quello di invadere la mia Fabbrica con la tua banda di pezzenti. Credevi forse che non me ne sarei accorto, con tutto il frastuono che avete fatto? O sei stata così folle da pensare di aver la meglio su di me e sui miei Automi in uno scontro frontale?» Per sottolineare l'ultima affermazione, la sollevò da terra per il braccio artificiale, e la tenne sospesa contro la parete. Kyra rabbrividì: la situazione era sin troppo simile a quella dell'altra volta. «Seconda cosa» proseguì Caleb «Il braccio e l'occhio che stai usando contro di me, e non so come siano caduti nelle tue mani... Pensavi di avere qualche possibilità, grazie a loro? Chi credi li abbia perfezionati fino a questo punto? Eppure non sono che un pallido riflesso di ciò che il mio corpo può fare...» «Penso che i manàlorin ti abbiano divorato il cervello, mostro» replicò Kyra, senza perdersi d'animo. «Sai dei manàlorin, dunque! Sei davvero un pozzo di sorprese!» Scosse la testa. «Forte e intelligente... Stavo pensando di proporti un'alleanza, ma hai avuto la stupida idea di ferirmi. Non esiste perdono per un gesto del genere.» Senza mollare la presa sul suo braccio, Caleb inarcò il collo all'indietro. Voleva finirla a testate, e non gli sarebbe stato difficile con il robusto guscio metallico che gli ricopriva la fronte. Se avesse avuto fede sincera in uno degli Dei, Kyra gli avrebbe raccomandato l'anima in quello stesso istante. Ma non ne ebbe bisogno. Un fragore improvviso squassò le fondamenta della Fabbrica, facendone tremare le pareti. Caleb perse l'equilibrio, e Kyra ne approfittò per divincolarsi dalla sua presa. Sorrise come un lupo. «Sei tu che hai commesso almeno tre errori, mostro!» esclamò «Il primo: pensavi di attirarci in una trappola, ma siamo noi che abbiamo intrappolato te! Il nostro assalto non era che un'esca, per distogliere la tua attenzione da ciò che avveniva fuori. Mentre noi tenevamo impegnati te e i tuoi Automi, i nostri alleati hanno fatto saltare le mura! Adesso potrà avere inizio la vera invasione!» «Che cosa?» ringhiò Caleb, gli occhi ardenti come brace.
«Non vuoi sapere qual è stato il tuo secondo errore?» esclamò Kyra, e lo attaccò con le lame del braccio artificiale. Caleb parò l'affondo con entrambe le braccia, lasciando scoperto un fianco. La lama affilata di un pugnale balenò nella mano sinistra di Kyra, quella in carne ed osso, e affondò tra le costole del nemico, in un punto in cui la fusione della pelle col metallo era ancora incompleta. «La carne vince sul metallo!» affermò Kyra, innalzando la voce al di sopra dell'urlo di dolore di Caleb «Non è corazzando il tuo corpo che avrai la meglio su di una vera guerriera come me! E per finire...» Caleb la fissò negli occhi, piegato in due dal dolore. Un rivolo di sangue gli sgorgava dalla bocca. «...non è vero che sei stato tu a perfezionare questi aggeggi. Un mio amico l'ha fatto, un uomo chiamato Nestor. Credo che vi conosciate.» «Maledetto!» sibilò Caleb. «No, che tu sia maledetto!» lo zittì Kyra «Per tutto il dolore e la morte che hai causato!» Sfiorò un interruttore a lato dell'occhio artificiale, l'unico che ancora non avesse mai attivato. Un riquadro verde le si stagliò sulla retina, sovrapposto al perimetro del suo campo visivo, e prese a focalizzarsi su Caleb, rimpicciolendo. Quando fu centrato sul bersaglio, lampeggiò due volte. «Ricordi l'uomo che hai ucciso a causa mia?» urlò Kyra a pieni polmoni «Aren era il suo nome, non dimenticarlo! Questo è per lui!» Si inginocchio e puntò il braccio meccanico contro Caleb, sorreggendolo con l'altro all'altezza della spalla. I getti d'aria compressa fischiarono con violenza inaudita dietro al gomito, accompagnati da una vampata di fuoco. «Hai voluto un mio braccio l'altra volta... Prenditi anche questo!» Con un rombo di valanga, l'intero avambraccio artificiale di Kyra si dislocò dalla propria sede, e si abbatté sul nemico come un proiettile ad assurda velocità. Caleb non ebbe nemmeno il tempo di abbozzare una reazione. Riuscì appena a piegarsi di lato, ma non poté evitare che il braccio lo investisse al fianco, trapassandolo e strappandogli dal corpo un blocco di carne e metallo. Rimase in piedi non si sa come, barcollando, e rivolse un'occhiata incredula alla voragine sanguinolenta apertasi nel suo costato. Un uomo normale sarebbe morto all'istante, stroncato dal dolore, dallo shock e dalla perdita di sangue. Ma Caleb non era un uomo normale, ed ebbe ancora la forza di squadrare Kyra con furia. «Tu....» sussurrò, tossendo un fiotto di sangue. Si udirono i passi di una moltitudine in corsa: dal corridoio che dava accesso alla sala accorse una dozzina d'uomini armati, guidati da Ethan. «E' giunta la tua fine, Caleb» affermò Kyra, gelida. «Non... ancora...» rispose lui, annaspando. Si erse in tutta la sua altezza, lasciando che il sangue spillasse dalla ferita. Levò le braccia al cielo, e accadde qualcosa di sorprendente: dalle sue scapole, simili a blocchi di metallo massiccio, fuoriuscirono due aste lunghe e articolate. Dalle aste, si aprirono a ventaglio decine e decine di piume di metallo sottile, formando due maestose ali spiegate. «No!» urlò Kyra. Il suo braccio artificiale era stato proiettato lontano, e così il lancia dardi che vi era installato. Lanciò un grido d'avvertimento ad Ethan e agli altri, ma non c'era più tempo. Al primo battito d'ali, con un forte spostamento d'aria, Caleb si librò a un metro dal suolo. Un altro battito, e aveva già raggiunto l'altezza del lucernario sul soffitto. Abbassò lo sguardo su di lei, versando sangue dalla ferita al fianco. «Oggi hai vinto, Kyra della Compagnia del Viandante... Ma non finisce qui... Giuro che un giorno farai la stessa fine dei tuoi compagni d'armi!» La frase ebbe su Kyra l'effetto di una pugnalata nello stomaco. «Che cosa?» mormorò «Che cosa hai detto?»
Lui cercò di risponderle con una risata, ma quasi soffocò nell'intento. «Non voglio rovinarti la sorpresa...» dichiarò, con voce arrochita dal dolore «Vedrai tu stessa, a suo tempo!» Si fiondò verso l'alto con un'altra spinta delle ali poderose, mandò in frantumi il lucernario, e scomparve. «Torna qui, maledetto!» gridò Kyra, coprendosi il viso dalla cascata di cocci «Combatti da uomo! Combatti!» Quando poté togliersi le mani dagli occhi, non vide che il contorno seghettato del lucernario infranto, a fare da cornice al cielo pomeridiano sopra alla Fabbrica. Di Caleb non c'era più traccia. Ethan e gli altri le vennero incontro di corsa, e la avvolsero in un fiume d'abbracci e esclamazioni di gioia. Il mostro era stato sconfitto, la Fabbrica conquistata. I piani di tradimento di Dinor erano stati sventati, spazzati via come sabbia al vento. Ma Kyra non pensava a nulla di tutto ciò, neanche sentiva i ringraziamenti e gli abbracci che le piovevano addosso da ogni lato. Aveva vinto, aveva sconfitto il suo incubo. Eppure non era servito a nulla. Caleb era fuggito, lasciandole in bocca non il dolce sapore della vendetta, bensì l'amaro gusto del veleno.
XXVII - La Rivolta
Kwan piazzò la granata a ridosso del muro, e si assicurò che fosse ben sistemata. Alzò un braccio: più in là, alla sua destra, un altro membro della squadra gli fece segno di aver finito. Alla sua sinistra, lo stesso. Strinse le dita a pugno, e ciascuno attivò la propria granata, per poi scappare a rotta di collo. Il grosso della masnada li stava aspettando a distanza di sicurezza: decine di delinquenti delle bande di Dekka, uniti dall'unico e irripetibile proposito di saccheggiare la Fabbrica. Ebbero appena il tempo di sdraiarsi e coprirsi la testa con le braccia, prima che l'esplosione squassasse la terra. Una, due, tre detonazioni, violente e in rapida sequenza. Piovvero pietre e calcinacci, e la spianata davanti alla Fabbrica fu invasa dalla polvere. Gli uomini attesero con ansia che la nube si dissipasse, e li lasciasse respirare. Quando il vento finì di disperdere la polvere, lanciarono urla di gioia: l'esplosione aveva mandato in frantumi un tratto di mura, aprendo una breccia più che invitante. Kwan era a capo del gruppo, ma nessuno attese il suo comando per lanciarsi alla carica. Né Kwan si aspettava alcun indugio da parte loro. Impugnò la sua arma preferita - una mazza ferrata di notevoli dimensioni - e si accodò alla moltitudine degli assalitori. Mentre imboccava il varco, avvertì un suono allarmante sopra la sua testa, come di grandi ali che frustavano l'aria. Levò gli occhi al cielo, e per poco non incespicò: Caleb, il mostro di carne e metallo, si allontanava in volo come un grande rapace. Kwan si stropicciò gli occhi, convinto di avere le allucinazioni, ma la sagoma che rimpiccioliva in lontananza non lasciava spazio a dubbi. Era lui, ed era vivo. E questo poteva significare che... «Kyra!» Non c'era tempo da perdere. Scattò avanti con tutta la potenza dei suoi muscoli, facendosi strada tra i compagni a forza di spintoni. Varcata la breccia, sbucò in un ambiente estremamente vasto, che ospitava file su file di macchinari e montagne di casse impilate. Il Nucleo. Nestor aveva fatto un'eccellente lavoro nel determinare il punto strategico dove piazzare l'esplosivo. Le informazioni di Kyra ed Ethan, gli unici ad aver visto quella parte della Fabbrica coi propri occhi, si erano rivelate preziose. Quando Kwan e gli altri sopraggiunsero, i compagni di Kyra erano impegnati in una lotta senza quartiere contro un manipolo di Automi. Esultarono all'arrivo dei tanto attesi soccorsi, raddoppiando il loro impeto: le nuove forze in campo promettevano di cambiare il volto della battaglia. Soltanto i più avidi tra i nuovi arrivati ignorarono del tutto gli Automi, preferendo avventarsi sulle casse in cerca di bottino. Kwan memorizzò le loro facce. Più tardi avrebbe fatto i conti con loro. In breve nel Nucleo della Fabbrica regnò il caos assoluto: uomini e Automi lottavano con disperazione negli spazi tra i macchinari, gli uni contando sulla forza del numero, gli altri sul proprio arsenale. Se fino a poco prima gli esseri umani versavano in condizioni critiche, ora i ruoli si erano invertiti. Kwan schivò la rasoiata di un Automa, poi lo abbatté con un tremendo colpo alla testa. Non si fermò a godersi il trionfo: era in pensiero per Kyra. Non era ancora riuscito ad avvistarla nel mezzo della battaglia. Corse da un lato all'altro, scansando e restituendo colpi, evitando di farsi invischiare in scontri prolungati. Ci mise un bel po' prima di fermarsi, ansante. Dove diavolo si era cacciata quella ragazza? Possibile che le cose fossero di nuovo andate male?Cercò di scacciare dalla mente il ricordo di quando, mutilata e priva di sensi, l'aveva portata in salvo attraverso le fogne. Un fischio improvviso nel mezzo della baraonda lo fece voltare. Da un passaggio laterale, vide
affiorare le teste di Kyra ed Ethan, che cercavano di attirare la sua attenzione con ampi gesti delle braccia. La ragazza era viva, grazie agli Dei! Ma sembrava conciata piuttosto male. Zoppicava, sorretta dal ragazzo. Kwan le corse incontro e la strinse per le spalle, mugolando di contentezza. L'avrebbe abbracciata con molta più forza, se Ethan non si fosse opposto. Kyra era sopravvissuta, eppure non pareva soddisfatta. Kwan cercò di spiegarle a gesti che aveva visto il suo nemico in fuga. Lei annuì stancamente: «Ce l'avevo in pugno, maledizione!» «Tranquilla, sei stata formidabile!» disse Ethan «L'importante è che tu l'abbia sconfitto, e che la nostra parte del piano sia andata a gonfie vele!» «Parla per te» replicò lei «Io non potrò stare tranquilla, finché quel mostro non sarà morto e sepolto!» In realtà, ciò che la turbava erano le parole che Caleb le aveva rivolto prima di spiccare il volo: «...farai la stessa fine dei tuoi compagni d'armi...» Che intendeva dire? Che c’entrava la Compagnia del Viandante con quell'essere abietto? Rabbrividì al pensiero di una sciagura inflitta a Dorian e compagni. Come poteva darsi pace, senza sapere la verità? «Come vanno le cose in superficie?» domandò Ethan, riscuotendola dai suoi pensieri. Kwan mostrò il pollice in alto, a indicare che tutto stava procedendo secondo i piani. Poi accennò alla battaglia in corso alle loro spalle: era ormai agli sgoccioli, il vantaggio numerico degli assalitori aveva la meglio sulla potenza degli Automi. In breve nessuno di loro sarebbe rimasto in piedi. «Leon e Nestor?» chiese ancora Ethan. Kwan sorrise, e indicò fuori dalla Fabbrica. Ethan rispose al sorriso: «Ultimo atto, dunque!»
----L'agguato ai carri in fuga dalla Fabbrica era riuscito alla perfezione. Leon aveva previsto che al manifestarsi dei disordini avrebbero cercato di mettere in salvo le armi, e così era stato. Avevano atteso i carri al varco fuori dai cancelli, arrestandone la corsa con una barriera improvvisata. I conducenti più sprezzanti del pericolo erano stati ricondotti alla ragione dalle frecce degli arcieri appostati lungo la strada. Ormai li avevano in pugno: cinque carri carichi di armi destinate al Principato di Hiram, Leon ne era certo. Scardinare le casse era superfluo: gli sguardi atterriti del capo carovana e dei soldati di scorta dicevano già tutto. Nel mentre Nestor strappava loro una confessione sulla natura e destinazione delle merci, senza lesinare minacce. Essere scortati da una piccola armata di tagliagole e lestofanti aveva i suoi vantaggi, in quel frangente. Leon rivolse la sua attenzione alla strada. Si era formato un capannello di curiosi, ma nulla più, per il momento. Nestor lo affiancò, e gli strinse un braccio. «Verranno, non temere. È solo questione di tempo.» «Me lo auguro. Altrimenti sarà stato tutto inutile.» Tennero gli occhi puntati sulla strada, in attesa. Altri membri di Liberazione erano con loro, ansiosi di veder realizzate le speranze di tanti anni passati a congiurare nell'ombra. Alle loro spalle, il grosso degli uomini cominciò ad agitarsi. La promessa del saccheggio della Fabbrica, concesso loro in cambio della rivolta, li istigava a fiondarsi nell'edificio, prima che altri si impadronissero della refurtiva migliore. Leon scosse la testa. Non sarebbe riuscito a trattenerli ancora molto. A un tratto, un uomo apparve al centro della via, procedendo di gran carriera. Non appena scorse Leon, alzò le braccia al cielo e gli sorrise. Dietro di lui comparve una piccola folla eterogenea: gente di ogni età ed estrazione sociale, accorsa al pubblico annuncio divulgato da Leon. Aveva inviato portavoce ai quattro angoli della città, per diffondere la notizia dell'imminente caduta della Fabbrica e la promessa di rivelazioni sconvolgenti. Adesso sperava nell'arrivo di una moltitudine. Con sua grande soddisfazione, altri gruppi seguirono il primo. Nestor gli rivolse un ampio
sorriso. In breve la gente era tanta da riempire lo spiazzo di fronte ai cancelli della Fabbrica, accalcandosi per vedere meglio ciò che stava accadendo. I più curiosi si arrampicarono fin sui tetti delle case vicine. Leon notò che anche la Guardia Cittadina era presente all'evento, come previsto. Non molti uomini, in realtà, grazie ai diversivi messi in atto nelle ore precedenti. E ormai la folla era troppo grande perché qualcuno tra loro si prendesse la briga di intervenire. Restarono ai margini della moltitudine, innervositi, ostentando un'autorità che non possedevano più. Giunsero anche Kwan e Kyra, sempre sorretta da Ethan, ma si tennero in disparte per non distrarre Leon e Nestor dal loro compito decisivo. Era uno dei momenti cruciali dell'intero piano, e Kyra si augurò che Leon riuscisse nel suo intento. Per Dekka, e per se stesso. E perché altrimenti lei non lo avrebbe perdonato. Nella manciata di minuti che seguirono, la folla si fece sempre più rumorosa e impaziente. Molti osservavano a bocca aperta il fumo che si levava dalla Fabbrica, e scambiavano commenti stupiti coi vicini. Più d'uno puntò il dito sui carri bloccati davanti ai cancelli e sui conducenti legati mani e piedi. Nestor rivolse a Leon uno sguardo grave. «È giunto il momento, Leon.» «Sì, finalmente. Augurami buona fortuna.» «Non ne avrai bisogno.» Leon gli sorrise, quindi si inerpicò su una pila di casse, in una posizione ben visibile a tutti. Agitò le braccia chiedendo il silenzio. A poco a poco i presenti si calmarono, e fissarono l'attenzione sul palco improvvisato. Già questo si poteva considerare un successo, pensò Nestor. Dalla sua posizione sopraelevata, Leon si schiarì la gola e cominciò a parlare con voce limpida e forte: «Gente di Dekka, miei concittadini! Mi chiamo Leon, Leon Erbecker. Molti di voi di certo ricordano questo nome: un nome che per generazioni si è levato in difesa degli abitanti di questa città, e che soltanto il tradimento e la violenza hanno potuto mettere a tacere!» Diversi dei presenti, soprattutto tra gli anziani, annuirono, concordando con le parole di Leon. Gli Erbecker avevano sempre fatto la loro parte con onestà, nel governo della città, fino al giorno della loro misteriosa scomparsa. «Ebbene» continuò Leon «Io affermo qui, dinanzi a voi, e sfido chiunque a negarlo, che quel tradimento e quella violenza hanno un volto: il volto di un uomo bugiardo e perverso, che da anni domina Dekka come un tiranno!» Un mormorio si diffuse tra la folla. I soldati della Guardia Cittadina si mossero nervosamente. «Sì, miei concittadini, avete udito bene. E' di Dinor che sto parlando!» Il brusio si tramutò in una babele di esclamazioni scandalizzate, ma Leon alzò la voce sopra al tumulto: «Dinor è il vero responsabile della morte dei miei genitori, e dei familiari di tanti altri oggi riuniti qui con noi! Dinor è colui che ha impunemente usato la Guardia Cittadina come un'estensione del proprio braccio, per tenerci sotto il suo pugno! Per tappare i nostri occhi e le nostre orecchie di fronte al male che aveva messo in moto, per mettere a tacere le nostre bocche affamate di verità e giustizia!» Leon sentì su di sé lo sguardo fisso di quelle centinaia di persone, avide di sapere, avide di capire. Aveva toccato il tasto giusto, lo sentiva. Ma sapeva anche che fin lì il suo discorso non sarebbe bastato a smuovere la folla. Doveva servir loro la pietanza più gustosa, quella che li aveva attirati alla sua mensa. «Ma soprattutto» proseguì «Dinor è l'artefice della mostruosa Fabbrica che incombe sulla nostra città, popolata di esseri disumani... Credete che sia servita a migliorare qualcosa? Assolutamente no, vi dico! Qualcuno di voi è diventato più ricco, grazie alla Fabbrica? Qualcuno di voi può negare che proprio dalla Fabbrica provengano i liquami che appestano il mare? E ancora, perché tanti misteri, perché tante persone scomparse nel nulla dall'oggi al domani? Perché nessuno di noi ha mai
ottenuto il permesso di avvicinarsi a quell'edificio?» Nessuno replicò. «Volete sapere a che serve davvero la Fabbrica?» domandò Leon, additando la costruzione «Volete sapere a cosa lavorano gli Automi, al riparo dai nostri sguardi e fuori dal nostro controllo?» «Sputa il rospo!» urlò una voce, subito imitata da molte altre. «Ho una sola parola per descriverlo, una parola che è alla radice di ogni azione di Dinor: tradimento! E non solo contro di noi e contro la nostra città, ma contro l'intero principato!» Le esclamazioni della folla crebbero d'intensità. «Provalo!» chiesero molti a gran voce. «È quello che intendo fare. Guardate coi vostri occhi!» Rivolse un cenno ai suoi uomini. Prontamente i coperchi delle casse vennero divelti. I contenitori erano zeppi di ordigni mortali: le balestre scoperte da Aren e Kyra nel corso della loro spedizione, e altre armi dall'aspetto ancor più letale. Ne passarono un paio a Leon, che le alzò al cielo, affinché tutti potessero vederle. «Armi, costruite nella Fabbrica ed inviate al principe Hiram sotto i nostri occhi! Le stesse armi che i suoi soldati useranno contro di noi e le nostre famiglie!» Sulle prime, molti dei presenti non credettero ai propri occhi. Si alzarono grida d'indignazione. Alcuni cercarono di metter mano sulle armi poste nelle casse, e dovettero trattenerli a forza. I pochi membri della Guardia Cittadina sfuggirono per poco all'aggressività del popolo. In generale, scoppiò un grande putiferio. Il ferro era caldo, e Leon continuò a batterlo: «Urlate la vostra rabbia al cielo, cittadini di Dekka, urlate! Se siete furiosi quanto lo sono io, se volete porre fine a questa situazione indegna, urlate! E seguitemi al luogo dove possiamo cambiare le cose una volta per tutte!» Levò i pugni al cielo. «Con me, al Palazzo del Governo!» Non se lo fecero ripetere, né attesero che Leon e il suo seguito si ponessero in testa al gruppo: formarono una fiumana lungo le vie, e molti rischiarono di finire calpestati nella ressa. Della Guardia Cittadina non c'era più traccia. Kyra, che non era in condizioni di camminare da sola, lasciò che Ethan l'aiutasse a seguire in fondo al gruppo. Un cittadino infervorato commise l'errore di urtarla nella sua folle corsa, e ricevette un calcio che lo mandò gambe all'aria. Kwan fece spallucce. Leon si immerse col suo seguito nel mezzo della moltitudine, in parte conducendo, in parte trascinato avanti. Provò una sensazione di estrema soddisfazione nel vedere che le fila dei cittadini si ingrossavano, man mano che sciamavano verso il palazzo, raccogliendo persone da ogni strada, casa e bottega. Neanche nei suoi sogni aveva osato sperare in una risposta tanto pronta dalla gente di Dekka. La sua gente. Promise a se stesso che non li avrebbe delusi, e che per loro sarebbe andato fino in fondo. Quando giunsero dinanzi al Palazzo del Governo, la massa di persone aveva raggiunto le dimensioni di un vero e proprio esercito. Per questo Leon non si scompose nello scorgere un intero reggimento di soldati della Guardia Cittadina disposti a ventaglio sulla scalinata del palazzo. Alcuni di loro facevano parte del contingente scacciato dallo spiazzo dinanzi alla Fabbrica. Non avevano modo di opporsi alla valanga in rapida avanzata, e lo si poteva intuire dai loro sguardi atterriti. Non senza sforzo Leon riuscì a portarsi alla testa dei dimostranti, e solo gridando a pieni polmoni insieme agli altri membri di Liberazione impedì che la folla si abbattesse sui soldati. Quel genere di violenza doveva essere evitato. «Non è su di loro che deve ricadere la nostra ira! Molti di loro sono vittime quanto noi! É un altro che vogliamo!» esclamò, puntando il dito sul palazzo. «Dinor! Dinor!» prese a urlare la folla inferocita, invocando la comparsa del governatore con tale rabbia da far tremare le pareti del palazzo. Leon si unì al coro. I soldati della Guardia mantennero la posizione, immobili. Nel frastuono, Kyra si sentì toccare una spalla. Si voltò, e si trovò faccia a faccia con due volti
familiari: quello magro e ossuto di Lisca, e quello pallido di Selita, incorniciato dai capelli corvini. «Capo! Sei viva!» esclamò Lisca, prendendole la mano tra le sue. La mollò un istante dopo, arrossendo come un gambero. Kyra rise, e gli diede un amichevole buffetto. Si voltò a fronteggiare Selita, che sembrava sulle spine. «L'ho sconfitto, e l'ho quasi ucciso» le spiegò, senza bisogno di preamboli «Ma all'ultimo è riuscito a sfuggirmi. Che sia dannato!» Selita abbassò gli occhi, e le tremarono le labbra, ma fu un attimo soltanto. Quando rialzò il capo, pareva rasserenata. Con uno slancio d'affetto che sorprese tutti, strinse Kyra in un rapido abbraccio. «Grazie!» le sussurrò in un orecchio «La prossima volta sarò al tuo fianco, e non gli daremo scampo!» Si staccò da Kyra, e sbuffò, infastidita dagli occhi puntati su di lei. «Avanti, andiamo, gli altri Ratti ci aspettano!» esclamò, afferrando Lisca e Kwan per un braccio «È tempo di conquistarci la nostra fetta di bottino!» «Tu non vieni?» chiese poi, rivolta a Kyra. Lei scosse il capo. «No. Andate senza di me.» «Come vuoi, capo...» rispose Selita, sfoderando il suo vecchio sarcasmo. Ma questa volta, mentre si mischiava tra la folla coi due compagni, le strizzò un occhio. «Non cambieranno mai...» affermò Ethan, ridendo. «Lo spero» disse Kyra. Tornarono a rivolgere la propria attenzione alla piazza. L'agitazione della folla era palpabile, nell'attesa che il responsabile dei crimini commessi contro la città si presentasse al suo giudizio. Finalmente, dopo interminabili minuti di urla e imprecazioni, Dinor apparve sulla soglia del palazzo. Se Leon aveva sperato di trovarsi davanti un uomo debole e piegato dalla paura, dovette presto ricredersi: avvolto in un manto grigio, lo scettro saldamente in pugno, Dinor era l'immagine di un'autorità rigida e priva di compromessi. La sua schiena era curva, e i capelli radi, ma dalla sua figura traspariva una forza interiore che imponeva rispetto. Scese alcuni gradini, guardandosi attorno con aria di sufficienza. Non pareva impressionato dalla moltitudine, anzi la squadrava come un pastore alle prese con un gregge di pecore recalcitranti. Leon dovette riconoscere la sua presenza di spirito, ma non per questo si tirò indietro. «Arrenditi, e cedi lo scettro, Dinor» gli intimò, avanzando di un passo «Il tuo governo è giunto alla fine, e così i tuoi sciagurati piani.» «Sciocchezze» dichiarò Dinor, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Si rivolse ai soldati, immobili lungo la scala: «Che state facendo lì impalati? Non vedete che è in atto una sommossa? Muovetevi, vi autorizzo a usare tutta la forza necessaria contro questa plebaglia!» I soldati si guardarono l'un l'altro, ma non si mossero. «Avanti, incapaci!» sbraitò Dinor, perdendo parte della sua compostezza «Vi ordino di attaccare! Adesso!» «Nessuno lo farà, non senza un mio ordine diretto, signore» affermò una voce dura. Il tenente Vay si fece avanti tra le fila dei soldati. Aveva l'aria stanca, ma nei suoi occhi brillava una luce di determinazione. I soldati guardavano a lui con rispetto, accettandolo come loro portavoce. «Chi siete?» sibilò Dinor «E come osate opporvi ai miei ordini?» «Tenente Vay, signore» rispose l'uomo, senza mettersi sull'attenti. «Un misero tenente!» rise l'altro «Dov'è il vostro superiore? Chiarirò con lui questa faccenda!» «Il mio superiore dev'essersi rintanato nella villa che voi stesso gli avete donato, signore» ribatté Vay, con palese sarcasmo «Quanto a me, non obbedirò mai agli ordini di un traditore, né i miei uomini lo faranno.»
«Che cosa?» balbettò Dinor, preso alla sprovvista «Come osi, soldatino impudente! Giuro che...» «Risparmia il fiato, traditore. Hai sentito cosa ha detto il tenente» si intromise Leon, ringraziando Vay con un cenno del capo. Un aiuto imprevisto, ma prezioso. Si sarebbe ricordato del coraggio e dell'onestà di quell'ufficiale, a tempo debito. Vay gettò la spada ai piedi di Dinor e scese i gradini, unendosi alla folla che lo accolse con calore. I restanti membri della Guardia Cittadina fecero lo stesso, e il loro gesto venne salutato dalla gente con una salva di applausi. Dinor scosse la testa, non riuscendo a capacitarsi di ciò che stava accadendo. Rivolse finalmente la sua attenzione a Leon, con un cipiglio che lasciava presagire tempesta. «Tu chi hai detto di essere, miserabile?» «Non te l'ho detto, non ancora» rispose Leon, tranquillo. «Eppure i tuoi tratti mi sono familiari...» «Mi fa piacere che ti ricordi ancora. Non di me, forse, ma dei miei genitori. Afonso e Priscilla Erbecker. Li hai fatti assassinare parecchi anni fa.» Il volto di Dinor si incupì, ma non abbassò lo sguardo, né mostrò segni di pentimento dinanzi a Leon. «Puah!» disse «Potresti essere figlio del Re in persona, per quello che mi importa! In questa città sono io a comandare, fino a prova contraria.» «E questa non è una prova sufficiente?» domandò Leon, indicando la folla rumoreggiante «Se ancora esiste un briciolo di saggezza dentro di te, ti consiglio di cedere lo scettro.» Invece di ascoltare le parole di Leon, Dinor rafforzò la presa sullo scettro con entrambe le mani, come se fosse il suo unico sostegno. Era la personificazione dell'attaccamento al potere. «Mai!» sbraitò «E non credere di avermi ridotto all'impotenza soltanto perché mi hai privato della Guardia! Sei così male informato da non sapere che sono il padrone della Fabbrica?» Accarezzò l'asta dello scettro. «Ho un'intera legione di Automi ai miei ordini, vi spazzeranno via tutti senza pietà! E laverò nel sangue questa offesa!» Leon gli rivolse un sorriso mesto: «Troppo tardi. La Fabbrica è in mano nostra, e i tuoi giocattoli non ci fanno più paura. Avresti dovuto prestare più attenzione ai nostri movimenti, invece di restartene chiuso nel tuo palazzo.» Dinor scoppiò in una risata isterica: «Non ti credo! Voi pezzenti non riuscireste mai a portare a termine un'impresa del genere... Potreste sfuggire alla mia attenzione, forse, ma ho un alleato che non si farebbe mai pestare i piedi da gente come voi!» «E per caso questi sono i suoi abiti?» intervenne Kyra, sbucando tra la folla. Fece un passo avanti, malferma sulle gambe, e gettò la veste nera di Caleb ai piedi del governatore. Dinor la osservò per un po', senza capire, poi alzò due occhi incerti sulla giovane donna. «Proprio così, governatore» proseguì Kyra «Il tuo amico di metallo è andato via senza nemmeno salutarti, e ti ha lasciato in nostra compagnia. Davvero scortese, non trovi?» Dinor accusò il colpo: non riusciva a credere alle proprie orecchie, ma sentiva che quella donna non gli stava mentendo. Caleb era fuggito, e lo aveva gettato in pasto ai pesci. Vigliacco! Non gli restava che una via di scampo. «Non finisce qui!» esclamò, e alzò lo scettro sopra la testa, mormorando una parola nella lingua antica. La pietra azzurra sulla sommità dell'asta prese a brillare intensamente. Kyra imprecò, perché l'aveva già visto accadere in precedenza, nella Fabbrica. Non si trattava di uno scettro comune: consentiva il controllo a distanza degli Automi, per cui... Si udì un tonfo pesante alle spalle di Dinor, dentro al palazzo. Poi un altro, ancor più pesante, che fece vibrare le pareti dell'edificio. La folla ammutolì ed arretrò per istinto. Un istante più tardi, dall'androne scuro del palazzo uscì un Automa di spaventose proporzioni, la cui andatura lenta e macchinosa rammentava quella dei giganti delle leggende. Gambe e braccia erano simili a macigni squadrati, e la testa altro non era che un blocco massiccio affondato nel carapace del busto. I due
piccoli occhi, rossi e luminosi come quelli dei suoi fratelli minori, fissarono minacciosamente la moltitudine ammassata ai piedi della scalinata. I cittadini entrarono in panico: quelli delle prime file presero a urlare e si voltarono in massa; cercarono scampo nella fuga, premendo sui compagni ammucchiati alle loro spalle. Il disordine si propagò rapido come un'onda, coinvolgendo l'intera piazza in un turbine di improperi, grida e spintoni, mentre ognuno cercava una via d'uscita dal pericolo imminente. Nel mezzo di quel caos, Kyra non perse la calma. Era ancora stremata dallo scontro con Caleb, e la giuntura del braccio meccanico le doleva terribilmente. Eppure sapeva cosa fare. Afferrò Leon per un braccio e lo spinse giù dalle scale, lontano dal nemico. Quindi si voltò ad affrontare il gigantesco Automa, che si approssimava passo a passo. Dinor esibì un ghigno di trionfo, pregustando la vittoria del suo campione. «So di non essere un granché come fedele, grandi Dei» mormorò Kyra, atterrita di fronte alla terrificante mole del nemico «Ma vi prego, datemi una mano!» Quel giorno, almeno uno degli Dei doveva sentirsi generoso: nello stesso istante in cui Kyra formulava la sua rozza preghiera, un piccolo oggetto cilindrico volò sopra la sua testa, percorrendo un ampio arco. Toccò il suolo a pochi passi dal governatore, ed esplose con un boato. Dinor fu alzato da terra dallo spostamento d'aria, e scagliato sui gradini di marmo come una fragile marionetta. Lo scettro gli sfuggi di mano, e rotolò fino ai piedi della scalinata, dove Nestor lo raccolse. Il Saggio pronunciò una Parola di Comando, e l'Automa guerriero si disattivò all'istante. Il suo pugno massiccio, diretto a Kyra, si arrestò a mezz'aria. La luce negli occhi feroci si spense. Kyra sospirò di sollievo, e rivolse a Nestor un sorriso di gratitudine. Questi ricambiò il sorriso, poi affiancato da Leon si avvicinò al fagotto gemente del Governatore. «Avresti dovuto darci ascolto» disse Nestor, scuotendo il capo. «Co... Conosco questa voce...» rispose Dinor, alzando la testa sfregiata da tagli e bruciature. Poi, dando fondo a tutte le energie che gli restavano, si issò sulle ginocchia, ma fu il massimo che riuscì a fare. Riconobbe Nestor quasi all'istante, attraverso la cortina di sangue che gli annebbiava la vista. «Tu! Avrei dovuto immaginarlo!» proferì, sputando in terra un grumo rossastro. «Non io, Dinor. Noi. La città. Tutti quanti. Il tuo tempo è finito, è giunta l'ora di pagare per ciò che hai fatto.» La massa dei cittadini, superato il panico degli attimi precedenti, assisteva alla scena in rispettoso silenzio. Le prime file si fecero avanti, chiudendosi a cerchio attorno al governatore inginocchiato e sanguinante, e ai due uomini che l'avevano sconfitto. Dinor percorse la folla con gli occhi allucinati. Gli tremavano le labbra. Prese a farfugliare senza coerenza: «Stolti! Non vi salverete! È soltanto l'inizio...» Scoppiò in una folle risata. «Credete che sia io il vostro nemico? O quel pusillanime di Caleb? O forse Hiram, il principino insolente? Stolti!» Nestor e Leon scambiarono uno sguardo accigliato con Kyra, ma Dinor non si fermò: «Burattini, tutti quanti! Non vedo l'ora che conosciate il burattinaio, ahahah! Allora anche voi sceglierete da che parte stare...» Continuò a ridere, sempre più forte, mostrando i denti ai due uomini che lo squadravano dall'alto in basso, impassibili. Nestor passò lo scettro a Leon, con gravità. Questi cercò conferma nei suoi occhi, su ciò che si apprestava a fare. Il Saggio annuì. Leon avanzò di un passo, torreggiando sul governatore decaduto. Lo osservò, mentre rideva a squarciagola, ormai a limiti della follia. Non provò nessuna pietà, né rimorso, alzando lo scettro al cielo. Poi lo calò verso il basso con tutta la forza di cui era capace, e mentre lo faceva gli passarono dinanzi agli occhi i volti sereni dei suoi genitori, di Aren, e di tanti altri che avevano dovuto soccombere al tradimento e alla violenza di Dinor.
Ma, un attimo prima che la gemma azzurra cozzasse contro il cranio del vecchio, Leon arrestò la corsa del suo braccio. «Non meriti neanche questo» mormorò, incurante delle urla di protesta della folla «Sarebbe una morte fin troppo gloriosa. Marcirai nelle carceri di Dekka, invece. Sono certo che la compagnia dei ratti sarà di tuo gradimento, da qui sino alla fine dei tuoi giorni...» Se Dinor avesse inteso che il suo destino era segnato, nessuno poté dirlo: continuò a ridere e singhiozzare come uno stolto, coprendosi la faccia con le mani. A un cenno di Nestor, due membri della Guardia lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono via senza tanti complimenti. Leon non accompagnò con lo sguardo la sua uscita di scena: voltò le spalle tanto al governatore quanto all'odio che rappresentava, e innalzò lo scettro in segno di trionfo. La moltitudine proruppe in un urlo liberatorio: «Leon! Leon!» Nestor si unì agli applausi della folla, raggiante d'orgoglio per il suo protetto. «Meriti tutto questo, Leon, fino all'ultimo» gli disse. «Non ne sono così certo» rispose Leon, quasi stordito. Solo nei suoi sogni più arditi si era figurato una scena simile. Cercò Kyra con lo sguardo, e la trovò con qualche difficoltà: era rimasta in disparte, lasciando che la massa dei cittadini la oltrepassasse per andare a congratularsi con lui. I loro occhi si incontrarono. Rimasero così per alcuni attimi, poi Kyra aprì le labbra in un sorriso, e gli rivolse una giocosa riverenza. Leon si sentì leggero, come non gli accadeva da anni. Chinò il capo e si toccò la fronte con le dita, in segno di rispetto e profonda gratitudine. I suoi peccati erano stati perdonati. Rivolse le spalle al passato e fece il suo ingresso nel Palazzo del Governo, seguito da Nestor e da tutti quelli che l'avevano aiutato durante la rivolta. Una fiumana di gente comune li accompagnò, senza bisogno di invito: quel giorno cominciava il faticoso processo che avrebbe plasmato la nuova Dekka, e nessuno voleva restarne fuori. Neanche gli uomini della Guardia Cittadina si tirarono indietro, anzi si fecero avanti in gran numero, desiderosi di riscattare gli errori del passato. In breve, sulla scalinata di marmo rimase soltanto il mastodontico Automa, ridotto a statua. Un uccello solitario, timidamente, gli si posò sulla testa. Kyra diede le spalle al palazzo e scese i gradini con passo incerto. Il sole cominciava a calare, e non lontano, al porto, si levò il canto dei gabbiani. Era stata una giornata esaltante e densa di avvenimenti. E non tutto era andato come sperava. La sua vendetta non era stata consumata a dovere, e questo le bruciava. Ma erano soprattutto le allusioni di Caleb a darle una sensazione di malessere. Avrebbe dovuto fare qualcosa in proposito, e al più presto, per accertarsi che fossero soltanto menzogne. Sopraggiunse Ethan, e la sorresse per un braccio. Era raggiante di felicità. «Sei molto gentile» disse Kyra. «È un grande giorno! Ancora non riesco a credere che sia andato tutto come speravamo! Non vuoi andare a palazzo anche tu, con gli altri? Posso aiutarti, se ti va!» «No Ethan, grazie. Ne ho avuto abbastanza per oggi.» Gli rivolse un sorriso stanco. «Ho un'altra proposta per te, ma la metteremo in pratica soltanto dopo che avrò dormito un poco...» «Quale?» «Torniamo a casa, Ethan. A Mirna. Tuo padre ci sta aspettando da un pezzo.» Ethan la guardò con grande affetto. Poi la strinse in un forte abbraccio, e neanche cercò di nascondere le lacrime di gratitudine che gli sgorgavano dagli occhi, e dal cuore.
XXVIII - Rivelazioni
«No!» urlò Raduan. Ma era troppo tardi: Dorian si era scagliato sul nemico, e nulla avrebbe potuto arrestare il suo slancio. Raduan guardò impotente l'Addestratore di Serpenti schivare l'affondo di Dorian con un movimento sinuoso del corpo. Dorian ci riprovò: incalzò il nemico con la forza della disperazione, menò una rabbiosa serie di stoccate e fendenti, senza riuscire nemmeno a sfiorarlo. Pareva che l'Addestratore fosse fatto di giunchi intrecciati, tanto era snodato ed elastico. «Shhh! Vi abbiamo già detto una volta che non ci potete toccare» sibilò «Non siete abbastanza forte, non ancora...» «Taci!» ruggì Dorian. Non poteva accettare che quella creatura immonda la passasse liscia, non dopo quel misfatto. L'avrebbe trascinato con sé all'inferno, se necessario. L'Addestratore lo squadrò con disprezzo. «Se non volete darci retta, darete retta a loro!» Fece due rapidi passi avanti, trovando un varco nella difesa di Dorian. Fissò le pupille da rettile in quelle del guerriero, dilatate dalla furia, e slanciò le lunghe braccia in avanti. Dorian urlò come se un dardo affilato gli trapassasse il cranio, affondando fino al cervello. Gli si offuscò la vista, un dolore lancinante gli paralizzò le membra, e l'arma gli sfuggì di mano. Poi qualcosa gli strizzò i polmoni. Abbassò lo sguardo, e vide che le braccia del suo nemico si erano tramutate in fasci di serpenti dello spessore di grossi rami d'albero. I rettili gli si erano avvinghiati attorno al busto, e lo sommergevano nella massa viscida dei loro corpi. Lanciò un grido di repulsione, ma l'orrore non sembrava aver fine: dalle orbite e dalla bocca dell'Addestratore – con il volto a un palmo di distanza dal suo - uscirono altri serpenti, piccoli e dai colori brillanti. Le loro lingue biforcute saettavano, assaggiando l'aria, e dai loro canini grondava un liquido denso e viscoso. Dorian si dimenò il più possibile per scrollarsi di dosso quel campionario di rettili ripugnanti, ma fin da subito capì di non potercela fare. Da un istante all'altro sarebbe morto - coi polmoni stritolati, e con una buona dose di veleno in corpo. Per quel che contava! Raduan non ci capì più nulla. Perché Dorian si agitava in quel modo, stretto tra le braccia del suo avversario? L'Addestratore se ne stava immobile davanti a lui, eppure Dorian urlava e si dibatteva come se un Demone lo stesse infilzando coi suoi artigli. E aveva mollato la spada di punto in bianco, lasciandola cadere a terra. «Che accidenti..?» mormorò. Per quale ragione Dorian stava avendo la peggio? Non poteva restarsene a guardare. Scattò avanti, con l'ascia bipenne tra le mani. «Pessima idea, shhh!» sibilò l'Addestratore. Intercettò Raduan con lo sguardo e spalancò la grottesca bocca sdentata, mormorando parole in una lingua sconosciuta. Obbedienti al suo richiamo, grossi serpenti sbucarono dalle case, dai fienili, da sotto ai carri, persino dal pozzo, e circondarono Raduan con fulminea rapidità. Erano sette: enormi cobra neri e gialli, eretti e pronti a colpire. I loro cappucci si gonfiarono a formare una barriera intorno all'attonito guerriero, che dovette arrestare di botto la sua corsa. Davanti a lui, al di là delle teste ondeggianti dei rettili, Dorian continuava a urlare nella stretta dell'Addestratore. Raduan digrignò i denti per la frustrazione: non c'erano varchi. Ruotò l'ascia a mezz'aria per spaventare i serpenti, ma non servi a nulla. I cobra non gli aprirono il passo. Non era la loro coscienza a guidarli, bensì il comando dell'Addestratore. Il guerriero imprecò e si avventò sul serpente più vicino.
«Levatevi di mezzo, bestiacce!» Il rettile schivò il colpo e contrattaccò, sputando un getto di veleno che per poco non lo colpì negli occhi. Un altro cercò di azzannargli una caviglia, costringendolo ad arretrare. «Dannazione!» esclamò. Doveva trovare il modo di sfuggire all'accerchiamento, o Dorian sarebbe morto. Avrebbe tentato e ritentato, con tutte le sue forze! «Meglio per voi se non ci provate» sentenziò l'Addestratore «I Sette sono i nostri prediletti, shhh, i più spietati! E sono fatti di carne ed ossa, potete crederci. Non sono mere illusioni, come quelle che annebbiano la mente del vostro amico.» «Illusioni...» ripeté Raduan. Ecco perché Dorian aveva preso a comportarsi in quel modo! Il nemico doveva averlo intrappolato in una sorta di allucinazione maligna, un incubo ad occhi aperti... Con lo stesso intrigo aveva tramutato la sua spada in serpente! In che modo poteva liberarlo da quella presa mentale? «Restatevene lì buono, senza irritarci oltre» aggiunse l'Addestratore, sempre parlando al plurale «E forse vi lasceremo vivere. Comunque, non abbiamo intenzione di uccidere il vostro amico, shhh!» Aprì le braccia, e lasciò cadere in terra la sua vittima. Quando Dorian toccò il suolo, la sua mente tornò al mondo reale. Si prese la testa tra le mani, confuso. Poi alzò gli occhi da terra e si ritrovò a fissare l'Addestratore di Serpenti, che incombeva su di lui con la sua figura alta e malevola. «Dorian!» esclamò Raduan. Ma Dorian non lo degnò di uno sguardo. Nel suo tormento c'era spazio per una cosa soltanto: la consapevolezza di aver perso lo scontro, e di giacere inerme ai piedi del nemico. Gli lacrimavano gli occhi per il calore delle fiamme. Le sue narici erano piene del lezzo acre proveniente dalla pira, dai corpi arsi dei suoi amici e compagni. «Perdonatemi» pensò, svuotato. Alzò sull'Addestratore uno sguardo pieno di afflizione e rabbia. «Hai vinto, maledetto mostro. Mi hai tolto tutto quello che avevo, mi hai annientato. Adesso uccidimi!» «Dorian! No!» gridò Raduan. Ma i Sette non gli davano tregua, continuavano a danzare al ritmo della sua disperazione. «Uccidimi, ho detto!» urlò Dorian, con gli occhi pieni di lacrime. «Shhh! Non così in fretta...» rispose l'Addestratore. «Che altro vuoi da me, maledetto? Hai distrutto la mia vita, cos'altro puoi volere da me? Che cosa?» L'Addestratore lo squadrò dall'alto in basso, studiandolo come un insetto curioso. «Non siamo stati noi a uccidere i vostri compagni» disse poi, in tono piatto e privo di emozioni «Non avevamo interesse a farlo.» «E ti aspetti che io ti creda?» rispose Dorian, scuotendo la testa «Stai ancora giocando con me, non è vero? Non ti basta quello che hai fatto...» «Vi abbiamo visto parlare con quel moribondo, shhh! Non vi ha forse detto com'è andata?» Era vero. In nessun punto del suo racconto Seras aveva citato l'Addestratore e le sue creature. A detta del capitano, l'assalto era stato condotto da uno storpio dotato di poteri sovrannaturali, spalleggiato da un piccolo contingente d'uomini. Nessun serpente, nessun Addestratore di Serpenti. «Se non tu, chi è stato?» domandò Dorian, mentre il dubbio si faceva strada dentro di lui. «Il suo nome è Shem, e ha un gran brutto carattere, shhh!» rispose l'Addestratore, senza risparmiargli il sarcasmo «È lui che ha annientato i vostri uomini, e che ha rubato lo stendardo della vostra compagnia. Il vostro rituale non gli è mai andato a genio.» «Lo stendardo...» mormorò Dorian. Non era una sorpresa così grande: fin dal primo momento, quando aveva scorto l'asta spezzata in cima alla montagna di corpi, era stato sfiorato dal dubbio. Per quale motivo ogni cosa, nel bene e
nel male, finiva sempre per dipendere dal maledetto stendardo di Abel? «Perché mi stai dicendo queste cose?» domandò «Perché mi hai provocato?» «Siamo qui per voi, Dorian. Vi avevamo avvisati che un giorno ci saremmo di nuovo incontrati. Quel giorno è arrivato, shhh! A partire da oggi, voi ci aiuterete, e noi aiuteremo voi.» Dorian rimase a dir poco interdetto, ma l'Addestratore non gli lasciò il tempo di assorbire la cosa: «Sappiamo chi sono i responsabili di questo massacro. Sappiamo dove trovarli e come aiutarvi a recuperare il vostro stendardo. E soprattutto, shhh, sappiamo come rendervi abbastanza forte da sopravvivere a questa prova! Il Viandante aveva ragione: avete un grande potenziale...» «Abel!» esclamò Raduan. Pur non togliendo gli occhi dai serpenti, non aveva perso una parola del dialogo. «Come fai a conoscerlo? Come...» L'Addestratore schioccò le dita, e i Sette strinsero il cerchio attorno a Raduan, sibilando. Il messaggio era chiaro: non ti intromettere, o te ne pentirai. «Sapete» continuò l'Addestratore, dondolando da un piede all'altro dinanzi all'attonito Dorian «Noi possediamo un dono unico, tra i tanti. Riusciamo a vedere scorci di un possibile futuro, shhh! Possiamo intuire parte di ciò che accadrà, e cercare di farlo accadere, se vogliamo. O di evitarlo, in caso contrario.» Avvicinò il proprio volto a quello di Dorian, stringendo le pupille da rettile. I sonagli sulle punte del suo curioso copricapo tintinnarono come dotati di vita propria. «Shhh! Abbiamo scorto spesso il vostro volto, tra le nebbie del futuro... Il vostro destino è legato a doppio filo alle sorti di questo mondo. E ciò vi rende oltremodo interessante. Un esemplare unico, come me!» «Godi a confondermi la mente con queste assurdità?» sbraitò Dorian «Ancora non capisco cosa vuoi da me! Non lo vedi che è finita? Non desidero altro che la morte!» «O la vendetta» sibilò l'Addestratore, incatenandolo al suo sguardo «Per ciò che è accaduto oggi, e per ciò che è successo molti anni fa...» Dorian sentì che le parole gli morivano in bocca. Gli balenarono davanti agli occhi immagini che sperava di aver rimosso per sempre: una donna e un bambino, senza vita, i corpi riversi in una pozza di sangue. Sua moglie. Suo figlio. Come faceva a sapere, quel mostro? Come? Raduan chiamò più volte il suo nome, cercando di metterlo in guardia, ma Dorian non diede segno di averlo udito. «Vendetta» ripeté tra sé e sé. Avrebbe dovuto provare rabbia e dolore, ma si sentiva strano, vuoto, come un otre che attendeva di essere riempito. Alzò lo sguardo sull'Addestratore: «Devi dirmi di più, se vuoi che ti dia retta...» «Shhh! Perché no!» sibilò l'Addestratore, sfoggiando un sorriso da vipera «Per cominciare, Addestratore di Serpenti è un nome che ci piace, e ci assomiglia, ma non è il nostro vero nome. Quello vero è Nahash. Pochi altri l'hanno udito pronunciare, shhh, consideratevi fortunato!» Dorian non replicò. Fortunato non era decisamente l'aggettivo che avrebbe usato per descriversi, quel giorno. «Siamo piuttosto differenti da voi, ne converrete» continuò Nahash «Siamo più forti, più agili, vediamo e conosciamo cose che voi neanche immaginate. Veniamo da lontano. E non siamo i soli. Ci sono altri come noi, e ognuno conduce il proprio gioco.» Quelle parole presero vita nella mente di Dorian come un turbinio d'immagini infauste: anni di lotte feroci, scene raccapriccianti, sangue, morte, anime perdute... «Demoni» disse, pronunciando ad alta voce il punto d'arrivo dei suoi pensieri. Nahash rise, un suono sibilante e grottesco. «Shhh! Quelli che voi chiamate Demoni, come i mostri delle vostre leggende, non sono che
pupazzi di nessun valore. Pedine sacrificabili. Sono altri a comandare il gioco. Veri e propri Demoni, questi sì. Alcuni già si stanno rivelando, altri attendono il loro turno, nell'ombra...» Nel silenzio che seguì, Dorian fu avvolto dalla consapevolezza di qualcosa che forse aveva sempre saputo, nel profondo. Non erano soli al mondo. Vi erano occhi estranei puntati su di loro, occhi avidi e implacabili. Dei o Demoni che fossero, il risultato non cambiava. Era una pira di corpi in fiamme, che gridavano vendetta. «Chi sono?» lo interrogò «Dove posso trovarli?» «Un passo alla volta, shhh! Non siate impaziente, per quanto la cosa vi bruci!» rispose Nahash. Una volta di più la sua impietosa ironia affondò come un coltello nelle carni di Dorian. «Come vi abbiamo spiegato, siamo disposti a rivelarvi molte cose, e ad aiutarvi a sviluppare il vostro potenziale. Ma tutto ha il suo giusto prezzo.» «E quale sarebbe?» «Lo saprete nella palude di Draslund, dove sorge la nostra umile dimora. Dovrete superare alcune prove lungo il cammino, shhh, non ve lo nascondiamo. Se giungerete là ancora in vita, ci avrete dimostrato che la vostra volontà non vacilla, e che il destino ha fatto bene a puntare le sue carte su di voi. E noi con lui.» «Non dargli ascolto, Dorian!» urlò Raduan, sempre alle prese coi sinuosi carcerieri di Nahash «Qual è la ragione di tutto, maledetto? Cosa vuoi davvero? Diccelo!» «Shhh!» sibilò Nahash, frustando l'aria con la sua lingua biforcuta «State mettendo a dura prova la nostra pazienza! Quello che vogliamo non vi riguarda! Anche noi abbiamo i nostri piani, il nostro gioco...» «E noi saremmo le vostre pedine, non è vero?» «Eppure anche voi potreste uscire vincitori da questo gioco!» Mostrò le gengive in un sorriso rivoltante. «Il premio in palio, oltre a una giusta vendetta, sarà la vita di colui che chiamate il Bianco Viandante! Non vi suona allettante?» «Cosa?» esclamarono Dorian e Raduan all'unisono. «Sappiamo dove si trova, shhh, e a cose fatte sarà vostro, lo promettiamo.» «Dannato!» gridò Raduan. I cobra gli soffiarono contro, ciondolando il capo irrequieti. «Shhh! Non è nelle nostre mani, sciocco!» replicò Nahash «Il suo destino è un altro.» Durante alcuni attimi il suo sguardo si perse nel vuoto, sfocato. «È sempre stato un altro...» Dorian continuò a guardarlo con espressione indecifrabile, senza dir nulla. Nahash gli voltò le spalle, mascherando il sole con la sua innaturale figura snodata. «Abbiamo detto abbastanza» disse poi «A voi non resta che prendere una decisione. Un'epoca di grandi cambiamenti si avvicina, shhh! Sarete pronto ad affrontarli?» Schioccò le dita, e i Sette abbandonarono Raduan. Le sagome nere e gialle si dileguarono, veloci com'erano apparse, fondendosi con l'ambiente circostante. «Vi attenderemo, Dorian, ma non troppo a lungo. Shhh! Se dovremo venirvi a cercare, sarà per uccidervi!» Furono le ultime parole che Nahash pronunciò, prima di allontanarsi a ritroso verso il torrione. Un attimo dopo scomparve come un fantasma, liberando Bezer dalla sua paradossale presenza. Raduan non pensò neppure per un istante di mettersi alle sue calcagna: la sua unica preoccupazione era Dorian. Corse da lui, e gli poggiò le mani sulle spalle. «Dorian! Stai bene? Hai qualcosa di rotto?» «No. Sto bene» rispose Dorian con voce piatta, senza guardarlo. «È una fortuna!» osservò Raduan, scuotendolo amichevolmente «Avresti potuto finir male! Che diavolo ti è preso?» Dorian non replicò. «Maledetto mostro!» continuò l'altro «Sono sicuro che ha a che fare con tutto questo, benché non l'abbia ammesso! E quella valanga di assurdità che ti ha rovesciato addosso... Non crederà di averci ingannati, per Abidan! Come se tu potessi davvero dargli retta! Puah! Seguirlo fino a Draslund, la
peggior cloaca di questo mondo!» Anche questa volta Dorian non fece commenti. Mantenne lo sguardo fisso a terra, rimuginando. Fu la peggior risposta che Raduan potesse ottenere. «Dorian...» mormorò, staccandogli le mani dalle spalle. In cuor suo si rese conto che il danno era fatto. Il veleno del serpente si stava già facendo strada nella mente del comandante, intorbidita dal dolore. Alle loro spalle i corvi gracidavano senza posa, nell'attesa che le fiamme consegnassero loro ciò che restava della Compagnia del Viandante.
XXIX - Tracciando il Cammino
«Eccoci, siamo arrivati finalmente!» esclamò Ethan, il volto disteso in un ampio sorriso. Puntò il dito ai piedi della collina, dove Mirna giaceva sonnolenta nella luce rosata del tramonto. Kyra provò una sensazione di tepore nel riconoscere i bassi tetti del villaggio, le viuzze pavimentate di pietre sconnesse, il porticciolo affollato di barche... Quanto tempo era passato da quell'ultima volta che si era soffermata a guardare da lontano il villaggio, augurandosi di potervi ritornare? Non molto, forse, ma le sembrava una vita intera. Tornò con la mente alla città di Dekka, e a tutte le vicissitudini che aveva patito. «Quella città è un mostro, ragazza, e ti divorerà in un sol boccone!» le aveva detto il vecchio Ezer la notte del loro primo incontro. E non era andato troppo lontano dal vero: la città si era presa una delle sue braccia, e per poco non si era presa anche tutto il resto! Eppure quando ripensava a Dekka non provava astio. Là aveva vissuto terribili esperienze, vero, ma aveva anche creato forti legami di amicizia, e tutto quanto l'aveva aiutata a crescere in modo inaspettato. Si sentiva molto più forte di prima, nel corpo e nello spirito. Gran parte della sua rinascita era dovuta senza dubbio alla forza di volontà, e alla grinta che aveva saputo tirar fuori nei momenti di disperazione. Ma non ce l'avrebbe mai fatta da sola, senza l'appoggio e l'incoraggiamento dei suoi nuovi amici. Ripensò ai suoi Ratti di Porto, tanto leali e scapestrati. Li aveva salutati soltanto due notti prima, e già ne sentiva la mancanza...
----La festa di quella notte sarebbe passata alla storia come la più trionfale mai organizzata dalla banda dei Ratti di Porto. L'alcool scorreva a fiumi tra i tavoli della “Vecchia Lanterna”, e una volta tanto persino l'oste aveva il sorriso stampato sul volto: il bottino della banda era stato ricco, e per ordine del capo quella notte tutti i debiti sarebbero stati saldati, con gli interessi! Kyra non si sentiva troppo propensa a festeggiare, ma era stata trascinata di peso assieme ad Ethan nel mezzo della baraonda. Tra musiche, danze, acclamazioni, cori osceni e grandi bevute, la festa li avvolse in un turbine di allegra follia che non pareva aver fine. Kwan danzava nel mezzo della sala con la grazia di un orso ubriaco, stringendo una donna con ciascun braccio. Danzava e rideva, sfidando il mondo intero col suo sorriso di metallo lucente, come se mai più la sorte potesse voltargli le spalle. Non distante da lui, Lisca cantava a squarciagola con un gruppo di altri improvvisati tenori, dondolandosi al ritmo del limpaq che gli scorreva nelle vene. La canzone narrava una dubbia relazione tra Dinor e il suo Automa, e non risparmiava ruoli da protagonisti agli adorati membri della Guardia Cittadina. Kyra non seppe se sentirsi più atterrita dall'insolenza del testo o dalle orripilanti voci degli interpreti. Otto cercò di unirsi al coro, ma fu allontanato con una sonora pedata che lo ridusse a una trottola umana. Ethan lo aiutò a fermarsi, ma Otto volle che lo spingessero di nuovo, come un bambino, e le sue risate assordarono i presenti. Nel mezzo di quella gabbia di matti, Kyra scorse Selita seduta a un tavolo d'angolo, in compagnia di un boccale pieno fino all'orlo. Pareva serena, ma non certo felice. Si separò da Ethan, e le si avvicinò. Si sedette al suo tavolo, sorridendole. Selita levò il boccale scherzosamente: «Onore a te, grande capo! Questo è il giorno più fulgido della nostra lunga storia!» «Onore a me!» concordò Kyra, sfoggiando due file di denti candidi. Il fatto di trovarsi là, in compagnia di quella banda di farabutti ubriachi, con una benda
sull'occhio e un pezzo di metallo al posto del braccio, la faceva sentire come un leggendario capitano uscito da un racconto di pirati. «Riuscirai ad essere un capo alla mia altezza?» domandò a Selita, alzando un sopracciglio come se la stesse valutando. «Come hai detto, scusa?» rispose Selita, poggiando il boccale sul tavolo. «Non far finta di non aver capito. A partire da adesso, ti comunico che i Ratti di Porto sono affar tuo. Sei libera di guidarli verso la gloria, o la rovina, se preferisci!» Selita la fissò a bocca aperta. «Non capisco... Che vuoi dire?» «Voglio dire che devo lasciarvi» rispose Kyra, senza celare una nota di tristezza «E credo che tu sia la persona più adatta a prendere il mio posto. Lo eri fin dall'inizio, prima che venissi a romperti le uova nel paniere. Ne ho parlato con Lisca, e anche lui crede che sia la cosa migliore per la banda.» «Io... non so che dire!» replicò Selita, con espressione contrariata «No, non posso accettare! Il merito di tutto è tuo! Sei tu che ci hai resi famosi!» «Calma, Selita, rifletti! Se potessi rimanere qui, forse mi terrei il comando, lo ammetto. Ma devo andarmene da Dekka, capisci?» «Perché? Non stai bene qui con noi?» L'affetto che traspariva dalle sue parole quasi la commosse. «Mi trovo molto bene, ma non posso restare. Ho cose importanti da fare, lontano da qui, cose che non possono attendere. La mia... famiglia... ha bisogno di me.» Selita la studiò per un po', corrucciata, ma alla fine annuì. «In questo caso, accetto» affermò a mezza voce «A malincuore, ma accetto.» «Ti ringrazio. Sei l'unica di cui mi fidi davvero. Gli uomini non sono adatti a comandare.» L'altra rise, scuotendo la testa. «Hai ragione! Ma sappi che resterò in comando soltanto fino al tuo ritorno, non un giorno di più.» «Perché invece non ripeschiamo le antiche tradizioni della banda? Tu ed io, una contro l'altra, in una lotta all'ultimo sangue?» «Non mi tentare!» rispose Selita con un sorrisetto «Chissà che non ti accolga proprio in quel modo, quando tornerai...»
----Così aveva lasciato la banda dei Ratti di Porto, nelle capaci mani di Selita, e si augurava che le cose non cambiassero per molto tempo. Anche se un giorno fosse davvero tornata a Dekka, non credeva di volersi accollare di nuovo la responsabilità di capo banda. Non faceva parte del suo carattere. Si poteva ben dire il contrario di Leon: in un paio di giorni - pur mostrando una ritrosia che Kyra non riteneva del tutto sincera - era stato eletto governatore a furor di popolo. Senza dubbio aveva ricevuto una buona spinta da Nestor e dagli influenti membri di Liberazione, ma tutto sommato era stato meglio così. Nessun altro aveva avuto tanti meriti quanto Leon, nel salvare la città dal traditore Dinor. «Su, che aspetti?» chiese Ethan, tirandole una manica della camicia come un bambino impaziente «Non vedi che si fa buio? Andiamo!» Kyra non fece storie, e prese a seguirlo lungo la discesa sconnessa che portava a Mirna. Eppure non riusciva ancora a concentrarsi sul presente. Lasciò che le gambe la guidassero, mentre col pensiero tornava alla mattina in cui aveva lasciato Dekka, una mattina fredda e nebbiosa, come se la brutta stagione si rifiutasse di cedere il passo all'estate...
----Uscendo dalla “Vecchia Lanterna” in compagnia di Ethan, Kyra si strinse addosso il mantello. La giuntura del braccio artificiale le doleva non poco a causa dell'umidità, e così l'occhio sinistro,
protetto dalla benda. Avrebbe dovuto farci l'abitudine. Dopo il frastuono della festa della notte precedente, aveva ancora un fastidioso ronzio nelle orecchie. Il silenzio delle vie ammantate di nebbia rendeva il rumore ancor più insopportabile. Si lasciò guidare da Ethan, che già conosceva il cammino come il palmo delle proprie mani. In assenza della folla indaffarata che sempre intasava le vie, giunsero in fretta ai confini della città. Kyra tirò un sospiro di sollievo: non vedeva l'ora di rituffarsi nel vasto mondo che l'attendeva fuori dalle mura! Proprio quando cominciava a scorgere nella foschia la sagoma dei cancelli, udì una serie di acuti latrati, come spilli che perforavano l'aria, e una figura non più grande di un coniglio sbucò correndo dalla cortina di nebbia. Un attimo prima che le azzannasse poco educatamente una caviglia, Kyra riconobbe Fulmine, il cagnetto con la gamba artificiale. Lo accolse senza animosità, anche perché la potenza del suo morso era paragonabile a quella di uno scoiattolo. «Fratellino!» disse, ironicamente, sollevandolo da terra per la collottola. La bestiola non sembrava disposta ad ammettere un tale affronto, ma non c'era modo di negarlo: erano gli unici due esseri viventi in tutta Dekka - e forse nell'intero Regno - a possedere un arto meccanico. «Ehi, tu, lascia stare il mio cane!» sbraitò una voce ben nota «O altrimenti...» Prima che Kyra potesse investire Nestor con una serie di fantasiose imprecazioni, la terra rimbombò, e lei quasi si morse la lingua. Rivolse uno sguardo sorpreso ad Ethan, ma non ne ricavò nulla. La terra tremò di nuovo, accompagnata da un sinistro cigolio metallico. «Non ci posso credere!» mormorò Ethan mentre il sipario di nebbia si apriva, rivelando la mastodontica sagoma dell'Automa guerriero di Dinor. Gli occhi metallici pulsavano ferocemente, accompagnando il pesante ritmo della sua avanzata. «Ah, questa no!» esclamò Kyra, allibita. Pensava di essersi liberata una volta per tutte dei maledetti Automi, ma a quanto pareva avrebbe ancora dovuto conquistarsi una via d'uscita da quella assurda città. Sfoderò il braccio artificiale, preparandosi allo scontro. Una risata ruppe la tensione del momento, lasciandola di stucco. La risata si prolungò, crescendo d'intensità, e ben presto venne seguita dai contorni di due figure umane celate dalla nebbia. Il primo era Nestor, che stava ridendo tanto da rischiar di scoppiare. Stringeva nella mano destra lo scettro appartenuto a Dinor, e dietro di lui veniva Leon, con un'espressione di palese imbarazzo dipinta sul volto. Nestor pronunciò la parola nella Lingua Antica. La pietra azzurra sullo scettro pulsò, e l'Automa si immobilizzò sull'attenti, sbuffando vapore come un cane rabbioso. «Perdona il mio sciocco amico» disse Leon, coprendosi gli occhi in segno di vergogna «Sai com'è fatto, non avrebbe mai perso un'occasione del genere...» «Allora ragazza» esclamò Nestor, raggiante «Ti piace il mio nuovo cucciolo? Penso che sarà un'ottima compagnia per Fulmine. E anche per la guardia personale del governatore, se è per questo. Ahahah!» Kyra lo fissò a bocca aperta, mentre Ethan rideva a sua volta, sollevato. «Ti sembrano scherzi da fare? Ci hai fatto prendere un colpo! E hai il coraggio di farti chiamare Saggio!» «Scusatemi, non ho saputo resistere» rispose Nestor, sforzandosi di reprimere il riso «Questo bestione adesso è al nostro completo servizio. È stato facile capire il funzionamento dello scettro. Davvero un portento di tecnologia, non posso negarlo. Prevedo un futuro di rosea collaborazione tra gli Automi e gli esseri umani di questa città!» «Pessima, pessima idea davvero!» replicò Kyra «Leon, devi fargli capire che è un grosso errore. Un giorno o l'altro, quel mostro impazzirà e vi getterà giù dalla torre del palazzo!» «È quello che ho detto anch'io» sostenne Leon «Ma non è facile ragionare con certe persone.» «Puah! Sei già un pessimo governatore, lasciatelo dire!» Un attimo più tardi, tutti e quattro stavano ridendo, scambiandosi amichevoli pacche sulle spalle.
Ma la scena di allegra armonia durò poco. «Pensavi di andartene senza salutare, ragazza?» chiese Nestor, senza tanti giri di parole «Fortuna che abbiamo i nostri informatori!» «Non avevo intenzione di distrarvi dai vostri nuovi compiti» rispose lei, cercando di mascherare l'imbarazzo «L'intera città si aspetta molto da voi. Non c'era ragione che perdeste il vostro tempo con me.» Leon fece un passo avanti e le si piazzò di fronte, stringendola per le spalle. «Kyra, amica mia» disse «Senza di te non saremmo riusciti a combinare un bel nulla, lo sai bene. Cadesse il cielo, avremo sempre tutto il tempo del mondo per te, è chiaro?» Esibì un sorriso astuto. «Anzi, visto che siamo qua... Perché mai dovresti andartene? Ti ho riservato un posto di riguardo, come capitano della Guardia Cittadina. Non mi fido di nessun altro. Soltanto una persona pulita come te dovrebbe avere questo potere, soprattutto adesso, che c'è molto da riorganizzare. E ci attendono tempi difficili, forse una guerra.» «Ti ringrazio di tutto cuore per l'offerta, Leon, ma...» «No, aspetta a rifiutare! Non ti lasceremo fare tutto da sola, è chiaro! Il tenente Vay sarebbe più che felice di darti una mano.» «Credo che dovresti lasciare a lui il comando, davvero. Non posso fermarmi, ho affari importanti da sbrigare. Molto più importanti di quanto possiate immaginare.» Il sorriso si spense sulle labbra di Leon, sostituito da una mesta rassegnazione. «Temevo che l'avresti detto. È la tua ultima parola?» «Si, purtroppo» confermò lei «Sono certa che un giorno tornerò, ma oggi devo andare. Ho lasciato troppe faccende in sospeso. Devo risolverle al più presto, o non mi sentirò mai in pace con me stessa.» «Posso capirlo» annuì lui, dandosi per vinto. Rimasero così per un po', finché Nestor non ruppe il silenzio con la sua voce grossa: «Buon viaggio, allora, a tutti e due!» Li abbracciò con forza, togliendo loro il fiato. «Tu, ragazzo, comportati bene a partire da oggi, e cerca di essere un buon figliolo per il tuo povero padre. Basta complotti e scorribande! E tu, Kyra, tratta bene i giocattoli che ti ho donato. Non troverai pezzi di ricambio in nessun angolo del Regno, lo sai vero?» «Puoi contarci, Nestor! E quando ne avrai costruiti di migliori, verrò a fare il cambio!» Nestor si fece da parte, sorridendo, mentre Leon a sua volta li salutava: «Grazie per tutto quello che avete fatto, dal profondo del cuore. Spero di rivedervi, un giorno, e mi auguro che non abbiate di me un ricordo troppo negativo. Ho commesso molti errori, e vi ho causato molto dolore. Non saprò mai come farmi perdonare.» Kyra liquidò la sua autocommiserazione con una battuta: «Vedi di mantenere la tua parola, e di fare del bene a questa città! Altrimenti giuro che tornerò a cercarti, Automa o non Automa, e te la farò pagare!» «Kyra!» esclamò Ethan, imbarazzato, ma Leon capì subito il senso della battuta. «Se tradirò la tua fiducia, vieni pure. Ti autorizzo a decapitarmi con quello!» affermò, indicando il braccio artificiale. Esaurite le parole, si scambiarono una serie di energici abbracci, poi le loro strade si separarono. Leon e Nestor svanirono nella nebbia, accompagnati dalla colossale sagoma dell'Automa, mentre Kyra ed Ethan oltrepassavano una volta per tutte la soglia dei cancelli.
----La discesa terminò, e i pensieri di Kyra tornarono al presente. Ethan la precedeva, e si voltava di continuo verso di lei, mostrando impazienza. Passarono tra le semplici case dei pescatori, e tutti quelli che incrociarono lungo il cammino rivolsero loro un saluto incredulo. Pensavano che Ethan non sarebbe mai più tornato a Mirna, e lo stesso valeva per la giovane forestiera che aveva vissuto con Ezer, sollevando una montagna di pettegolezzi. Peccato
che i due non volessero fermarsi a dar spiegazioni. Quando giunsero al porto, il sole si era già tuffato nelle acque tranquille della baia, tingendole di rosso. Una figura solitaria sedeva in cima al molo, le spalle curve, lo sguardo perso in lontananza. Anche a quella distanza potevano avvertire dentro di sé l'eco dei suoi sospiri. «Padre...» mormorò Ethan, immobile, stringendo i pugni. Kyra lo spinse avanti. «Va', che aspetti?» Ethan inspirò profondamente, e annuì. Avanzò con passo incerto lungo il molo, facendo scricchiolare il legno. Giunse alle spalle del vecchio senza che questi notasse la sua presenza. Si chinò e gli mise un braccio attorno alle spalle. Ezer si voltò bruscamente, poi i loro occhi si incontrarono. Kyra si sentì un groppo in gola nel vedere come il volto del vecchio si illuminava di una gioia inaudita, e un urlo a lungo represso gli usciva dalla gola. Padre e figlio si abbracciarono con forza, e piansero le lacrime di una felicità senza limiti. Soltanto dopo lunghi minuti Ezer si asciugò gli occhi, e controvoglia allentò la presa sul figlio, con timore che potesse di nuovo sfuggirgli tra le dita. Fu allora che scorse nella penombra la figura familiare di Kyra, in attesa a rispettosa distanza. Alzò un braccio in segno di saluto, e lo sguardo intenso che le rivolse diceva già tutto, senza bisogno di parole. Kyra rispose al saluto, aprendo le labbra nel sorriso più sincero che avesse mai prodotto negli ultimi tempi. Adesso sì, dopo mesi di lotte, dubbi e dolore, sapeva di aver fatto per lo meno una cosa giusta, e che la sua vita aveva ancora un senso. Mentre andava a riunirsi al vecchio pescatore e a suo figlio, un'ombra le passò sul cuore, con i tenui contorni del volto di Dorian. «Padre» pensò «Quand'è che anch'io potrò riabbracciarti?»
----Una sola settimana era passata dal giorno del massacro, e già Bezer ricordava un rudere popolato da fantasmi, come i castelli tenebrosi che affollano i racconti delle notti d'inverno. Il sentore di morte era palpabile nelle vie e tra le case, gusci vuoti che trasudavano abbandono. Il silenzio permeava l'aria, reso ancor più odioso dal gracidare insolente dei corvi e dai latrati dei cani randagi. L'unico suono prodotto dagli esseri umani era quello delle pale, un continuo scavare e raschiare la terra dura, dentro e fuori le mura della fortezza. Lo sparuto gruppo d'uomini, composto da Dorian, Raduan e un pugno di soldati miracolosamente scampati all'eccidio, era impegnato da giorni nella esasperante attività di seppellire i morti. I defunti della guarnigione militare venivano sepolti a ridosso delle mura, presso il rottame del portone esterno, dove la morte li aveva sorpresi in forma di saetta incendiaria. Seras era stato seppellito in una posizione di riguardo, più in alto dei suoi commilitoni, quasi fosse destinato a comandarli anche nell'aldilà. Allo stesso tempo, Dorian e Raduan non avevano rimosso i corpi dei loro compagni dal luogo del sacrificio. Non c'era ragione di spostarli. Inutile fingere che un giorno qualcuno reclamasse la fortezza, per ripopolarla e riportarla in vita. Ormai Bezer era un luogo maledetto, marcato dalla morte, e gli uomini l'avrebbero per sempre evitato. I resti della Compagnia erano ridotti in modo tale da non poter distinguere un corpo dall'altro, per questo i due sopravvissuti avevano deciso di erigere un unico tumulo. Una collinetta di terra smossa senza alcun segno distintivo, su cui forse un giorno sarebbero sbocciati dei fiori. Dorian sapeva che i suoi compagni d'armi meritavano di più, eppure non avrebbe fatto nient'altro per loro, non prima che la sua vendetta fosse compiuta. Allora sì, con le mani mondate dal sangue del nemico, avrebbe innalzato un mausoleo in loro perenne memoria.
----Quel giorno, il sole bruciava come una palla infuocata nel cielo.
Raduan depose la pala, tergendosi il sudore dalla fronte. Lanciò un'occhiata a Dorian, che non pareva disposto a smettere di lavorare. La sua energia non aveva fine, alimentata dal dolore e dai sensi di colpa. Spesso negli ultimi giorni Raduan si soffermava ad osservarlo, e aveva la sensazione che l'amico progettasse qualcosa... Era troppo taciturno e riflessivo, come se i suoi pensieri percorressero un cammino contorto e pericoloso, un cammino che portava a Draslund e all'Addestratore di Serpenti... Non poteva permettere questa decisione senza dir niente. Doveva per lo meno provare a dissuaderlo. In breve avrebbero portato a termine la triste incombenza del tumulo, e allora ciascuno avrebbe fatto la propria scelta. «Dorian!» esclamò, cercando di dissimulare le sue vere intenzioni «Andiamo, hai bisogno di riposo quanto me! Fa troppo caldo per continuare.» Inaspettatamente, l'amico non si fece pregare. Gettò la pala in terra, e lo seguì fin sotto ai rami della quercia imponente che dominava lo spiazzo. Sedettero all'ombra tra le radici nodose, rivolgendo lo sguardo al tumulo quasi completato. Non era la prima volta che si fermavano a recuperare le forze in quel posto, in un silenzio quasi completo. Ma non quel giorno, si disse Raduan. «Cosa farai, quando avremo finito?» domandò, senza preamboli. Dorian distolse gli occhi dall'amico, temporeggiando. «Seguirò l'unica pista che ci resta» rispose dopo un po' «E credo che anche tu dovresti farlo.» «Draslund?» Dorian annuì. «Non puoi dire sul serio!» sbottò Raduan «Nahash è un mostro, e un assassino, non lo dimenticare! Se ha fatto tutte quelle allusioni ad Abel e al tuo presunto futuro, è stato soltanto per poterti manipolare!» «Che altro dovrei fare, secondo te?» replicò Dorian con stizza «Correre di nuovo dietro a Zontar, anche senza lo stendardo? Mettermi a girovagare per il Regno gridando il nome di Abel ai quattro venti? O forse è meglio se me ne resto buono qui, ad ammirare il paesaggio?» Raduan non si aspettava una replica tanto dura. I semi dell'odio piantati da Nahash avevano già messo radici. Dorian capì di aver esagerato, e gli strinse un braccio con affetto. «Scusami» disse, a mezza voce «Non intendevo offenderti. So che è dura anche per te. Draslund è l'unico cammino promettente che riesco a scorgere dinanzi a noi, per quanto ambiguo e pieno di rischi. Nahash è una creatura terribile, me ne rendo conto. Ma dubito di aver altra scelta se non stare al suo gioco.» «Perché lo dici? Ci sono sempre altre possibilità! Possiamo risolvere le cose a modo nostro, contando sulle nostre forze, come abbiamo sempre fatto!» Il comandante scosse la testa. «Non questa volta, amico mio. Non questa volta. Sono certo che Nahash abbia parlato con sincerità riguardo ai veri Demoni, o quello che sono in realtà. Ci osservano, ci attendono al varco, e tu ed io da soli non avremmo alcuna possibilità contro di loro.» «Potremmo chiedere l'aiuto di Zontar, e di Feledan! O cercare Kyra, e convincerla a riunirsi a noi...» «Ma non capisci?» sbottò Dorian, rifilando un pugno al tronco dell'albero «Neanche con un intero esercito ai nostri ordini riusciremmo a sconfiggere quei mostri! Non hai visto cos'è riuscito a fare, da solo, uno di loro? Dobbiamo cercare un'altra strada! E l'unica che vedo passa per le risposte di Nahash.» Raduan era a corto di parole per ribattere, e Dorian ne approfittò per svelargli il corso dei suoi pensieri: «Ho riflettuto molto in questi giorni, e ho realizzato che la responsabilità di quanto accaduto non è soltanto mia. I nostri compagni sono stati colti di sorpresa perché non potevano neanche sospettare l'esistenza di una tale minaccia. Perché Abel ci ha sempre tenuti all'oscuro di troppe cose,
su di sé e sui misteri di questo mondo.» «Che stai insinuando?» chiese Raduan. Non gli piaceva la piega presa dal discorso. «Non insinuo nulla, Raduan, dico le cose come stanno. Se Abel si fosse aperto con noi sui segreti che custodiva con tanta gelosia, forse la Compagnia sarebbe sopravvissuta a questa prova.» «Come puoi dire una cosa del genere! È stato lui stesso, il Viandante, a creare la Compagnia!» «E sono stati i suoi segreti e le sue reticenze a distruggerla!» «Non credo alle mie orecchie!» «Lasciami parlare! Ricordi il messaggio che Abel ci ha lasciato prima di partire? È andato ad affrontare quei Demoni da solo, ne sono certo! Non si è fidato di noi, della nostra forza, della nostra lealtà! A che gli è valso? Gli è andata male, e a noi è andata molto peggio...» «Sono soltanto supposizioni, Dorian! Non sappiamo se fosse a conoscenza dei pericoli che lo attendevano, né se conoscesse questi misteriosi poteri in atto... Tanto misteriosi che forse nemmeno esistono! E se fossero soltanto un'invenzione di Nahash, per attirarti in trappola?» «È così che la pensi?» sbraitò Dorian, che stava perdendo la calma «E allora che mi dici delle mutazioni, dei Demoni, del Rituale, di Nahash stesso? Che mi dici dell'alleato oscuro di Hiram, che ha terrorizzato Gomer? E la fine dei nostri compagni, per gli Dei! Ti sembrano cose naturali, cose di questo mondo?» Fece una pausa, squadrando Raduan con occhi di ghiaccio. «No, amico mio, non lo sono. Nahash ha detto il vero, lo sento. Voglio vederci chiaro.» Raduan si arrese. «Allora è questo che farai. Andrai dritto nella trappola di Nahash, perché non vedi altra soluzione.» «Infatti.» «Ma un'altra soluzione c'è!» «E quale sarebbe?» «La Valle della Luna!» Dorian rise, scuotendo la testa. «È soltanto una favola per bambini, non ricordi ciò che ha detto Zontar? Nessuno vi ha mai messo piede, probabilmente neanche esiste.» «Eppure, poco tempo fa, anche tu hai giurato che le parole di Iarmin erano sincere, che sapeva davvero quel che stava dicendo! Ma ormai quella lingua biforcuta ti ha fatto scordare ogni cosa... Non vedi altro che la vendetta!» «Apri gli occhi, Raduan, ciò che vuoi è una perdita di tempo! A Draslund troveremo le risposte che stiamo cercando, e in nessun altro luogo. Vieni con me!» «Mai» rispose Raduan, a malincuore «Preferisco dar credito alle visioni di un amico moribondo, piuttosto che fidarmi delle parole di un serpente. Dal male che Nahash rappresenta non può che nascere altro male. Non rivedremo mai Abel vivo se ci fidiamo di lui, né otterremo risposte sincere. Cercherò la Valle della Luna, da solo se necessario, e troverò il Viandante, fosse l'ultima cosa che faccio in questa vita. Soltanto allora penserò a regolare i conti coi nostri nemici...» Restarono in silenzio, senza distogliere gli occhi l'uno dall'altro. Gli sguardi di entrambi esprimevano rabbia, sconforto, ma anche una ferrea determinazione a perseguire i propri scopi. Era evidente che non avrebbero raggiunto un accordo. Dorian fu il primo ad accorgersene. Sbuffò, e girò la testa di lato. «Va bene» ammise, con voce stanca «A partire da domani i nostri cammini si separeranno, è inevitabile. Ti auguro buona fortuna: se c'è la minima speranza di salvare Abel, so che tu ce la farai.» Si alzò a sgranchirsi le gambe. Prima di voltare le spalle all'amico, gli rivolse un'ultima occhiata. «Ascoltami, Raduan. Tu, Kyra ed io siamo tutto ciò che resta della Compagnia del Viandante. Finché noi vivremo, la Compagnia vivrà in noi. Ogni passo che faremo, sarà in loro nome. Ricordatelo sempre.» Si girò, e si allontanò sotto il sole cocente.
«Dorian!» chiamò Raduan, ma lui non si voltò. Lo seguì con lo sguardo, e con la morte nel cuore. Era il suo miglior amico. La sorte era stata crudele con lui: nel passato, prima che si unisse alla Compagnia del Viandante. Poi l'abbandono di Kyra, l'eccidio dei compagni, e per finire, nell'ora più difficile, proprio l'amico più fedele gli voltava le spalle... Si sentì colpevole, ma non c'era modo di tornare sui propri passi. In cuor suo sapeva di aver fatto la scelta giusta. Eppure lo tormentava il fatto di abbandonare Dorian a se stesso, nelle trame dell'Addestratore di Serpenti. L'amico era così divorato dalla rabbia e dal risentimento, che non se ne sarebbe neppure reso conto. Che fare? L'unica risposta, forse, l'avrebbe trovata nella fede. «Devo aver fiducia in lui» si disse «Non si lascerà ingannare, e otterrà ciò che vuole. Grande Abidan, ti imploro, stagli vicino!» Si alzò a sua volta. La terra che ricopriva il tumulo stava già seccando sotto gli implacabili raggi del sole. Persino i corvi avevano smesso di saturare l'aria con il loro verso stridulo. Ancora mezza giornata di lavoro e avrebbero portato a termine quel compito ingrato. Poi avrebbero tracciato nuovi cammini incontro al destino, un destino che aveva il sembiante di Demoni in agguato nell'ombra.
Epilogo
La sala sotterranea, poco più di una grotta scavata nella roccia, era immersa nel buio quasi completo. L'unico suono a disturbare il silenzio di tomba che vi regnava era il crepitio di una torcia solitaria. L'uomo era assiso su un trono di ossidiana, e l'oscurità che emanava dal suo corpo si stendeva attorno a lui come un velo d'inchiostro più denso del buio. In piedi al suo fianco, con un braccio mollemente appoggiato sullo schienale del trono, vi era una donna snella, dai tratti fini e mortalmente pallidi. Di fronte a loro, inginocchiati nel tenue cerchio di luce proiettato dalla torcia, si trovavano altri due uomini. Uno era corpulento, e la sua testa liscia e oblunga rifletteva la luce con bagliori inquietanti. Un'ampia fasciatura macchiata di sangue gli avvolgeva il torso, le cui carni erano striate di metallo. I suoi occhi crudeli non tradivano alcuna debolezza. L'altro uomo era piegato in avanti, appesantito da una ingombrante protuberanza che gli deformava la schiena. I suoi arti erano striminziti, ritorti, e il volto era celato da una maschera di ferro. «Il tuo fallimento è inaccettabile» disse la figura seduta sul trono, rivolta al più grosso dei due. La sua voce era profonda e piena di collera, tanto da far vibrare le pareti di roccia. «Me ne rendo conto, fratello» rispose l'altro, senza alzare gli occhi da terra «So che non è una giustificazione, ma ho dovuto fare i conti con una resistenza inaspettata. Mi hanno colto di sorpresa...» «Silenzio!» tuonò la sagoma oscura. Fece una pausa, sondandolo con occhi fatti di buio vorticante, prima di parlare nuovamente: «Mi hai deluso. Presto avrai occasione di rimediare ai tuoi errori. Non ne tollererò altri.» «Fratello, non ti deluderò un'altra volta.» L'Oscuro rivolse la sua attenzione allo storpio: «Mi auguro che almeno tu porti buone notizie...» «Sì, fratello. La missione che mi hai affidato è stata un completo successo» rispose l'uomo, scostando un lembo dello spesso manto che lo ricopriva da capo a piedi. Non senza fatica alzò una mano da terra: in essa stringeva lo stendardo della Compagnia del Viandante. Anche alla tenue luce della torcia lo stendardo sfolgorò come un oggetto dotato di vita propria, strappando un mormorio di sorpresa alla donna pallida: «È un vero e proprio capolavoro, dovremmo fargli i complimenti...» L'uomo sul trono sogghignò, con un suono simile al risucchio delle onde. «Non credo che il nostro ospite sarà felice di rivederlo» disse «Ma non ci ha lasciato altra scelta. Forse adesso si arrenderà all'evidenza, e ritroverà il senno perduto. O altrimenti...» Non terminò la frase, lasciando che ognuno arrivasse da sé alla conclusione. Poi strinse con forza i braccioli del trono, ed elevò la voce a un rombo: «Fratelli, l'ora di rivelarci a questo mondo è quasi giunta! Non dovremo più agire nell'ombra, ve lo prometto. Prenderemo con la forza ciò che è nostro di diritto, e nessuno potrà fermarci!» La minaccia aleggiò nell'aria, rendendola più spessa e scura. I tre chinarono il capo, sorridenti, pregustando la fine della loro lunga attesa.
----Una notte buia e senza stelle cadde sul Regno, soffiando venti di sventura sulle città e i villaggi ancora ignari della tempesta in arrivo. Ma una flebile, indomabile speranza correva sulle ali del Destino, e sospinta da quello stesso vento sussurrò le sue visioni nelle orecchie di due uomini e una donna, profondamente
addormentati... Kyra si vide sperduta tra le rovine di una nobile città del passato, antica quanto gli uomini. Fuggiva in un labirinto di vicoli, in preda allo sconforto, sopraffatta dalle emozioni. Correva a perdifiato nella penombra del crepuscolo, senza una meta precisa, una minuscola forma in fuga da qualcosa di terribile e indistinto. Quando apparve una luce in lontananza, non più di un lumino sospeso nel buio, sentì che essa era la salvezza, e che doveva raggiungerla ad ogni costo. Senza darsi pace la inseguì: attraversò piazze deserte in magnifico abbandono, salì rampe di scale in frantumi, oltrepassò edifici marmorei in rovina e sfarzosi giardini soffocati dai rovi, valicò ponti dimenticati dal tempo... La luce era sempre là, dinanzi a lei, immobile eppur lontana. Nel caos del suo animo, si alternavano stati mutevoli ed opposti, dalla speranza alla disperazione, dalla gioia alla tristezza, dall’amore all’odio. Quando infine raggiunse la luce, la ghermì con forza, timorosa di vedersela sgusciare tra le dita: ma essa si dilatò e stridette nella sua presa, mordendole le carni. Kyra urlò per il dolore e la sorpresa, finché il mondo attorno a lei cominciò a girare, girare, girare, sempre più in fretta, in un vortice di immagini che ingoiò la sua intera esistenza... Dorian sognò una terra grigia, inospitale. Alle sue spalle, un mare cupo e senza vita lambiva la fredda sabbia vulcanica in cui affondavano i suoi piedi. Tetra e desolata, la spiaggia si estendeva dinanzi ai suoi occhi fino all’orizzonte, quasi un riflesso del cielo plumbeo immobile sopra la sua testa. Si sentì inaridire, privato di ogni speranza e della volontà di andare avanti: pregò per la propria morte. Subito, in risposta all'invocazione, udì un rombo avvicinarsi, avvertì il tremore della terra: qualcosa di enorme veniva per lui, emanando terrore e disperazione. Provò l’impulso di fuggire, di gettarsi tra i flutti del mare o nascondersi sotto la crosta della terra. Corse, nuotò, strisciò sul ventre, ma niente ormai poteva alterare lo stato delle cose: sentì la condanna pendergli sul capo, tanto più odiosa perché voluta ed invocata. In quell’istante, quando fu quasi certo di impazzire, il verso di un gabbiano si librò nell’aria, e scoprì che nulla più gli importava... Raduan sognò una meravigliosa valle. Una fenditura tra alte cime innevate. Un declivio verde e lussureggiante. Un torrente limpido di vitalità. Un dolce crepuscolo di pace. Un nostalgico miraggio... Un uomo lo attendeva alla fine del cammino: candido il suo volto, come le sue vesti, dorati barba e capelli, azzurri gli occhi, generosi come il cielo. L'uomo aprì le braccia e lo chiamò a sé. Nel sogno, come nella realtà, lacrime di gratitudine gli solcarono il viso, e non poté continuare.
Quattro Chiacchiere… Grazie per avermi accompagnato fin qui, gentile lettrice/aitante lettore! Spero sia stata una lettura gradevole e avvincente, donami cinque minuti del tuo tempo per farmi sapere che ne pensi (francesco.bertolino@gmail.com). Accetto lettere ingiuriose soltanto se imbevute di fantasia, e venate di subdola crudeltà, per cui mettici un po’ di impegno! Forse ancora non lo sai, ma questo è soltanto l’inizio delle avventure di Kyra, Dorian e Raduan: continua a seguirli nei volumi successivi della saga, “La Forgia del Destino” e “La Fiamma Eterna”, già disponibili! Se mi vuoi bene :)) aiutami pubblicando una mini-recensione, e divulgando il mio lavoro tra amici e parenti. Visita anche il sito ufficiale http://www.libri-fantasy.com, mi raccomando! Per non parlare della pagina Facebook: http://www.facebook.com/pages/La-Compagnia-del-Viandante/245140115583272 e Google+: https://plus.google.com/113639020903806625721/posts, e quant’altro la mia megalomania metterà a disposizione degli avidi lettori… Baci, abbracci, e a presto! Francesco