MARCO LAZZARA
Racconti Dal Crepuscolo
MARCO LAZZARA
RACCONTI DAL CREPUSCOLO
INDICE
Ispirazione Chi Vuol Essere uno Chef? Dolce Micino Eredità
Ancora Due Parole
Questo racconto è ambientato nel mondo della scrittura e racconta di un esordiente alle prese col suo primo romanzo e di un editor che è stato un po’ troppo perfido con lui. Come andrà a finire? Questo personaggio riceverà ciò che si merita?
Ispirazione Bernie stava facendo ritorno a casa, dopo l’ennesima stancante giornata passata a leggere le solite idiozie giunte in redazione. C’era davvero troppa gente che pensava bastasse mettersi davanti a un computer per sfornare il prossimo best-seller. Idioti. E a lui toccava leggere le porcherie che inesorabilmente arrivavano ogni giorno. Gran parte del suo risentimento nasceva dal fatto di essere lui stesso uno scrittore profondamente frustrato. Era certo di possedere un enorme talento, ma non aveva mai trovato nessuno in grado di comprenderlo e apprezzarlo. Così si era ritrovato a quarant’anni senza aver prodotto nulla che avesse destato interesse editoriale, la fama e il successo sognati sempre più irraggiungibili. Alla fine aveva accettato a malincuore un lavoro presso una casa editrice, e tra le altre cose aveva l’ingrato compito di leggere i manoscritti inviati dagli aspiranti scrittori. Negli anni aveva visto arrivare di tutto, un imbecille aveva persino mandato il resoconto delle sue vacanze estive. Ma anche sul materiale meritevole forse di una seconda occhiata svolgeva il suo lavoro senz’alcuna pietà, quasi rivalendosi di chi cercava di occupare il posto che sarebbe spettato a lui di diritto. Aprì la porta d’ingresso e si fermò. C’era qualcuno in casa. Coraggiosamente si avventurò all’interno dell’abitazione pronto a tutto e... «Oh, buonasera. Finalmente è tornato a casa.» Bernie sobbalzò. Due sconosciuti, un uomo e una donna, sedevano
comodamente sul divano del salotto, come fosse la cosa più naturale del mondo. Rimase a fissarli sbigottito. L’uomo riprese la parola: «Norma e io la stavamo aspettando da un pezzo, sa?» «Edward! Non c’è bisogno di essere scortesi! Lo scusi, Bernie» disse la donna. «Si può sapere chi diavolo siete e che ci fate in casa mia?!» esplose. I due si guardarono un momento. «Sicuro di non averci riconosciuto?» Bernie cominciò a osservarli. Non li aveva mai visti prima, ma in effetti avevano qualcosa di familiare. Entrambi di mezz’età, lei di bassa statura e di corporatura esile, con capelli biondo-cenere e vivaci occhi azzurri, quasi giovanili. L’uomo invece era molto alto, vestito elegantemente con giacca e panciotto, aveva i capelli grigi e sfoggiava dei baffoni da tricheco. Scosse la testa. «Io sono Norma» lo aiutò lei. «E questo è mio marito Edward. Siamo i coniugi Norton. Non le dice proprio niente?» Quei nomi... e il loro aspetto. Ma certo, Mark Snow! Era successo un mese prima. Aveva dovuto sorbirsi l’ennesimo romanzaccio di un esordiente che doveva aver letto troppa narrativa di genere, oppure troppo poca. S’intitolava Star Cruise, ed era un lavoro ampiamente discutibile, un improbabile romanzo di fantascienza in cui alla fine si scopriva che i due protagonisti, Edward e Norma Norton, erano in realtà una specie di vampiri spaziali o qualche altra scempiaggine. L’aveva bocciato all’istante. Chiaramente non aveva fatto sapere nulla all’autore di quell’obbrobrio, ma nonostante ciò un giorno se l’era era visto piombare nel suo ufficio. Chi accidenti gli avesse detto che era lui a occuparsi del materiale in valutazione non l’aveva mai scoperto, altrimenti gli avrebbe fatto rimpiangere di essere nato, ma ormai la frittata era fatta.
L’autore, Mark Snow, era un giovanotto di 25 anni che stava conseguendo il dottorato in astrofisica, se ricordava bene. Ma perché diavolo scienziati e ricercatori si mettessero a scrivere narrativa proprio non lo capiva, lui mica s’impicciava delle loro ricerche! Il ragazzo si era comportato molto educatamente - almeno rispetto alla maggior parte degli esordienti che conosceva, così pieni di sé da credersi dei novelli Hemingway - e gli aveva chiesto notizie del suo romanzo. Bernie non ci era andato per il sottile: glielo aveva demolito sadicamente punto per punto, dal finale ai personaggi, dall’ambientazione ai dialoghi. Infine gli aveva malignamente consigliato di limitarsi a scrivere al massimo la lista della spesa. Quando il ragazzo era uscito dal suo ufficio, teneva la testa bassa. In effetti gli era piaciuto rimettere al proprio posto quello sbarbatello. E ora aveva nel salotto i personaggi del suo romanzo. Il ragazzo doveva aver preso spunto da quei due per crearli. Tipico dei dilettanti. «Mark Snow» disse Bernie accomodandosi sulla poltrona. Edward Norton annuì. «Bene. Vedo che le è venuto in mente. Sa, eravamo amici dei suoi genitori. Erano degli scienziati, gente molto in gamba. Sfortunatamente sono morti in un incidente quando il ragazzo aveva appena nove anni, così ci siamo presi cura di lui e l’abbiamo cresciuto come fosse figlio nostro. È un bravo giovane, con molti interessi, uno dei quali è scrivere.» «Certo» concordò Bernie. Aveva già capito dove volevano andare a parare: il loro ragazzo era molto bravo e s’impegnava tanto, bla bla bla... Abbiamo letto quello che scrive e ci è sembrato bello... Se lei potesse dargli una mano... Beh, col cavolo. «Vedo che vi ha preso come modello per i suoi personaggi. Tipico degli esordienti.» «Deve sapere, Bernie, che il nostro Mark c’è rimasto molto male per le parole che gli ha detto a proposito del suo romanzo» intervenne Norma
accigliata. «Io ed Edward sappiamo bene che nonostante l’entusiasmo che ci ha messo è tutt’altro che un capolavoro - dopo tutto è la prima cosa che prova a scrivere - ma non era il caso di essere così duri con lui. Non è uscito di casa per tre giorni.» «È il mio lavoro decidere ciò che è buono e ciò che non lo è, e quanto aveva scritto il vostro ragazzo non lo era per niente. Pura immondizia. Scrivere non è un mestiere per dilettanti allo sbaraglio: ci va del talento, e lui non ne ha un briciolo. Ne avrebbe di più uno scimpanzé.» Edward e Norma si scambiarono uno sguardo d’intesa, poi si misero a sorridere. Non sapeva perché, ma Bernie trovava che il loro sorriso metteva i brividi. «Vede Bernie,» disse Norma «il nostro Mark non si è ispirato a noi solo per l’aspetto dei suoi personaggi. Ma per molto di più.» Bernie ebbe appena il tempo di spalancare sorpreso gli occhi prima che le due creature gli balzassero addosso affondandogli nel collo i loro lunghi canini.
Questo racconto è stato ispirato da un programma televisivo che mi ha dato molto da pensare, e non credo solo a me...
Chi Vuol Essere uno Chef? Il ragazzo portò ciò che aveva cucinato per la prova. Gli tremavano leggermente la mani. Da quel piatto dipendeva la sua permanenza nel gioco, se avrebbe potuto continuare la gara e vincere il premio, in modo da divenire un giorno un famoso chef. Tra l’altro proprio quel giorno ci sarebbe stato il più severo dei tre giudici del programma e questo lo metteva in uno stato di profonda ansia. Il terzo giudice era infatti inflessibile e antipatico con tutti, ma in particolar modo con gli aspiranti chef che partecipavano alla trasmissione. Tutti i concorrenti avevano scoperto a proprie spese che non c’era da scherzare con lui. Ed eccolo lì. Il ragazzo deglutì nervosamente. Seduto al suo tavolo, il giudice lo stava fissando con uno sguardo che tradiva la sufficienza che provava nei confronti dei principianti. Quel giorno si poteva leggere nella sua espressione anche una certa noia. Partecipare a quel programma in qualità di giurato era per lui una vera seccatura, non avrebbe mai accettato se il compenso che gli davano non fosse stato così alto. Il ragazzo poggiò il piatto sul tavolo e attese che il giudice lo assaggiasse. L’uomo ne prese una forchettata, portò la pietanza alla bocca e fece una faccia schifata. «Insipido. Proprio come te» gli disse lapidariamente. «Mi stai davvero deludendo.»
«Chiedo scusa, chef» disse lui contrito. Quella era una frase che i concorrenti del programma avevano imparato a usare molto spesso. «Non si ripeterà» aggiunse. «Il prossimo» disse il giudice senza degnarlo di un ulteriore sguardo, mentre il ragazzo andava via deluso. Il successivo concorrente sembrava avere un’espressione più sicura, più convinta di sé. Il giudice era pronto a fargliela cambiare. Mise sul tavolo un piatto riccamente aromatizzato, da cui si levava un profumino invitante, ma il giudice non si fece distrarre. Prese una forchettata, assaggiò, e anche questa volta fece una faccia schifata. «Una vera porcheria. Sembra cibo per cani. Pensi che io sia un cane?» «No, chef, certo che no.» «Anche un cane ne avrebbe schifo. Vergognati, idiota!» «Chiedo scusa, chef.» Notò che il concorrente teneva in mano una fialetta colma di un liquido trasparente. «E cos’hai lì in mano? Il condimento, forse?» «No, chef. È l’antidoto.» «Antidoto? A che cosa?!» disse diventando verdognolo.
I gatti. Misteriosi e solenni animali. Non sempre però sono ciò che sembrano, come scoprirà il protagonista di questo racconto....
Dolce Micino «Forza, Kelp. Ora di uscire.» La guardia aprì rumorosamente la porta della cella. Andy Kelp si alzò dalla sua brandina e lanciò una breve occhiata a quello che era stato il suo compagno di stanza per ben quattordici mesi. John era un abile ladro, ma durante il suo ultimo colpo aveva avuto la sfortuna di incappare in un guardiano e alla fine si era beccato vent’anni per omicidio di secondo grado. Gliene rimanevano ancora otto da scontare. Probabilmente quattro, con la condizionale. Non era stato un cattivo compagno di cella, bisognava dire; in realtà era un bravo ragazzo, ovviamente tenendo conto del fatto che era un omicida. Avrebbe potuto andargli molto peggio: in prigione quelli come Kelp se li mangiavano. «John. Ti saluto» disse semplicemente. «Uhm» mormorò lui senza scomodarsi dalla sua branda. «Così te ne torni in libertà, eh Andy? Stammi bene.» «Ci proverò.» Kelp finì di raccogliere le proprie cose e si avviò dietro il guardiano. Una serie di schiamazzi provenienti dalle altre celle lo accompagnò lungo tutto il percorso verso l’uscita della prigione. Nel cortile trovò ad attenderlo il direttore del carcere, che era venuto a salutarlo e ad augurargli buona fortuna. Ci teneva a farlo con tutti, e Kelp era stato un detenuto modello. Nel suo pacchetto d’addio era però anche compreso un bel discorsetto sul fatto che ora che Kelp aveva ripagato il
proprio debito con la società e aveva una seconda occasione era importante non sprecarla e bla bla bla. Che stupido imbecille. Già alla terza frase, Kelp aveva smesso di stare a sentirlo e aveva cominciato ad annuire di tanto in tanto mentre pensava ad altro. Questo gli ricordò un po’ i tempi della scuola, solo che all’epoca era il preside e non il direttore di un carcere a tenergli discorsi di quel tipo. Involontariamente gli sfuggì una risatina. «Ecco, questo è lo spirito giusto, Andy » concluse il direttore mal interpretando la sua risata. « Mi raccomando, vedi di rigare dritto ora. Non vogliamo certo che tu torni a essere nostro ospite.» «No di certo, direttore Westlake » disse Kelp tornando a fare attenzione a quello che l’uomo gli stava dicendo. « Ho imparato la lezione, e voglio tenermi pulito.» Espletate le ultime formalità, Kelp poté dirigersi verso il cancello del carcere. Fece un cenno alla guardia all’ingresso. «Ehilà, Andy. Si esce finalmente» gli disse l’uomo in guardiola con inopportuna giovialità. Kelp fece un cenno d’assenso, seguito da un verso di disgusto non appena fu fuori. Oh, finalmente! Libertà! Quattordici stramaledettissimi mesi di prigione! Ed era stata tutta colpa dell’ultima truffa che aveva organizzato. Sembrava un affare sicuro, invece qualcosa era andato storto e gli sbirri l’avevano beccato praticamente subito. E quella non era stata nemmeno la prima volta che si faceva un soggiorno al fresco: la volta precedente c’era stata la truffa telefonica, e quindi si era beccato pure l‘aggravante. Ogni volta sembrava essere un piano perfetto per fare un bel mucchio di grana, e ogni volta succedeva qualcosa che mandava tutto a rotoli.
Mentre si dirigeva verso la fermata dell’autobus, rifletté un po’ sul da farsi. Forse poteva contattare qualcuno del vecchio giro. Magari potevano avere del lavoro per lui. Dortmunder? No, dopo l’ultima volta che avevano lavorato insieme non voleva avere più niente a che fare con lui. Peccato, ci si era trovato bene. Parker, allora? No, meglio di no, quel tipo era un vero psicopatico, alle volte gli metteva i brividi. Era arrivato alla fermata. Mentre attendeva l’arrivo del bus, cominciò a leggere le scritte sulla pensilina. Si distinguevano per un notevole uso di turpiloquio e per la presenza di proposte oscene con associati relativi numeri di telefono. L’occhio gli cadde quindi su di un manifesto affisso in maniera precaria. Era un semplice foglietto di carta con su stampata la foto di un cane. Un ridicolo ammasso di riccioli marroni, forse un barboncino o uno yorkshire. Sopra la foto c’era la dicitura Smarrito. Già, gli era capitato parecchie volte di vedere simili annunci. Chissà se i padroni ritrovavano mai gli animali scomparsi. Kelp ne dubitava. In preda alla noia, senza nessuna ragione particolare, si mise a leggere l’annuncio. “Smarrito nella giornata di domenica Tafty. Indossa un collarino nero con sopra il suo nome. Chi lo trovasse è pregato di contattare il numero... Si offre ricompensa di 500 dollari.” Kelp sussultò. 500 dollari?! E tutto per uno stupido sacco di pulci?! Mentre guardava a bocca aperta l’annuncio, un’idea, un’ottima idea, cominciò a frullargli per la testa. Nelle settimane seguenti, dai quartieri più benestanti della città cominciarono misteriosamente a sparire cani e gatti.
Dopo aver compiuto un accurato giro di ispezione della zona, Kelp si metteva a tenere d’occhio le abitazioni più ricche, annotandosi se i proprietari avevano qualche animale domestico e poi passava all’azione. Le prime volte aveva provato a introdursi nel giardini di alcune villette per rapire qualche cane, se abbastanza piccolo, ma l’abbaiare furioso e la difficoltà dell’impresa l’avevano presto dissuaso. Allora era passato ai gatti, che in genere uscivano di casa di loro iniziativa. Una volta adocchiata la casa giusta, non c’era che da aspettare e appena l’animale metteva il muso fuori per farsi un giretto, Kelp lo acciuffava e se lo portava a casa. A quel punto non gli rimaneva che aspettare pazientemente che i padroni mettessero l’avviso della scomparsa dell’animale, e allora si faceva vivo per ritirare la ricompensa. Nelle settimane in cui aveva intrapreso la sua nuova attività, Kelp aveva imparato parecchie cose. Per esempio che alcuni gatti erano delle bestiacce decisamente malevole, che non si lasciavano catturare con facilità, sempre pronti a scattare sotto qualche macchina parcheggiata per nascondersi, o se messi alle strette, disposti a graffiarti con i loro dannati artigli. Ma aveva anche imparato una serie di utili trucchetti, come quello di portare sempre con sé nella tasca della giacca un po’ di crocchette oppure quello di suscitare la loro curiosità agitandogli davanti delle esche ricoperte di piume di uccello. Appena quelli abbassavano la guardia, Kelp era pronto a catturarli e trasformarli in denaro sonante. Kelp aveva presto scoperto che questa sua ultima attività criminosa era molto più sicura e redditizia delle sue solite truffe. C’era da rimanere a bocca aperta di fronte alle cifre che alcuni ricconi erano capaci di sborsare per il ritrovamento dell’amata bestiola. Nel giro di qualche settimana, e oltretutto con poco lavoro, Kelp aveva tirato su un bel gruzzolo. Come aveva fatto a non pensarci prima?
L’ultima sua vittima, un gattino dalla pelliccia rossiccia, lo stava guardando a occhi sbarrati dal suo nascondiglio. «Su, qui micino» disse piano Kelp, quasi in ginocchio, mentre sfregava pollice e indice della mano destra e faceva versi che sperava fossero lusinghieri e accattivanti, cercando di farlo uscire fuori. Il gatto allungò la testa, guardando Kelp con fare interrogativo, ed emise un leggero miagolio. Alla fine uscì fuori e gli si avvicinò per strusciarglisi sulla gamba, mettendosi a fare le fusa. Kelp ne approfittò immediatamente. Preso! Fortunatamente questo era un tipo socievole. Tre giorni prima, un piccolo bastardello tigrato gli aveva lasciato un brutto graffio sulla mano, e oltretutto era pure riuscito a sfuggirgli. Con il gatto in braccio che continuava a fare rumorosamente le fusa, tornò rapido alla sua macchina. Aprì con una mano sola il portabagagli e lo infilò dentro una delle gabbiette per animali all’interno. Poi si mise al volante e filò via. Arrivò a casa così tardi che il sole era già tramontato. Veniva dall’altra parte della città, e in centro c’era stato parecchio traffico. Lasciò la macchina sul vialetto e tirò fuori il gatto dal portabagagli. Si diresse subito verso il garage per mettervi al sicuro la sua ultima preda. Aprì la porta e... L’istinto del criminale lo avvertì che c’era qualcosa che non andava. Dando un’occhiata all’antro buio, notò per terra una delle gabbiette di plastica per animali. La prese in mano e la osservò perplesso. Era completamente divelta. Sembrava quasi che le fosse scoppiata dentro una bomba. «Maccheccavolo...» mormorò rigirandosela tra le mani. Era quella dove aveva messo il gatto che aveva catturato prima dell’ultimo giro del pomeriggio. Era uno strano esemplare quello, di una razza che non aveva mai visto prima. L’animale poi non aveva fatto che fissarlo in maniera
strana per tutto il tempo. Scosse la testa. Che sciocchezze. Era semplicemente un gatto. Alzò la testa, gli occhi ora abituati alla scarsa luce presente nel garage, e rimase a bocca aperta. La gabbietta gli cascò dalle mani finendo al suolo con un tonfo sordo. In fondo al garage, nascosto nelle ombre, sedeva un uomo. Completamente nudo. E lo stava fissando. Dopo l’iniziale attimo di smarrimento, Kelp si riprese e disse a gran voce. «Chi accidenti è lei? Che ci fa nel mio garage?» L’uomo si limitò a indicare la gabbia ai piedi di Kelp con una strana espressione in viso. Kelp cominciò a sudare freddo. Dannazione, forse quello era il proprietario del gatto che aveva catturato. Doveva aver commesso un qualche errore, se era riuscito a trovarlo. Sì, ma come aveva fatto a introdursi nel suo garage? Era più che sicuro di averlo lasciato chiuso. E soprattutto, perché diavolo era nudo? Forse invece si trattava di un pazzo. La cosa si faceva preoccupante. «Era il suo gatto? L’ho trovato questo pomeriggio›› cercò di temporeggiare Kelp. L’uomo non dava segno di voler rispondere. C’era qualcosa di strano nei suoi occhi e soprattutto nel modo in cui lo stava fissando, con un mezzo sorrisetto ironico all’angolo della bocca. Kelp cominciò a balbettare con nervosismo. ‹‹Sembrava a-a-abbandonato. Mi p-piacciono i gatti. L’ho portato qui per dargli un po-po’ da mangiare e popoi avrei messo un annuncio per per...» Finalmente l’uomo parlò. « Non era un gatto. » Aveva una strana voce stridula, miagolante. « Quello è l’aspetto che assumo durante il giorno. » Kelp udì uno strano suono, come quello delle fusa di un enorme gatto. Cominciò a sentirsi stranamente attirato verso l’uomo. Ora capì che
cos’avevano di strano i suoi occhi. Nell’oscurità del garage le pupille erano strette, a forma di virgola, proprio come quelle dei gatti. Continuò ad avvicinarsi ipnotizzato, mentre l’uomo sorrideva mettendo in mostra i suoi numerosi denti appuntiti e cominciando a leccarsi i baffi...
E per concludere, un racconto che sono certo vi farà venire in mente qualcosa...
Eredità «Lara! Presto, non rimane più molto tempo!» Un violento scossone fece sobbalzare il pavimento del laboratorio, facendo finire la donna a terra. Si rialzò dolorante e raggiunse suo marito Joe. «Dov’eri finita?!» le chiese lui. «Dovevo prendere la coperta rossa del piccolo. Volevo che avesse con sé qualcosa che gli facesse ricordare la sua vera casa.» La donna scoppiò in singhiozzi. Joe la circondò con le braccia e la tenne stretta a sé, cercando di rincuorarla. «Ne abbiamo già parlato, amore. È la cosa migliore da fare: lo mandiamo via per salvarlo da questo pianeta morente.» «Ma andrà così lontano! Non ricorderà nulla della sua casa. Né di noi.» «Ho pensato anche a questo: ho collocato dei proiettori olografici all’interno della navicella. In questo modo potrà anche imparare la nostra lingua e la storia della Terra. Ora vai a prendere il bambino.» Lara si asciugò le lacrime dal bellissimo viso e andò a prelevare suo figlio dalla culla. Era così piccolo e indifeso! Non aveva compiuto neanche due anni e sarebbe stato mandato via dalla sua casa, dai suoi genitori, via verso un mondo lontano svariati anni-luce. Joe le aveva spiegato che grazie alla distorsione spazio-temporale da lui scoperta, il viaggio sarebbe durato solamente poche settimane. Ma era comunque dall’altra parte della galassia. Joe Ellis stava contemplando il cielo da una delle finestre del suo laboratorio. Era di un brutto colore arancione, frutto dei residui radioattivi rilasciati dalle bombe N. Pazzi! Come si era potuto giungere a tanto! Il
risultato era che la Terra, il loro amato pianeta, era condannata. Le bombe avevano scosso il suo stesso nucleo ribollente, scatenando un’inarrestabile reazione a catena. Già violenti terremoti stavano seminando ovunque distruzione. Questione di giorni, forse addirittura di ore, e la Terra sarebbe deflagrata. Non c’era alcuna via di scampo. E con tutte le sue conoscenze scientifiche non era in grado di salvare se stesso e sua moglie. Se solo avesse avuto più tempo! Ma non ne aveva. Avrebbe però potuto dare una speranza a suo figlio. Lara pose il bambino nella capsula a forma di culla posta all’interno della navicella spaziale, e Joe la raggiunse per guardare per l’ultima volta suo figlio. «Carl, io e tua madre dobbiamo mandarti via da questo mondo ormai prossimo alla distruzione. Noi non potremo venire con te: l’astronave che ho costruito non è abbastanza grande. Ti manderemo su un pianeta molto lontano da qui. I nostri scienziati dicono che è assai simile alla Terra, e anche i suoi abitanti sono molto simili ai terrestri. «Sarai inviato presso di loro, ma non sarai uno di loro. È un pianeta più piccolo della Terra, quindi la minore forza di gravità ti permetterà imprese fisiche straordinarie. Il sole bianco che lo scalda agirà sul tuo metabolismo cellulare donandoti una forza e una resistenza senza pari. Sarai come un dio in mezzo a loro. Sono certo che abbiano il potenziale per divenire una grande civiltà, e tu in mezzo a loro potrai fare la differenza. Non dimenticare mai le tue origini, Carl, figlio mio. Io e tua madre ti vorremo bene. Sempre.» Il piccolo sembrava aver ascoltato con serietà il discorso del genitore, senza piangere. Joe chiuse la capsula e il portello della navicella mentre Lara scoppiava nuovamente in lacrime. Si mise ai comandi della piattaforma di lancio. Il tetto del laboratorio si aprì e la rampa si innalzò verso il cielo. Diede il via al conto alla rovescia, e al termine la navicella partì per lo spazio diretta
verso Nandor, secondo pianeta della stella Arturo, posta a 30.000 anni-luce di distanza dalla Terra. Joe raggiunse la moglie, mentre un nuovo scossone scuoteva il laboratorio. Stretti l’uno all’altra, il silenzio rotto solo dai singhiozzi di Lara, osservarono allontanarsi il puntino luminoso che era la navicella con a bordo il piccolo Carl Ellis, diretto verso il suo nuovo pianeta. Il piccolo Carl riuscì a raggiungere sano e salvo Nandor. La navicella spaziale venne trovata da una giovane coppia senza figli, i K’nt, che adottarono Carl e lo allevarono come se fosse loro figlio. I K’nt ebbero presto modo di scoprire che il piccolo aveva delle capacità incredibili. Tutto Nandor ebbe presto modo di scoprire gli straordinari poteri di cui era dotato. E da grande, grazie ai suoi eccezionali poteri, Carl K’nt divenne il più spietato e sanguinario dittatore della storia nandoriana. L’eredità della Terra era stata trasmessa.
Ancora Due Parole... Gentile lettore, è giunto il momento che mi presenti (sì, lo so... lo sto facendo al fondo, ma non volevo disturbarti nella lettura...) Mi chiamo Marco Lazzara e sono l’autore dei racconti che hai appena letto. Come scrittore ho già pubblicato i miei lavori su varie antologie (se sei curioso al riguardo, visita pure la mia pagina di Google+, sei il benvenuto!) Intanto ti ringrazio di aver letto i racconti presenti su questo e-book, che spero ti siano piaciuto. Qual era lo scopo di questa pubblicazione gratuita? Beh, era quello di poterti dare un’idea, di farti avere un assaggio, del tipo di racconti che scrivo, dello stile, delle tematiche. Nel caso (lo spero!) questi racconti ti fossero piaciuti e avessero suscitato la tua curiosità, ne potrai trovare degli altri – e più belli, oserei dire – in Incubi e Meraviglie, il mio primo libro di racconti edito presso GDS, che puoi trovare in formato e-book al prezzo di 1,99 €. Qui sotto puoi ammirarne la bellissima copertina:
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Buona Lettura!