The day we died

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THE DAY WE DIED di Giulia Menegatti Published by ZeugmaPad at Smashwords Copyright 2013 ZeugmaPad Smashwords Edition, License Notes Thank you for downloading this free ebook. You are welcome to share it with your friends. This book may be reproduced, copied and distributed for non-commercial purposes, provided the book remains in its complete original form. If you enjoyed this book, please return to Smashwords.com to discover other works by this author. Thank you for your support.


Indice CAPITOLO 1. CONSAPEVOLEZZA CAPITOLO 2. EFFETTO FARFALLA CAPITOLO 3. ORA O MAI PIÙ CAPITOLO 4. DOVE TUTTO È POSSIBILE CAPITOLO 5. NON LASCIARMI CAPITOLO 6. TIC TOC CAPITOLO 7. UN BRAVO RAGAZZO CAPITOLO 8. RICORDATI DI ME CAPITOLO 9. IL GIORNO PIÙ LUNGO CAPITOLO 10. JAMAIS VU


Esiste il contrario di dĂŠja vu. Lo chiamano jamais vu. Ăˆ quando incontri le stesse persone o visiti gli stessi posti in continuazione, ma ogni volta è come fosse la prima. Tutti sono sconosciuti, sempre. Niente risulta mai familiare. (Chuck Palahniuk, Soffocare)


CAPITOLO 1. CONSAPEVOLEZZA Avete mai desiderato rivivere un giorno dall’inizio alla fine? Se dovessi sceglierne uno, sarebbe quello in cui ho ricevuto la lettera di ammissione al Massachusetts Institute of Technology. Ho subito telefonato a mia madre e abbiamo iniziato prima a urlare, poi a ridere e, infine, a piangere. Quella sera siamo andate a festeggiare da Marcello, il mio ristorante italiano preferito, insieme ai miei migliori amici, Paige e Peter. Mamma ha ordinato il loro miglior vino e abbiamo brindato al nostro brillante futuro, a una vita piena di promesse. Non sono mai stata così felice. Se potessi rivivere quel giorno, non cambierei una virgola. Mi chiamo Riley, ma sono una ragazza. Non so perché i miei genitori abbiano scelto questo nome, ma devo dire che si è rivelato azzeccato. Di solito non sono molto femminile, ma questa sera ho voluto fare un’eccezione. Non sembro nemmeno io, ma una delle ragazze della mia scuola, quelle che ho sempre criticato a voce alta e invidiato in silenzio, con i capelli in ordine, un bel vestito fresco di negozio e i tacchi alti. Mentre Paige chiude a chiave la porta del bagno, mi siedo sul bordo della vasca e mi massaggio il piede destro. «È ufficiale. Odio i tacchi!» Paige mi guarda attraverso lo specchio e alza un sopracciglio: «Hai davvero male ai piedi o stai solo evitando Alex?» Ho una cotta per Alex Cole dal primo anno di liceo, quando eravamo compagni di laboratorio. A quei tempi, portavo l’apparecchio ai denti e mia madre non ne voleva sapere di farmi mettere le lenti a contatto, così cercavo di mantenere un basso profilo. Nei tre anni successivi, anche se non ero più la sosia bionda di Ugly Betty, ci siamo a malapena rivolti la parola. Non riesco a ricordare una sola frase significativa. Eppure, negli ultimi giorni di scuola, l’ho sorpreso diverse volte mentre mi guardava, in mensa o nei corridoi della scuola. Anche Paige se n’è accorta. A settembre andrà a studiare a Princeton. Stasera è la mia occasione per parlare con lui, dirgli che mi piace. Lunedì saranno consegnati i diplomi, inizierà la vita adulta e non voglio avere alcun rimpianto. Sia io che Paige siamo state accettate al MIT. Peter, invece, andrà ad Harvard. Condivideremo un appartamento a Boston e non vediamo l’ora di trasferirci. Siamo sempre stati inseparabili, noi tre. Anche se gli altri, spesso, ci prendevano in giro, non ci importava.


Eravamo noi contro il mondo. O, almeno, contro il liceo che, alla nostra età, è più o meno la stessa cosa. Di solito non venivamo invitati alle feste, non siamo molto popolari. Abbiamo sempre detto che non ci interessava, che preferivamo concentrarci sullo studio, ma ci rimanevamo un po’ male, tutte le volte. Restavamo a casa a guardare un film dell’orrore, Peter portava da fumare e il film non faceva più tanta paura, tutto diventava improvvisamente divertente. Non so perché Amber ci abbia invitato, ma sono contenta che l’abbia fatto. Alle medie era la mia migliore amica, con l’inizio del liceo abbiamo preso strade diverse e ci siamo perse di vista. «Cos’è stato?» un rumore improvviso mi riporta alla realtà. «Sembrava… Oddio, sembrano degli spari!» Sentiamo delle urla, gente che corre lungo il corridoio. Poi di nuovo uno sparo. E un altro. Guardo la porta del bagno: è chiusa a chiave. Siamo al sicuro, almeno per ora. La maniglia si abbassa. Io e Paige tratteniamo il respiro e ci prendiamo per mano. Poi di nuovo dei colpi. Qualcuno sta cercando di sfondare la porta a calci. Entro nella vasca da bagno, invitando silenziosamente la mia amica a fare lo stesso. Tiriamo la tenda, mentre sentiamo la porta che si apre. Un passo. Poi un altro. Qualcuno si ferma davanti alla vasca. Appoggio la testa alle ginocchia, non posso guardare. La tenda si apre. Lentamente. Un urlo mi sveglia di soprassalto. Mi accorgo di essere stata io a urlare. Ho la gola secca, scendo al piano di sotto per bere un bicchiere d’acqua. «Riley, tutto bene?» mia madre mi raggiunge in cucina. «Come mai sei sveglia a quest’ora?» «Ho avuto un incubo» spiego sorseggiando l’acqua. «È stato… orribile.» «Tutta colpa dei film che guardi con i tuoi amici!» Indossa ancora il camice. È un medico e spesso resta tutta la notte in ospedale.


Mio padre se n’è andato di casa quando avevo otto anni, abita a tre isolati da noi, ma non ci parliamo più da tempo. Non sono nemmeno sicura che sappia del mio diploma. Non gliene importerebbe più di tanto. «C’era una sparatoria… alla festa di Amber» racconto. «Sembrava tutto così reale...» «Tesoro, sei solo nervosa perché la tua vita sta per cambiare.» «E… se fosse stato… un sogno premonitore? Tu credi sia possibile? Forse... Forse non dovrei andare alla festa.» Dallo sguardo di mia mamma capisco che no, non ci crede. Probabilmente ha ragione, sono nervosa perché la serata è carica di aspettative e temo che saranno puntualmente disattese. E poi avverto di nuovo una morsa allo stomaco, l’improvvisa e terrificante consapevolezza che stasera morirò.


CAPITOLO 2. EFFETTO FARFALLA «Cosa vuol dire che non vieni stasera?» «Non mi sento bene» tossisco, consapevole di non essere molto convincente. «Riley! Andiamo!» Paige mi guarda torva. «Si può sapere che diavolo ti prende?» «Ho un brutto presentimento. Se andremo a quella festa, ci succederà qualcosa di male. Lo sento.» Paige resta impassibile. «E da quando avresti dei poteri paranormali?» «Non ho poteri paranormali. È solo che...» Paige è la mia migliore amica e decido di dirle la verità: «È come se avessi già vissuto questa giornata» confesso. «Ieri.» La mia amica mi guarda perplessa: «Riley, tu non hai mai creduto in queste cose. E neanch’io.» «Lo so, ma... devi fidarti di me» non so che altro dire. «Ti fidi di me?» Paige sospira: «Okay, dimmi qualcosa che deve ancora succedere.» «Peter» rispondo dopo un attimo di esitazione. «Ha bucato una gomma ed è arrivato dieci minuti in ritardo. Poi siamo andati alla festa di Amber… a un certo punto, eravamo in bagno e abbiamo sentito degli spari… e gente che correva e gridava… Poi qualcuno sfondava la porta e… ci uccideva.» Una doppia suonata di clacson mi smentisce prontamente, Peter non è mai stato così puntale. «Dicevi?» Paige si lascia sfuggire un sorriso trionfante. «Verrai alla festa con me, a costo di trascinarti lì in pigiama!» «Potremmo fare qualcosa noi tre» propongo. «Sai che novità!» sbuffa lei. «Ci sarà Brian stasera» dice abbassando lo sguardo. «È la mia ultima occasione per parlargli prima che parta per le vacanze.» Brian è il suo ex ragazzo, si sono lasciati da due mesi, ma lei è ancora innamorata. «Lo vedrai anche alla consegna dei diplomi lunedì» le ricordo. «Sì, ma ci saranno i nostri genitori, le foto da fare… ho bisogno di stare qualche minuto sola con lui. Ti prego!» Come posso dirle di no? «Okay» mi lascio convincere, Peter non ha forato la gomma quindi, dopo tutto, potrei essermi anche sbagliata. Paige mi mostra due vestiti: «Allora scegli il rosso o il nero?» «Nero!» rispondo pronta, ieri indossavo un vestito rosso. Se il battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, potrà un cambio d’abito salvarmi la vita? Due ore dopo, alla festa, sono un fascio di nervi.


Oltre al timore di comportarmi in maniera goffa, c’è anche la paura che, da un momento all’altro, qualcuno irrompa in casa di Amber e inizi a fare fuoco sui miei compagni di scuola. «Smettila di fissare la porta!» mi intima Paige sottovoce, «Alex arriverà.» Annuisco. In questo momento, Alex è l’ultimo dei miei pensieri. «Ecco le vostre birre, signore!» Peter ci passa due bicchieri. Ne bevo un sorso abbondante, ho bisogno di rilassarmi, anche se è quasi impossibile. In fondo alla sala noto Jack Brown. Cosa ci fa qui? A scuola non parla mai con nessuno, per quanto ne so, non ha amici. Odia tutto e tutti. In classe fissa la finestra per tutto il tempo delle lezioni e, in pausa pranzo, se ne sta per i fatti suoi a fumare o gira per i corridoi borbottando da solo. E se fosse venuto qui per ucciderci tutti? «Allora come mai non volevi più venire?» mi chiede Peter. «Avevo un brutto pres...» «Roba da donne.» taglia corto Paige. «Non puoi capire.» «Okay. Non insisto allora.» Nota il mio bicchiere ormai vuoto: «Qui ci vogliono rinforzi.» «Grazie» mormoro mentre si allontana. «Riley, insomma, sei tesa come una corda di violino! Vuoi che andiamo in bagno a sistemarci il trucco?» «No!» mi accorgo di avere alzato il tono di voce. «Guarda, è arrivato Brian! Perché non vai a salutarlo?» In fondo, siamo venute qui per questo. Mentre Paige si allontana, Diane Jacobson mi dà una spallata facendomi andare a sbattere contro qualcuno. È Alex. E, per colpa mia, si è appena rovesciato la birra addosso. «Oddio, mi dispiace tanto!» Ora penserà che sono un’imbranata. «Non preoccuparti, succede» sorride. Sono quasi sicura che sia un sorriso di compassione. «Sono Riley.» Veniamo spintonati e finisco praticamente tra le sue braccia. «So chi sei» sussurra lui. Non siamo mai stati così vicini da quando eravamo compagni di laboratorio. Riesco a sentire il suo profumo. Veniamo colti di sorpresa dagli spari. Sembra che provengano dal piano di sopra. Qualcuno inizia a urlare. Alex mi afferra per un braccio e mi trascina verso la porta d’ingresso. Si sta preoccupando per me, vuole proteggermi.


Poi, all’improvviso, inizio ad avvertire una sensazione di calore all’altezza del ventre. Le gambe non mi reggono piÚ e cado sulle ginocchia. Mi tocco istintivamente la pancia e mi ritrovo con la mano ricoperta di sangue. Alex si gira verso di me, spalanca la bocca in una smorfia, mentre io vengo inghiottita dal nulla.


CAPITOLO 3. ORA O MAI PIÙ Mi sveglio di soprassalto, col cuore che batte all’impazzata, quasi non respiro. È ancora venerdì mattina, il sole splende, sono in camera mia, viva. Eppure sembrava tutto così reale. Il dolore. Il contatto con Alex. Il suo tocco sul mio braccio. Il suo profumo. «Riley, tutto bene?» mia madre mi raggiunge, come al solito, in cucina. «Sì, mamma. Era solo… un incubo.» «Dai, ti preparo la colazione.» Mi siedo, ancora intontita. «Sei appena tornata dall’ospedale, sarai stanca.» «Sarai la mia bambina ancora per pochi mesi» mi sorride. «Voglio viziarti ancora un po’.» «Ti voglio bene» mi alzo e l’abbraccio. «Anch’io, tesoro.» Non so perché non ce lo diciamo mai. È tutta la mia famiglia, così come io sono la sua. Se morissi, resterebbe completamente sola. Potrei sempre non andare alla festa, convincere Paige e Peter a restare a casa con me. Forse mi sveglierei di sabato e tornerebbe tutto normale, ma i miei amici? Cosa ne sarebbe di loro? Okay, non sono esattamente miei amici, ma ci conosciamo da sempre, siamo cresciuti insieme. Amber. Diane. Jack. Alex. Devo salvarli. O almeno provarci. Devo capire chi è l’assassino e fermarlo. Per salvare la mia vita e la loro. «Ecco le vostre birre, signore!» Peter ci passa due bicchieri. «Grazie, ma non ho voglia di bere stasera.» Mi allontano e vado dritta verso Jack Brown. «Perché sei qui?» «Amber ha invitato tutta la scuola. Anche il club dei cervelloni a quanto pare» mi fa un mezzo sorriso.


«Ma perché sei venuto?» I capelli neri gli coprono la fronte, nascondendogli quasi completamente gli occhi. «Potrei farti la stessa domanda, Miss Sono Troppo Intelligente Per Mischiarmi A Voi Comuni Mortali.» Faccio un passo indietro: «Davvero mi vedi in questo modo?» Jack fa spallucce. Torno da Paige senza dire una parola. «Da quando sei amica di Jack Brown?» «Non siamo amici. Solo... mi sembrava strano fosse venuto qua. Non è un tipo molto socievole.» «Sarà venuto per la birra gratis» ipotizza lei. «Guarda, è arrivato Brian! Perché non vai a salutarlo?» «Non lo so. Sai, forse non è una buona idea.» Ieri mi ha praticamente obbligato a venire, perché oggi fa tante storie? «Non puoi tirarti indietro adesso, Paige! Devi dirgli quello che provi prima che parta per le vacanze. Potrebbe essere la tua ultima chance.» È la verità. Tra pochi minuti potremmo essere tutti morti. Ecco che arriva Diane Jacobson, va dritta verso Amber che la guarda con gli occhi sbarrati: «Come osi venire alla mia festa?» Il ragazzo di Amber l’ha lasciata per mettersi con Diane, al tempo una delle sue più care amiche. Amber, per vendicarsi, le ha fatto una foto sotto la doccia dopo l’ora di ginnastica e l’ha postata su Internet. Tutti a scuola l’hanno vista. «So che hai scattato tu quella foto!» La gente si raduna intorno alle due ragazze per assistere al massacro delle cheerleader. Ecco cos’è successo ieri, ecco perché Alex ed io siamo stati spintonati fino a finire l’uno nelle braccia dell’altra. Lo cerco con lo sguardo, finalmente lo trovo, i capelli castano chiaro leggermente ondulati, la camicia bianca immacolata, un sorriso appena accennato. Potrebbe essere la tua ultima chance. E se ieri fosse stato un sogno dentro un sogno e questa, invece, la realtà? E se domani non mi svegliassi? E se dovessi davvero morire tra pochi minuti? Non so come, ma trovo il coraggio e vado verso di lui. Prendo Alex per mano e lo trascino lontano dalla folla. Poi mi giro e lo bacio. Passo le mani tra i suoi capelli e lo tiro verso di me.


Ci baciamo e… ci baciamo. Per un attimo esistiamo solamente noi. Non mi sembra vero e, forse, non lo è. «Wow» sorride alla fine di quel lungo bacio. «Sono Riley.» «So chi sei.» Ci guardiamo negli occhi per un momento che sembra infinito. Non m’importa se domani non se lo ricorderà, se non sarà realmente successo. Io so che, da qualche parte nell’universo, ho baciato Alex Cole ed è stato bellissimo. Infine eccoli. Gli spari. Le urla. Chiudo gli occhi. Alex mi prende per un braccio, mi trascina via. Mi libero dalla presa e vado nella direzione opposta. Devo vedere. Devo vedere chi sta sparando. Salgo le scale. Non sono preparata ad assistere a uno spettacolo del genere. Sangue. Sangue ovunque. I miei compagni di scuola. Avevano tutta la vita davanti. Un nuovo mondo, più adulto, li attendeva. Sento qualcuno dietro di me, un rumore metallico, e poi… più niente.


CAPITOLO 4. DOVE TUTTO È POSSIBILE Mi sveglio di nuovo a casa mia, nella mia stanza, dentro il mio letto. Ieri sono morta e oggi succederà di nuovo. Questo è quanto. Quanto durerà tutto questo? Quante volte dovrò morire ancora? «Che ne dici di andare a Wither Bay? Solo noi due» propongo a mia madre mentre facciamo colazione. «Tesoro, mi piacerebbe, ma ho lavorato tutta la notte in ospedale e sono distrutta. Andiamo domani, okay?» «No!» mi affretto a rispondere. «Nel week end la spiaggia è sempre affollata. Ci vanno le famiglie con i bambini.» «Facciamo un’altra volta. Abbiamo tutta l’estate per andarci.» No, abbiamo solo questa giornata. Le ultime ore che passeremo insieme. «Posso guidare io, così tu puoi dormire» sfodero il mio sorriso migliore. «Per favore.» Mezzora dopo sto guidando la vecchia Volvo station wagon mentre mia madre dorme nel sedile del passeggero. Senza trucco sembra così giovane, così indifesa. Se mi succedesse qualcosa, invecchierebbe di colpo, lo so. I ricordi del giorno prima si fanno sempre più sfocati, proprio come accade per i sogni − o gli incubi − che non riusciamo a ricordare il mattino seguente. Di giorno sembra tutto più lontano, meno spaventoso, irreale. Persino il bacio con Alex, potrei averlo solo sognato. Quanto vorrei fosse successo davvero. Potessi mandare un sms a Paige per dirglielo… Raccontarle che ho baciato Alex. Che il tempo si è fermato e c’eravamo solo noi. Nessuna lite tra Amber e Diane. Nessun urlo. Nessuno sparo. Solamente Alex e io. E un bacio.


Alla luce diretta del sole la mia pelle è ancora più bianca, sembro un fantasma e, forse, lo sono davvero. Ma non voglio pensare a questo, non adesso. Wither Bay è uno dei miei posti preferiti. La prima volta che sono venuta qui è stato quando i miei si sono separati. Io e mia madre avevamo passato la giornata a rincorrerci tra le onde. Sembrava che tutto fosse possibile, anche essere di nuovo felici. Trascorriamo la mattina a prendere il sole e a schizzarci in riva al mare, proprio come quando ero bambina. Per pranzo decido di provare il Menù del Mangione: cheeseburger a quattro strati con doppia porzione di patatine, accompagnate da una squisita salsa al formaggio. Mi ero ripromessa di provarlo almeno una volta nella vita, quindi direi che è giunto il momento. Già che ci sono, assaggio anche la cheesecake. «Mi fa piacere vedere che hai appetito» mia madre sorride. «Nessuna predica sul fatto che i grassi che ho appena ingurgitato intaseranno le mie povere arterie indifese?» Il suo sguardo tutto a un tratto diventa triste: «Mi mancherai.» «Anche tu. Promettimi che, quando sentirai la mia mancanza, verrai qui e penserai a quanto ci siamo divertite oggi.» «Te lo prometto» ha gli occhi lucidi. «Tu invece promettimi che mi verrai a trovare talmente spesso che non farò in tempo a sentire la tua mancanza.» «Okay» rispondo, con la speranza di riuscire a mantenere quella promessa. Poi lo vedo. È l’ultima persona che pensavo di incontrare qui, anche se non ho fatto altro che pensare a lui tutta la mattina. Mi avvicino come ipnotizzata: «Alex?» Lui si volta. Ieri ci siamo baciati e oggi siamo di nuovo due estranei. Per di più devo avere un aspetto orribile, la pelle arrossata dal sole, i capelli ridotti a una massa informe dal sapore di salsedine, gli short di jeans sporchi di salsa al formaggio. E se fosse così il resto della mia vita? Una serie di incontri più o meno casuali con il ragazzo che mi piace? «Sono Riley.» «So chi sei.» Noto il libro sul suo tavolo. «Conosci Theo Sullivan?» «È uno dei miei artisti preferiti» risponde. «Sono stato a una sua mostra prima di venire qui. Lo conosci?» «In realtà, non molto bene anche se… è mio padre.»


«Davvero? Non lo sapevo.» È sorpreso come se gli avessi appena rivelato di essere la figlia segreta di Michael Jackson. «Sei andata alla mostra?» «Diciamo che dopo che ha abbandonato me e mia madre non sono esattamente la sua fan numero uno.» «Dovresti vedere i suoi quadri. Davvero.» «Riley, scusa se vi interrompo. Mi ha chiamato il dottor Borovsky. C’è un’emergenza in ospedale» mi spiega. «Dobbiamo tornare a casa.» «Posso darle un passaggio io» si offre Alex. «Okay, allora ci vediamo domani mattina.» mi abbraccia velocemente e va via. Guardo Alex e sorrido. Non esiste nessun dottor Borovsky, è la scusa ufficiale che usiamo io e mia madre per le situazioni d’emergenza. E questa, decisamente, lo è. È questa la magia di Wither Bay, qui tutto è possibile.


CAPITOLO 5. NON LASCIARMI Alex ed io non parliamo molto durante il pomeriggio. Mi rilasso ascoltando il suono delle onde e dei gabbiani. Fingo di leggere il mio libro e intanto osservo di sbieco Alex, mentre ritrae due bambini che giocano a pallone in riva al mare. «Tu e tua madre siete molto unite?» mi chiede a un tratto. «Già.» «Vi ho visto stamattina in riva al mare.» Cerco di non arrossire. «Sembravamo due pazze?» «Sembravate felici.» Colgo una nota malinconica nel suo tono di voce. «A scuola non sei così.» Sento che sto arrossendo, spero non si noti troppo: «E come sono?» «Controllata. Sempre attenta a non dire una parola di troppo. Stamattina... Stamattina eri te stessa.» Cerco di ignorare le guance che mi bruciano. «E tu cosa ne sai?» «Vengo qui ogni tanto... per disegnare. Ti ho visto un paio di volte... Con i tuoi amici. Con tua madre.» «Ah... E perché non mi hai salutato?» «Non lo so. Non volevo disturbarti. Non volevo invadere il tuo mondo.» Non capisco cosa voglia dire, ma decido di cambiare argomento: «Non sapevo disegnassi.» Avevo visto qualche suo schizzo quando frequentavamo lo stesso corso, ma credevo fosse una fase temporanea, finita con l’inizio della popolarità. Alza le spalle: «Ogni tanto.» «Li hai fatti vedere a qualcuno?» «Il signor Winston dice che ho talento, ma né alla mia famiglia, né ai miei amici interessano i miei disegni.» «A me sì» mi avvicino. «Non me ne intendo molto, ma… posso dirti che sei molto bravo.» «Grazie, fanno sempre piacere i complimenti della figlia di un grande artista» sorride. «Il mio destino è studiare economia a Princeton però.» «Una delle migliori università del mondo» aggiungo io, «ma non è quello che vuoi.» «Non ho scelta. Mio padre… anche lui disegnava da giovane. Ha vissuto a New York, Parigi, Barcellona… senza mai trovare qualcuno che credesse in lui. Ha sprecato gli anni migliori della sua vita inseguendo un sogno che non si è mai realizzato.» «E non vuole che ti succeda la stessa cosa.»


«Io li capisco. I miei hanno faticato tanto per risparmiare e pagarmi gli studi. Studiare economia è il mio modo di ricompensarli per tutto quello che hanno fatto per me» sospira. «Hai mai la sensazione di non essere padrona della tua vita? Che ogni scelta non è per te stesso, ma per compiacere gli altri, perché è quello che si aspettano da te?» «A volte.» Si alza in piedi. «Andiamo?» Non capisco perché voglia andare via così all’improvviso, forse si è accorto che si stava confidando con una persona che conosce appena. Annuisco, anche se non ho nessuna voglia di tornare a casa. Vorrei restare in spiaggia e guardare il tramonto e poi l’alba. Vorrei che la giornata non finisse mai. «Pensavo avessi una macchina, non una moto.» «Non è una moto, è una Harley.» Mi passa un casco. «Era di mio padre.» «Posso guidarla?» Mi lancia un’occhiata perplessa: «Magari un’altra volta.» Salgo dietro e mi stringo a lui. Non sono mai stata così felice e così triste nello stesso momento. È questo il mio destino? Essere sempre a un passo dalla felicità, senza mai poterla raggiungere veramente? Non avrò mai un vero appuntamento con Alex. Non andremo mai al cinema insieme. Non litigheremo mai per chi sta mangiando più pop corn. Non guiderò mai la sua moto. Sono bloccata qui, condannata a rivivere questa giornata all’infinito e ricominciare ogni volta da capo. Vorrei che Alex mi portasse ovunque, non importa dove, ma non voglio tornare a casa. Non voglio prepararmi per la festa. Non voglio andare a casa di Amber. Non voglio morire. Sembra che Alex mi abbia letto nel pensiero perché prende una strada che non conosco. Solo quando parcheggia, capisco dove siamo. «Non credo sia una buona idea» balbetto. «Stiamo solo cinque minuti. C’è un quadro che devi assolutamente vedere.» Lo seguo senza dire una parola. Non lasciarmi, olio su tela, 50×70. Sembro io, ma non lo sono. I colori sono tutti sbagliati.


Gli occhi sono più blu. I capelli più biondi, quasi dorati. Una ragazzina di tredici anni che implora suo padre di non lasciarla. Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Come ha potuto farlo? Sfruttare il mio dolore in questo modo, esporlo al mondo. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Non sopporto che Alex mi veda così, mi volto e inizio a camminare verso l’uscita. «Riley?» Alzo gli occhi e mi trovo di fronte mio padre, il grande artista. «Che sorpresa!» «Ciao, papà.» «Cosa ci fai qui?» «Il liceo è finito, a settembre parto per il college…» spiego. «Mi hanno accettato al MIT.» «Ma è fantastico!» «Quindi… sono venuta qui per dirti addio» mi manca l’aria. «Addio.» Riprendo a camminare, quando mio padre mi ferma: «Riley, aspetta! Che ne dici se…» sembra nervoso. «Potremmo… andare a cena insieme. Può venire anche il tuo ragazzo.» «Veramente...» cerco di trovare le parole per rifiutare. «Accettiamo» mi interrompe Alex. «Molto volentieri.»


CAPITOLO 6. TIC TOC Neanche un’ora più tardi mi ritrovo da Marcello e ripenso a quando venivo qui con i miei genitori. È difficile pensare a loro come a una coppia, non potrebbero essere più diversi. Controllo il cellulare che ho deliberatamente ignorato per tutto il giorno. Ci sono diversi messaggi di Paige, Peter e mamma. Li rassicuro spiegando che sto bene, non sono stata rapita dagli alieni, ho avuto un imprevisto e raggiungerò i miei amici alla festa. Metto via il telefono e mi accorgo che nessuno di noi sta proferendo parola, tranne per fare qualche apprezzamento sulla cucina di Marcello. Non sono mai stata molto loquace. Ora che finalmente ho l’occasione per parlare con mio padre, per conoscerlo un po’ meglio, non so cosa dire. «Bella mostra» Alex rompe il silenzio. «Già» aggiungo io. Mio padre mi guarda e mi sorride: «Anche tu disegni?» «No, direi di no. Alex disegna molto bene» dico quasi senza rendermene conto. «Dai, fagli vedere!» Alex prende il suo bloc notes e mostra a mio padre alcuni schizzi. «Niente male, ragazzo… niente male davvero.» Per la prima volta in vita mia, mi rendo conto che mi dispiace non saper disegnare o rischiare di svenire ogni volta che vedo un po’ di sangue. Non sarò né un artista come mio padre, né un medico come mia madre. Non sarò proprio un bel niente dato che tra qualche ora morirò. Ho solo diciotto anni. Dovrei avere ancora una vita intera da vivere. Un mondo infinito di possibilità. Compilo mentalmente un elenco di cose che non potrò più fare. Andare all’università. Vedere la neve. Sposarmi. Guardo Alex che sorride, non gli sembrerà vero ricevere i complimenti da uno dei suoi artisti preferiti, e a me non sembra vero essere qui, con loro due che chiacchierano amichevolmente. Almeno mio padre non può raccontare aneddoti imbarazzanti sulla mia infanzia, dato che non li conosce oppure li avrà dimenticati. Però non ha dimenticato quel giorno.


Durante l’estate tra la terza media e il primo anno di liceo, ero ossessionata da lui e mi ero convinta fosse solo colpa di mia madre e del suo lavoro se era andato via di casa. Così, un giorno, avevo preso le mie cose, riempito la borsa della palestra, dopo aver detto che andavo a dormire da Amber −ai quei tempi era la mia migliore amica − e mi ero presentata a casa di mio padre per passare un week end padre-figlia a sorpresa. Lui mi fece capire, senza troppi giri di parole, che non era interessato a una figlia preadolescente né a tutto quello che comportava essere genitore. Niente responsabilità per Theo. Tornai da Amber senza dire una parola, lei non mi fece nessuna domanda, nemmeno la mattina dopo, anche se avevo pianto tutta la notte. Quando mi svegliai, vidi che mi aveva messo al polso il suo braccialetto portafortuna, da cui non si separava mai. Qualche mese dopo diventò amica di Diane, che la fece entrare nella cerchia delle ragazze carine e ben vestite. Amber era improvvisamente popolare, mentre io ero rimasta la solita secchiona invisibile. Non ha nemmeno più voluto indietro il suo braccialetto. Mio padre e Alex continuano a parlare di arte, mentre io avverto una nota stonata. Quell’uomo così gentile e sorridente è un estraneo per me. Ormai è troppo tardi. Lui ha preso la sua decisione tanti anni fa ed io, in questo momento, devo prendere la mia. Mi alzo in piedi di scatto, lasciandoli di stucco. «È tardi! Alex ed io dobbiamo andare a una festa.» «Ma Riley…» «Grazie per la cena.» M’incammino fuori dal ristorante. Alex mi segue:«Ehi, che succede? Ci stavamo divertendo.» «Lo so, ma è tardi... la festa sarà già iniziata...» «Abbiamo tutta la vita per andare alle feste. Restiamo qui, con tuo padre. Poi possiamo fare un giro in moto. Tornare a Wither Bay, a quest’ora è favolosa.» Quanto vorrei accettare, ma non posso. «Non siamo obbligati ad andare a quella stupida festa» insiste lui. Invece sì. Peter e Paige mi stanno aspettando. Non sanno di essere in pericolo. «Devo andarci!» «Cenerentola non può fare tardi al ballo?» «Qualcosa del genere, sì.» «Non sembravi un tipo da feste» commenta Alex mentre percorriamo il vialetto d’ingresso.


«Perché sono un maschiaccio?» Indosso ancora gli shorts sporchi di salsa al formaggio. «Non sei nemmeno venuta al ballo.» «Nessuno mi aveva invitato.» «Se solo ti avessi conosciuto prima… ti avrei invitato io.» «Solo perché sono la figlia di Theo Sullivan?» «Perché sei tu… e basta.» Mi attira a sé e mi bacia nello stesso istante in cui iniziano, familiari, i colpi di pistola. Potremmo essere a Wither Bay in questo momento. Con i piedi nudi, in riva al mare, al chiaro di luna. Perdonami, Alex, ma è questo il mio destino. Sono i miei amici e io ho il dovere di salvarli. Solo, per un momento, facciamo finta di niente. Non smettere di baciarmi. Ti prego, non smettere. Succede tutto in pochi istanti. La porta si spalanca all’improvviso facendoci sobbalzare. Alcuni ragazzi corrono verso di noi visibilmente spaventati. Guardo Alex per un attimo che sembra infinito, mi libero dalla sua presa ed entro in casa. Qualcuno urla. Qualcun altro spara. Salgo le scale. Devo vedere chi sta sparando, devo vederlo in faccia. Trovo Jack, è ferito, mormora qualcosa di incomprensibile. «Credevo non saresti più venuta.» Mi volto e vedo Peter, il mio migliore amico, che mi spara.


CAPITOLO 7. UN BRAVO RAGAZZO Di nuovo a casa mia, di nuovo venerdì mattina. Corro in bagno a vomitare. Non ce la faccio. Non ce la faccio più. Non posso affrontare tutto questo di nuovo. Non posso rivivere una giornata come quella di ieri. Anche se ieri, oggi e domani saranno lo stesso giorno ormai. Sono stanca di morire in continuazione. Oggi però ho un elemento in più. So chi mi ha ucciso. Un’ora dopo mi ritrovo alla mostra di mio padre. È come se la mia vecchia Volvo mi avesse portato qui di sua iniziativa. Osservo la versione a olio di me stessa, con gli occhi troppo blu e i capelli troppo biondi. «Riley?» si avvicina mio padre. «Ciao papà» lo saluto senza staccare gli occhi dal dipinto. «Perché? Perché questo quadro?» è la domanda che avrei voluto fare ieri sera a cena. «Non ti piace?» «È bellissimo» ammetto «ma…» Perché mi hai lasciato? «Ricordo quel giorno, quando ti sei presentata a casa mia… col tuo zainetto» racconta. «È come se tutta la mia vita dipendesse dall’istante in cui ti ho chiuso la porta in faccia... Le cose con tua madre erano complicate. Pensavo che stare lontano da voi fosse la cosa migliore da fare. Per tutti.» «E non ti sei mai pentito della tua decisione?» «Negli ultimi anni, mi sono spesso chiesto se non mi fossi sbagliato. A volte, avrei voluto riavvolgere il tempo… tornare a quel giorno e dirti che potevi restare ma non si può tornare indietro.» «Già... Non si può.» O, almeno, non sempre. «Non importa» mi sorprendo a rispondere, «io ti perdono.» Mi volto e m’incammino verso l’uscita andando a sbattere contro qualcuno. «Scusi.» Alzo lo sguardo e vedo Alex.


“Sono Riley” vorrei dirgli e so già che risponderebbe: “So chi sei” perché, in qualche modo, mi ha notata a scuola. Potrei dirgli che sono la figlia di uno dei suoi artisti preferiti, che, se vuole, può fare vedere i suoi disegni a mio padre, possiamo andare a pranzo con lui, magari a Wither Bay, passare insieme una bella giornata. Ma non c’è tempo. Non dico niente e riprendo a camminare. «Riley» la signora Lincoln mi accoglie con un sorriso, «Peter non è in casa.» «Non fa niente. Devo solo prendere una chiavetta USB che gli avevo prestato qualche tempo fa.» Mi dirigo verso la sua camera senza fare tanti complimenti. «Se hai bisogno di me, sono in cucina.» Entro nella stanza di quello che credevo fosse il mio migliore amico. Posso ancora considerarlo tale? Perché l’intera vita di una persona deve essere definita solo da quei pochi minuti – da una scelta sbagliata – mentre tutto il buono deve essere cancellato per sempre? Non è giusto. Peter è sempre stato un bravo ragazzo, il sogno di ogni genitore, il ragazzo che ogni madre vorrebbe per la propria figlia, ma le ragazze prontamente snobbano. Non che questo fosse mai stato un problema per lui, non se n’è mai lamentato apertamente con me o con Paige. Sulla scrivania, insieme ai gadget di Harvard, c’è una foto che lo ritrae con noi. Il club dei cervelloni. Paige proviene da una famiglia di immigrati della Repubblica Dominicana. Ha sempre dovuto mantenere una media alta per ottenere la borsa di studio e andare al college. Peter è il più intelligente di tutti, sia suo padre che suo nonno si sono laureati ad Harvard col massimo dei voti e lui non ha deluso le loro aspettative. Poi ci sono io. Mi è sempre piaciuto studiare, e non mi sento una sfigata solo perché preferisco passare i pomeriggi sui libri, invece di fare shopping con Amber e Diane. Prendo in mano la foto. Come abbiamo fatto a essere così cieche? Se qualcuno poteva capire quello che gli stava succedendo, eravamo noi, io e Paige. Non i suoi genitori, non gli insegnanti. Lui aveva solo noi. «Riley, cosa ci fai qui?» Peter mi guarda attraverso gli occhiali e non vedo un briciolo di cattiveria nei suoi occhi verdi, resi ancora più grandi dallo spessore delle lenti. Forse sono ancora in tempo. Forse posso ancora salvare Peter… e me stessa.


CAPITOLO 8. RICORDATI DI ME Non posso credere che chi ieri mi ha sparato a sangue freddo, guardandomi negli occhi, sia lo stesso ragazzo di fronte a me in questo momento. Il liceo è finito, tutto quello che ha sempre desiderato sta per accadere, è a due passi da lui. E allora perché? Non esiste nessuna spiegazione logica. A scuola ha sempre avuto ottimi voti, non litigava con nessuno. Sì, ogni tanto veniva preso in giro, ma non più di tanti altri nostri compagni. Cos’è successo per indurlo a fare quello che ha fatto? O deve ancora accadere? Vorrei mettere le cose a posto, anche se non so in che modo. Non so quale sia la cosa giusta da dire, la cosa giusta da fare. So solo che non posso sbagliare. Non voglio morire stasera. Non di nuovo. «Peter, ho bisogno del tuo aiuto per una cosa.» Un’ora più tardi, stiamo guardando Paige e Brian che parlano in un bar vicino al centro commerciale. Paige sorride, è bellissima, con la pelle ambrata e gli occhi verdi. Avrebbe potuto benissimo far parte del gruppo delle ragazze popolari, insieme ad Amber e Diane. Chissà se ha già capito che siamo stati Peter e io a organizzare l’incontro, mandando a entrambi un sms da parte dell’altro. Peter continua a controllare il cellulare in maniera nervosa. «Aspetti una telefonata?» «Tra un po’ devo andare. Voglio finire di testare il mio videogame.» «Non sapevo stessi lavorando a qualcosa.» Alza le spalle: «È un progetto recente.» «Avrei potuto darti una mano. Che genere di gioco è?» «Uno sparatutto» risponde abbassando lo sguardo. «È ispirato alla strage di Colombine… ma ambientato nella nostra scuola.» «Cosa?» «Puoi decidere se essere la preda o il cacciatore. È piuttosto divertente.» «Divertente?» «Sì, lo so che odi i videogame violenti… ma è solo un gioco. Per passare il tempo.» Il suo cellulare inizia a suonare, Peter guarda il display. Sembra sorpreso.


«Scusami, devo rispondere» e si allontana. Vorrei seguirlo per capire con chi sta parlando, ma resto seduta al mio tavolo cercando di afferrare qualche frammento di quella conversazione segreta. «Ciao, Riley.» Amber si avvicina con due sacchetti che contengono, molto probabilmente, il vestito per la festa e le scarpe abbinate. «Ciao, Amber.» Ricambio il sorriso. È strano pensare che una volta era la persona a me più vicina, mentre ora la conosco appena. Potrei dire la stessa cosa di Peter, che è una delle persone più vicine in questo momento. «È incredibile che sia finito il liceo.» Il suo tono di voce è a metà tra la felicità e la tristezza: «Che università hai scelto alla fine?» «Il MIT.» Ho sempre pensato di essere destinata a grandi cose, forse ho peccato di presunzione. «Io invece andrò a New York. Non vedo l’ora!» La maggior parte di noi si perderà di vista dopo la consegna dei diplomi. Per questo Amber ha organizzato la festa di stasera, vuole essere ricordata. Per cosa sarò ricordata io? La ragazza timida che cercava di rendersi invisibile? La prima della classe? O colei che ha impedito una strage? «Mi dispiace che ci siamo perse di vista» continua lei. «Beh, tu hai iniziato a uscire con Diane…» «Ti ho chiesto diverse volte di uscire con noi e tu non sei mai venuta. Eri sempre occupata con lo studio. O almeno era quello che mi dicevi» mi rinfaccia. «Così ho smesso di invitarti.» Non so cosa rispondere. «Sembrava che non ti importasse» continua Amber. «Tu ci hai sempre guardato dall’alto in basso, Riley. Per te non eravamo che delle stupide e frivole cheerleader.» «No, non è così» balbetto mentre Peter si avvicina. «Ora devo andare. Spero di vedervi stasera.» «Ci saremo» risponde Peter sorridendo mentre Amber va via. «Tutto bene? Sei un po’ pallida.» «È solo che… ho una strana sensazione riguardo alla festa» dico, per testare la sua reazione. «Come un brutto presentimento.» Peter però sembra non ascoltarmi, controlla di nuovo il cellulare: «Maledizione!» «Qualcosa non va?» domando con la voce che mi trema. È sbiancato, nonostante il caldo. «Scusami, ma devo proprio andare.» Con chi sta comunicando Peter al cellulare? Immagino di avere un solo modo per scoprirlo.



CAPITOLO 9. IL GIORNO PIÙ LUNGO Peter mi riaccompagna a casa sua senza proferire parola. Sembra piuttosto nervoso, e lo sono anch’io. In un certo senso, non mi sono mai sentita così viva come in questi ultimi cinque giorni; i migliori e i peggiori della mia vita, anche se, in teoria, si tratta di un unico giorno – venerdì 18 giugno – il giorno più lungo. «Ci vediamo stasera» saluto Peter con la mano e metto in moto la macchina. Faccio il giro dell’isolato, dopodiché torno a pochi metri da casa sua. La sua auto è ancora parcheggiata nel vialetto, mentre quella di sua madre non c’è più. Qualsiasi cosa stia progettando Peter, lo sta facendo da casa sua. Non scoprirò niente se resto qui. Sto per scendere dalla macchina, quando si avvicina una moto. O meglio, una Harley. Cosa ci fa qui Alex? Suona il campanello, Peter apre la porta e lo fa entrare. Non sembra sorpreso di vederlo. Che diavolo sta succedendo? Aspetto qualche minuto e decido che è arrivato il momento di scoprirlo. La porta di Peter non è chiusa a chiave. È una cittadina tranquilla, la nostra. Ci fidiamo l’uno dell’altro e non abbiamo alcun motivo per non farlo, non ci sono mai stati furti, rapine, omicidi né, tantomeno, sparatorie alle feste. Mentre salgo le scale, sento che Peter e Alex stanno discutendo. «Eravamo d’accordo!» è la voce di Peter. Sembra arrabbiato. «Ho cambiato idea» replica Alex. «Devi ridarmi la pistola!» Poi sento un rumore che ho imparato a riconoscere fin troppo bene in questi ultimi giorni. Uno sparo. Corro a vedere cosa sta succedendo. Quando entro nella stanza di Peter, lo trovo steso a terra sopra un’enorme macchia di sangue. Alex, visibilmente scosso, ancora con la pistola in mano. «Peter! No, Peter!» mi avvicino al mio amico che però non risponde. «Dobbiamo chiamare un'ambulanza!» «È morto.» Non doveva andare così. Cos’è cambiato oggi? «Cos’hai fatto, Alex? Cos’hai fatto?»


«Tu non capisci. Non sai cosa aveva intenzione di fare stasera. Ti avrebbe ucciso!» «Lo so» mormoro io. «Lo sai?» mi chiede Alex. «Come?» «Immagino… per lo stesso motivo per cui lo sai tu.» Alex si siede sul letto di Peter. «Ti ho visto stamattina… alla mostra di tuo padre.» «Come fai a sapere che è mio padre?» «Me l’hai detto tu. Ieri.» «Te lo ricordi?» «Mi ricordo tutto… mi ricordo di te» risponde lui sorridendo debolmente. «Alla mostra, c’era quel quadro, Non lasciarmi. L’ho visto e mi sono ricordato. Eri tu. Mi supplicavi di non abbandonarti, di salvarti. Ti ho visto morire quattro volte in questi ultimi giorni e non potevo permettere che succedesse ancora.» Una serie di immagini mi scorrono davanti agli occhi. Alex ed io che ci incrociamo nei corridoi della scuola. Alla festa, quando gli ho rovesciato la birra addosso. La prima volta che l’ho baciato. In spiaggia, mentre disegnava in riva al mare. A cena con mio padre. La prima volta che mi ha baciato lui. Chiudo gli occhi. Quel bacio è ancora lì. Da qualche parte. Abbiamo condiviso un momento che durerà per sempre. «Non sappiamo nemmeno perché l’ha fatto» dico guardando la foto macchiata di sangue dove ci siamo io, Peter e Paige. «Avrebbe fatto qualche differenza?» «Avremmo potuto… salvarlo.» «No» risponde lui con lo sguardo basso, «non potevamo.» «Che vuoi dire?» «Era troppo tardi. Pensavo… speravo che, prima o poi, cambiasse idea e non facesse quello che ha fatto… quello che voleva fare… Così come avevo fatto io.» «Tu?» Ti ho visto morire quattro volte in questi ultimi giorni… «La prima volta… sono stato io a spararti, Riley.» Vedo la tenda della vasca di Amber che si apre. Lentamente. Alex con la pistola in mano, puntata contro la mia fronte.


CAPITOLO 10. JAMAIS VU Avete mai desiderato rivivere un giorno dall’inizio alla fine? È quello che è successo a me. Solo che nessuno mi ha chiesto quale. E io non ho potuto scegliere. Siamo di nuovo nel bagno di Amber, dove tutto è iniziato e dove tutto potrebbe finire. La mia vita, quella di Paige, di Alex e di Peter. Il tempo si dilata. Non esiste più un prima, così come non esiste ancora un dopo. Esistiamo solo noi. Alex mi guarda senza dire niente. «Non farlo» mormoro, «ricordati.» Ricordati di me. Non lasciarmi. Non lasciarmi andare. Percepisco un lampo nei suoi occhi, qualcosa di inafferrabile. Alex abbassa la pistola. «Cosa stai facendo?» Peter si affaccia alla porta del bagno. «Sparale, cazzo!» Alex punta di nuovo la pistola contro di me, io trattengo il respiro, poi lui si volta di scatto verso Peter e preme il grilletto. Nella vita reale spesso non si ha una seconda occasione, non si può fermare il tempo e riavvolgerlo, si può solo prendere atto di quello che è successo e imparare dai propri errori. Anche i momenti peggiori contengono insegnamenti preziosi, lezioni che ci aiuteranno a crescere, ci renderanno adulti e, forse, migliori. Apro gli occhi. Non sono in camera mia e non è più venerdì. Mi trovo in ospedale ancora intontita dai sedativi che mi hanno somministrato. Mia madre ha gli occhi gonfi e arrossati, capisco che ha pianto. «Sto bene» cerco di rassicurarla. «È finita.» «Oh, tesoro, se solo penso a quello che sarebbe potuto succedere!» mi abbraccia forte. «Alex?» chiedo alla fine di quel lungo abbraccio.


«L’hanno arrestato.» «Mi ha salvato.» «È entrato in quella casa con una pistola. Quattro ragazzi sono morti!» «Avrebbe potuto sparami» mormoro, «ma non l’ha fatto.» Ha cambiato idea. Peter ha ucciso quattro persone quel venerdì e ne ha ferite altre sette. In un certo senso, siamo tutti morti quel giorno. Eppure il mondo fuori non si è fermato. Sto facendo finta di dormire, quando sento qualcuno che bussa alla porta della mia camera. «Avanti.» «Ciao» è il debole saluto di Amber, lo sento appena. «Ciao» rispondo tirandomi su. Credevo che fosse Paige o, meglio, lo speravo. Non ci siamo ancora parlate da venerdì. Ogni tanto controllo il mio cellulare, se la batteria è carica o se c’è segnale. Apparentemente non c’è niente che non va. Nemmeno io l’ho chiamata. Non sono ancora pronta a parlare di quello che è successo, di quello che ha fatto Peter o di quello che ha fatto Alex. «Stai bene?» domando ad Amber. Lei scuote la testa, ha un braccio fasciato, ma non credo sia quello a farle male. «È stata tutta colpa mia» dice a un tratto. «Ho chiesto aiuto a Peter per diffondere le foto di Diane e, in cambio, l’ho invitato alla mia festa.» «Non sapevo che Peter avesse qualcosa a che fare con la diffusione delle foto.» Non me lo sarei mai aspettato da lui. Solo ora mi rendo conto di quanto poco lo conoscessi in realtà. «L’ho invitato solo per gentilezza, non pensavo venisse davvero. Tanto meno che facesse quello che ha fatto» continua Amber. «Diane è morta.» Come al solito non so cosa dire. La sua migliore amica è morta. Il mio migliore amico l’ha uccisa. «L’ho odiata in quest’ultimo periodo. Per la storia di Kevin...» continua Amber. «Se solo potessi parlarle un’ultima volta, le direi che non importa. Non m’importa. Io e Kevin ci saremmo comunque lasciati alla fine dell’estate, ognuno di noi avrebbe continuato la sua vita, in college diversi, in due stati diversi. Diane doveva trasferirsi a New York con me. È stata la mia migliore amica per quattro anni, eravamo come sorelle.» «Lo so.» Mi alzo e l’abbraccio. «E anche Diane lo sa.» «Tu credi nella vita dopo la morte?»


Ci credo? Non lo so. Non so più niente. Non riesco ancora a dare un senso a quello che è successo. Sono sempre stata una persona pragmatica e non c’è niente di logico in tutto questo. «Se potessi...» riprende Amber, «parlare con Peter, cosa gli diresti?» «Gli chiederei perché l’ha fatto.» «Cos’è successo con Alex?» tira su col naso. «Se era d’accordo con Peter, perché gli ha sparato?» Ripenso a quello che è successo in bagno. «Non lo so. È successo tutto... in un istante.» Tutto scorre inesorabilmente, sia le giornate felici e spensierate che i giorni peggiori, quelli in cui ci sembra di annegare sulla terraferma. Tutto passa. Anche il dolore. «Riley... Non pensavo di vederti.» Il carcere ha reso Alex diverso, più adulto. «Sei qui per il Ringraziamento?» Annuisco. «Come va al college? È come te l’aspettavi?» «No» è la prima parola che dico. Ho sempre pensato che la vita vera sarebbe iniziata a Cambridge, che avrei incontrato un ragazzo carino, mi avrebbe chiesto di uscire e mi sarei innamorata. Avrei dimenticato Alex, la mia cotta ai tempi del liceo, e riso di quei ricordi, così lontani nel tempo, davanti a un caffè con Peter e Paige, che sarebbero rimasti i miei migliori amici. Mi sbagliavo. Ora divido un piccolo appartamento con altre due ragazze che non hanno mai sentito nominare la mia cittadina né Peter Lincoln. Paige è andata a vivere a New York con Brian. Ogni tanto ci sentiamo al telefono, ma non è più la stessa cosa. Ogni volta che ci parliamo non possiamo fare a meno di pensare a Peter. La sua assenza, nella nostra amicizia, è qualcosa di tangibile, è il grosso elefante nella stanza che non possiamo fingere di non vedere. Paige vuole dimenticare, vuole andare avanti con la sua vita, la capisco, ma io non ci riesco. Non ancora. È come se fossi ancora bloccata a quel venerdì 18 giugno, come se la mia vita si fosse davvero spezzata quel giorno. Gli psicologi della difesa dicono che Alex soffriva di depressione, si sentiva intrappolato in una vita che non voleva, dove tutto era prestabilito. Non aveva previsto di incontrare Peter però.


Alex lo ha aiutato con la grafica del videogame. Non voleva che si sapesse a scuola, forse si vergognava di essere diventato amico di Peter, o di non essere poi così diverso da lui. Mentre il gioco ispirato al massacro di Colombine prendeva forma, parlavano di come sarebbe stato se l’avessero fatto per davvero. Per tutta la vita mi sono spesso sentita invisibile, incompresa, fuori posto, ma non con Peter. È stato il mio migliore amico per quattro anni e non sapevo chi fosse. Un assassino dalla personalità narcisistica antisociale. Si sentiva superiore ai nostri compagni di scuola, le prese in giro non lo toccavano perché, per lui, erano tutti degli sfigati che non avrebbero combinato mai niente nella vita, mentre lui sarebbe andato ad Harvard come suo padre e suo nonno. «Non era stato ammesso» dice a un tratto Alex. «Lo so.» «Avrebbe potuto iscriversi a qualsiasi altro college.» «Per Peter esisteva solo Harvard, da quando era bambino, era tutto per lui.» Ho visto la scena un milione di volte nella mia testa. Peter che apre la busta sorridendo, sa già cosa conterrà. Poi la doccia fredda. Ci dispiace doverle comunicare che... La sua vita cambia di colpo. Il suo mondo crolla in un istante. La vita è adesso. Non dopo il liceo. Non dopo il college. È in questo momento. Ci sta scorrendo davanti agli occhi. Metto la mia mano sopra quella di Alex. In un’altra vita, forse, tutto sarebbe stato diverso. In questa, abbiamo solo quell’attimo nel bagno di Amber, siamo legati per sempre da quell’istante in cui ci siamo guardati negli occhi e lui ha deciso di abbassare la pistola. E da un bacio che ci siamo dati, oltre il tempo e oltre lo spazio. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni singolo secondo sono importanti. Perché, in un istante, tutta la nostra vita può cambiare.


“The day we died” è una storia nata su THe iNCIPIT.


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