paesaggi & paesaggi 1

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un dialogo tra pittori antichi e fotografi contemporanei


Isabella Lapi

Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia

ISBN 978-88-8431-453-6 Copyright 2011 by Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia e Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia Claudio Grenzi Editore Tutti i diritti riservati.

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Printed in Italy

Claudio Grenzi sas

La Galleria Nazionale della Puglia offre con questa mostra a doppio binario – il paesaggio ‘visto’ con l’occhio del pittore e quello ‘còlto’ con lo sguardo del fotografo – una materia fresca e stimolante che potrà ravvivare la riflessione sui tanti modi con cui la cultura artistica e figurativa in senso lato ha interpretato, e continua a interpretare, il rapporto dell’uomo con l’ambiente che lo circonda. In tal senso la scelta operata dai curatori Fabrizio Vona, Nuccia Barbone Pugliese e Beppe Gernone, di accostare disinvoltamente artisti del passato – compresi tra la seconda metà del Settecento e gli anni Trenta del Novecento – e fotografi contemporanei, induce nel visitatore continui rimbalzi emotivi catalizzandone molteplici chiavi di lettura. Attraverso opere della Galleria, ma anche dipinti generosamente prestati da collezionisti privati, la mostra si dipana muovendo dalle composte vedute di Francesco da Capo e dalle gouaches dedicate al sublime del Vesuvio in eruzione – immancabili nel bagaglio di ritorno di ogni grandtourist – al vedutismo romantico di artisti della Scuola di Posillipo come Giacinto Gigante, Consalvo Carelli, Salvatore Fergola, e il quasi inedito Vincenzo Bove; un paesaggio fondato per lo più su abbozzi e schizzi ripresi dal vero, sia pittorici che grafici, ma ricomposto poi, nella realizzazione del quadro ‘finito’, sempre all’interno dello studio. Dalla esemplificazione di opere improntate a questo metodo operativo, che ha contrassegnato un lungo segmento di produzione artistica almeno fino al terzo quarto dell’Ottocento, il paesaggio in mostra evolve poi con una pittura realizzata stavolta rigorosamente “en plein air”. Ed è il caso, fra gli altri, dei Campriani, Mancini, Casciaro, Pratella, Ricciardi; per non scordare il luminosissimo Damaso Bianchi con i suoi inconfondibili paesaggi pugliesi. Diverso e spesso rivolto ad un paesaggio antropizzato appare lo sguardo dei fotografi presenti in mostra, fra i quali Mario Cresci, Angela Cioce, Gianni Leone: tutti, i quindici in mostra, significanti ed attuali, in questi giorni che vedono il paesaggio così fortemente chiamato in causa, ora a danno ora a sostegno (e perché no, in rari casi anche a gloria) della immagine identitaria ma anche dell’economia di ogni singola regione del nostro paese. Un modo anche questo per ricordare, scorrendo deliziosamente dentro i paesaggi del passato, la vitalità e il valore – tuttora forte e per molti versi eccezionale – del nostro paesaggio di Puglia.

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Fabrizio Vona

Soprintendente per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia

In origine si era pensato a una mostra in cui venissero presentati al pubblico tutti i dipinti di paesaggio delle collezioni della galleria, compresi quelli conservati nei depositi. Poi si è deciso, vista la disponibilità al prestito manifestata da alcuni collezionisti privati, di affiancare ai quadri della Galleria altri, omogenei per ambiti culturali, provenienti da raccolte private, in primis quelli della collezione dei fratelli Devanna. Le riflessioni sul paesaggio necessariamente portano a ragionare di quello contemporaneo e della sua distruzione e del grande problema della sua salvaguardia, e così si è pensato di ampliare lo sguardo e di tentare di porre all’attenzione del pubblico un possibile dialogo tra i dipinti, tutti databili tra la fine del Settecento e gli anni Trenta del Novecento, e una serie di vedute contemporanee, eseguite da fotografi, quindici per l’esattezza; alcuni di essi sono dei grandi maestri il cui valore è riconosciuto e il cui atteggiamento nei confronti del paesaggio ha segnato dei punti fermi dai quali non si può più prescindere, ma tutte le opere fotografiche partecipano della stessa qualità, tutte concorrono a modificare il nostro sguardo, ci suggeriscono angoli di osservazione che trasformano la veduta in racconto. Abbiamo voluto mescolare, nella mostra e nel catalogo, i dipinti e le fotografie, lasciando da parte gerarchie e cronologie; il disegno è quello di suggerire un modo di guardare ai valori formali in cui la pittura antica ci suggerisca possibilità diverse di accostarci al paesaggio contemporaneo e di leggere quelle fotografie. Esse potranno mostrarci come ogni immagine viva, oggi come nel passato, di struttura, di movimento, di massa, di linea e di chiaroscuro, di luci e di ombre così come è sempre stato nella storia delle arti visive. Ma, come sempre deve fare una Soprintendenza che si occupa principalmente di arte antica, nulla manca del necessario rigore di studio, per quel che riguarda i dipinti antichi. Alla fine del catalogo sono presenti accuratissime schede che fanno il punto sui dipinti e che spesso -molti dei dipinti erano del tutto inediti- ne rintracciano l’autore. L’invito che vorremmo rivolgere al visitatore è quello di abbandonarsi alla fruizione di dipinti e fotografie con occhi sgombri da preconcetti, nel tentativo di scovare nodi e analogie, come se le opere, tutte le opere, vivessero in un “eterno presente”.

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Paesaggi & Paesaggi Fabrizio Vona

In questa mostra il visitatore troverà affiancati paesaggi antichi e paesaggi contemporanei. I dipinti sono quelli che fanno parte delle collezioni permanenti della Galleria Nazionale della Puglia ai quali si accompagnano alcune vedute prestate per l’occasione e provenienti dalla collezione dei fratelli Devanna, oltre che da altre raccolte private. Le fotografie che ai dipinti si alternano sono opera di 15 artisti che hanno voluto interpretare l’antico concetto di “veduta”, in declinazioni diverse e in un senso esteso, ma che necessariamente a quell’antico concetto fanno riferimento, volta a volta, per aderire ad esso o per contraddirlo.

Un castello in riva al lago 1340 circa

Siena, Pinacoteca Nazionale

Veduta di città sul mare 1340 circa

Siena, Pinacoteca Nazionale

Non esiste idea, si potrebbe dire, più radicata nell’opinione comune quanto quella di paesaggio, eppure non esiste pensiero più sfuggente, o almeno più “culturale” di esso. Il concetto di paesaggio nasce dall’idea che del “paese” elaborarono gli artisti, nasce dalla stessa idea di natura. La pittura romana ci ha consegnato vedute di paesaggio di raffinata sintesi compendiaria. Ma, notava già Panofskj, “il mondo dell’arte antica, fintanto che essa rinuncia a riprodurre lo spazio tra i corpi, risulta più saldo e armonico di quello moderno, mentre appena l’arte antica introduce nella raffigurazione anche lo spazio (e quindi specialmente nella pittura di paesaggio) questo spazio diventa irreale, contraddittorio, trasognato e chimerico” 1. L’assenza di un punto di fuga univoco e centralizzante ci porta alla considerazione che l’antichità classica raffigura il paese, ma non lo spazio. Episodiche raffigurazioni di paesaggio trecentesche, le notissime di Ambrogio Lorenzetti, non soltanto Gli effetti del Buon Governo, ma anche i due frammenti conservati nella Pinacoteca Nazionale di Siena, Il castello in riva al lago e La città sul mare, che si tende ora, peraltro, ad assegnare ad altro anonimo artista, non ebbero seguito nella pittura, e non soltanto in quella italiana, fino al secolo successivo. L’invenzione del paesaggio è quattrocentesca ed è nordica; sebbene una sorta di nuovo sentimento della natura fosse già apparso in quegli

ambiti con le pagine miniate delle Très riches heures du duc de Berry agli inizi del secolo XV, è solo più avanti nel tempo che compare il paesaggio con una propria quasi completa dignità. Si tende a ritenere che la nascita del paesaggio occidentale sia da identificare con la comparsa della veduta naturale racchiusa in una finestra all’interno di una scena generalmente sacra. Così, nella Madonna del parafuoco, conservata nella National Gallery di Londra e databile intorno al 1430, di Robert Campin, la cui personalità si tende oggi a sovrapporre a quella del cosiddetto Maestro di Flémalle, la nuova corposità della pittura dovuta all’uso di una tecnica mista con olio siccativo, l’evidenza scultorea del gruppo della Vergine col Bambino raggiunta con l’utilizzo del monocromo, la costruzione della scena secondo i dettami dello spazio prospettico italiano, pur con le incertezze di un pavimento che si impenna incongruamente e che determina un punto di fuga vertiginosamente più alto di quello che avrebbe previsto il cubo prospettico, sono i necessari corollari di modernità che accompagnano la veduta della città irta di tetti inquadrata dalla finestra.

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dettagli in diversi apocrifi, sembrerebbe rappresentato solo per permettere al pittore la rappresentazione del vasto paesaggio ideale circostante. È vero che già Dürer aveva anticipato l’estetica del pittoresco e del sublime e ci aveva lasciato una serie di piccole gouaches con le vedute della Val d’Arco, di Innsbruck, delle montagne della Svizzera, tutte opere che nella piccola dimensione ci consegnano il sentimento di una natura forte, grandiosa; si potrebbe dire che qui Dürer precorra la veduta romantica, ma l’autonomia di questi paesaggi non impedisce poi all’artista di escludere la sua sensibilità “protoromantica” dalle sue opere monumentali: l’ufficialità delle grandi pale d’altare non può trovare sintonia in una concezione del paesaggio che dovremo considerare strettamente “privata”. Sarà Kant a spiegarci il nuovo sentimento della natura nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime 3: per apprezzare vette innevate le cui cime spuntino dalle nuvole, o lo spettacolo di un uragano avremo bisogno di conoscere il sentimento del “sublime”, mentre la visione di un prato coperto di fiori, traversato da ruscelli, in cui pascolino le greggi richiederà il sentimento del “bello”. Le teorie di Kant presuppongono uno scarto dalle regole di ogni possibile declinazione del classicismo che si era affermato fin dalla fine del secolo XVII con la riedizione, in età moderna, del trattato anonimo Sul sublime, databile al I secolo ed un tempo ritenuto opera del cosiddetto Pseudo-Longino. Non è casuale che proprio la natura nella sua versione più scevra dall’idea della campagna, cioè della natura addomesticata, resa produttiva dall’uomo, quella delle montagne scoscese e dei ghiacciai sia da collocare agli inizi del sentimento del sublime; eppure, ed è ancora Alain Roger a rammentarcelo, la pittura di paesaggio trae ispirazione dalla montagna e coniuga, tra gli ultimissimi anni del Settecento ed addentrandosi ben dentro il nuovo secolo, il fascino dei paesaggi orridi e sublimi, con un sentimento ed una curiosità geologica che da un lato sono indicativi di un nuovo interesse scientifico, dall’altro testimoniano dell’influenza di Goethe e dei suoi interessi per le scienze della terra. Carl-Gustave Carus, grande amico di Goethe, col quale condivideva la passione per la geologia e per la nascente vulcanologia, raccomandava ai giovani pittori

Robert Campin

Madonna del parafuoco 1430 circa

Londra, National Gallery

Osserva Alain Roger 2 che la finestra è l’artificio che permette all’esterno di entrare all’interno del quadro. La finestra è la cornice. Del resto, un paesaggio è tale se è racchiuso in una cornice; potremmo anzi dire che non esiste paesaggio senza cornice, poiché è la cornice che isola il frammento di “paese” e lo trasforma così in “paesaggio”. Ma l’invenzione dei pittori fiamminghi, non portò certamente a un sentimento del paesaggio che comparirà soltanto qualche secolo più tardi. Lo stesso spazio della pittura italiana del Quattrocento si pone come negazione di ogni possibile sentimento della natura, se consideriamo che il cubo prospettico è un luogo geometrico che trae la sua ragion d’essere dalla ricerca di astrazione speculativa piuttosto che dall’osservazione della realtà. Bisognerà attendere il secolo XVIII, ben dopo dunque l’idealizzazzione classica del paesaggio operata da Annibale Carracci e poi da Poussin e da Claude Lorrain, perché il sentimento della natura approdi alle complementari categorie del pittoresco e del sublime e venga dunque compiuta la definitiva metamorfosi dall’idea di natura “utilitaristica” a quella della natura portatrice di una bellezza che prescinde da ogni necessità pratica. E dunque soltanto nel Settecento si delinea un sentimento autonomo del paesaggio che non ha bisogno del pretesto di una scena ambientata al suo interno per poter giustificare la sua stessa esistenza, come, nel secolo precedente, avveniva in opere come la “Fuga in Egitto”, una delle lunette Aldobrandini, eseguite nel 1604 da Annibale Carracci e conservate nella Galleria Doria Pamphilj, in cui l’episodio narrato nel Vangelo di Matteo, e con più

Annibale Carracci

Fuga in Egitto 1604

Roma, Galleria Doria Pamphilj

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indissolubile con la pittura, la fotografia si pone non come una novità, ma come “miglioramento tecnologico di un bene già esistente: il quadro” 8. E fin dall’inizio, nell’assumere come modello la pittura, la fotografia di paesaggio si fa documento di una realtà ancora lontana da tutte le trasformazioni e le distruzioni che di fatto impediscono a noi “moderni” di avere una percezione della natura che possa coincidere con l’idea di “bello naturale”. Robert Adams confessa tutto il suo sconforto nel vedere rovinati paesaggi un tempo incontaminati e nel constatare la fragilità della bellezza del mondo naturale 9. Per noi europei lo sconforto può essere anche quello di avere difficoltà a riconoscere un tessuto storico in cui sembrerebbe non avere titolo ad esistere nessun segno contemporaneo. Guardare un paesaggio alla maniera dei pittori paesaggisti del passato significa racchiuderlo idealmente in una cornice; nel caso di un paesaggio contemporaneo, il fotografo che si limiti a descrivere una porzione di territorio tenderà ad escludere da esso ciò che ne alteri l’armonia. Una veduta di città storica così non sarà sporcata dall’automobile parcheggiata in primo piano; un monumento antico verrà inquadrato escludendo dal campo visivo il palo della luce, e così via. In un processo di astrazione visiva quel fotografo tenderà, così come facevano i pittori antichi a rappresentare alla mente soltanto ciò che in esso c’è di armonioso, mentre escluderà mentalmente dal suo campo visivo quello che confligge con quell’ordine mentale. Ma la fotografia di paesaggio non può esimersi dal racconto della “realtà” nella sua interezza, con tutti gli irti distinguo sottintesi a questo termine “difficile”.

Albrecht Dürer

Veduta di Arco 1495

Parigi, Louvre

Albrecht Dürer

Innsbruck von Norden 1496

Vienna, Albertina

di porre attenzione alla disposizione degli strati geologici, alla struttura interna della montagna e a quanto di essa si manifestasse alla superficie; in sostanza Carus intendeva che la verità geologica delle vedute di montagna non dovesse essere posta in second’ordine rispetto a quanto vi era di pittoresco o di sublime da vedersi in quelle stesse montagne 4.

Alle sue origini la fotografia, si diceva, imita la pittura. L’invasione di campo delle prerogative della pittura da parte della fotografia è riscontrabile infatti fin dalle epoche dell’impressionismo e del post-impressionismo: i pittori si ispireranno alla fotografia, anche i più grandi, Degas, Toulouse-Lautrec, Utrillo, Gauguin dipingono talvolta da fotografie. Dunque all’originaria imitazione della pittura da parte della fotografia sembrerebbe sostituirsi il caso contrario; in origine la fotografia porta alle estreme conseguenze quanto era insito nella pittura dal momento in cui la prospettiva centrale brunelleschiana e albertiana aveva tratto lo spazio rappresentato dal dominio dell’incertezza a quello della dimensione “misurabile”. La fotografia, nella sua qualità di “pennello tecnologico” prosegue il cammino piano della pittura, che dal Quattrocento in poi aveva misurato lo spazio dell’esperienza secondo il canone di riferimento sempre uguale a se stesso. Ma, ci ricorda Heinrich Schwartz, “l’anno in cui fu inventata la fotografia, il 1839, fu anche l’anno di nascita di Cézanne” 10 e con lui la pittura distruggerà lo spazio, la fotografia sarà costretta, nella distruzione del suo modello, a trovare una sua strada.

È stato scritto dal fotografo Robert Adams che le immagini di paesaggio possono presentarci tre verità: la verità geografica, quella autobiografica e quella metaforica, e alla luce di questa affermazione sembrerebbe dipanarsi la storia della fotografia di paesaggio che volta a volta, nel corso del tempo, ha documentato la topografia dei luoghi, ovvero ci ha parlato degli esecutori di quelle immagini, o, ancora, si è caricata di significati simbolici 5. La fotografia, alle sue origini, imita la pittura; ma questo avverrà ancora in altre epoche della storia, si veda ad esempio quanto, agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, rilevava Umberto Eco 6: “Il fotografo colto e sensibile, attento alle tendenze stilistiche della pittura contemporanea, gira per la strada e individua accadimenti materici di indubbia suggestività” e dunque riprende con il suo obiettivo “macchie, graffiti, tessiture materiche, colate, graffi…”. In poche parole, il fotografo si adegua alla pittura informale 7. Sembrerebbe di cogliere, nelle parole di Eco, null’altro che un aggiornamento della considerazione che agli inizi della fotografia si aveva di essa: ai suoi albori, ecco ancora il legame

A conclusione di tutto, nella vertigine delle reciproche imitazioni tra pittura e fotografia, rileggiamo una parte del dialogo

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tra Vivian e Cyril nella Decadenza della Menzogna di Oscar Wilde, quella in cui viene precisato il notissimo paradosso che recita “la vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imita la vita”:

L’accostamento tra i dipinti antichi e le fotografie contemporanee ci mostra che i paesaggi rappresentati, negli uni e nelle altre, vivono degli stessi rapporti formali. I nostri fotografi tengono a mente il valore della “forma” in una visione che prescinde, nella maggior parte dei casi, da formalismi di ogni segno, stimolano la nostra capacità di osservazione, frantumano la nostra stessa idea di paesaggio, attraverso un guizzo che ci mostra la realtà rappresentata straniandoci da essa, guidandoci verso la possibilità dello scarto dalla pigrizia dello sguardo distratto che vede senza saper più guardare.

Da chi, se non dagli impressionisti, abbiamo quelle meravigliose nebbie scure che scendono giù per le nostre strade, offuscando i lampioni a gas e cambiando le case in ombre mostruose? A chi, se non a loro e al loro maestro, dobbiamo le graziose nebbie argentee che indugiano sul nostro fiume, e si mutano in lievi forme di grazia appassita, curvo ponte e oscillante battello? Lo straordinario mutamento che ha avuto luogo nel clima di Londra durante gli ultimi dieci anni è dovuto in tutto e per tutto a una scuola d’arte particolare. 11 Così come gli impressionisti e il “loro maestro”, Turner, ci avevano insegnato a guardare la nebbia, i fotografi ci mostrano la realtà contemporanea e ci aiutano a leggerla oltre l’idea di bello naturale, in un rapporto dinamico che da descrizione diviene racconto. “Racconto d’osservazione” diremmo, parafrasando Gianni Celati che in quello straordinario, irripetibile esperimento di viaggio compiuto in parallelo con Luigi Ghirri e con altri fotografi negli anni Ottanta del secolo scorso lungo le rive del Po e “verso la foce”, ci invita ad andare “alla deriva” nella nostra osservazione del mondo abbandonando i “codici familiari” per diventare “meno apatici”, meno “separati da noi stessi” 12.

1 -  E. Panofsky, Die Perspective als “simbolische Form” in Bibliothek Warburg Vorträge, Leipzig-Berlin 1927. Trad. it. La prospettiva come forma simbolica Milano 1961, p. 52. 2 -  A. Roger, Court traité du paysage, Paris 1997; Traduzione italiana Breve trattato sul paesaggio Palermo 2009, p. 58. 3 -  Apparso nel 1764. Traduzione italiana consultata Milano 2002. 4 -  A. Roger, op. cit., pp. 73-75. 5 -  R. Adams, Beauty in Photography. Essays in Defense of Traditional Values, New York 1981, traduzione italiana La bellezza in fotografia, Torino 1995, p. 8. 6 -  U. Eco, Di foto fatte sui muri in “Il Verri” n. 4, 1961, p. 93. 7 -  Si veda per queste questioni Claudio Marra Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento”, Milano 1999, p. 127; più avanti, p. 130, Marra nota che Eco sembrerebbe considerare la macchina fotografica come “una sorta di pennello tecnologicamente aggiornato”. 8 -  D. Palazzoli, Combattimento per un’immagine, Catalogo della mostra, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino 1973, s.i.p. 9 -  R. Adams, op. cit., pp. 7-12. Ma Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento” Milano 1999, p.116, trova che la ripresa del “bello fotografico” operata da Adams negli anni Ottanta è anacronistica, in quanto si rifà al pittoricismo fotografico degli anni Trenta. 10 -  H. Schwartz, Arte e fotografia ed. originaria Chicago 1985, trad it Torino 1992. 11 -  Oscar Wilde, The Decay of Lying - An observation in “The Nineteenth Century”, 1889, poi ripubblicato in Intentions 1891. trad. it La decadenza della menzogna in “I capolavori di Oscar Wilde” Milano 1992, p. 228. 12 -  G. Celati, Verso la foce, Milano 1989, pp. 9-10.

J. William Turner

Pioggia, vapore, velocità 1844

Londra, National Gallery

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Gli autori e le opere antiche in mostra Nucccia Barbone Pugliese

È stata raccolta in questo catalogo, che correda la mostra, la documentazione relativa a opere eseguite da artisti italiani, prevalentemente napoletani, dalla seconda metà del Settecento agli anni Trenta del Novecento. I dipinti esposti, provenienti parte dalla collezione della Galleria Nazionale della Puglia, parte dal collezionismo privato, sono stati subordinati ad una scelta critica che ha voluto tener conto dello sviluppo del paesaggismo partenopeo nel periodo indicato. Apre il catalogo una rara gouache firmata da Pietro Fabris, ispirata all’incisione di analogo soggetto inserita nel volume Raccolta di vari vestimenti ed Arti del Regno di Napoli che il pittore dedicò a Sir William Hamilton nel 1773. Fabris è tra i grandi paesaggisti europei del secondo Settecento, ma ancora misteriosa è la sua figura. Egli si dichiara inglese in alcuni lavori datati successivamente alle esposizioni tenutesi a Londra di suoi disegni e vedute di Napoli e nella dedica a Sir Hamilton inserita nella Raccolta di vari vestimenti ed Arti – ma Carlo Knight ha osservato che il cognome è indubbiamente veneto 1. La sua attività si svolse prevalentemente a Napoli, come attestano i numerosi dipinti, gouaches, disegni, incisioni, che rispondevano al gusto di quella committenza aristocratica, colta e raffinata, dedita a metà del Settecento al tradizionale viaggio di istruzione in Italia. Si era formato nel clima moderatamente classicista dell’ambiente pittorico napoletano del secondo Settecento, come suggeriscono il San Francesco d’Assisi e il Sant’Antonio di Padova, firmati, nella chiesa di Santa Chiara a Bari, databili agli anni Sessanta, prossimi ai modi di Celebrano e di Fischetti 2. Fabris si affermò quale autore di vedute, illustratore fine di episodi della vita di corte, della realtà quotidiana che ha come protagonista il popolo napoletano, osservato con umorismo, secondo i caratteri della pittura di genere di Nicola Maria Rossi, di Giuseppe Bonito e di Filippo Falciatore. Fabris fu l’artefice dell’introduzione e della diffusione a Napoli della tecnica della gouache, tecnica che aveva appreso a Londra, dove l’incisore Paul Sandby (1730-1809) il quale, insieme al fratello e a Archibald Robertson tra il 1777 e il 1782 tradusse in stampe alcuni paesaggi del regno delle

Due Sicilie del Fabris per il volume Twenty Views of Naples and its environs -, era considerato il migliore pittore di gouache. Tale tecnica era stata introdotta in Inghilterra dal pittore bellunese Marco Ricci (1676-1729) che, giunto a Londra nel 1710, aveva realizzato una vasta produzione di piccoli paesaggi a gouache su pelle di capretto 3 Come osserva lo stesso Knight, Fabris, tuttavia, doveva conoscere le due gouaches di Marco Ricci che sir Hamilton esponeva nel “salotto verde” della sua dimora napoletana 4. Spinosa ha sottolineato che nella produzione collocabile entro la metà degli anni Settanta Fabris mostra “segni precisi di una lucida percezione del paesaggio napoletano nei suoi aspetti più concreti e oggettivi, accompagnando gli inserti sempre più frequenti e articolati di episodi di vita popolare con annotazioni personalissime e colte sulle qualità profondamente umane e vere degli usi e delle abitudini tradizionali della gente del golfo” 5 Nel 1776 Hamilton, il quale possedeva ben 32 opere di Fabris 6 commissionò all’artista il corredo illustrativo della celebre opera Campi Phlegrei, editi a Napoli nel 1776. Nella serie di vedute a la gouache, splendide per il taglio prospettico ampio e originale, il risultato, per la “resa fortemente suggestiva delle atmosfere colorate e della natura dei luoghi, nel felice combinarsi di curiosità scientifiche, emozioni visive e colte memorie storiche è così rilevante […] da collocare l’autore tra i grandi paesaggisti europei del secondo Settecento, in un momento già inclinante verso la nuova e più intensa stagione del pittoresco e del sublime 7. Con Napoli ebbe contatti, nell’ultimo quarto del Settecento, Francesco Da Capo (documentato a Roma dal 1775 al 1804), di cui si presentano in mostra tre inediti disegni a seppia acquerellati. È figura poco nota, della quale disponiamo solo di esigui dati biografici rinvenienti dalle fonti che riguardano il pittore genovese Giuseppe Bacigalupo (Pian dei Preti, 1744Genova, 1821) e dalle date apposte sulle stampe che Giuseppe Cunego (Verona, 1760-post 1784) e Domenico Baldini (Vicenza, documentato dal 1790 al 1830 ca.) trassero dalle sue opere. Originario di Lecce, come peraltro sembrerebbe

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in parola fa riferimento più volte e in tutti i casi in relazione a dipinti con scene di battaglia. Ritengo, a questo punto, che il Francesco di Capua o da Capua indicato nella trascrizione del documento del 1807 altri non è che Francesco Da Capo. Il linguaggio che il Da Capo rivela nelle belle prove grafiche che si espongono affonda le radici nel paesaggio classicista di primo Seicento basato sulla lezione di Annibale Carracci, del Domenichino, di Nicolas Poussin, di Claude Lorrain e di Gaspard Dughet, implementato dalla suggestione del paesismo di Jan Frans van Bloemen. Basati su una diretta frequentazione della campagna romana, questi paesaggi animati da pochi personaggi, figure familiari ma fuori dal tempo, spiccano per il soffuso luminismo e per il trattamento della vegetazione analitico ma arioso quasi a suggerire lo stormire leggero del vento. Di Gabriele Smargiassi, al quale un grosso contributo conoscitivo è venuto dalla mostra di Francavilla a Mare curata anni orsono da Luisa Martorelli 17, si espone Paesaggio di Cava dei Tirreni (Valle di Bonea),un olio su carta incollata su tela, firmato, segnalato fuggevolmente per la prima volta con il titolo Studio di cascata 18. Esso riprende invece, fedelmente, gli aspetti naturali del vallone di Bonea, quella località selvaggia nei pressi di Cava dei Tirreni, particolarmente amata e ripresa dai pittori della Scuola di Posillipo. Il carattere di studio dal vero di questo suggestivo brano di natura emerge nell’estrema scioltezza pittorica e compositiva da cui sono banditi rigori e schematismi accademici, segnalandosi per l’attenta resa della materia cromatica della natura osservata all’aperto; caratteri questi, molto apprezzati nell’opera di Smargiassi dalla Lorenzetti, la quale sottolineava la grande libertà pittorica di siffatti studi en plain air “nei quali più vigorosa è la materia pittorica, più ricca di impasti” 19. Pure firmato da Smargiassi è Paesaggio montano, una rielaborazione eseguita in atelier di studi e appunti realizzati dal vero durante le escursioni che l’artista era solito compiere in Abruzzo, sua terra d’origine, a Campobasso, nei boschi di Caserta e a Cava dei Tirreni. La produzione di Salvatore Fergola è di grande interesse documentaristico ai fini della ricostruzione della vita della corte napoletana nella prima metà del XIX secolo per la grande attenzione che l’artista dedica ai dettagli e per la precisione con cui riproduce gli apparati effimeri; “ tipica espressione di una pittura tradizionalista, ufficiale celebrativa - lungo l’arco che da Hackert ed Antonio Veronese passava per Paolo de Albertis ‘il Doganiere Napoletano’ fino ad Agnello d’Alojsio -: feste, inaugurazioni, cacce, prime pietre, manovre con e senza i Reali, e sempre entro amplissime aperture paesistiche, sostanzialmente frigide, e solo qualche volta toccate da note più commosse di luce e d’aria.” 20. Il dipinto in mostra, La cascata, è un’inedita redazione autografa, su tela, dalle dimensioni pressoché identiche, del noto dipinto conservato nel Museo di San Martino a Napoli, che, oltre alla firma di Salvatore Fergola in basso a destra, reca anche, come mi fa notare Vincenzo Pugliese, la data 18 agosto 1838. In quest’opera, come

sottolineare il suo stesso nome - egli, però, non è registrato nel manoscritto di Amilcare Foscarini (1858-1936) 8. Francesco Da Capo fu pittore paesaggista e disegnatore; la sua attività si svolse nella seconda metà del Settecento a Napoli e a Roma. A Roma nel 1775 strinse amicizia con il Bacigalupo 9 insieme al quale si dedicò allo studio di paesaggio e veduta en plain air, nella campagna romana 10. Il sodalizio tra i due comportò anche il soggiorno di sette mesi compiuto insieme nel 1778 a Napoli, dove il Da Capo “v’andava per sue bisogne” 11. Prima del viaggio a Napoli Francesco Da Capo aveva collaborato, fornendo sei vedute, alla Pianta delle Paludi Pontine eseguita per ordine di Pio VI, composta da quattro incisioni e corredata da ventiquattro vedute incise da Carlo Antonini, incisore della Calcografia Camerale, su disegni di Gaetano Astolfi per le tavole cartografiche e di Francesco Da Capo per le vedute 12. I tre inediti disegni a seppia acquerellati provengono tutti da una collezione privata bolognese; il primo dei due, inoltre, con la sua data 1804, consente di ampliare la cronologia sinora nota relativa al misterioso pittore. Il Paesaggio con sei figure e un cavaliere, di maggiori dimensioni rispetto agli altri due disegni, presenta sul retro la sigla “G. M. R.” che riteniamo si riferisca al nome del collezionista a cui apparteneva l’opera insieme agli altri due disegni; tale collezionista proponiamo di identificare nel marchese Giuseppe Rondinini (Roma, 1725Castel Bolognese,1801), proprietario della specialissima collezione ubicata nell’omonimo palazzo che egli stesso fece costruire in via del Corso a Roma dall’architetto Alessandro Dori, e che costituiva un eclatante esempio di dimora nobiliare eretta col precipuo intento di “confondere, nel senso letterale del termine, museografia e architettura” 13. Dalla collezione Rondinini, com’è noto, provengono la Medusa Rondanini, copia romana di prima età imperiale da un originale bronzeo greco del V secolo a. C., acquistata nel 1811 dal Principe ereditario Ludwig di Baviera per la Gliptoteca di Monaco (inv. 252; 14, e la Pietà Rondanini, ultima opera di Michelangelo passata solo nel 1952 dai conti Sanseverino-Vimercati - dal 1904 al 1946 proprietari del palazzo Rondinini a Roma, Via del Corso -, al Comune di Milano e collocato nel Castello Sforzesco. Giuseppe Rondinini non ricoprì, a differenza dei suoi antenati, remunerative cariche pubbliche ma visse di rendita, che era così ingente da consentirgli di acquistare quadri e antichità; manifestando l’ambizioso orgoglio del collezionista Giuseppe fece incidere sulle basi di numerose statue, bassorilievi e busti del palazzo la sigla “G.M.R.” = Giuseppe Marchese Rondinini 15. Dopo la morte della moglie, da cui non aveva avuto eredi, e a seguito degli eventi che videro trionfare a Roma la Repubblica, Giuseppe per sfuggire al pericolo si ritirò definitivamente in Emilia, -da cui proveniva ab antiquo la sua famiglia-, a Castel Bolognese, dove morì nel 1801. Nella “nota de quadri dell’eredità Rondinini” redatta nel 1807 16, ricorre spesso per numerosi dipinti tutti paesaggi e vedute, il nome di Francesco di Capua o da Capua che il Paribeni interpreta come Francesco Graziani. Ma va osservato che a questo artista l’inventario

Francesco Da Capo

Paesaggio con sette figure e un cavaliere (part.)

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Collezione privata Devanna

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della tradizione del paesismo napoletano. Un rinnovamento che avvenne “più che sul ceppo della tradizione accademica, nel nuovo spirito della visione romantica e del senso poetico della natura, al quale si mostravano particolarmente aperti e sensibili i vedutisti nordici: l’olandese Anton van Pitloo […] che capitò a Napoli, nel 1816, e vi rimase […]. Come il conterraneo Van Wittel, un secolo prima, e come il belga Vervloet pochi anni dopo, il Pitloo recava dal settentrione il senso di una libertà espressiva, che di fronte alla natura si poneva con l’eccitante stimolo della scoperta. E questa era la nuova tendenza europea. La Scuola di Posillipo la raccolse, per merito del Pitloo, e con la pittura all’aria aperta creava, da noi, le premesse del paesaggio moderno. […]. Ben presto, per vigore di temperamento e splendore di vena poetica, lo superò Giacinto Gigante, il vero protagonista della Scuola di Posillipo e, possiamo dire, uno dei maggiori del nostro Ottocento” 28. Di Gigante è presente in mostra un inedito foglio, firmato e datato nel 1859, a cui il grande artista partenopeo ha affidato quattro “appunti” dal vero, privi di annotazioni, dove accosta brani di natura a due vedute del paesaggio campano. In queste ultime, mentre delinea sinteticamente il panorama generale, focalizza un particolare elemento architettonico di spicco che, nel caso del palazzo a due ordini di finestre con l’annessa torre quadrangolare, si può identificare con il Palazzo del vicerè Pedro Alvarez de Toledo a Pozzuoli, desunto da un lucido giovanile, con il quale, presumibilmente, l’artista ha dato avvio alle immagini, esito delle costanti perlustrazioni da lui condotte alla ricerca di scorci di paesaggio puro, nonché testimonianza della sua incontrastata abilità nel padroneggiare i mezzi tecnici ed espressivi, tesi a potenziare il “primitivo impegno vedutistico sul piano di cadenze liriche sempre più libere ed ardite” 29, sempre più prossime, nella ricerca dei valori atmosferici di luce e colore, alla cultura romantica di ascendenza turneriana. Qualche decennio più tardi la ripresa del paesaggismo napoletano spettò alla “repubblica di Portici” o Scuola di Resina, e fu contraddistinta dapprima dall’incontro tra i suoi promotori, Marco De Gregorio Federico Rossano e Giuseppe De Nittis, con i “macchiaioli” toscani, di cui si fece portavoce Adriano Cecioni, quindi, col passaggio di De Nittis e di Rossano a Parigi, con l’impressionismo francese. Artista di grande levatura, Giuseppe De Nittis emerge sui compagni di strada, mantenendo incontaminata nel vorticoso successo mondano la congenita sensibilità del colore. Al soggiorno italiano (1870-1873) imposto all’artista dalla guerra franco prussiana, nel clima di un rinnovato contatto con le fonti ispiratrici che portò De Nittis, “con più acquisita maestria e un occhio altrettanto lucido ma più addestrato a vedere di là della facciata” 30, ad affrontare nuovamente i temi della Scuola di Resina, possono riferirsi i due inediti studi, La Solfatara, che spicca per la “resa finita attraverso un toccare abbreviato, rapido, d’impasto, restando nelle dimensioni del bozzetto” 31, e Impressione del Vesuvio, da annoverarsi

nella redazione autografa in mostra, Fergola riunisce gli elementi che conferiscono al suo paesaggio un carattere di sublime grandezza; il ricordo hackertiano, sulla scorta della lezione paterna, affiora nell’inquadratura “a volo d’uccello”, nell’insistenza sugli elementi vegetali, dove tuttavia non è applicata la meticolosità botanica del celebre paesaggista tedesco, e nella pacata luminosità. Dello stesso Fergola è il dipinto a tempera su carta, firmato e proveniente dalla raccolta Casciaro, che illustra un paesaggio della valle di Bonea, nei pressi di Cava dei Tirreni 21, la mitica località, coinvolta nei transiti legati alla secolare tradizione del viaggio in Italia, “in cui si specchiano, nel corso dell’Ottocento, momenti e figure essenziali della tradizione pittorica partenopea” 22. Un disegno a matita del Fergola datato 1825, segnalato in una raccolta privata a Cava dei Tirreni 23, costituisce uno studio collegato al dipinto esposto. La composizione, di grande successo, fu proposta in un dipinto ad olio su tela firmato da Francesco Fergola, figlio di Salvatore 24. Allievo del Fergola fu il bitontino Vincenzo Bove, del quale, per la prima volta si espongono tre opere, Napoli dallo Scudillo, Viaggiatori a Montecassino in difficoltà per la neve e Veduta di Montecassino. Personalità sconosciuta alla bibliografia artistica, Vincenzo Bove (Bitonto, 1808? - Montecassino, 1889) non fece della pittura l’interesse fondamentale della sua vita, ma la coltivò a livello dilettantistico, per la sua naturale propensione per le arti, giovandosi dell’educazione ricevuta come rampollo di un nobile casato e, pare, dell’insegnamento di Salvatore Fergola 25. Vincenzo, come figlio cadetto, abbracciò la carriera ecclesiastica. Giunse da Bitonto a Montecassino nel 1820 presso lo zio Luigi, abate del monastero benedettino dal 1821 al 1828. Nominato professo nel 1830, Vincenzo fu organista e maestro di cerimonia dei novizi e coltivò anche la pittura. Ordinato sacerdote dallo zio subito dopo che questi fu consacrato vescovo di Melfi e Rapolla nel 1829, Vincenzo fu priore a Subiaco e a Santaseverina. Nel 1868 fece ritorno a Montecassino per una grave malattia e gli fu conferita la nomina di abate titolare del monastero di San Matteo de Castello o Servorum Dei, ubicato nei pressi di Montecassino, dove morì nel 1889 26. L’esame delle opere di Vincenzo Bove presentate in mostra conferma l’apprendimento della lezione di Fergola da parte del padre benedettino: Napoli dallo Scudillo in cui è raffigurata la zona collinare di Napoli così denominata e situata nei pressi della Conocchia, il mausoleo d’età romana impunemente divorato dalla speculazione edilizia agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, è un paesaggio di composizione, probabilmente ispirato al dipinto di analogo soggetto del Salvatore Fergola (1818; Napoli, Palazzo Reale), esempio di derivazione dal paysage classique settecentesco secondo l’interpretazione offertane da Hakert, o da altre opere dello stesso maestro come Strada di campagna con figure 27. Giacinto Gigante è il grande protagonista insieme a Anton Sminck Pitloo, del rinnovamento agli inizi dell’Ottocento

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sino alle soglie degli anni Cinquanta, Attilio Pratella, di cui si espongono Barche nel Golfo di Pozzuoli e Giornata d’autunno a Capri, e Giuseppe Casciaro, presente con due rari oli, Processione a maggio e Casolare di montagna con covoni.

tout court nella pregevole serie di studi dedicati dal pittore barlettano al vulcano, in cui il glabro paesaggio vesuviano è osservato con un taglio particolarmente audace “che privilegia l’estensione del colore in superficie, spaccata da un triangolo prospettico che sembra ribaltare e contraddire i canoni tradizionali” 32. Due paesaggi di Rossano, Paesaggio e Campagna, raffinate dilatazioni atmosferiche, illustrano la costante aspirazione di poesia coltivata a lungo dal pittore. L’inedito disegno del “macchiaiolo” Raffaello Sernesi da“ la riprova che nei primi anni della pittura di macchia, fra il ’59 e il ’61 Sernesi, pur con tutte le sue limitazioni di disegno, era all’avanguardia nella resa della luce e delle ariose atmosfere” e la debolezza di disegno “poteva tuttavia trasformarsi in qualità positiva nella battaglia antiaccademica e nello sforzo di risolvere con gli effetti sintetici di luce e di ombre le vedute di paesaggio”. 33 Alla fase giovanile dell’attività di Francesco Netti, segnata dall’impegno di opere destinate alle mostre ufficiali, attraverso le quali il pittore cerca di affermarsi sulla scena artistica napoletana e nazionale all’indomani dell’unità italiana, risale Il traino, firmato e datato 1860. Esso rivela il precoce interesse dell’artista per i soggetti e le scene campestri del paesaggio pugliese, a cui egli rivolse una speciale attenzione dopo il soggiorno francese, focalizzando le sue scelte sui motivi suggeriti dagli ambienti e dalle proprietà della famiglia. È stato osservato che il paesaggio diventa il motivo conduttore della pittura napoletana dell’Ottocento, “certo è quello che meglio asseconda la prima e più naturale inclinazione naturalistica” 34. L’Acquaiolo di Gaetano Esposito è un autentico capolavoro in cui gli influssi coloristici del Fortuny si saldano al personale orientamento stilistico, affascinato dalla lezione dei maestri napoletani del Seicento - Stanzione e Cavallino, in particolare - e teso alla ricerca di spontaneità e di naturalezza. Databile ai maturi anni Settanta, prima dell’esperienza in Africa, il Bosco di Michele Cammarano è un brano di paesaggio robusto e sintetico scaturito dall’osservazione dal vero e non predisposto in studio, come era solito procedere Cammarano per le composizioni di tema storico. Paesaggio con torre attesta l’acuta sensibilità con la quale Ulisse Caputo, un “italiano di Parigi” 35 affronta la pittura di paesaggio che, sebbene meno frequentata dall’artista rispetto ai soggetti femminili, costituisce uno degli aspetti più suadenti della sua ispirazione. Affascinanti le due opere di Oscar Ricciardi, prolifico pittore “impressionista” di paesaggi e di scene di genere raffigurate in lavori di piccolo formato. Le strade, le piazze animate dal mercato o da una folla cospicua e sparpagliata ricorrono nella produzione di Ricciardi fino all’ultimo, temi ideali per composizioni che contengano quinte architettoniche e individui dinamicamente in rapporto tra loro. Un effettivo legame con le tradizioni formali della pittura ottocentesca conservano, con diversi mezzi tecnici ed espressivi,

1 -  C. Knight, in C’era una volta Napoli, itinerari meravigliosi nelle gouaches del sette e ottocento, catalogo della mostra a cura di D.M. Pagano, Napoli 2003, p. 30. 2 - N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento dal Rococò al Classicismo, Napoli 1987, II, p.144, n.231. 3 - C. Knight, loc. cit. 4 - C. Knight, La quadreria di Sir William Hamilton a Palazzo Sessa, in «Napoli Nobilissima», XXIV, gennaio-aprile 1985, pp.49-59, 58. 5 - N. Spinosa in All’ombra del Vesuvio. Napoli nella veduta europea dal Quattrocento all’Ottocento, catalogo della mostra a cura di N. Spinosa, Napoli 1990, p. 17. 6 - C. Knight, op. cit., 1985, pp. 100-110. 7 - Vedi nota 5. 8 - A. Foscarini, A., Arte e Artisti in Terra d’Otranto tra medioevo e età moderna, ms n.329 Lecce, Biblioteca Provinciale, a cura di P. Vetrugno con il contributo di M. Paone, Manduria. 9 - F. Alizieri, F., Notizie dei professori di disegno in Liguria, 3 voll., Genova 1864-1866, II, pp. 352-357. 10 - M. Bartoletti, Giuseppe Bacigalupo La pittura in Italia. Il Settecento, a cura di G. Briganti, 2 tomi, Milano 1990, II, p. 609. 11 - Vedi nota 9. 12 - Cfr. A. Grelle, La Calcoteca dell’Istituto Nazionale per la Grafica. Guida illustrata, Roma 2004, p. 69. 13 - L. Salerno, E. Paribieni, Palazzo Rondinini, Roma, 1964, p. 11.

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14 - E. Buschor, E., Medusa Rondanini, Stuttgart. 15 - L. Salerno, E. Paribieni, Palazzo Rondinini, Roma, 1964, p. 41. 16 - L. Salerno, E. Paribieni, pp. 283-303. 17 - Smargiassi e il tempo, catalogo della mostra, a cura di L. Martorelli, Fondazione Francesco Paolo Michetti, Francavilla al Mare 1987. 18 - C. Veneruso, Gabriele Smargiassi, in Greco, F. C., Picone Petrusa, M. e Valente, I., La pittura Napoletana dell’Ottocento, Napoli 1993, p. 162 19 - C. Lorenzetti, L’Accademia di Belle Arti di Napoli (1752-1952), Firenze, 1952, p. 249. 20 - C. Causa, R., La Scuola di Posillipo, Milano 1967, pp. 21-22. 21 - N. Barbone Pugliese in Galleria Nazionale della Puglia Girolamo e Rosaria Devanna. Guida, a cura di R. Lorusso Romito, Bari, 2009, p. 61. 22 - La sosta di Cava. Il paesaggio metelliano nella pittura dell’Ottocento, catalogo della mostra, a cura di A. P. Fiorillo, Cava dei Tirreni 2000, p. 10. 23 - Ibidem, p. 49. 24 - Catalogo della vendita Blindarte dicembre 2009, lotto 214. 25 - M. Gervasio, Pinacoteca Provinciale. La raccolta Ferrara, Molfetta, 1937, p. 66. 26 - T. Leccisotti, A. Pantoni, in «Bollettino Diocesano. Diocesi di Montecassino», 1976, p. 271. 27 - Asta Semenzato, Venezia maggio 1999 lotto n. 111. 28 - N. Spinosa, Il Patrimonio Artistico del Banco di Napoli, a cura di N. Spinosa, Napoli, 1984, p. XIX. 29 - N. Spinosa in Campania felix acquerelli di Giacinto Gigante, catalogo della mostra a cura di R. Causa, Ercolano 1984, p. 17. 30 - M. Monteverdi, M., Storia della pittura italiana dell’Ottocento, 2 voll., Milano 1984, I, p. 186. 31 - R. Causa, R., Giuseppe De Nittis, Bari, p. 20. 32 - Cfr. G. Matteucci in Giuseppe De Nittis, dipinti 1864- 1884, catalogo a cura di R. Monti, C. Farese Sperken, G. Mateucci, M. Basile Bonsante e R. Bossaglia, Firenze 1990, p. 97. 33 - A. Marabottini, Lega e la scuola di Piagentina, Firenze, 1984, pp. 184 e 169. 34 - N. Spinosa, op. cit., 1984, p. XX. 35 - M. Picone Petrusa, Un “italiano di Parigi”. Ulisse Caputo Salerno 1872-Parigi 1948, Salerno 1997.

le Opere

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