La lente dei media
Settembre 1990: “operazione verità”? “La Repubblica nata dalla Resistenza” tra storiografia, politica e mass media di Glauco Bertani
Prologo La “svolta” Nel giugno 1988 ad Alessandro Natta succede, non senza qualche strascico polemico1, Achille Occhetto. Il diciottesimo congresso del Pci – che si svolse a Roma dal 18 al 22 marzo 1989 – segna la consacrazione del nuovo e più giovane gruppo dirigente e progetta il cambiamento di nome (e di natura) del Pci che avviene ufficialmente con il XX (singolare coincidenza, no?) congresso del febbraio 1991. Una consistente minoranza vi si oppose dando vita, nel dicembre dello stesso anno, al Partito della Rifondazione comunista. Qui non è il luogo per un’analisi approfondita dello sviluppo, del declino e della morte del Pci nel corso della storia della Repubblica2, perché il tema della presente ricerca e lo spazio a disposizione ci consentono solo di accennare, attraverso una rapida panoramica “mass-mediatica” dell’“indimenticabile ‘89”3, al dibattito all’interno e all’esterno del Pci sulla figura di Togliatti e sul cambiamento del nome. Una lettura, è bene sottolineare ulteriormente, fatta attraverso le lenti dei media e non attraverso documenti d’archivio o testimonianze. 1
. Cfr. Nello Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 353-359. . Si veda Il Pci nella storia della Repubblicana. 1943-1991, a cura di Roberto Gualtieri, prefazione di Giuseppe Vacca, Carocci, Roma 2001. Il volume raccoglie gli atti del convegno omonimo – promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci di Roma – che si svolse a Roma il 25 e 26 maggio 2000 3 . Per riecheggiare il titolo di un libro di Achille Occhetto, Un indimenticabile ‘89, Feltrinelli, Milano 1990, che a sua volta richiamava L’indimenticabile ‘56 di Ingrao 1 2
Il “Chi sa, parli!” del settembre 1990 – come, cercherò di spiegare più avanti – può essere “interpretato” e iscritto, senza forzare gli avvenimenti, come uno dei passaggi obbligati del nuovo partito in fieri (la Cosa) per diventare, a tutti gli effetti, forza post-comunista, socialdemocratica o laburista che sia. Insomma, un qualche cosa d’altro da ciò che era4. 1989 C'erano una volta Togliatti e il comunismo reale è il titolo dell’articolo di Biagio De Giovanni comparso sull’“Unità” di domenica 20 agosto 1989. E se le date rivestono un significato simbolico, allora si può pensare che l’uscita di quell’articolo, proprio quel giorno, ha voluto essere un messaggio chiaro di rottura con la storia del comunismo, con la storia tragica che il “socialismo reale” aveva lasciato dietro di sé? La risposta non può essere che sì, non tanto perché il 21 agosto 1968 le truppe sovietiche avevano “appassito” la “Primavera di Praga”, ma perché il 22 agosto di venticinque anni prima Togliatti moriva a Yalta. L’ideologo del cambiamento in atto, cogliendo l’occasione del venticinquennale della morte dell’ex segretario comunista e constatando la fine del comunismo dell’Est europeo, affronta di petto la “questione del Migliore”. Di là dalla complessità della sua ricerca, Togliatti è stato anzitutto uomo dell’Internazionale comunista. Egli ha creduto nella costruzione progressiva di un “campo” e vi ha partecipato attivamente; ha creduto – e ha lavorato a costruire delle idee – nella superiorità e nella vittoria finale del mondo nato dalla rivoluzione del 1917; ha contribuito a costruire internazionalmente l’unità dove essa veniva meno o faceva difetto; la sua passione politica, era sorretta dalla persuasione che l’antagonismo radicale capitalismo-comunismo tendeva a risolversi con la sconfitta epocale del primo. E ciò lo condusse ad una sorta di universale giustificazione di tutto ciò che costituì – dentro e fuori i confini dell’Urss – il terreno di una politica concreta. E questa politica fu, per tanti anni, quella di Stalin5.
Il tema Togliatti – querelle aperta con “scientifica” insistenza dal Psi fin dal dicembre 1987 dopo la riabilitazione di Nikolaj Bucharin6 – è verosimilmente legato alla questione del nome. Affrontare 4
. Giorgio Napolitano sostiene che il cambiamento del nome prende atto di un mutamento già avvenuto nei fatti, “Il Pci – afferma – era divenuto da tempo una cosa diversa dal nome che portava” dichiarazione citata da Massimo Salvadori in La Sinistra nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 218. All’interno del Pci – scrive Salvadori – vi era “da un lato, a destra, l’ala dei riformisti guidata da Napolitano, che riteneva si dovesse collocare il nuovo partito nel corpo del socialismo democratico [il Pds, nato nel febbraio del 1991, aderì all’Internazionale socialista nel settembre del 1992, ndr]; al centro stavano coloro che intendevano andare contemporaneamente oltre comunismo e socialdemocrazia nel tentativo di realizzare una koiné tra la democrazia e una Sinistra non socialdemocratica; a sinistra si ponevano coloro che, respingendo la prospettiva di una scissione, auspicavano la rinascita di un “comunismo democratico”” op cit. p. 216-217 5 . Biagio De Giovanni, C'erano una volta Togliatti e il comunismo reale, “l’Unità” 20 agosto 1989 6 . Il 16 e 17 marzo 1988 si svolse a Roma il convegno Lo stalinismo nella sinistra italiana. Una parte delle relazioni furono pubblicate da “Mondoperaio”, mensile teorico del Psi, nel n 4-5 di maggio 1988. Nella presentazione della due giorni sullo stalinismo in Italia, Luciano Pellicani, direttore del mensile socialista, si sente in dovere di precisare innanzi tutto che “il convegno fu preannunciato da Bettino Craxi ad Alessandro Natta nel dicembre scorso [1987, ndr], quando cioè, nulla lasciava prevedere la riabilitazione giuridica di Nikolaj Bucharin; una riabilitazione che ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la responsabilità politica e morale di Togliatti ... Il convegno, pertanto, non è stato, diciamo così, confezionato per sfruttare il “caso Bucharin. La seconda precisazione ... riesumare il passato è un gesto ineludibile sul piano scientifico, doveroso sul piano morale, opportuno sul piano politico, soprattutto quando in esso affondano le radici i tanti errori che 2
Togliatti, il fondatore del “partito nuovo”, in quei termini era il preludio per il cambiamento del nome e quindi della natura stessa del partito7. Altri intellettuali quali l’economista Michele Salvati e il filosofo Salvatore Veca, con un lungo articolo pubblicato sul penultimo numero della moribonda “Rinascita”, diretta da Franco Ottolenghi8, sostengono le ragioni del cambiamento. La mancata soluzione di questo problema – affermano – sarebbe un ostacolo al pieno sviluppo delle potenzialità offerte dal nuovo corso. Ma un’altra ragione perché si cancelli la “gloriosa” sigla sta nell’esigenza di “accelerare un processo di chiarimento teorico-ideologico all’interno della militanza comunista”9. I comunisti – si domanderà nel giugno del Novanta, Alberto Asor Rosa, quando il Pci era ancora la Cosa – sono (terribile interrogativo) ancora figli del ‘21 e del ‘17, oppure dobbiamo considerarci tutti quanti ab origine un’anomalia (per giunta non riuscita) della storia, di fronte alla quale non resta che rientrare nel hanno caratterizzato la vicenda storica italiana a partire dalla sciagurata scissione di Livorno” (p. 60) 7 . Alcuni anni dopo, Giuseppe Vacca scriverà, commentando l’articolo di De Giovanni e il clima creatosi intorno al cambiamento del nome: “Era una messa in scena grottesca che, riassumendo in una battuta la storia del Pci, la falsava violentemente. Il vertice del partito, che sicuramente aveva ispirato l’operazione, voleva evidentemente saggiare le reazioni interne nel caso si fosse deciso di mutarne il nome. Le modalità con cui si ponevano le basi della “svolta” non costituivano certo un fausto annuncio (tant’è che, concludendo l’ampio giro di opinioni che il giornale ospitò sull’argomento, nei mesi successivi Occhetto dovette fingere di fare macchina indietro)” Giuseppe Vacca, Vent’anni dopo, Einaudi ,Torino 1997, p. 195. In nota Vacca scrive “Il primo atto significativo di Achille Occhetto, pochi giorni dopo la sua elezione a segretario, era stato quello di dare ampia diffusione al giudizio, pronunciato in un discorso tenuto a Civitavecchia [8 luglio 1988] in occasione dell’inaugurazione di un busto di Togliatti, secondo cui il fondatore del “partito nuovo” era stato “inevitabilmente corresponsabile di atti dell’epoca staliniana, piena di ombre per il movimento operaio”. La messa in scena aveva avuto un’ampia eco perché era stata concepita nel clima ancora arroventato dalla campagna di diffamazione della figura di Togliatti alimentata dal Psi nei mesi precedenti. Il suo aspetto più grottesco era nel fatto che trentadue anni prima (nel Rapporto al Comitato centrale del Pci del 24 giugno 1956) Togliatti aveva già affrontato l’argomento in termini ben più schietti e puntuali, riconoscendosi “corresponsabile” della politica di Stalin, compresi i suoi atti “criminali”, senza invocare l’attenuante della “situazione oggettiva””, nota n. 15 p. 228. Guido Moltedo, ricostruendo le fasi della polemica montante su Togliatti, sottolinea che le due parole “inevitabilmente corresponsabile” pronunciate da Occhetto a Civitavecchia, l’8 luglio 1988, nel discorso inaugurale ad un monumento dedicato al “Migliore”, non furono colte in tutta la loro portata “ Allora – scrive il giornalista – non tutti la percepirono, vuoi con l’intento di minimizzare – certi esponenti della vecchia guardia Pci, come Paolo Bufalini – vuoi per un eccesso di competenza storica, come Giuseppe Vacca, direttore del Gramsci e biografo di Togliatti; Ma di un a novità si trattava. [Anche se Vacca] giudicava “abbastanza inspiegabile tutto questo clamore intorno a un affermazione che non costituisce affatto una novità””, “il manifesto”, 26 agosto 1989 8 . La rivista “Rinascita” settimanale fondato da Palmiro Togliatti con il n. 30 del 5 agosto 1989, nel suo 46° anno di vita, sospende le pubblicazioni. Ricomparirà in edicola in una nuova veste grafica, con il n. zero nel gennaio del 1990 e senza più riferimento al suo fondatore. Il nuovo direttore è Alberto Asor Rosa 9 . Michele Salvati, Salvatore Veca, Cambiare nome. E se non ora quando?, “Rinascita” n. 25, 29 luglio 1989, p. 35-38 [:36]. Pajetta ebbe a dire sulla proposta di cambiare il nome: “Più d'uno ha perso la testa. Considero la proposta di cambiar nome tragica e grottesca. Lasciare a quelli che lo stanno insozzando di sangue il monopolio di un nome per il quale mio fratello è morto a diciott’anni, e compagni come Ravera e Terracini hanno sofferto in carcere, è un grave errore. Non lo cambiammo quando ce lo chiesero i fascisti, dovremmo farlo ora su richiesta di Martelli?” (citato da Nello Ajello, op. cit., p. 386). E quanto affermano Salvati e Veca vuole rispondere proprio a queste obiezioni: “Le ragioni che militavano a favore della conservazione del vecchio nome erano molto forti: nobili spesso, in ogni caso rispettabili. Tra le prime, soprattutto l’onore dovuto a quei militanti che hanno sacrificato la vita, subito sventure, patito sofferenze – nei tempi tristi del fascismo, negli anni gloriosi della resistenza, nelle lotte sociali del dopoguerra – e questo nel nome del Partito comunista italiano. Tra le seconde, lo smarrimento o le perplessità che il mutamento del nome potrebbe suscitare in molti compagni emotivamente e comprensibilmente legati al vecchio: la sensazione di una resa agli attacchi esterni, la ferita di un orgoglio legittimo, un’incrinatura nel rispetto di se stessi, come si è e si è sempre stati. Nessuna delle ragioni regge però a fronte delle ragioni della chiarezza” (Michele Salvati, Salvatore Veca, op. cit., p. 37) 3
binario abbandonato?10
Una situazione complessa e magmatica, in cui si sta ridefinendo l’identità comunista in crisi in un mondo in velocissimo mutamento. Ma, soprattutto, senza un’altra chiara identità storica e politica, ma anche culturale, in grado di interagire con la drammaticità della situazione 11. Il Pci era in bilico su una corda tesa, oscillante nel vuoto. Ma non è nostro compito riempire qui quel vuoto. Ma che cosa sta accadendo nel mondo del socialismo reale, oltre la “cortina di ferro”? È successo che nella seconda metà del 1989, proprio in coincidenza con il bicentenario della Rivoluzione francese, il destino dell’Urss è segnato. Al crollo del sistema politico seguì, fra l’ottobre 1989 e il maggio 1990, quello economico12. La fine del ‘91 vide la sua dissoluzione. Intanto, nell’agosto dell’89 iniziarono a crollare i regimi comunisti di Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania (unico paese dove si sparò) Bulgaria e della Rdt. Fu poi la volta dell’Albania e della Jugoslavia, paesi al di fuori dell’orbita sovietica. La Cina reagì diversamente alla glasnost e alla perestrojka. Quando il movimento per la liberazione e la democrazia si diffuse dall’URSS alla Cina, il governo di Pechino decise, a metà del 1989, dopo alcune ovvie esitazioni e lacerato da dissensi interni, di ristabilire l’autorità nella maniera più inequivocabile, ossia mediante ciò che Napoleone – che aveva anche lui usato l’esercito per soffocare le sommosse interne durante la Rivoluzione francese – aveva definito “una zaffata di polvere da sparo”… Il massacro della piazza Tienanmen suscitò orrore nell’opinione pubblica occidentale… 13.
Fine della storia come scrive Francis Fukuyama14, sovietologo formatosi ad Harvard, sul numero estivo della rivista americana “National Interest”? Di quella del Pci di sicuro, anche se la strada non sarà lineare né, soprattutto, indolore15. 10
. Viaggio nel cuore del Pci. Inchiesta sugli orientamenti e sugli umori del popolo comunista, allegato a “Rinascita” n. 17 del 3 giugno 1990, p. 9 11 . Cfr Viaggio nel cuore del Pci, cit. p.6. 12 . “Nel 1985 chi avrebbe mai supposto che, sei anni dopo, l’URSS e il Partito comunista avrebbero cessato di esistere e che anzi tutti gli altri regimi comunisti in Europa sarebbero scomparsi? A giudicare dalla completa impreparazione dei governi occidentali di fronte al crollo improvviso del 1989-91, le previsioni di un decesso imminente del nemico ideologico dell’Occidente, se mai venivano fatte, non erano altro che retorica spicciola. Ciò che condusse l’URSS a gran velocità verso il precipizio fu la combinazione della glasnost, che equivaleva alla disintegrazione dell’autorità, con la perestrojka, che equivalse alla distruzione dei vecchi meccanismi che facevano funzionare l’economia, senza la predisposizione di un’alternativa; di conseguenza la perestrojka provocò il crollo del tenore di vita dei cittadini”, Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, p. 561 13 . Ibidem, pp. 564-65 14 . “Ciò cui stiamo assistendo non è solo la fine della guerra fredda, o il suo superamento di un periodo particolare della storia del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: cioè il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma definitiva di governo umano” (citato da Siegmund Ginzberg, Siamo nella post storia, “l’Unità” 30 agosto 1989). Il titolo del saggio è Fine della storia? 15 . “All'interno del Pci ... le polemiche fra tradizionalisti e “iconoclasti” raggiungono, in alcuni casi, punte aspre Può sembrare strano, ma – a un passo dal crollo dell'intero organismo – Togliatti ne rappresenta ancora un nervo scoperto; o, almeno, può dare questa impressione. Protesta in maniera esplicita Giancarlo Pajetta, che bolla l'iniziativa dell'“Unità” come un “errore imperdonabile” e un favore fatto da chi vuol metterci nell'angolo. Fa capire il suo dissenso Emanuele Macaluso con una parafrasi storica: “Se guardiamo agli sviluppi della società in Occidente, dico che Togliatti vide bene”. Nilde Iotti non nomina lo storico segretario, ma fa una dichiarazione nella quale i giornali leggono una certa impazienza verso le pretese innovatrici dell'attuale leadership: “Dicono che siamo cambiati o che stiamo cambiando, ma ventun anni fa, quando i carri 4
Togliatti in soffitta? Il 23 agosto, Piero Fassino si affretta a rilasciare un’intervista al “Corriere della Sera” che conferma l’appoggio del giovane gruppo dirigente a quanto scritto dal consigliere del “principe”, domenica 20 agosto “Voglio dire: è sciocco presentare questo articolo come l’abiura di Togliatti, perché noi non abbiamo mai avuto un cieco mito di Togliatti...”. Se non è un’abiura è però certo una presa di distanza ... “Siamo un partito che in questi mesi ha fatto un enorme sforzo di ridefinizione della propria identità. È questo che conta: siamo nel nuovo corso, siamo un nuovo Pci. In questa ridefinizione di identità c’è anche una rivisitazione della nostra storia e del ruolo e della funzione di Togliatti, cui riconosciamo grandi meriti di cui vediamo anche i limiti e gli orizzonti cui si muoveva la sua azione...”. È stato concordato con la segreteria? “È evidente che l’articolo sul venticinquesimo anniversario della morte di Togliatti non è un’iniziativa estemporanea di qualcuno se lo ha scritto un certo compagno si sarà deciso di farlo scrivere a lui. Mi pare si possa dire che è coerente con il nuovo corso, con il nostro modo di guardare ai problemi del socialismo e ai paesi del comunismo reale”16.
Risulta evidente la sintonia tra i “quarantenni” e De Giovanni. Ma non solo. Il consenso si trova anche in storici come Nicola Tranfaglia. È importante, invece, a mio avviso, il dibattito che si è aperto con gli interventi di Giolitti e Arfè 17, con le riserve di chi come Gian Carlo Pajetta ha vissuto direttamente gli “anni di ferro e di fuoco” dello stalinismo, con i punti di vista di chi vive dall’interno o dall’esterno (ma con partecipazione) le vicende del comunismo italiano, senza pregiudizi o concorrenze di bottega18.
L’apertura del dibattito su Togliatti significa anche discutere sullo storicismo19 che ha dominato la cultura in Italia negli anni ‘60, e non soltanto a sinistra. “Reagire a questo uso del passato e della storia così acritico, mitologico “religioso” – afferma lo storico – deve essere un punto fondamentale della strategia e armati del patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia, il Pci assunse una posizione. E quella rimase e rimane ancora oggi”. Quanto ad Antonello Trombadori, ha già pubblicato con lieve anticipo sull'anniversario togliattiano, e quindi prima dell'attacco di De Giovanni, un lungo articolo sul “Giorno”. Si tratta – dopo un generico accenno alle “sciocchezze cui si fa ricorso” parlando di Togliatti – di una serrata difesa del pensiero del vecchio leader, che l'autore accosta a quello di Croce, e della sua azione politica sostanzialmente neoriformistica. Pur fra tante contraddizioni, legate al tempo, Togliatti nutriva “un potenziale, radicale bisogno di revisionismo” che non fece a tempo a esprimere”” (citato da Nello Ajello, op. cit., pp. 381-382) 16 . Guido Credazzi, “Togliatti? Né abiura, né cieco mito”, “Corriere della Sera” 23 agosto 1989 17 . Cfr. Paolo Branca, “Rileggere Togliatti”, “l’Unità” 22 agosto 1989. Scrive Branca “Leggendo l’articolo di De Giovanni – racconta il senatore della Sinistra indipendente [cioè Antonio Giolitti, ndr] – non ho detto: “finalmente!”. Ho pensato, invece, che si tratta di un’ulteriore conferma di quella strada intrapresa ormai da parecchi anni dal Pci: una serie di scelte politiche e culturali compiute in modo chiaro e netto che eliminano nei fatti ogni problema di superamento dei limiti della cultura togliattiana” ... [Sbrigativo l’articolo di De Giovanni?, ndr] “Il tema – risponde [Gaetano] Arfè – che l’esperienza di Togliatti è inserita pienamente oltre che nella storia dello stalinismo, in quella, originale e complessa del partito comunista. Un partito che se è diventato quello che è lo deve proprio a Togliatti. Il giudizio, dunque deve essere più articolato, più motivato” ... [perché] “oggi anche a sinistra – conclude Arfè – si seguono troppe mode”. 18 . Nicola Tranfaglia, Tutto quello che sappiamo di Togliatti, “l’Unità” 24 agosto 1989 19 . Significativo l’occhiello della relazione di Luciano Pellicani al convegno sullo stalinismo (cit. p. 60) È vero il Pci ha preso le distanze dallo stalinismo, ma lo ha fatto usando il metodo delle giustificazioni storicistiche (sottolineatura mia) anziché quello della revisione critica 5
del modo di essere del nuovo corso comunista”20. Tesi che non trovano l’appoggio a sinistra. Rossana Rossanda interviene sul “manifesto” del 23 agosto. Se di questo patrimonio [del Pci, ndr] occorre liberarsi in nome di “nuovi ideali di tolleranza, democrazia e pace”, non si riduca quello che è stato lo scontro del secolo alla “duplicità” della cultura di un uomo, “nel fango” prima del 1945 e quando mirava all'Urss, e folgorato dalla grazia quando guardò all'Italia. [È oltretutto un'operazione strumentale] perché con il sacrificio rituale del capo si liquida sia l’analisi del socialismo reale (di “comunismo reale” non parlava nemmeno Breznev) sia la propria storia21.
Guido Moltedo, ricostruendo le fasi della polemica montante su Togliatti22, sottolinea che le due parole “inevitabilmente corresponsabile” pronunciate da Occhetto a Civitavecchia, l’8 luglio 1988, nel discorso inaugurale ad un monumento dedicato al “Migliore”, “furono la vera miccia del dibattito che seguì dentro e fuori il Pci” e cita, a sostegno della sua tesi, alcune osservazioni di Paolo Mieli: “C’è una grande differenza tra il dire che Palmiro Togliatti fu costretto a piegarsi al terrore sovietico del anni ‘30 e l’affermazione che fu corresponsabile dello stalinismo”23. “Quella differenza, in realtà – sottolinea il commentatore del “manifesto” – può pienamente essere colta oggi, alla luce dell’articolo di Biagio De Giovanni, che domenica scorsa sull’Unità ha riaperto il tema Togliatti”. Differenza che non sfugge ad Alessandro Natta. “Con Togliatti non si scherza”24, frase che pronuncia il presidente del partito all’inaugurazione della Festa nazionale dell’Unità, il 31 agosto, a Genova. Natta dà così voce ufficiale a tutti coloro che all’interno del partito comunista non condividono i termini proposti, da C’erano una volta Togliatti e il comunismo reale, della “questione Togliatti”. Anche i dirigenti del partito più vicini a Occhetto – scrive Camillo Arcuri del “Corriere” – ieri hanno dato l’impressione di voler frenare, dopo la spallata dell’Unità al mito del “Migliore”. Lo stesso responsabile dell’informazione, Walter Veltroni, ha spiegato di aver letto solo sul giornale, a cose fatte, l’articolo di Biagio De Giovanni: questo per dire che non c’era alcun preordinato disegno di dare il via a una campagna di “detogliattizzazione” da parte del gruppo dirigente di cui egli è parte. A suo dire, aver chiesto e pubblicato quell’articolo è dipeso da una scelta compiuta nella sua autonomia, solo dal giornale – non più organo ma pur sempre espressione – del partito comunista25. Possibile un così ampio margine di libertà da fare invidia a tanti organi di stampa cosiddetti indipendenti? O si tratta semplicemente di una manovra, una marcia indietro di Botteghe Oscure, dopo le aspre reazioni scatenate nella base da quell’intervento? ... E subito Natta si è trovato davanti a una domanda perentoria: è vero che volete mettere in soffitta Togliatti? “Mi sembra difficile che Togliatti si faccia mettere in soffitta”, è stata la sua lapidaria risposta ... Molti si domandano come mai tra i 56 dibattiti in calendario, sugli argomenti più disparati, non è stato dedicato nemmeno uno alla polemica accesa proprio dall’Unità sotto il titolo “C’era una volta Togliatti...”. Imbarazzo o che cos’altro? Veltroni, nella conferenza stampa di presentazione, ha detto che ci sarà tempo per parlarne qui e altrove”26. 20
. Nicola Tranfaglia, cit. . Rossana Rossanda, Il Pci su Togliatti: mediocre politica, pessima storia, “il manifesto” 23 settembre 1989 22 . Guido Moltedo, cit. 23 . Ibidem 24 . Camillo Arcuri, Natta, Togliatti non va in soffitta, “Corriere della Sera” 1° settembre 1989 25 . Due anni prima, il 23 aprile 1987, “l’Unità” aveva modificato la propria “ragione sociale” da organo del Partito comunista italiano a giornale del Partito comunista italiano 26 . Camillo Arcuri, cit. 6 21
Di fronte alle incertezze e alle divisioni interne, il 14 settembre, Occhetto interviene sull’“Unità” per spiegare che sono i grandi mutamenti mondiali che richiedono e giustificano l’“operazione Togliatti”. Togliatti, come tutti gli uomini del suo tempo, visse e dunque pensò e operò, secondo i criteri di giudizio dell’epoca della guerra guerreggiata e della guerra fredda, delle logiche di campo e della contrapposizione tra blocchi. Mentre noi oggi stiamo uscendo, dobbiamo uscire proprio da quelle logiche per affrontare i nuovi grandi dilemmi del mondo dell’interdipendenza, per affermare la prospettiva, certo difficile ma esaltante, di un nuovo governo mondiale, di un governo democratico dello sviluppo. Ecco perché e in che senso la discussione e la ricerca sulla figura di Togliatti non si presenta più per noi come un problema politico ma come oggetto di una seria e rigorosa riflessione storiografica27.
Risulta del tutto evidente che Occhetto, per stemperare i toni della disputa su Togliatti, cerca di spostare l’accento sull’analisi storica, ambito autentico per affrontare la vicenda politica e umana del suo “nobile” (e ingombrante) predecessore. Togliatti, per Occhetto, non è, o meglio, non deve essere un problema polito. L’ex comunista Massimo Caprara, analizzando le strategie del segretario rivolte a bypassare le resistenze interne al partito, plaude al coraggio della scelta Davanti alle obiezioni che in agosto avevano accolto il commento del filosofo Biagio De Giovanni sul “Migliore”, il segretario del Pci aveva due strade. Sconfessare con imbarazzo il suo consigliere e apripista, oppure rivendicarne pienamente le tesi affrontando uno scontro diretto con più dirigenti di “sinistra”, “centro” e “destra”. Ha scelto la seconda con un’accortezza in più: avvallare nei fatti l’interpretazione di De Giovanni e circoscrivere il dibattito nei confini della materia di studio. Una soluzione apparentemente accademica, ma non più di tanto28 .
Intanto, si è aperto anche il fronte “Rinascita” che, come abbiamo visto29, aveva cessato le pubblicazioni in agosto. Domanda: “Rinascita” sarà ancora la rivista fondata da Palmiro Togliatti? Fabio Mussi, “colonnello” quarantenne del nuovo corso, risponde con una battuta: “Ho consultato l’archivio e in effetti Rinascita l’ha fondata Togliatti”30.
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. Achille Occhetto, Il nuovo corso è discontinuità non è demolizione del passato, “l’Unità” 14 settembre 1989. Ma i giudizi sono molto differenti. Quelli di Ingrao e Rossanda. “Con l’89 – scrivono alcuni anni dopo – il crollo del Muro di Berlino e poi il tramonto della meteora gorbacioviana e la fine dell’Urss trovano il Pci nell’incapacità di giustificare la propria stessa storia, e lo spingono esclusivamente a tentare una svolta in direzione prima laburista poi esplicitamente liberaldemocratica, e a presentarsi come forza politica non guasta, per lungo tempo illusa, ma generosa, democratica pulita. Era anche un modo per non soffermarsi sui processi economici avvenuti nel decennio, annegati nella generale condanna verso ogni inflessione socialista e anche keynesiana, rapidamente assimilata a “errore” di stalinismo. La svolta della Bolognina non è il ripudio del comunismo, ma di una cultura che riconosce e assume un conflitto di classe. La cultura novista del Pds si consegna così, esplicitamente, all’ideologia liberaldemocratica, nella sua rappresentazione più asettica socialmente, nella versione più lieve, più aerea, più spirituale della nozione di cittadinanza. Non si capisce più letteralmente che senso reale ha, nel vocabolario del Pds, l’appellativo socialista (a surrogato della turpe e vitanda parola “comunista”)” (Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Appunti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995 p. 51) 28 . Massimo Caprara, Occhetto, Togliatti in museo, “Corriere della Sera” 14 settembre 1989 29 . Vedi nota n. 8 30 . Fabrizio Rondolino, “Se resta Rinascita, resta Togliatti”. Ma come si rinnoverà la rivista?, “l’Unità” 14 settembre 1989 7
Era stata una frase di Alberto Asor Rosa, che dirigerà la rivista – scrive Fabrizio Rondolino sull’“Unità” – ad innescare la piccola polemica sulla testata, appendice minore della ben più corposa discussione sulla figura e sull’opera del “Migliore”. Qual è la sua opinione “A me – risponde – questa sembra una di quelle questioni nominalistiche su cui troppo spesso i comunisti si sono attardati in questi mesi”. La sostanza, dice Asor Rosa, è un’altra: è un “riconoscimento” e insieme un “motivo di soddisfazione” riconoscere ciò che, peraltro, è incontrovertibile: e cioè che fu Togliatti a fondare la rivista (Mussi ricorda che fu questo uno dei suoi primi impegni, appena rientrato in Italia nel ‘44) E tuttavia, prosegue Asor Rosa, “il tempo e le idee trascorrono” e dunque “non si può oggi fare un giornale uguale a quello che Togliatti fece nel ‘44”31.
Ma Mussi è perentorio: afferma e nega quello testé affermato nella stessa frase. “Se si chiamerà ancora così, è del tutto evidente che non si può cancellare il fatto che è stata fondata da Palmiro Togliatti” – ma? – ma “Rinascita” sarà prima di tutto “il giornale del nuovo corso”. Infatti, con il primo numero della nuova serie la dicitura settimanale fondato da Palmiro Togliatti scomparirà. La questione Togliatti e il cambiamento del nome – il nuovo corso – fanno parte della stessa matassa, ossia la prima è legata e intrecciata al secondo. E cadde il Muro La sera del 9 novembre Occhetto è a Bruxelles per incontrare il leader laburista inglese Neil Kinnock Guarda in tv le immagini che giungono da Berlino, assiste ai colpi di piccone al Muro. “Siamo di fronte a un mondo totalmente diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere dal 1945 in poi”, dice ai giornalisti. “Ora la guerra fredda è davvero finita”32.
Il segretario del Pci, al Cc successivo la Bolognina33 (20-24 novembre 1989), spiega la proposta del cambiamento del nome sostenendo che è coerente con la linea del XVIII congresso, in cui si era sanzionato il superamento della cultura politica del “vecchio Pci”. Tutto nasce dal muro di Berlino? suvvia. Dietro quell’evento reale e simbolico si intravede un movimento della storia, ad Est come ad Ovest, che è destinato a cambiare gli assetti mondiali e il modo stesso di fare politica. Ci troviamo di fronte ad un processo che sconvolge l’Europa. Il fatto stesso che sia in discussione la 31
. Ibidem . Achille Occhetto, Un indimenticabile ‘89, Feltrinelli, Milano 1990, p. 121 33 . Cfr. Giuseppe Chiarante, Da Togliatti a D’Alema, Laterza, Roma-Bari 1996. Così Chiarante spiega la “cosiddetta – come la definisce il dirigente comunista – svolta della Bolognina” “L’annuncio – scrive – della decisione di voler proporre l’abbandono del nome “comunista” e la trasformazione del Pci in una nuova e ancora indeterminata “formazione politica” (“la cosa”, come allora fu di moda dire) venne dato da Achille Occhetto, senza aver consultato né la Direzione né la Segreteria del partito, esattamente tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, in un discorso a una manifestazione di ex partigiani svoltasi il 12 novembre 1989 alla Bolognina, un quartiere di Bologna. Nella riunione del Comitato centrale svoltosi tra il 20 e il 24 novembre successivi la proposta di Occhetto, e la conseguente convocazione di un congresso straordinario, furono approvate con 219 voti favorevoli, 73 contrari e 34 astenuti. Nel Congresso, che si tenne in marzo a Bologna, la svolta ebbe il consenso di circa i due terzi dei delegati”. (Cap. 9 La svolta del 1989: un’eredità contestata, nota n. 1, p. 210). Alfredo Reichlin, invece plaude alla decisione del segretario della Cosa. “La decisione di Occhetto – scrive – fu davvero una salvezza afferrata per i capelli. La sua grande intuizione è che con la dissoluzione dei blocchi veniva meno quella rendita di posizione che aveva garantito alla Dc e ai suoi alleati il monopolio del potere. Fu una vera svolta. Con la trasformazione del Pci in Pds si sbloccava il sistema politico della prima repubblica” (Ieri e domani. Memoria e futuro della sinistra, Passigli, Firenze 2002, p.130) 8 32
suddivisione del mondo decisa a Yalta supera i termini della contrapposizione tra comunismo e anticomunismo ... Tutte le energie di una sinistra congelata e ossificata possono essere rivitalizzate dal grande disgelo che si profila dinanzi a noi34
Argomentazioni confermate già dal titolo dell’intervista Ho fatto quel che dovevo35, rilasciata a Scalfari, nella seconda metà di dicembre. E a Scalfari, che vuole sapere da che cosa è stato dettato il modo “eterodosso” di formulare la proposta del cambiamento del nome, Occhetto risponde Il cambiamento del mondo. Il muro di Berlino, l’abbattimento del muro di Berlino. Quando questo fatto, simbolicamente enorme, si è verificato, io mi sono detto: ecco, questo è il momento, questa è l’ora, questo è l’evento che cambia il mondo dopo un’ingessatura di oltre quarant’anni. Ora dobbiamo mettere in gioco noi stessi e tutti, non soltanto noi, dovrebbero farlo, perché adesso, con quel muro abbattuto, il mondo non è più lo stesso36 .
Un metodo “eterodosso” che, come vedremo, sarà alla base dell’“operazione verità”, il “Chi sa parli”, sugli omicidi del dopoguerra a Reggio Emilia.
34
. Citato da Giuseppe Vacca, Vent’anni dopo, Einaudi, Torino 1997, p. 197 . Citata da Achille Occhetto, Un indimenticabile ‘89, cit., pp. 158-166 [:159]
35 36
. ibidem p. 159
9
Introduzione È passata alla storia come “Chi sa, parli!” l'operazione di revisione storiografica sulla Resistenza, dalle forti valenze politiche, che è esplosa nell'estate del 1990. Un'autentica bomba che ha scosso il mondo politico e le associazioni partigiane e che ha dato inizio a una “nuova” stagione della storiografia resistenziale 37 e degli studi sulle origini della Repubblica38. A rileggere oggi, a distanza di oltre dieci anni, lo scritto di Otello Montanari “Rigore sugli atti di “Eros” e Nizzoli” (“Resto del Carlino Reggio” 29 agosto 1990) non si capisce immediatamente come possa aver innescato un simile putiferio39. Il contenuto della lettera dell'ex partigiano, ex parlamentare comunista e, all’epoca, presidente dell’Istituto “A. Cervi”, non rivela – a detta di numerosi opinionisti e politici che all'epoca presero carta e penna o rilasciarono dichiarazioni a radio e televisioni – nessun mistero. Tuttavia essi lasciavano chiaramente intendere che i delitti e la violenza erano geneticamente connaturati all'ideologia che il partito comunista rappresentava. E la doppiezza togliattiana ne era la perversa manifestazione politica. Con le parole di Rossana Rossanda, riassumiamo i pareri opposti. La vera notizia sul “triangolo della morte”40 di Reggio Emilia – scrive Rossanda – è che se ne torni a parlare e che un articolo scritto da Otello Montanari, presidente dell’Istituto Cervi di quella città sul Resto del Carlino abbia fatto così grande sensazione. Quelle uccisioni erano note, se ne erano occupati giornali e tribunali, ed erano già state largamente agitate contro i comunisti e i partigiani41.
Di che cosa si tratta? Otello Montanari ricostruisce le vicende dei delitti, in particolare dell'assassinio dell'ingegnere Arnaldo Vischi, direttore tecnico delle Officine Reggiane, e delle responsabilità che permisero (o tollerarono) tutta una serie di violenze delittuose che insanguinarono il Reggiano tra il 1945 37
. Nella bibliografia raccolta su fascismo, resistenza e repubblica il criterio guida principale (ma alcuni titoli che non si potevano ignorare risalgono ad anni precedenti) è stato proprio quello di scegliere le pubblicazioni uscite dopo il “galeotto” 1990. Un saggio per tutti: Una guerra civile (1991) di Claudio Pavone diventato un sorta di bibbia per quegli storici (e non solo) disposti a un approccio, se così possiamo dire, più laico su temi ancora così fortemente sentiti. In appendice pubblichiamo una bibliografia minima sull’argomento 38 . Cfr. Leonardo Paggi, Alle origini del credo repubblicano. Storia, memoria, politica, in Le memorie della repubblica, a cura di Leonardo Paggi, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1999. Scrive: “La sparizione subitanea del sistema dei partiti che si è determinata all'inizio di questi decennio, ma la cui incubazione data dagli anni Settanta, ha improvvisamente messo in discussione quell'idea di democrazia “nata dalla Resistenza” a lungo apparsa come una indiscutibile affermazione di senso comune. La ricerca storica già in corso su vari aspetti e momenti della trasformazioni conosciute dal paese negli ultimi cinquant'anni è stata così improvvisamente e perentoriamente richiamata a un livello più primordiale di riflessione sui caratteri della repubblica e sui modi della sua autorappresentazione” (pp. VI-VII) 39 . Otello Montanari dichiara alla stampa: “Non ho scritto nulla che non fosse noto. Ho solo messo assieme i pezzi”, “Tutti sapevano, io l’ho scritto”, “La Repubblica”, 31 agosto 1990. Così anche Domenico Settembrini sul “Resto del Carlino” del 31 agosto (pagina nazionale) pur apprezzando l'iniziativa del dirigente comunista afferma: “ma francamente non ha rivelato niente che già non si sapesse” 40 . “Triangolo della morte” è un piccolo triangolo compreso fra i comuni modenesi di Manzolino, Castelfranco e Piumazzo che si vide attribuire questa definizione in seguito all’uccisione di 44 persone e all’assalto dato a una polveriera avvenuti tra l’aprile 1945 e l’ottobre 1946. Poi con il consumarsi di altri fatti di sangue la denominazione si è estesa sino a comprendere le province di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara 41 . Rossana Rossanda Il sangue d’Italia. Il “triangolo rosso” di Reggio Emilia: la memoria mediocre di una storia tragica, “Il Manifesto”, 1 settembre 1990 10
e il 1947. Tuttavia la lettera dell'ex partigiano fu la miccia che diede il la a una polemica violentissima, sul ruolo del Pci nella Resistenza e nella storia dell’Italia repubblicana. Il tema non otterrà il giorno immediatamente successivo le prime pagine di giornali e televisioni locali e nazionali ma una volta conquistata la manterrà per parecchi giorni, continuando poi a “bruciare” per buona parte del mese di settembre. L'acme è raggiunto nei primi dieci giorni di settembre42 , periodo preso in considerazione per monitorare l'effetto mass mediatico del “Chi sa, parli!”. In realtà, data la materia altamente infiammabile, periodicamente e in coincidenza di ricorrenze storiche e/o avvenimenti particolari, i temi legati al periodo che va dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 e all’immediato dopoguerra, protagonista il Pci, tornano agli onori della cronaca storico-politica, venata di “nera”. “Forzando” un po' la storia, potremmo considerare un prologo del “Chi sa, parli!” due fatti accaduti nel reggiano nell'aprile e nel giugno 1990. Aprile-maggio: sul “Resto del Carlino”, edizione reggiana, sulla “Gazzetta di Reggio” e poi sull’“Unità”, pagine locali, divampò, alla fine del mese, una rovente polemica sui cosiddetti desaparecidos (termine preso a prestito dal linguaggio politico internazionale, il cui significato originario si riferiva alle migliaia di persone che la dittatura militare argentina del generale Videla, instauratasi negli anni Settanta del secolo scorso, fece scomparire in modi atroci), ossia i corpi di fascisti uccisi a Campagnola nelle ultime settimane di guerra e nei primi mesi del dopo Liberazione e mai ritrovati (la richiesta di ritrovare e recuperare i loro resti continua, tuttora, a ricomparire sulle pagine della stampa locale)43. Giugno: all'inizio del mese, sull’onda della presentazione di un libro sui sette fratelli Cervi, tornò di nuovo sulle pagine locali dei quotidiani citati, il tema della natura del Pci e del suo ruolo nella Resistenza. Argomento che sulla “Stampa” del 4 settembre viene ripreso nell'articolo Polemica sui fratelli Cervi. Un libro accusa: il Pci non ha cercato di salvarli. Il settembre ‘90, invece, andò ben al di là dell'ambito locale, coinvolgendo i mass media nazionali. Ci pare che non si sia lontani dalla verità nell'affermare che mai furono raggiunti livelli d’impatto massmediatico così intensi ed estesi come quelli toccati alla fine di quell’estate. 42
. Nel solo mese di settembre comparvero 1321 articoli (più o meno significativi), un’onda partita alla fine d’agosto e culminata il 7 settembre con 119 articoli, così disaggregati secondo le testate (e bisogna considerare che non siamo riusciti a visionare tutta la stampa nazionale e la stampa estera, che sappiamo essersi interessata al “Chi sa, parli”): Avanti! 79, – Avvenimenti (settimanale), 9 – Avvenire, 39 – Corriere della Sera 64 – Epoca (settimanale), 8 – L’Espresso (settimanale), 11 – Europeo (settimanale), 7 – Famiglia cristiana (settimanale), 4 – Gazzetta del Mezzogiorno, 18 – Gazzetta di Reggio, 149 – Il Giornale, 108 – Il Giorno, 85 – La Libertà (settimanale), 8 – Il Manifesto, 50 – Il Messaggero, 18 – Notiziario Anpi (mensile), 2 – Osservatore Romano, 3 – Panorama (settimanale), 13 – Il Popolo, 69 – Reporter (RE) (settimanale), 12 – La Repubblica, 79 – Resto del Carlino (ed. RE), 222 – Rinascita (settimanale), 13 – Il Sabato (settimanale), 6 – La Stampa, 64 – Stampa Sera, 5 – L’Umanità, 28 – Umanità Nova (Fai), 3 – l’Unità (ed. RE), 142 – Voce Repubblicana, 9. In Appendice riportiamo il numero degli articoli comparsi nel mese di settembre, suddivisi cronologicamente 43 . Giannetto Magnanini nel suo libro Dopo la Liberazione. Reggio Emilia aprile 1945 settembre 1946 (1992) su questa vicenda scrive “Il problema [sul numero degli scomparsi fascisti,ndr] si è ripresentato con forza il 25 aprile del 1990 quando Flavio Parmiggiani, figlio di un ucciso dai partigiani dieci giorni prima della Liberazione, fece pervenire a tutte le famiglie del Comune di Campagnola una lettera aperta indirizzata all’Anpi con la quale chiedeva notizie circa i resti e i luoghi di sepoltura di persone uccise prima e dopo la Liberazione. Tale lettera provocò una vasta polemica sulla stampa locale trascinatasi per tutto il mese di maggio” (p. 11) 11
Alla luce di questa imponente campagna massmediatica, nelle pagine che seguono, cercheremo di offrire un'ipotesi interpretativa di quella fase storica e di analizzare, seppur sinteticamente, l'uso che della storia, e in particolare della “memoria”, è stato fatto dai mezzi di informazione44 su avvenimenti che solo apparentemente sembravano riposare sotto la cenere del tempo. Il presente saggio non può certo considerasi esaustivo – intanto perché prende in considerazione, come è stato detto, solo un periodo limitato di tempo anche se molto significativo – perché in campo ci sono tutti gli ingredienti che ciclicamente tornano sotto le luci della ribalta, fino al recente “dossier Mitrokhin” e alla campagna referendaria dell’ottobre scorso quando un manifesto della Lega attribuiva la legge costituzionale federalista proposta dal centro sinistra ad un complotto comunista.
44
. Vedi, per un approfondimento sul tema, Giovanni De Luna La storia sempre “nuova” dei quotidiani e la costruzione del senso comune, in Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, a cura di Enzo Collotti, Laterza, Roma-Bari 2000; Chiara Ottaviano, Uso pubblico della storia, in “RS”, n 78/1995, pp. 93-105 12
29 agosto 1990: “Chi sa, parli!” Il “Carlino Reggio” del 28 agosto 1990 titola un articolo, sotto la voce Violenza politica – specificazione che caratterizzerà tutti gli articoli del quotidiano emiliano che affrontano le questioni relative alle tormentate vicende del secondo dopoguerra – “Favelas, apri gli archivi segreti delle Br”, nell'occhiello Del Bue chiede di far luce su “desaparecidos” e terrorismo e nel catenaccio La proposta alla commemorazione di Umberto Farri a Casalgrande. Scheletri reggiani in Cecoslovacchia. È con esso, se vogliamo prendere una data di inizio, che prende il via la (lunga) stagione del “Chi sa, parli”, l'invocazione che chiude la lettera di Otello Montanari al “Carlino” in risposta alle accuse di Del Bue e pubblicata il 29 agosto, il giorno successivo all'articolo sopracitato. La lettera è anche commentata da Mike Scullin nelle pagine reggiane dello stesso giornale (Il Pci fa i nomi di chi li copriva) e da Francesco Alberti in quelle nazionali (“Sì il Pci li nascondeva a Praga”). Soffermiamoci sulla lettera di Otello Montanari. Il giorno 31 agosto 1990 sarebbero stati esattamente quarantacinque anni dall'assassinio dell'ingegnere Arnaldo Vischi, “Il primo e più grave delitto del dopoguerra”, direttore tecnico delle Officine Reggiane, già da prima della guerra. Il cadavere fu rinvenuto la mattina del 1° settembre 1945. Non intendiamo seguire la ricostruzione del delitto Vischi né tanto meno la spirale di violenza che innescò, vogliamo invece rilevare i passaggi più significativi dello scritto dell'ex deputato comunista le cui “ammissioni” e riflessioni sono abilmente sottolineate negli articoli citati di Mike Scullin e Francesco Alberti. Un primo tabù è infranto: il delitto Vischi non fu un delitto fascista come dichiarò l'allora segretario comunista Arrigo Nizzoli, ma fu commesso da “persone iscritte al Pci” Scrive Montanari: per quel delitto che innescò la spirale dell'odio e delle connivenze, per gli incredibili risvolti connessi ai sequestri Donelli e Riccò, furono inquisiti e processati Arrigo Nizzoli, già segretario della Federazione comunista reggiana fino all'inizio del 1947, Ferrari Didimo “Eros”, già Commissario delle formazioni partigiane della montagna, segretario provinciale dell'Anpi, ed altri ex dirigenti della lotta di liberazione, agenti i quali, anziché regolarsi secondo le leggi vigenti per la funzione di polizia accettarono di comportarsi come gli suggerivano “Eros” o Nizzoli che erano dirigenti politici Ci furono certamente strumentalizzazioni contro il Pci e contro la Resistenza, questo non va mai dimenticato, ma ci furono pure reticenze e coperture da parte di alcuni dirigenti del Pci [corsivo mio]. ... Non fu tagliato, sin dal primo momento, quel cordone ombelicale che poteva tirare nuovi delitti, nonostante la fermissima ripetuta condanna, fatta anche a Reggio Emilia il 25 settembre 1946, dallo stesso Palmiro Togliatti. ...
Montanari avalla, più o meno indirettamente, la tesi che all'interno del Pci reggiano ci fossero due linee, una democratico-riformista e l'altra stalinista e violenta, che non aveva abbandonato i metodi della lotta armata45. 45
. Per valutazioni diverse in merito alla questione della doppiezza cfr. Renzo Martinelli Storia del Partito comunista dalla Resistenza al 18 aprile, Einaudi Torino 1995. La vera “doppiezza” del PCI - che, intesa nel senso più tradizionale, riposa [...] su una realtà estremamente variegata e complessa della sua base e del suo corpo sociale, oltre che su reali spinte ribellistiche - è espressa in realtà dalla combinazione tra una politica rigorosamente democratica e da una organizzazione nella quale invece si 13
La prima era rappresentata da Valdo Magnani, Aldo Magnani, dal sindaco della Liberazione Cesare Campioli mentre della seconda si è già accennato. La discussione sul ruolo di “Eros” e Nizzoli – prosegue Montanari – va riaperta con rigore anche se può dispiacere perché furono antifascisti che pagarono con anni di carenze e sofferenze, ma procurarono con alcuni atti conseguenze e ferite molto gravi alla democrazia, al consorzio umano, al Pci ... Si trattava certamente di personalità che portavano avanti la “doppia linea”. ... Larga parte del gruppo dirigente reggiano nel Pci non fu però sufficientemente coerente e risoluto nello sradicare ogni forma di eversione.
Sulla questione della “doppia linea” e di un gruppo dirigente diviso, il fondo di Umberto Bonafini, direttore della “Gazzetta di Reggio”, dal titolo Gli innocenti in galera e i colpevoli fan carriera, che comparirà il 31 agosto, rifiuta questa impostazione e dà voce a un comune sentire nei confronti di colui che lanciò l'appello “Chi sa, parli”. C'è chi divide il Pci dell'epoca in buoni e cattivi: i cattivi erano Nizzoli e compagni, i buoni Valdo Magnani, Campioli ecc. Non c'è una riga sulla stampa dell'epoca in cui Magnani, Campioli ed altri “buoni” abbiano sconfessato mandanti e assassini dell'epoca [corsivo mio]. ... Chi oggi si atteggia a verginella, non dimentichiamolo mai, si schierò dalla parte di coloro che schiacciarono il 'pidocchio' Magnani, allogato nella criniera del 'cavallo' Pci di allora. Non solo: ma avendo militato e vissuto da sempre all'interno della parrocchia comunista doveva, amore o forza, conoscere i segreti della sagrestia.
Non è superfluo ricordare le riflessioni che nel '52, all'indomani della loro uscita dal Pci (seguita dall'espulsione), Aldo Cucchi e Valdo Magnani affidarono allo scritto Perché entrammo nel P.C.I. e perché esprimono, e si sublimano, le vecchie tradizioni leniniste e rivoluzionarie. Su questo terreno viene incanalato lo sforzo dei militanti, la loro aspettativa millenaristica, la tendenza all'ora X – per la quale una perfetta organizzazione è fondamentale, come insegna l'esperienza del movimento comunista. Così, la fiducia in una prospettiva indefinita, ma non esclusa, di “presa del potere” - bisogna ricordare che il PCI, sul piano della difesa contro i tentativi reazionari, ha sempre ammesso la violenza – si è tradotta in un lavoro minuto, quotidiano, si è legata alla lotta per il miglioramento del tenore di vita delle masse lavoratrici, e si è collegata, su questa base, a strati sociali importanti nell'Italia ancora agricola del 1945-46. Si sono poste le basi, in questo modo, di un radicamento nella società italiana tale da bilanciare la debolezza politica, si è spostata su questo piano l'azione del partito, si è formato così, in definitiva, il più grande partito di massa della storia dell'Italia repubblicana. Questo ha tuttavia espresso, e in parte prodotto, anche un'ineliminabile sfasatura, perché la situazione internazionale non permetteva il superamento di certi limiti – ma soprattutto perché la società italiana era all'inizio di un processo di mutamento e di sviluppo economico sconvolgente, che i comunisti certamente non potevano prevedere. I loro strumenti di analisi e di valutazione, di conoscenza della situazione, di consapevolezza dei mutamenti economici e sociali dell'Italia, non erano infatti i più idonei a comprendere la realtà – e a questa comprensione della realtà facevano schermo elementi di carattere ideologico-storicistico, come la vittoria inevitabile del socialismo, il mito dell'Urss, ecc. Tutti questi fattori delineano una condizione di insufficienza e di tendenziale subalternità dei comunisti, che si manifesterà pienamente nelle successive vicende di questo triennio cruciale. Sulla figura, in particolare, di Didimo Ferrari “Eros” bisogna registrare anche una voce diversa. Antonio Zambonelli, , direttore dell’Istituto storico della Resistenza, sull’Unità dell’8 settembre 1990, afferma: “E per quanto riguarda militanti comunisti da tempo scomparsi – come Eros – sulle cui spalle oggi troppe colpe vengono caricate prima dei necessari approfondimenti della ricerca ... Dovremmo sapere ascoltare anche la sua voce, sia pure a 32 anni dalla morte che lo colse dopo molte amarezze, in età di 47 anni”. Si veda, sull’argomento, uno studio sempre, di Zambonelli, dal titolo Il dopoguerra reggiano nelle “carte segrete” di “Eros”, pubblicato nel dicembre dello stesso anno sulla rivista dell’Istituto storico della Resistenza di Reggio Emilia “Ricerche Storiche”, nn. 64/66. Riportiamo un passo della presentazione di Antonio Zambonelli: “Didimo Ferrari, Eros, è stato uno dei fantasmi “negativi” evocati nel corso delle polemiche settembrine sul dopoguerra reggiano e, più in generale, sulla Resistenza. Gli si attribuiscono colpe per le quali fu perseguitato e condannato contumace. Con la documentazione inedita che pubblichiamo in questo “dossier” crediamo di poter fornire un contributo alla conoscenza delle vicende reggiane negli anni del post Liberazione e del ruolo che in quelle vicende ebbe Eros” [p. 8] 14
ne siamo usciti46. Esse sono una testimonianza coeva e di prima mano (Magnani divenne segretario della federazione del Pci reggiano dopo Nizzoli) ai fatti, che ci restituisce il clima di quegli anni. Scrivono Nel tumulto della liberazione i dirigenti comunisti provinciali stavano distribuendosi le cariche cittadine e non facevano nulla per consigliare, frenare o dirigere i partigiani, non mettevano alcun freno alla loro azione, preoccupandosi solo di non trovarsi direttamente coinvolti (corsivo mio).
Affermazioni pesanti, ma che la revisione dei processi Nicolini e Baraldi e la lettera di Montanari hanno confermato47. Con il '48, in seguito alla sconfitta elettorale del Fronte popolare, al concetto “dinamico” di democrazia progressiva si sostituì la fede nelle baionette dell'Armata rossa, quale scorciatoia cruenta e antinazionale per il socialismo. Il mito dell'Urss, la versione comunista del regno dei cieli cristiano, nel nome di Stalin (e Zdanov) schiacciò implacabilmente ogni voce critica. Pci e Urss facevano blocco, in negativo. In questo “ambiente” – schematicamente riassunto – Cucchi e Magnani, nel loro scritto, smentiscono chi vedeva all'interno del Pci uno scontro tra riformisti e stalinisti, perché tutti od obtorto collo o pienamente convinti si compattarono sulla politica stalinista. Compresi quelli che oggi – come accusa Bonafini – lanciano certi appelli. Infatti, ben pochi ebbero la forza critica e il coraggio di pagare il prezzo del dissenso48. Bisognerebbe essere storicisti assoluti per accettare che solo il reale è razionale49. Tuttavia mi 46
. Ripubblicato con il titolo Crisi di una generazione, La Nuova Italia, Firenze 1952. Ora ripubblicato Idem, Edizioni e/o, Roma 1995 da dove è tratta la citazione , pp. 42-43 47 . Riportiamo, come esempio, alcuni passi della sentenza di risarcimento a favore di Egidio Baraldi emessa dalla Corte d’Appello di Perugia il 22 gennaio 1999. “Dalla lettura della sentenza di revisione pronunciata dalla Corte di appello, risulta inoltre, in maniera inequivoca, la lunga e solitaria battaglia che il Baraldi dovette condurre per ottenere il riconoscimento della propria innocenza da parte dei suoi “compagni” e dei suoi concittadini prima ancora che da parte della giustizia: una battaglia contrassegnata da silenzi, omertà e ostilità, venuti meno soltanto quando – alla distanza di ben cinquant’anni dall’assassinio del Mirotti – le coscienze di coloro che “sapevano” ed avevano così a lungo taciuto entrarono in crisi e certi “muri” ideologici cominciarono a crollare ... Senza dire, infine, della particolare stagione attraversata dal nostro paese negli anni ‘50, allorquando gli organi istituzionali dello Stato, deputati a far luce su alcuni gravissimi fatti di sangue verificatisi – quale quello in esame – nelle province reggiane ed emiliane, finirono, anch’essi, loro malgrado, con il risentire del clima di contrapposizione ideologica, aspra e netta, esistente in quella parte d’Italia, incorrendo in gravi errori giudiziari, sia pure nel doveroso e legittimo intento di individuare e punire severamente gli autori di quei gravissimi fatti di sangue”. Si veda anche la testimonianza di Valdo Magnani data a Nadia Caiti ora in Nadia Caiti-Romeo Guarnieri, La memoria dei “rossi”, Ediesse, Roma 1996 48 . P.l.a. “So chi sono gli assassini”, “Il Giornale”, 2 settembre 1990. “Credo – afferma Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei sette fratelli fucilati da fascisti – che Otello Montanari lo abbia fatto per anticipare altri, ma non mi convince fino in fondo perché anche lui c'era in quegli anni ed è stato un dirigente di partito per tanti anni. È l'Andreotti del Pci dell'Emilia. Lui è sempre rimasto al vertice del Pci, è stato anche l'accusatore di chi contestava la linea ufficiale” 49 . Marcello Flores-Nicola Gallerano, Sul Pci. Un'interpretazione storica, Il Mulino, Bologna 1992, p. 76, “Solo uno storicismo assoluto può far credere che non vi fosse all'epoca altra via che quella di insultare ed emarginare due dirigenti [Cucchi e Magnani, ndr] che rivendicavano proprio quella linea democratica e nazionale che gli storici comunisti hanno sostenuto costituire il “vero” filo rosso del Pci da Gramsci fino a Berlinguer e forse oltre”. La vicenda personale e politica di Valdo Magnani e Aldo Cucchi, Miriam Mafai (Botteghe Oscure, addio, Mondadori, Milano 1996) la riassume molto bene in poche righe. “Accusato di “deviazionismo titino”, Magnani venne immediatamente espulso insieme a un altro dirigente della federazione e deputato, Aldo Cucchi. Togliatti spiegò, e fu una delle sue dichiarazioni più infelici, che “anche nella criniera di un nobile cavallo possono crescere due pidocchi…”. Attorno a Valdo Magnani e al suo complice venne steso, per evitare che l’infezione titina si diffondesse, un vero e proprio cordone sanitario: intimidazioni, pedinamenti e controlli parapolizieschi. Otello 15
pare ingeneroso non sottolineare lo sforzo di Montanari sia di inserire quelle vicende nel loro tempo sia di stigmatizzare chi – e qui sicuramente è evidente il suo volersi in qualche misura tirar fuori da quegli avvenimenti – tutto “motivava con la minaccia ricorrente di un ritorno fascista e reazionario sostenuto dagli Usa”. Montanari intervistato dall'“Unità”, si difende dall'accusa di essere stato in quegli anni “omertoso” (Egidio Baraldi, accusato del delitto del capitano Mirotti avvenuto nell'agosto 1946, e poi assolto nel 1999, non si periterà dal ricordarglielo)50, come la famosa scimmia che non vede, non sente e non parla Io – si difende Montanari – fui gravemente ferito nel gennaio del 1945, per quattro mesi mi nascosi e in seguito rimasi più di un anno in ospedale a Bologna. Non ero a Reggio quando fu ucciso Vischi, né quando avvennero altri omicidi. Iniziai l’attività di partito alla fine del ‘46 e assunsi incarichi nella segreteria più tardi, nel 1951. Detto questo, riconosco che abbiamo avuto gravi ritardi nel trarre tutte le conseguenze in termini storici e politici, dalla consapevolezza che alcuni compagni e dirigenti di partito, commisero o coprirono gravi delitti ... Insomma, con quegli episodi con le cause politiche che li determinarono, non si sono fatti i conti definitivamente51.
Ma qui non interessa più di tanto il personaggio, interessano, invece, i fatti storici che restano inequivocabili. Certo è che metodo democratico e via rivoluzionaria (o violenta) al socialismo erano un intreccio complesso all'interno del Pci non facilmente dirimibile come un nodo gordiano, con un colpo netto. Se fu il primo a prevalere lo si deve, indubbiamente e per semplificare, alla linea scelta da Togliatti (qualcuno direbbe impostagli da Stalin, attento agli equilibri mondiali durante e dopo la guerra)52. Montanari [in realtà a Magnani subentrò Onder Boni, quindi la frase che segue è di dubbia attribuzione, ndr], che lo aveva sostituito come segretario della federazione di Reggio, non si stancava di sottolinearne nelle riunioni di base “le caratteristiche della spia: il riso diabolico e la falsa austerità”. Ma non bastava ancora: Magnani e Cucchi vennero persino espulsi dall’Anpi (Associazione nazionale dei partigiani italiani) e condannati senza pietà dai dirigenti socialisti. Uno di questi, e tra i più autorevoli, Rodolfo Morandi, li definì sbrigativamente “bave titine”, Fernando Schiavetti toglierà il saluto alla figlia Francesca, che sposerà il “traditore”. Valdo Magnani, nel 1962, verrà riammesso nel partito, dove resterà fino alla morte, sempre però in posizione molto marginale, nonostante le sue notevoli capacità 50 . Scrive Antonio Zambonelli sull’Unità dell’8 settembre 1990: “Qualche anno addietro mi capitò di dare una mano a Baraldi nella pubblicazione delle sue memorie quando altri, che peraltro, hanno molti meriti lontani e vicini, e che oggi si fanno portabandiera di una scomposta “glasnost” storiografica, cercarono di indurmi a convincere Baraldi stesso a non pubblicare la propria drammatica testimonianza”. 51 . Stefano Morselli, “Ciò che so su quei delitti non è tutto la verità...”, “l’Unità” 31-08-1990 52 . Marcello Flores-Nicola Gallerano, Sul Pci. Un'interpretazione storica, Il Mulino, Bologna 1992, p. 70-71, “Interrogarsi sulla paternità togliattiana o sovietica della svolta di Salerno non è, contrariamente a quanto è stato più volte affermato, un esercizio ozioso e superfluo. [...] Quello che bisogna sottolineare sono gli effetti che il suo arrivo [di Togliatti] produsse nel gruppo dirigente italiano. Togliatti era il riconosciuto leader del partito, e lo era perché si trovava a Mosca. Egli tornava in patria aureolato dal ruolo ricoperto nel Komintern (fu vicesegretario, ndr) e dalla vicinanza con Stalin: anche così si spiega l'attenzione con cui venivano seguite le sue trasmissioni radiofoniche dall'Urss. La proposta di alleanza con Badoglio, per quanto in contrasto con la linea seguita in Italia, non venne messa in discussione da nessuno; come nessuno aveva espresso la benché minima critica al riconoscimento sovietico di un governo che era allora considerato rappresentante dei ceti plutocratici reazionari. L'adesione a scelte “tattiche” sovietiche è il segno inequivocabile della soggezione del Pci nei confronti di Mosca; come lo è il tentativo di dare un segno di continuità al cambiamento operato da Togliatti a Salerno e di far apparire le divergenze e le differenze di posizioni come “approfondimenti” di un disegno condiviso unitariamente.[...] Nessuno contesta più che vi sia stata, tra i dirigenti comunisti in Italia, una sorta di schizofrenia tra le valutazioni relative alla situazione interna (conduzione della Resistenza, rapporti con i partiti del Cln, questione istituzionale, partecipazione al governo) e la comprensione della dinamica internazionale. Essa nasceva dalla tumultuosità del periodo, che portava a frequenti aggiustamenti e mutamenti tattici che potevano anche assumere l'aspetto di “svolte” di notevole portata. Fu una schizofrenia, tuttavia che si risolse sempre 16
La Mafai avvalora la tesi della scelta autonoma del Pci. La “confessione” di Otello Montanari – scrive – e quanto altro potrà uscire dagli archivi, non mette in gioco la linea scelta dal Pci nel dopoguerra. Caso mai, per paradosso, ne conferma la giustezza e le difficoltà, nel momento in cui vengono allo scoperto le resistenze con le quali dovette misurarsi. Quegli episodi, per quanto isolati, sono proprio la traccia sanguinosa di quelle resistenze53 .
Con molta lucidità e senso della misura (cioè storico) la giornalista riconosce che da una guerra “gloriosa e spietata” come quella che visse l'Italia del 1943-45 non si poteva uscire “solo per una disposizione della Gazzetta Ufficiale ... Le vicende della storia non possono venire scandite con una regolarità da orario ferroviario”. Mentre la Rossanda sul “Manifesto” liquida così le accuse di doppiezza rivolte contro il Pci togliattiano Secchia fu amato negli anni settanta e ottanta perché era avversario di Togliatti: ma è una figura mediocre come testimoniano le sue assai selettive memorie. Togliatti ebbe davvero di che battersi, perché non frange isolate di partigiane ma l’uomo dell’organizzazione tenne in piedi fino agli anni cinquanta accanto alla rete vera del Pci un apparato sufficientemente “militarizzato” da compromettere il partito e del tutto assurdo rispetto ai rapporti di forza politici e militari54 .
Ma l'opinione della Rossanda si spinge più in là, ribaltando i giudizi dei dirigenti comunisti riguardo le scelte togliattiane e le “velleità” di Secchia, sostenendo che “l'operazione “staliniana” non fu la velleità di Secchia, ma quello che fece Togliatti battendosi coerentemente per un partito di massa e senz'armi”. Infatti, in altre parole, le velleità insurrezionali di Secchia sono la cosa più lontana dallo stalinismo dopo Yalta, perché chi accettò la divisione del mondo secondo quegli accordi fu Togliatti, non Secchia o Scoccimarro o Colombi ecc. In questo, la fondatrice del “manifesto”, per il solito gioco bizzarro dell'eterogeneità dei fini, trova pieno consenso nella stampa “borghese”, secondo cui Togliatti è uno stalinista. Naturalmente, gli intenti della Rossanda sono diversi, vogliono stemperare, ragionando, il furore di quei giorni in cui il “piano K” e la violenza dei comunisti erano la notizia. Carlo Giorgi sul “Popolo”, organo della Dc, del 1° settembre 1990 – un esempio fra i tanti possibili – non va tanto per il sottile: I partigiani comunisti all'indomani della Liberazione pensavano che fosse imminente l'avvento del Pci al governo e non ebbero alcuna esitazione a massacrare inermi cittadini, sacerdoti e oppositori per intimidire, ricattare, piegare quanti si opponevano a questo disegno. Miriam Mafai ed altri commentatori sono propensi a giustificare, ad assolvere a credere che, nonostante gli errori e le pagine oscure, quel modello comunista fosse assolutamente estraneo alle tradizioni e alla storia del Pci. Lasceremo naturalmente agli storici la ricostruzione e il giudizio su quegli anni ... Ma Franceschini, Pelli, Gallinari e tanti altri brigatisti che alla fine degli anni ‘60 scelsero la lotta armata, avevano alle spalle i loro maestri. Se fossi mio figlio – dichiarò il padre di Franceschini nel libro Mai più senza fucile – farei esattamente quello che ha fatto lui. È la vecchia anima del Pci che si ritrova nella prospettiva rivoluzionaria e dell'avvento privilegiando gli interessi “internazionali” su quelli nazionali 53 . “La Repubblica”, 31 agosto 1990 54 . Rossana Rossanda Il sangue d’Italia. Il “triangolo rosso” di Reggio Emilia: la memoria mediocre di una storia tragica, cit. 17
della classe al potere e questo disegno significava, anche dopo gli eccidi, trovare comunque un nemico, un avversario da eliminare. Altroché riformismo! La cultura della violenza, l'invito alla lotta armata nascono dagli esempi, dalle sollecitazioni, dalla storia e dalle esperienze del Pci55.
Mass media e mondo politico (in particolare gli ambienti socialisti), hanno scelto di calcare la strada delle notizie “urlate”, anche se i toni possono avere sfumature diverse di grado ma non di sostanza. Mike Scullin racconta nel suo articolo del 29 agosto, Il Pci fa i nomi di chi li copriva, quale sia stata la “genesi” dello scritto di Montanari. Significativo l'incontro tra l'ex onorevole e il massimo dirigente del Pci reggiano di allora che conferma che la strada scelta per voltar pagina è la “confessione” pubblica. L'onorevole – scrive Scullin – è entrato nell'ufficio di Fausto Giovanelli, segretario del Pci, alle due del pomeriggio e gli ha mostrato le tre cartelle dattiloscritte. “Mi ha detto che a leggere è rabbrividito – ricorda poco dopo Montanari – è sostanzialmente d'accordo, apprezza il coraggio. Bisogna voltar pagina, chi ha dire parli.
Montanari è sicuro che la strada non sarà sempre in discesa come l'incontro con il segretario comunista. Lo stesso cronista registra: “Ho amici partigiani che mi dicono: 'Bisogna fare come la Chiesa, tacere'. No, bisogna dire la verità. Anche se domani qualcuno mi toglierà il saluto”. “Il problema è capire come era la situazione dal giorno della Liberazione al massimo al 31 dicembre 1947, al momento dell'approvazione della nuova carta costituzionale”. Sono le parole che il dirigente comunista Giannetto Magnanini scrive sull'“Unità” Reggio del 29 agosto, (Reggio non è mai stata capitale della violenza. Attenzione ai polveroni!), per rispondere a Mauro Del Bue (“Havel, apri gli archivi segreti delle Br”, Carlino 28 agosto), e ricordare che, fin dall'aprile precedente, l'Istituto storico della Resistenza, a seguito di una furiosa campagna massmediatica “strapaesana” scatenata da una lettera di un figlio di uno dei ventisette fascisti scomparsi a Campagnola tra le ultime settimane di guerra e il dopo Liberazione, aveva proposto a Provincia e Comuni un programma di studi sul periodo post-Liberazione. Le parole del dirigente comunista reggiano sembrano raccogliere l’invito di far piena luce, senza alzare “strumentali” polveroni, sulle vicende ancora oscure del post Liberazione. Ma è l'eco della lettera di Montanari che catalizza l’interesse generale. Secondo Francesco Alberti, nel suo articolo citato, il Pci, che fino ad allora aveva sempre negato ogni responsabilità “nelle violenze che insanguinarono Reggio fra il '45 e il '47” ha risposto per “bocca” di Montanari “con parole che non si prestano a equivoci: “Furono molti, fra i comunisti, coloro che scelsero la linea della reticenza e della copertura””. Di più, il silenzio di colpevoli e innocenti, scrive la Mafai sulla “Repubblica” del 31 agosto, “gli storici e i giornalisti che si erano addentrati in quella “zona grigia”, lo sapevano o meglio lo sospettavano”. L'on. del Bue ha avuto una forte (e forse insperata) risposta alle sue accuse. Il giovane deputato socialista – come lo definisce il “Corriere” del 30 agosto – nella commemorazione di Umberto Farri di alcuni giorni prima, aveva indicato nella Cecoslovacchia la meta strategica di fuga prima di ex partigiani inseguiti da mandati di cattura per i delitti commessi e poi di brigatisti rossi. E senza mezzi termini aveva accusato 55
. Il riformismo degli stalinisti, “Il Popolo”, 1 settembre 1990
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ambienti comunisti reggiani di essere non solo i mandanti dell'omicidio del sindaco di Casalgrande, Umberto Farri ucciso il 26 agosto 1946, ma anche di altri delitti commessi in terra reggiana fra il '45 e il '47. Le ammissioni di colpa del Pci per bocca di Montanari cominciano ad avere un'eco, ma ancora senza un gran risalto, sulla stampa nazionale. I primi articoli sono ancora relegati nelle pagine interne. Il “Corriere della sera” del 30 agosto titolava a pagina 10: “Il Pci ammetta quei delitti”. Ex combattente della Resistenza svela i misteri di Reggio Emilia e il “Giornale”, in un articolo di due colonne dal titolo interrogativo: Pci, polemiche in Emilia: il partito dette protezione a dei partigiani assassini?, mentre “l'Avanti” parla delle vittime italiane dell'occupazione jugoslava dal 1945 al 1948. Stranamente la “Gazzetta di Reggio” non assegna un grande rilievo alla lettera di Montanari, pubblicata come detto dal “Carlino Reggio” – anche se il fondo di Bonafini del giorno successivo è significativo in proposito – affidandosi alle dichiarazioni di Fausto Giovanelli, segretario del Pci reggiano, per il commento sull'omicidio Vischi e sui fatti di sangue del dopoguerra. Così titola, citando una frase di Giovanelli, “Sul delitto Vischi non spetta al Pci cercare la verità” Il giorno dopo sullo stesso quotidiano il segretario comunista si lamenterà che il titolo non corrispondeva al suo pensiero. Interessante (e un poco cifrata) è la risposta di Bonafini: “Capisco che, dopo essere stato tirato in ballo in questa vicenda, ogni parola “faccia difetto” per il segretario del Pci. Ma non dia la colpa ai giornali. Si guardi piuttosto attorno a sé in via Toschi [corsivo mio]” Bonafini sembra dire che le serpi sono sempre in seno, mai fuori. Ben altra musica si sprigiona dalle colonne reggiane del “Carlino”. Il 30 agosto Quei comunisti stritolati dal Pci, titolo sparato che il sommario chiarisce Bertolini e Montanari: “Il Partito sapeva che Nicolini era innocente,ma lo abbandonò”. Così anche per Baraldi. A fianco, come spalla, il giornale cittadino diretto da Gigi Zerbini pubblica uno scritto di Vincenzo Bertolini, già segretario “migliorista” del Pci reggiano e, all'epoca, vicepresidente regionale della lega delle Cooperative, il cui titolo, Ci è restata una scomoda eredità, riassume perfettamente tanto il contenuto del pezzo quanto le idee di una parte del partito che, attraverso la “Cosa”, stava incamminandosi sulla strada del cambiamento del nome in Pds. Un'esigenza di chiarezza confermata da Giovanelli: “Ritengo che se c'è stato spazio per reticenze e doppiezze, non ve ne sia e non debba esservene più oggi nel nuovo Pci e tanto meno domani nella nuova forza che ci accingiamo a fondare”. Il “Resto del Carlino”, per amplificare al massimo l'attenzione sugli scottanti temi utilizza sia le pagine reggiane sia le nazionali. Su quest'ultime all'articolo di Francesco Alberti, Il Pci ritrova la memoria (30 agosto), non si può negare che sia riuscito a individuare con lucidità alcuni aspetti significativi della questione. Omicidi. Violenze. Fughe all’estero in paesi compiacenti (come la Cecoslovacchia). Processi pilotati o comunque condizionati da testimonianze spesso interessate. Sentenze senza un colpevole. Colpevoli senza colpe. Il Pci ritrova la memoria .... Ma adesso con un futuro ancora da decidere (la “Cosa”) e un presente avvelenato da concreti rischi di scissione, il Pci anche se fra mille tentennamenti (vedi il tentativo di far coesistere l’anima riformista con quella leninista), pare deciso a fare i conti con la propria cattiva coscienza. 19
E a conferma di ciò cita un passaggio dello scritto di Vincenzo Bertolini, comparso nelle pagine reggiane “Nessuno di noi può considerarsi al di fuori di questa scomoda eredità. ... È vero c’erano gruppi che consideravano transitoria la democrazia politica e operavano con mentalità insurrezionale”. ... Parole ispirate da un’improvvisa voglia di verità? In parte sì – perché dubitarne? – ma sarebbe però riduttivo non scorgere dietro a queste affermazioni precise motivazioni politiche: la voglia di uscire dalle secche della ‘Cosa’, anche a costo di rituffarsi fra orrori ed errori del passato con tutti i rischi che ne conseguono [corsivo mio].
L'“Unità” del 30 agosto riporta, nelle pagine nazionali, in un essenzialissimo resoconto dal titolo Delitti politici nel dopoguerra. Dossier sul Pci di Reggio Emilia, i contenuti della lettera di Montanari, affidando al sommario tutto il peso della notizia. Nell’immediato dopoguerra, alcuni dirigenti del Pci reggiano praticarono la “doppia linea”. Lo stesso segretario di allora – in conflitto con le posizioni di Togliatti – coprì veri e propri delitti politici. Una ricostruzione dell’ex partigiano ed ex parlamentare comunista Otello Montanari riapre un capitolo drammatico. Il segretario attuale: “Nessuna paura della verità”.
Il giornale comunista “laicamente” accetta, quindi, la tesi secondo la quale all'interno del Pci, subito dopo la Liberazione, la “svolta di Salerno” era ancora più nella testa e nelle intenzioni del gruppo dirigente romano che in quella dei quadri e dei militanti periferici, reggiani in particolare. Il quotidiano del Pci trascura, però, un'altra questione sollevata dall'on. Del Bue e confermata per un verso dalle parole scritte da Montanari: le fughe in Cecoslovacchia di partigiani ed ex dirigenti comunisti coinvolti in quei fatti delittuosi. Aspetti che il “Corriere della Sera” dello stesso giorno non passa in secondo piano e che con tre frasi “secche” ricostruisce nel catenaccio: La fuga pilotata in Cecoslovacchia di alcuni responsabili – I legami con gli anni di piombo [il sovrappiù] Il lavoro di un deputato del Psi. Il 31 agosto da nord a sud l'Italia giornalistica (si contano circa quaranta articoli dedicati al tema, senza annoverare quelle testate che non siamo riusciti ad esaminare) mette in risalto che un Ex-resistente accusa i comunisti di sei delitti (Avvenire) mentre la “Gazzetta del Mezzogiorno” titola Il Pci ammette le sue colpe sul dopoguerra nel reggiano. Nuove autocritiche dopo quelle dell’ex deputato Montanari. Scrive l'“Umanità”, organo del Psdi, Dopoguerra in Emilia: un altro scheletro nell’armadio del Pci. Ma è il quotidiano del Psi, “l'Avanti!”, che si incarica di evidenziare a tutto tondo i termini della questione. Sotto la voce “Anni Quaranta i crimini coperti dal Pci” presenta quattro articoli. Uno è un'intervista a Mauro del Bue, Da Reggio a Praga terrorismo rosso di ieri e di oggi; un altro è un scritto dello stesso parlamentare reggiano del Psi, Erano fondate quelle accuse al Pci reggiano. Con il terzo L’altro volto del togliattismo. Finalmente la cultura della glasnost anche sugli omicidi “politici” del 1946, l'organo d'informazione del Psi mette subito in chiaro quali siano i temi su cui punterà la sua artiglieria pesante. Il sottotitolo, evidenziato in neretto, riassume il “filo rosso” che legherebbe guerra di liberazione e terrorismo brigatista: “Da Reggio Emilia giungono autorevoli conferme delle azioni criminali e degli assassinii perpetrati dal Pci “parallelo” negli anni Quaranta, un partito armato di tutto punto e pronto all'insurrezione, una sorta di archetipo del “brigatismo rosso” degli anni Settanta” 20
È l'intervista all'on. Del Bue a fissare il terzo capo d'accusa rivolto al Pci, le relazioni più che pericolose con la Cecoslovacchia. Il quarto articolo s'intitola Vertici del partito furono conniventi con gli assassini. La testimonianza di Otello Montanari. Gli altri quotidiani, quelli “d'opinione”, appaiono più distaccati. Prendiamo come esempio il “Corriere della sera”, sempre del 31 agosto, che titola, echeggiando la lettera di Montanari, Reggio, chi sa comincia a parlare mentre il quotidiano romano “il Messaggero” constata che I “delitti rossi” del dopoguerra non imbarazzano il Pci a tre giorni dall'inizio dell'“operazione verità”. La “Repubblica”, invece, dedica al tema più articoli fra cui uno in prima pagina La verità su quel triangolo di Miriam Mafai. E “l'Unità”? da parte sua il quotidiano comunista, diretto da Renzo Foa, appare del tutto disinvolto verso il passato del suo partito. Nell'intervista raccolta dall'“Unità”, Fausto Giovanelli afferma Per la verità a Reggio Emilia non è da adesso che se ne parla. I protagonisti di quegli anni non trovano nulla di particolarmente nuovo in ciò che si è scritto in questi giorni ... E in questi ultimi tempi è venuta fuori con maggior insistenza, soprattutto da parte di ex partigiani condannati ingiustamente la richiesta di fare chiarezza, di dire tutta la verità56.
Gli fa eco da Roma, il giorno successivo, Piero Fassino, della segreteria nazionale del Pci e incaricato di seguire i fatti di Reggio Emilia, che dichiara al termine della Direzione nazionale, proprio dalla ricostruzione di quegli anni difficili emerge che sia il gruppo dirigente nazionale del Pci, coll'impegno diretto e personale di Togliatti, sia la stragrande maggioranza dei comunisti reggiani, si batterono con rigore per dare basi di massa alla democrazia nel nostro paese, contrastando ambiguità e doppiezze e opponendosi con decisione a qualsiasi atto che portasse la lotta politica al di fuori della legalità57.
Mentre Mussi precisa che non c'è una linea specifica della segreteria per i fatti dell'Emilia. Insomma, pare che il partito di Occhetto abbia reagito – per usare le parole “posate” del “Giornale” di Montanelli – senza far drammi alle rivelazioni dell'ex partigiano Otello Montanari, che dopo 45 anni ha spezzato il cerchio d'omertà che circondava i crimini compiuti in Emilia da alcuni partigiani comunisti: una serie di barbare vendette personali mascherate da “esecuzioni politiche”58.
Il motivo appare chiaro dalle dichiarazioni dell'on. Montanari L’esigenza di chiarezza assoluta è tanto più vera quanto più affermiamo con nettezza i valori che da tempo ci ispirano e quando ci prepariamo a costituire una nuova forza politica che raccolga e sviluppi il meglio di quei valori [corsivo mio]59.
e di Fausto Giovanelli: “C’è in tutto questo una lezione utile per il vecchio e ancor di più per il nuovo 56
. Walter Dondi “Certo, stalinismo e doppiezza lasciarono il segno”, “l'Unità”, 31 agosto 1990
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. Il Pci su Reggio: “Dobbiamo fare piena luce”, “Avvenire”, 1 settembre 1990
58
. Delitti partigiani, il Pci difende Togliatti, 1 settembre 1990
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. Stefano Morselli “Ciò che so su quei delitti non è tutto la verità...”, cit.
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partito: convenienza politica e senso della storia non possono scavalcare giustizia e verità”, parole che esprimono la nuova etica e la nuova morale del partito “in costruzione”. Tuttavia non tutto il partito reagì con aplomb a quelle rivelazioni. Le dichiarazioni riportate dai giornali di Giancarlo Pajetta– il “ragazzo rosso” leader storico del pci – nei confronti dell'autore dell'“operazione verità”, furono tutt'altro che tenere. Citiamo dal “Corriere della Sera” del 7 settembre ‘90: “Pajetta: quel Montanari è proprio un pazzo. Poi si scusa” e nel sottotitolo “Chi ha sollevato il caso del triangolo della morte ci pensi prima di passeggiare per Reggio Emilia”. Il partito in realtà è lacerato. Già Marzio Breda nell'articolo La festa del Pci ormai nella tempesta aveva registrato sullo stesso quotidiano milanese del 4 settembre le conseguenze dell'“operazione verità”. Chiaro che una simile iniziativa, anche se approvata da Botteghe Oscure (qui l'età media degli iscritti è alta, intorno ai 53 anni), abbia generato forti contrasti ... Aprire sul serio gli armadi chiusi nel ‘47 proprio tra Reggio, Modena e Bologna è una scelta che richiede grande coraggio e grande coesione. La quale, appunto, manca ... Magri ha avanzato pesanti dubbi e aspre critiche sull'operazione verità lanciata da Montanari, con frasi che qualcuno ha interpretato addirittura come sospetta mossa cannibalistica interna, per mettere in difficoltà e magari del tutto fuori causa il fronte del “no”, cui aderisce. Ha detto che “la campagna di Reggio è un'operazione a freddo per nascondere la verità”, “un tentativo di linciaggio e una sorta di pentitismo”, “uno dei varchi attraverso i quali passano le spinte di scissione nel partito, un varco per la cui chiusura non si è lottato”. Una posizione che ha raccolto gli applausi di quasi la metà delle 800 persone che seguivano il dibattito.
Vale la pena riportare anche il sopratitolo, il catenaccio e il sommario dello stesso articolo, perché fotografano non solo la situazione in cui si trova il Pci, ma delineano anche scenari futuri (avveratisi): Le polemiche sui crimini commessi nel dopoguerra nel “triangolo della morte” si intrecciano con i temi di fondo sulla rifondazione occhettiana del partito – Il fronte del no accusa: la campagna sui delitti in Emilia favorisce la scissione [corsivo mio] – A Reggio una travagliata direzione è servita a preparare incontri con le sezioni della bassa e gli ex partigiani; Intanto a Modena Magri denuncia “un'operazione a freddo per nascondere la verità”, Fassino conferma che le Botteghe Oscure apriranno gli archivi.
I media si danno anche da fare per “catturare” le opinioni dei militanti comunisti presenti alla festa nazionale dell'Unità di Modena e a quella provinciale di Reggio Emilia. Marzio Breda, inviato del “Corriere della Sera” all'appena aperta festa, registra gli umori della “base” percorsa da domande sull'opportunità dell'“operazione verità” o, che dir si voglia, del “chi sa, parli” in un momento già difficile per il partito (le incertezze della “Cosa” e la frattura interna sulla missione militare nel Golfo). “Non si rischia anche l'autodistruzione? si domanda il popolo comunista” scrive il cronista. Insomma – prosegue Breda – ragiona così, in un solfeggio di recriminazioni e distinguo, il popolo comunista. Con lo smarrimento di chi è in bilico tra crisi di coscienza e voglia di sopravvivere, anzi rinascere. Sintetizza bene un giovane, Sergio: “Tira un 'aria assurda da cupio dissolvi, dopo la faccenda di Reggio Emilia. Una specie di spinta nichilista che porta qualcuno di noi a mettere in dubbio gli stessi miti della Resistenza. Quasi una voglia di parricidio. Più che gli storici o gli strateghi della politica, dovrebbero venire qui degli psicanalisti”. Un 22
giudizio che un capo carismatico come Pajetta condannerebbe alla stregua di un'eresia60.
Ma ci sono anche voci della “base” che le idee le hanno chiare, che scagionano il Pci di ogni responsabilità, attribuendo a logiche politiche coeve la ragione principale della “riscoperta” del “triangolo della morte”. “La colpa non è del Pci se c'è stato chi ha esagerato. Quando c'è una esplosione le schegge volano. Non mi stupisco di allora ma di adesso. Perché proprio ora questa polemica? Si sapeva tutto, anche Togliatti sapeva e lo disse, no? E allora va bene la verità ma non la speculazione”61.
Se ci sono spore di scetticismo – “La verità. “Ma si saprà mai?”” afferma un volontario alla festa nazionale dell'Unità a Modena – la dirigenza comunista di Modena e Reggio rilancia per far fronte agli attacchi da destra e da sinistra, ma anche dal suo interno. A Reggio, secondo Michele Smargiassi, inviato della “Repubblica”, il Pci “apre il processo politico agli anni bui delle violenze post-Liberazione”. I “cugini” modenesi, invece, intendono proporre all'Istituto storico della Resistenza di affidare a degli storici di “indubbia competenza” la ricerca sui fatti del dopoguerra, perché anche in quella provincia l'eco del “Chi sa parli” ha iniziato a produrre i suoi effetti. Il segretario provinciale del Pci Roberto Guerzoni – confermando piena consonanza con la linea nazionale del partito – annuncia, dalla festa nazionale dell'Unità a Modena che “le questioni sollevate vanno però al di là dei singoli episodi e propongono il tema di una ricostruzione storica e politica” ... che comprenda anche “il ruolo svolto in quella fase dai diversi soggetti politici e istituzionali, compreso il Pci”. Al pool di esperti al di sopra di ogni sospetto la federazione di Modena metterà a disposizione gli archivi del partito, comunque anni da anni aperti al pubblico e agli studiosi62.
Non sono certo sufficienti le insistenze della dirigenza comunista sulla necessità di contestualizzare e di distinguere tra Togliatti e le frange violente presenti all'interno del partito – e neppure la perentorietà delle affermazioni che compaiono, ad esempio, sulle pagine del “manifesto” in cui Marco Gameazzi. sostiene che la polemica sullo stalinismo di Togliatti è “anacronistica” perché non tiene conto della guerra fredda, del clima di violenza all'indomani della guerra civile e dimentica le divisioni nel Pci rappresentate dall'opposizione tra il “Migliore” e Secchia (1° settembre) – per impedire al “penta partito”, e in particolare al Psi, di parlare di “resistenza tradita”63 e al Movimento sociale italiano di voler processare 60
. Marzio Breda, La coscienza turbata del popolo del Pci, “Corriere della sera”, 2 settembre 1990
61
. Michele Smargiassi, “Quella è roba per la storia”, “La Repubblica”, 4 settembre 1990
62
. m.s. “Processo a quegli anni bui ma non contro la Resistenza”, “La Repubblica”, 4 settembre 1990
63
. Il titolo del convegno del Psi, svoltosi a Reggio Emilia, il 16 settembre è emblematico: “La Resistenza tradita”. Il titolo del convegno stravolge semanticamente il significato di questa locuzione fatta propria dai critici di sinistra e azionisti in particolare nei confronti del Partito comunista fin dai primi anni del dopoguerra. A questo proposito, interessante è la lettura di Giovanni De Luna che introduce anche un aspetto psicologico nella disputa storiografica sull’“occasione perduta”: “Lo scenario fu quello scandito dall’irrefrenabile “voglia di sicurezza” che portò alla stabilizzazione conservatrice del dopoguerra, determinando il brodo di coltura per quella che gli scrittori del “Mondo” definiranno l’“Italia alle vongole”. Il risvolto esistenziale della querelle storiografica sulla “resistenza tradita” è tutto qui. L’“occasione perduta” fu non solo quella legata all’incapacità dei partiti antifascisti di recidere in profondità la continuità degli assetti istituzionali, politici ed economici che avevano alimentato il ventennio fascista, ma anche l’impossibilità per gli uomini 23
tout court la Resistenza. Il segretario missino, Pino Rauti, rivolge al ministro degli Interni una perentoria richiesta “fuori i dossier, fuori le cifre, fuori i rapporti che certamente questure e prefetture avranno inviato in quei due anni di violenze”, mentre il deputato Mirko Tremaglia afferma che il presidente della Camera [Nilde Iotti], “ex dirigente della Federazione del Pci di Reggio Emilia, sapeva tutto” e, dunque, “indegna di rimanere al suo posto”, soprattutto dopo l'“indecente” difesa compiuta sulle pagine dell'Unità dell'ex deputato comunista Moranino64.
Il Msi per dare corso “storico” (nonché politico) alle proprie accuse alla Resistenza ha preparato per l'8 settembre a Reggio Emilia un convegno dal titolo “Il triangolo della morte, la verità che abbiamo sempre saputo” con lo scopo “di vedere riscritto un biennio drammatico della storia d'Italia”, come dichiarerà alla stampa dell’11 settembre Pino Rauti. Lo stesso giorno nella città medaglia d'oro della Resistenza gli ex partigiani hanno indetto una manifestazione silenziosa – a cui ha aderito anche il Pci – davanti al monumento alla Resistenza in piazza Martiri del 7 luglio (1960). A Sant'Ilario (“paesone” in provincia di Reggio), sempre l'8, è in programma il convegno “Passato e presente nella vicenda dei sette fratelli Cervi”, organizzato dal presidente dell'Istituto “Cervi” Otello Montanari in seguito all'eco provocata dall'uscita, nel giugno precedente, del libro di Liano Fanti Una storia di Campagna, in cui l'ex giornalista dell'“Unità” accusa il Pci di aver condannato a morte con il suo agire i fratelli di Campegine, catturati dai fascisti alla fine del novembre '43 e fucilati all'alba del 28 dicembre. Vicenda, come abbiamo visto, riemersa dopo l'“esternazione” dell'ex deputato comunista. Nel corso di quell’assise, alla quale hanno partecipato “ottantaquattro capi partigiani”, il “traditore” Montanari accennerà ad una “tiepida autocritica [ma che] non commuove i compagni”, anzi sarà duramente attaccato fino al punto che gli saranno chieste le dimissioni da presidente dell’Istituto “Cervi” e dall'Istituto storico della Resistenza65. del movimento partigiano di protrarre nel tempo un’esperienza che pure era stata in grado di scardinare la società italiana da quei caratteri di passività e di rassegnazione che pesavano come macigni sulla nostra identità collettiva, introducendo nel vivo del corpo sociale i germi di un attivismo febbrile, di un vitalistico slancio ricostruttivo, di un prorompente voglia di vivere che in soli tre anni, dal 1945 al 1948, portò a cancellare del tutto le ferite materiali inferte dalla guerra” in Giovanni De LunaMarco Revelli, Fascismo Antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1995, p. 121. Altrettanto significativo è quanto aveva scritto alla metà degli anni Sessanta Giorgio Bocca in Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966: “La Resistenza è semplicemente quella che è e che sarà per sempre nella storia: una guerra politica, la cruenta gestazione, penata gestazione di un’Italia diversa. Dunque né Resistenza fallita né Resistenza tradita, ma difficile, in parte deludente, promozione politica e civile di una nazione” (p. 606). E ancora: ““Se proprio vogliamo trovare”, dice ... Bobbio, “una caratterizzazione sintetica, comprensiva, del significato storico della Resistenza e del rapporto fra la Resistenza e il tempo presente, non parliamo di Resistenza esaurita e neppure tradita o fallita, ma di Resistenza incompiuta. Perché s’intende l’incompiutezza propria di un ideale che non si realizza mai interamente, ma ciononostante continua ad alimentare e a suscitare ansie ed energie di rinnovamento” [Memoria di Norberto Bobbio scritta vent’anni dopo la fine della guerra, citata dall'autore, ndr]” (p. 609). Nel corso del settembre ‘90 si svolsero a Reggio Emilia altri “convegni” sul tema Resistenza: Msi (8 settembre) Psdi (15 settembre), Dc (15 settembre). Il Psi reggiano propose anche una dibattito in Consiglio comunale che però non si svolse mai 64 . m.s. “Processo a quegli anni bui ma non contro la Resistenza”, “La Repubblica”, 4 settembre 1990 65 Giampiero Moscato, Caro Montanari, ormai devi dimetterti / Sant’Ilario d’Enza: al convegno sui fratelli Cervi la platea riserva all’ex deputato-relatore diffidenza e aperta contestazione / La tiepida autocritica del “traditore” non commuove i compagni, “Corriere della Sera” 9 settembre 1990; F.M., Montanari va cacciato!” / L’Anpi di Cavriago: “Via dal ‘Cervi’ e dall’istituto 24
Se il corrispondente del “Corriere della sera”, Marzio Breda, nell’articolo del 9 settembre, Marcia su Reggio con pochi nostalgici, definisce “finto” il convegno indetto dal Msi, il “Resto del Carlino” equipara, invece, le due manifestazioni titolando l’8 settembre In piazza per le due verità sul ‘45. Oggi a Reggio contromanifestazione Pci al convegno Msi sul ‘triangolo della morte’. E ancora 300 metri, 2 verità. Tuttavia la manifestazione missina a Reggio sembra aver modificato in parte il “rumore” massmediatico che per una decina di giorni ha riempito le pagine di giornali e televisioni. Per tutti citiamo titolo e occhiello del “Messaggero” di Roma: La Resistenza e Togliatti, si può discutere senza volgarità. Quando si strumentalizza perfino la guerra civile. Se volessimo fare un poco di “dietrologia” si potrebbe pensare che lo scopo sia stato raggiunto, ossia, come scrive Umberto Bonafini sulla “Gazzetta di Reggio” del 9 settembre: “L’importante è che chi vuole spartirsi le spoglie del Pci, lo faccia credere, e che la gente ci creda”. A che cosa? che “il Pci è un partito di assassini” e che “i compagni uccidevano e i dirigenti sapevano. O approvavano, o tolleravano”. Per il direttore del quotidiano reggiano il tragico è che i dirigenti del Pci non sono in grado di “ribaltare o annullare” le accuse mosse al partito, alla sua storia e alla sua memoria. Il filo rosso Sul tappeto del conflitto politico, non bisogna dimenticarlo, c’è anche “il filo rosso che lega la cultura politica dell’ala non democratica e violenta del Pci a Reggio con la nascita delle Brigate rosse che ebbero i natali proprio in terra reggiana”66. La stampa del 5 settembre riporta ampi stralci dell'intervista che Alberto Franceschini, uno tra i fondatori delle Brigate rosse, ha concesso al “Mattino” di Padova, alla “Nuova Venezia” e alla “Tribuna di Treviso”. Franceschini ricorda che per i giovani usciti dalla Fgci [alla fine degli anni Sessanta, ndr] che scelsero la lotta armata “il Pci vero era quello di Secchia”, e racconta delle due pistole donategli da un ex partigiano al momento di passare alla clandestinità. Una di quelle pistole – racconta l'ex brigatista – fu utilizzata durante il sequestro del dirigente Siemens Hidalgo Macchiarini ... Poi, Franceschini descrive la sua visita a un deposito di armi creato dai partigiani “fuori Reggio, in campagna”, con “trenta, quaranta mitra Sten” che “funzionavano alla perfezione” oltre vent'anni dopo il 25 aprile. E racconta che un dirigente dell'Anpi,informato della cosa, subito dopo fece avvertire la polizia, che portò via tutto67.
Affermazioni che vengono avvalorate da giornalisti collocabili nell'area della sinistra estranea tanto all'esperienza comunista quanto al nuovo corso craxiano del socialismo italiano e da importanti figure di ex partigiani cattolici, che non si permetterebbero mai di definire Togliatti “assassinissimo” come lo ha definito il radicale Marco Pannella nel corso di un pubblico dibattito alla festa nazionale dell'Unità di Modena.. Mario Pirani, ad esempio, in un articolo di “Repubblica” riprende una vecchia affermazione della storico della Resistenza” – Il presidente Marino Montanari: “Otello ha perso l’equilibrio. Deve smettere di fare il furbo, ora c’è un solo posto dove può andare: i giardini pubblici”, “Gazzetta di Reggio”, 11 settembre 1990. 66 . Mauro Del Bue, Un filo rosso che porta agli anni di piombo, “l’Avanti!”, 1 settembre 1990 67 . Franceschini: “Le Brigate rosse usarono armi dei partigiani”, “La Repubblica”, 5 settembre 1990 25
Rossanda, secondo la quale nelle Br ci sarebbe “una certa aria da “album di famiglia””, per sostenere l’esistenza di una sorta di collegamento “genetico” tra il gruppo terroristico e le frange del movimento partigiano comunista responsabili dei delitti dell’immediato dopoguerra. Insomma, quei gruppi partigiani sarebbero gli “antenati” della Br68. Per i dirigenti della “Cosa”, invece, le Br non appartengono in nessun modo alla cultura della sinistra né tanto meno ci può essere una connessione. Alcune sfumature tra nuova e vecchia guardia ci sono. Secondo Fassino, “fra le vicende dell'immediato dopoguerra ed il terrorismo degli anni Settanta 69; mentre per la Iotti Ci sono, certamente, delle responsabilità politiche per la ripresa dell'estremismo nella nostra provincia [quella di Reggio Emilia, ndr] negli anni '70. Ma il fenomeno delle Br è cosa ben diversa. Non dimentichiamo che queste nascono non a Reggio Emilia, bensì nella Facoltà di sociologia di Trento, in ambiente cattolico70.
Questo breve accenno al tema Br-Resistenza, sollevato dal deputato del Psi Mauro del Bue, possiamo concluderlo circolarmente, ossia ritornando al delitto Vischi. Luciano Salsi, giornalista della “Gazzetta di Reggio”, al termine dell’intervista al partigiano reggiano delle Fiamme Verdi, Eugenio Corezzola, liberale e tra i fondatori della “Nuova Penna”, scrive: “Ma l'omertà, allora, era sovrana ed il Pci non aveva fatto ancora quella scelta legalitaria che negli anni Settanta gli avrebbe consentito di isolare e combattere le Brigate rosse”71. Tout se tient.
68
. “La Repubblica”, 5 settembre. Sul tema “album di famiglia” interviene anche Adriano Vignali, esponente del Pci reggiano, che scrive, ampliando l’orizzonte: “Rossana Rossanda scrisse sul Manifesto un articolo sul terrorismo di sinistra “L’album di famiglia” in cui sosteneva che nella sinistra esisteva sin dagli anni ‘30 (la tesi del socialfascismo) un filone estremistico-insurrezionale rispetto al quale il Pci e l’insieme della sinistra erano sempre stati politicamente più forti quando la linea politica vincente era stata molto nettamente alternativa rispetto al potere dominante mentre più ampi margini si lasciano al massimalismo quando una prospettiva di trasformazione sociale profonda si appanna o si indebolisce agli occhi delle grandi masse popolari. Oggi quella lettura “da sinistra” viene accolta con segno politico rovesciato: “da destra” si dice che sempre nel Pci e nella sinistra ci sono state due linee, una coerentemente riformista e democratica, l’altra confusamente alternativa ed antagonista (per dirla con Trombadori sul “Corriere”, da Secchia a Ingrao), quindi indirettamente responsabile di questi sbandamenti eversivi ed insurrezionali. Quindi bisogna togliere ogni riferimento all’esperienza storica del comunismo, dichiarare superata ogni velleità di trasformazione sociale profonda, affermare che il capitalismo e la democrazia coincidono. Così non è ... C’è un problema vero: degli innocenti sono stati condannati, bisogna rifare i processi. “C’è un altro problema vero: il Pci ha sbagliato nel glissare e non affrontare direttamente questi problemi”, “Gazzetta di Reggio”, 6 settembre 1990 69 . Un vento di destra sulla Resistenza, “l'Unità” 10 settembre 70 . Bruno Schacherel, Nilde Iotti: sui delitti politici in Emilia: “Non abbiamo scheletri negli armadi”, “l'Unità”, 2 settembre 1990 71 . Luciano Salsi, “Meritano stima alcuni di quei combattenti”. Su fatti e uomini di allora, la limpida visione di Eugenio Corezzola, “Gazzetta di Reggio”, 1 settembre 1990 26
Giovanelli (Pci): “Non ci faremo processare in piazza” I partigiani “Non si processa la Resistenza” Il “bombardamento” di notizie sui fatti di Reggio Emilia, in corso dalla fine di agosto, costringe la direzione e la segreteria provinciale e nazionale comunista a sottolineare con sempre maggior forza che il Pci vuole “chiarezza e giustizia” ma non accetta “demonizzazioni della Resistenza”, che i propri archivi sono aperti da tempo, che Togliatti combatté le “tentazioni ribellistiche e [rese] il Pci coautore della Costituzione e protagonista della storia italiana contemporanea” e che l'operazione-verità non può essere usata per la “battaglia politica di oggi”. Sono queste le posizioni che Fausto Giovanelli e Piero Fassino ribadiscono nella conferenza stampa del 4 settembre, seguita alla Direzione provinciale. Il Pci dà pieno credito all'“operazione-verità”, come gli stessi dirigenti comunisti definiscono l'iniziativa di Montanari, ma vuole evitare la “demolizione della lotta partigiana e della Resistenza” (“l'Unità”, 4 settembre 1990). Singolare che l'on. Tina Anselmi, democristiana ed ex staffetta partigiana, risponda così alla domanda di un giornalista su come giudica l'iniziativa di Montanari: “Non lo so; certo per “come” ha riaperto il problema ha fatto un grosso errore”72. Qualche giorno prima, Fabio Mussi – in un editoriale pubblicato dall'“Unità” del 4 settembre 1990, intitolato Per la storia contro i tribunali, “l’Unità” – aveva riaffermato la giustezza della scelta: Scrivo contro l’uso giudiziario della storia. Che Otello Montanari abbia fatto bene a riproporre un’esigenza di verità su foschi episodi del primo dopoguerra, che hanno coinvolto frange del movimento partigiano, non c’è dubbio alcuno. Molte cose erano già note, altre devono essere illuminate. “Chi sa parli”, si è detto; e parlino gli archivi. Quelli centrali del Pci sono aperti, e non da oggi (ma gli altri partiti, posseggono archivi?). Lo Stato apra i suoi. Quando Piazzesi sul “Corriere della Sera” parla di incerta “glasnost del Pci”, non so cosa intenda. La “glasnost” in casa nostra è totale, e l’iniziativa di Montanari non ha imbarazzato nessuno73.
Tuttavia figure storiche quali Giancarlo Pajetta dichiarano che “la denuncia di Montanari contiene affermazioni avventate mentre invoca rigore e biasima prudenze e reticenze altrui”74. Netto, quindi, il 72
. Elena Amadini, Lo spartiacque del 25 aprile, “Il Popolo” 12 settembre 1990 [intervista a Tina Anselmi]
73
. Si veda: G. Piazzesi, Pci, l'incerta glasnost dopo anni di omertà, Corriere della Sera” 3 settembre 1990. I dirigenti del Pci non negano del tutto che accanto a vendette “comprensibili ma non lecite” – riassume Piazzesi – alcuni abbiano approfittato dell'occasione per eliminare i più pericolosi avversari politici. Gli accusatori non negano che Togliatti fosse contrario ad esse, ma in segretario del Pci aveva stabilito la liquidazione del partito armato in pieno accordo con Stalin e aveva consentito loro l'espatrio nel santuario cecoslovacco. Da qui, secondo Del Bue, quei “profughi” sarebbero stati ispiratori delle Br. Questa mancata presa di distanza da Togliatti non rendono credibili fino in fondo le dichiarazioni sul cambiamento in atto nel Pci “non a caso – scrive Piazzesi – Gorbaciov, che resta il leader del riformismo comunista, ha associato la glasnost alla perestrojka; se non c'è trasparenza nessuno crederà al rinnovamento”. Senza la certezza delle cifre sui morti non si va in là dalla supposizioni. Piazzesi invita a darsi una “calmata” e invita gli storici al lavoro “per recuperare, con un minimo di decenza, quasi cinquant'anni sprecati”. Ma anche, solo per citarne un altro, Francesco Alberti ha scritto sul “Resto del Carlino” del 2 settembre 1990 in Occhetto colto di sorpresa: “Roma non ha lesinato complimenti ed applausi al “coraggio dell'ex partigiano che parla”, ma in realtà la sortita di Montanari, e il successivo appoggio ricevuto dai vertici del Pci reggiano, hanno irritato più di un leader di Botteghe Oscure. Non tanto per la sostanza delle cose dette, quanto per il modo. Visto il clamore suscitato dalla questione. Occhetto e i suoi avrebbero preferito condurre il gioco in prima persona, evitando, come invece è avvenuto; di trovarsi spiazzati su tutta la linea” 74 . Fausto Ibba, Pajetta: “Non faccio il giudice” ,“l’Unità” 6 settembre 1990 27
j'accuse lanciato da Pajetta contro il tentativo di “ridurre il significato della lotta partigiana” e di conseguenza “cancellare l'apporto del Pci alla democrazia italiana”. Una corrente di pensiero, detto per inciso, molto diffusa all'interno del mondo comunista, che identifica, tout court, l'antifascismo e la Resistenza con la lotta armata organizzata dal Pci, che consentì la nascita della repubblica democratica. E il Pci, con la scelta democratica di Togliatti (la “svolta di Salerno e il partito nuovo”), fu uno dei padri fondatori. L'accusa che viene mossa al Pci è, però, di natura “morfologica” che inficia quel “racconto”. Renato Mieli, in un'intervista all'“Avanti!”, l'esplicita in modo chiaro. “Non fu – sostiene – una scelta della democrazia”. Fu una scelta – prosegue l'ex giornalista dell'“Unità” – di quello che dice: “In questo momento noi non possiamo fare che questo”. Stando così le cose evidentemente Togliatti, in quel momento, in un certo senso accantonava Secchia le cui speranze tramontavano; ma al tempo stesso non condannava il fine della sua politica, che restava identico a quello di Secchia. La cosa grave in tutta questa faccenda è che si sia continuato a dire che questo rivelava un senso di responsabilità e una volontà di introdurre un metodo democratico. Non si trattava di un metodo democratico, si trattava dell'introduzione di un metodo opportunistico. semplicemente della vocazione di non contrariare i sovietici e di fare quello che gli veniva chiesto era diverso da quanto credeva Secchia75.
Il Pci, per larga parte del mondo politico, non avrebbe mai superato la prova di democraticità, a cominciare dal controverso '56, segnato dal rapporto segreto di Krusciov ma anche dall'invasione dell'Ungheria da parte delle carri armati sovietici. Tuttavia, sono i primi dieci anni della nuova repubblica che fanno dei comunisti gli “ultracorpi” della democrazia occidentale e quei morti ammazzati sono la prova schiacciante della loro doppiezza: la guerra di liberazione l'hanno fatta per il loro ordine e gli espatri prima in Jugoslavia poi, dopo la rottura tra Stalin e Tito, in Cecoslovacchia (“cooptata” al comunismo nel febbraio '48 in seguito ad un golpe) servivano per l'altra “linea” del partito, ma Stalin frustrò, in ottemperanza agli accordi di Yalta, l'idea di “fare la rivoluzione” in Occidente. L'esempio della Grecia non era perseguibile, perché secondo il titolista dell' “Avanti!”, che scrive a caratteri di scatola: “Grecia: Stalin disse no alla lotta armata”, Togliatti, a differenza dei comunisti ellenici, accettò gli ordini di Mosca76. Il “problema” è Togliatti e la sua vita legata al Partito comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale comunista che ha significato, secondo tutto un ceto politico e intellettuale, sudditanza ai voleri e ai capricci di Stalin.. Luciano Lama, vice presidente della Camera, non la pensa così e alla festa provinciale dell'Unità di 75
. Ruggero Puletti, Togliatti si mosse da puro staliniano, 7 settembre 1990. A proposito di “rivoluzioni parallele” può essere interessante citare Giorgio Bocca. che domanda in Storia dell'Italia partigiana, cit. : “Doppio gioco comunista? “Non doppio gioco” risponde Pajetta “ma doppio animo. Le direttive sono unitarie, ma il compagno che le porta alla periferia non manca mai di consigliare vigilanza, negli interessi del partito. E capita spesso che il dirigente di periferia, devoto al partito, all’operaismo abbondi in vigilanza” [conversazione con Gian Carlo Pajetta citata dall'autore, ndr]. Sì, questo può essere la meccanica del settarismo; ma la sua causa prima è la fede messianica della base, non scoraggiata dai dirigenti, nella mentalità della palingenesi comunista, fede che le vittorie sovietiche stanno riportando al calore degli anni rossi fra il 1919 e il ‘20” (p. 316) 76 . “l’Avanti!”, 11 settembre 1990 28
Reggio Emilia intervenendo all'incontro “Il Pci per la verità, la giustizia e la riaffermazione dei valori della Resistenza” afferma Togliatti? È certamente uno dei fondatori dell'Italia di oggi; c'è chi sostiene che lo ha fatto in modo strumentale, l'importante che lo abbia fatto. Ha convinto una grande forza alle ragioni della democrazia.
Ma con le violenze consumate nel “triangolo della morte” “si voleva bloccare il partito nuovo?”, si domanda Nilde Iotti, nella lunga intervista concessa all'“Unità” il 2 settembre, che portarono a Reggio alla rimozione e al trasferimento alla federazione di Parma del segretario provinciale Arrigo Nizzoli. L'ex presidente della Camera non nega che ci fossero frange che intesero la Resistenza come lotta di classe “ma il movimento nel suo complesso andava in tutt'altra direzione”. Non erano schegge impazzite – afferma invece Ermanno Gorrieri, democristiano, partigiano sull'appennino modenese e autore della storia della Repubblica partigiana di Montefiorino, nell'intervista rilasciata alla Repubblica –. Se devo cercare un'immagine, mi viene in mente piuttosto quella di un treno lanciato in una corsa che qualcuno non volle fermare del tutto ... basta vedere chi furono le vittime; molti ex fascisti, ma soprattutto “nemici di classe”, cioè agricoltori e possidenti, e avversari politici ... [e] che quel treno sia stato frenato solo lentamente ... Lo dimostrano due fatti: la tutela a chi fuggiva, e l'ambiguità della condanna, forte sul piano generale ma accompagnata da giustificazioni sul “clima torbido”, da timori sbandierati di una “rinascita fascista” che non c'era assolutamente77.
Si potrebbe andare avanti per pagine e pagine con questo dialogo ideologico fra sordi. Bisogna però segnalare che uno storico di vaglia, vicino al Pci, Renzo Martinelli, pubblica sull'“Unità” il testo di un discorso riservato di Togliatti tenuto a Milano davanti ai membri della direzione del Nord Italia il 5 agosto 1945 in cui cui il leader del Pci “invitava a prendere posizione contro ogni sopravvivenza del movimento partigiano [sic]”. Martinelli scrive che uno degli elementi più interessanti di quel discorso è “il richiamo di Togliatti agli “illegalismi” commessi in Emilia, che fa seguito a considerazioni e rilievi analoghi contenuti in verbali precedenti e successivi”. Ma non è solo Togliatti che ha parole di condanna verso le “tendenze estremiste diffuse in alcune aree del Paese (non solo in Emilia; anche se l’Emilia rappresenta, indubbiamente, per molte ragioni un caso particolare”. E, come risulta chiaro ... chi ha un ruolo ugualmente decisivo – prosegue lo storico – è Luigi Longo; Proprio per l’autorità che gli derivava dalla sua funzione nella Resistenza, Longo ... non si limita alla polemica e alla condanna netta ma si impegna in una concreta azione di convinzione e di repressione: si legga poi il verbale della direzione dell'8 giugno 1945 (che ho già citato in altra sede), in cui parla apertamente di germi di degenerazione nel partito di “malattia del mitra”78.
Il giorno dopo il “Corriere della Sera” titola a tutta pagina Le stragi dimenticate fra i partigiani. Un controverso e inesplorato capitolo di storia con centinaia di vittime incolpevoli79, mentre il discorso di Togliatti riportato da Martinelli è un “palchetto” al centro della stessa pagina, Un inedito di Togliatti: no 77
. Michele Smargiassi, “Il Pci voleva sfruttare quel clima di violenza”, “La Repubblica”, 5 settembre 1990
78
. Renzo Martinelli, Dobbiamo battere l’illegalismo, “l’Unità”, 10 settembre 1990
79
. Silvio Bertoldi, 11 settembre 1990
29
a elementi immorali80. La notizia è l’altra. Il giornalista enumera delitti e stragi senza preoccuparsi delle scansioni temporali, così le uccisioni (o delitti come li chiama) compiuti all’indomani della Liberazione sono accomunati con quelli accaduti anche due mesi o tre mesi dopo81. E vi trova anche il modo di accennare al sanguinoso episodio avvenuto nel febbraio 1994 a Porzus, località in provincia di Udine, in cui partigiani comunisti uccisero diciassette partigiani appartenenti alla “Osoppo”. Tutto questo per sottolineare che la contraddizione del Pci, su cui s’incuneano le critiche, sta tra il dibattito interno tutt’altro che reticente, come le parole di Togliatti e Longo dimostrano, e le prese di posizioni politiche che negano le responsabilità comuniste di quelle violenze, attribuendole, spesso, ad azioni fasciste. Piero Fassino, in un’intervista rilasciata alla “Stampa” di Torino, cerca di chiarire ancora una volta, con parole “libere ideologicamente”, la posizione del Pci In settori partigiani anche di diverso colore politico c’erano resistenze evidenti all’ordine di consegnare le armi. Ci si domandava: “sì, ma se poi a comandare tornano gli stessi di prima?”. In sostanza, si discuteva se dare una vera adesione alla scelta democratica, o un consenso di facciata in attesa del momento buono per fare la rivoluzione82.
E alla domanda di Marcello Sorgi – a proposito delle dichiarazione di Massimo Caprara 83 secondo cui Togliatti, nonostante fosse ministro della Giustizia, avrebbe favorito l'espatrio di partigiani assassini come quelli coinvolti nell'episodio di Schio – risponde che certo, guardata quarant'anni dopo, anche con tutte le considerazioni del caso, quella scelta non appare a me giustificata. Togliatti assunse il -primato del bene del partito come valore assoluto, subordinando a questo tutti gli altri valori. Questo fu l'errore ed è il punto con cui dobbiamo fare i conti.
Il problema vero però è un altro e lo indica Adriano Vignali, esponente della sinistra reggiana, sulla “Gazzetta di Reggio”, in cui afferma che “il Pci ha sbagliato nel glissare e non affrontare direttamente questi problemi”84. Un problema di “memoria”? Man mano che i giorni passano, e i media continuano a insistere sull'argomento, “l'Unità”, quotidiano del Pci, rimette in circolazione pezzi di “memoria”85 e insieme ad essa si muove anche la memoria “vivente” 80
. “Corriere della Sera” 11 settembre 1990
81
. Silvio Bertoldi, cit. Riportiamo un passo, ma l’articolo meriterebbe la lettura completa. “Peggiore ancora quanto accade a Vercelli la notte del 13[maggio 1945] – scrive Bertoldi – Un gruppo di militi fascisti si è rifugiato nell’ospedale psichiatrico in cerca di salvezza, invece li raggiungono le squadre dei giustizieri e 75 finiscono la loro vita contro il muro. Tutti colpevoli? Nessun dubbio? È bastato il riconoscimento a vista? E c’è stato? O si è fatto come a Schio, i presenti in carcere riuniti al pianterreno, uomini, donne e vecchi, senza nemmeno badare quale imputazione si faccia loro carico: e si apre il fuoco con i mitra, 55 le vittime”. L’eccidio di Schio si verificò il 6 luglio 1945 82 . Marcello Sorgi, Basta con le ragioni di partito, “La Stampa”, 7 settembre 1990 [intervista a Piero Fassino] 83 . Massimo Caprara, Sorbole, qui Radio Praga, “Il Giornale”, 2 settembre 1990 84 . “Questi problemi il Pci doveva affrontarli prima”, 6 settembre 1990 85 . Qui di seguito alcuni articoli sulla “memoria”: 30
del Pci costituita da Boldrini, Lama, Pajetta, Pecchioli e Tortorella, cinque dirigenti del Pci che furono combattenti e capi partigiani. Essi prendono carte e penna per chiedere “verità e chiarezza su tutti gli aspetti di una storia che fu grande e terribile”, mentre definiscono “inaccettabile e indegna” l’opera di denigrazione contro il Pci e Togliatti e di “criminalizzazione della Resistenza”86. A Reggio Emilia, lo storico e direttore dell'Istituto storico di Reggio Emilia di allora, Antonio Zambonelli – dopo aver “spolverato” la memoria a chi l'avesse appannata ricordando, in occasione del convegno organizzato nella città emiliana dal Movimento sociale, le efferatezze compiute dai fascisti a villa Cucchi – è testimone di un certo “stupore storiografico” (ma anche politico) di fronte alla campagna massmediatica in corso. Credevamo, da anni – scrive – che fossero maturi i tempi per documentare e spiegare sempre meglio il nodo fascismo-antifascismo, ivi comprese le vicende della lotta di Liberazione e del dopoguerra, non in termini di emotiva ed eccitata cronaca di contrapposti martirologi, ma sul terreno di una “ricerca aperta e libera... in sede propria, quella della ricerca e della verifica storica” per usare le parole dell'amico Nazario S. Onofri87.
Ma sembra non convincere. Sulla “Gazzetta di Reggio” il giorno successivo, 9 settembre, due sono le notizie: La piazza s’infiamma, a proposito del convegno del Msi svoltosi a Reggio l’8, e Montanari fa atto di contrizione all’assemblea che si era tenuta a Sant’Ilario. Gli fa eco il “Carlino”: Montanari “linciato” dai compagni e “Processo alla Resistenza” al “finto” convegno del Msi. O ancora sul “Popolo” Il filo del terrore. Il Pci tra il triangolo della morte e le Br, firmato dal parlamentare reggiano Franco Bonferroni. E c’è sempre un modo per controbattere, più o meno artificiosamente. – Germano Nicolini, Vi racconto come mi accusarono di aver assassinato don Pessina, “l’Unità”, 2 settembre 1990. – Così Togliatti criticò i comunisti reggiani: “Non basta condannare dovevate anche controllare”, “l’Unità”, 1 settembre 1990/Dai discorsi del 24/09/1946 e del 25/09/1946 (pubblicato in “Rinascita” 1973). – Giovanni Alasia, Gli sbocchi erano incerti e anche nel Psi esisteva un’organizzazione militare / Pubblichiamo questo articolo di Giovanni Alasia, militante Psi nella Resistenza, poi deputato del Pci, “l’Unità”, 4 settembre 1990 – Gian Piero Del Monte, Continuarono a uccidere... che tormento in quegli anni”/La rievocazione di Valdo Magnani dei delitti politici commessi a Reggio nel dopoguerra, “l’Unità Reggio”, 4 settembre 1990. – Mauro Curati, Mi accusarono di un delitto. Ero innocente, fuggii a Praga, “l’Unità ”, 5 settembre 1990. – Stefano Morselli, Il Partito fu contro la violenza, bisogna respingere le speculazioni”//I delitti, la discussione di allora, le polemiche di oggi: parla Aldo Magnani, partigiano e dirigente comunista, “l’Unità Reggio”, 5 settembre 1990. – Giuseppe Carretti, Deposte le armi ecco la paura e le persecuzioni”, “l’Unità”, 7 settembre 1990. – Lidia Greci, Ma come si spiega queste regioni all’avanguardia?”, “l’Unità”, 7 settembre 1990 – Rita De Buono, Resistenza (La) va avanti a testa alta...”/documento delle Associazioni partigiane, “l’Unità E.R./Reggio”, 7 settembre 1990. – A Reggio morirono in più di 600 “per la libertà”, “l’Unità Reggio”, 8 settembre 1990 86 . “l’Unità” 7 settembre 1990. A questa presa di posizione risponde Paolo Mieli, direttore della “Stampa”, nell’articolo di fondo del 6 settembre. “Le domande a cui il Pci aveva promesso di rispondere – scrive Mieli – sono diverse. Si riferiscono ad un altro capitolo rispetto a quello della guerra civile ‘43-45 e dei suoi pur terribili postumi. Quale? In Italia nella seconda metà degli anni Quaranta si ebbe un’altra guerra, una vera e propria guerra di classe nel corso della quale alcuni militanti del Pci persero la vita ma altri uccisero preti, esponenti di partiti antifascisti, industriali, proprietari terrieri e consumarono, com’è inevitabile in simili circostanze, vendette personali che che con la politica non avevano niente a spartire. È di questo che si sta parlando...” 87 . Antonio Zambonelli, Gli aguzzini fascisti uccisero, torturarono..., “l'Unità”, 8 settembre 1990. Se Zambonelli manifesta un certo “stupore” storiografico di fronte alla campagna in atto, Giancarlo Pajetta esprime un giudizio in bilico fra l’antropologia e la politica. Disse:“Mi stupisco del fatto che certe cose disdicevoli per l'intelligenza degli italiani riescano a trovare ancora una larga udienza” (Jenner Meletti, “Qualcuno vuole una Norimberga per Togliatti...”, l'Unità, 2 settembre 1990) 31
Enzo Bettiza ritiene che il problema non stia tanto nella denuncia di quei fatti, dal riconoscimento di antichi errori, e nel sottolinearne la notorietà ma “che il noto non diventa veramente noto, il documentato mai veramente documentato, fino al giorno in cui essi stessi non decidano che deve essere noto alla loro memoria [dei comunisti] e documentato alla loro coscienza?” E la recente riabilitazione da parte di Gorbacev di Bucharin è l’esempio da seguire perché “ha segnato una pietra miliare nel rinnovamento” dell’Urss88. Una riflessione storico-culturale (e politica) intorno a queste questioni prova a imbastirla lo storico Luciano Casali che, a differenza di altri “intellettuali organici”, non nasconde antiche “carenze” e più recenti “insensibilità”. È sufficiente rispondere – scrive lo storico emiliano – come è stato fatto, che su quegli avvenimenti, gli archivi sono aperti e i documenti disponibili per chi li voglia studiare? Ammettiamo pure che la documentazione sia tutta disponibile – e il Pci negli ultimi anni ha fatto un grande sforzo in tal senso rispetto a istituzioni governative e ad altri partiti. Però è venuto a mancare da parte dello stesso Pci un interesse verso la storia (corsivo mio) ... Da almeno 15 anni, o per lo meno dalla morte di Ernesto Ragionieri, non si è stati promotori di ricerche sulla storia contemporanea e non si è sollecitato o aiutato ad affrontare temi “difficili” e “scottanti”. Che la Resistenza possa essere considerata anche guerra civile, è argomento sul quale per troppo tempo non è stato facile intervenire o riflettere (corsivo mio). Nelle a volte retoriche celebrazioni del 25 aprile, nessuno sembrava mai aver considerato che la guerra non era finita, né poteva finire, al preciso scoccare di quella data fatidica, soprattutto là dove la lotta di liberazione era stata combattuta aspramente contro un nemico anche interno89.
Le questioni che Luciano Casali solleva comporterebbero una riflessione storico-politica che il Pci in fase di trasformazione e in una situazione politica mondiale in movimento (i recenti drammi dell’Est e la coeva Guerra del Golfo), non è forse in grado di compiere. Si ha però la sensazione che si vorrebbe chiudere la questione alla svelta, perché i dirigenti credono di essere un’altra cosa dalla loro storia. Pia illusione. Gli attacchi non diminuiscono, perché la loro “colpa” è, se così si può dire, storico-genetica. È una spirale polemica che sembra non avere fondo, come il famoso pozzo di San Patrizio. Quello che si constata tra balbettii, distinguo, giustificazioni, sforzi di liberarsi dalle lenti deformanti delle ideologie e l’“anticomunismo opportunista, tipico degli intellettuali italiani” è la diversità e schiettezza di posizioni come quella di Giorgio Bocca (sue le parole sopra virgolettate), partigiano “azionista”, che esprime sulla polemica in corso un giudizio che potremmo definire “sprezzante”. Già il titolo dell’articolo Fischia il vento urla la bufera...90 , pubblicato da “Repubblica” il 7 settembre, è un manifesto significativo 88
. Enzo Bettiza, Il Pci, il diavolo e il dettaglio, “La Stampa”, 7 settembre 1990
89
. Luciano Casali, Questo attacco al cuore della repubblica “l'Unità”, 6 settembre 1990
90
. Si veda anche Giampaolo Pansa, Coccodrilli senza pudore, “La Repubblica”, 12 settembre 1990. Nell’articolo, pubblicato prima pagina come quello di Bocca, si legge: “Avete presente i coccodrilli? Ingoiano quel che gli piace ingoiare e dopo piangono. Sì, dopo. E spesso, molto dopo. Bene, mi ricordano i coccodrilli certi ex dirigenti comunisti che oggi dilagano sui giornali e tv, vuotando il sacco delle verità orribili che loro hanno sempre conosciuto a proposito dei vari“triangoli della morte”. Il sentirli strillare a più non posso contro le nefandezze dei loro capi d’allora, e il vederli mentre piangono sulla Resistenza infangata dagli omicidi targati Pci, mi obbliga a qualche domanda, ma voi, a quel tempo, dov’eravate? Che cosa facevate? Perché non vi siete opposti a quel sistema nefando? Perché piangete solo tanto tempo dopo? ... Oggi, invece, non ci vuole nessun coraggio a gridare, naturalmente senza un briciolo di autocritica: io sapevo tutto! io ho collaborato all’inferno dello stalinismo italiano! io ho portato con le mie mani gli ordini di quell’orribile di Togliatti! Anzi, oggigiorno gridare tutto questo, per di più con la spocchia di chi si sente assolto da ogni responsabilità, non solo costa poco, ma rende molto. Rende in popolarità. In interviste ai giornali. In comparsate televisive. In benevolenza di tanti illustrissimi Superiori. Sì, i coccodrilli 32
come lo è la conclusione in cui rivendica – nonostante che ora c’è chi “riscopre che la Resistenza fu tante cose diverse, tenuta assieme dalla lotta contro i nazisti e i fascisti” – la legittimità di continuare a chiamare quegli anni Resistenza e Liberazione. L’inizio dell’articolo è di critica impietosa verso il Pci, responsabile dell'attuale situazione: Il “Triangolo della morte” quaranta e passa anni dopo. Perché? A pro di chi? Diciamo, per cominciare, che la responsabilità di questa confusa strumentalizzata, inutile rivisitazione di una storia nota e arcinota è del partito comunista, di un partito che sembra aver perso la bussola.
Fassino, nell’intervista citata91, afferma In settori partigiani anche di diverso colore politico c’erano resistenze evidenti all’ordine di consegnare le armi ... In sostanza, si discuteva se dare una vera adesione alla scelta democratica, o un consenso di facciata in attesa del momento buono per fare la rivoluzione”.
La risposta la lasciamo a Bocca Perché i partigiani, tutti o quasi, conservarono le armi? Perché non erano per nulla sicuri che il fascismo fosse finito per sempre. Perché i partigiani di tutte le province partigiane chiusero la resa dei conti nel maggio del ‘45 e invece nella Bassa emiliana si andò avanti per alcuni anni? Perché la storia sociale, la tradizione dell’unanimismo, e una cultura contadina passata per conflitti feroci segnavano la differenza con il Piemonte della piccola proprietà contadina e militarista, con la Lombardia mercantile, con il Veneto bianco. Ci fu il doppio binario comunista, la convivenza del partito rivoluzionario con quello del lungo viaggio democratico attraverso le istituzioni? Ma certo che ci fu, [e] la scoperta che ne fanno oggi, con finto scandalo, anche alcuni studiosi, non sembra una cosa seria92.
Ridiamo la parola a Fassino, che sull’Unità del 9 settembre, cerca di chiarire ai “compagni” e agli ex partigiani il suo agire Ho vissuto questa vicenda con grande tensione e partecipazione, avvertendo tutta la responsabilità che gravava sulle spalle mie e degli altri compagni. Ho cercato di farvi fronte con lo scrupolo e l’impegno a cui sempre ho ispirato la mia azione quotidiana di dirigente del Pci. E lo scrupolo è stato tanto più grande e severo perché i partigiani e la Resistenza stanno dentro alla mia testa e al mio cuore da sempre: vengo da una famiglia antifascista; mio padre salì in montagna il 10 settembre 1943...93.
“Apprezzo la reazione, ma è stata tardiva” aveva affermato Gavino Angius, esponente del “no” al cambiamento del nome del Pci,.sull’“Unità” del 7 settembre, e ci pare riassuntiva dello stato d’animo di tanta parte del Pci. Riprendiamo ancora l’articolo citato di Bocca, che ha il “coraggio” di rinviare alla Storia del pci scritta dallo storico comunista Paolo Spriano94, per stigmatizzare come la novità, non sia per nulla una novità. sono proprio senza pudore” 91 . Marcello Sorgi, Basta con le ragioni di partito, cit. 92 . Giorgio Bocca, Fischia il vento urla la bufera..., cit. 93 . Piero Fassino, Perché eredi della storia e liberi davanti alla verità, “l’Unità”, 9 settembre 1990. 94 . Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. V La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1976, [Reprints 81], in particolare le pagine dell’ultimo capitolo 523-545 33
L’altro giorno Mario Pirani citava la massima: “niente è più inedito della carta stampata”. Noi parafrasandola diremmo: “niente è più inutile della storia scritta”95.
95
Mario Pirani, E Togliatti ordinò “Posate le armi”, La Repubblica, 5 settembre 1990. “Una volta ancora esce confermata la vecchia massima giornalistica secondo cui niente è più inedito della carta stampata: così tutto questo stupore su “veli che si alzano”, bocche che si aprono” e “armadi da svuotare”, a proposito degli omicidi politici avvenuti nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione, andrebbe quanto meno temperato da un minimo di bibliografia e dalla rilettura della pubblicistica in proposito” 34
Perché il “Chi sa, parli”? Un'ipotesi interpretativa L'articolo “Rigore sugli atti di “Eros” e Nizzoli” scritto dal Otello Montanari ha fatto emergere una situazione in movimento già da tempo che non attendeva che tempi giusti per deflagrare. Altrimenti non si capirebbe come mai, per esempio, i due volumi scritti da Egidio Baraldi – Nulla da rivendicare. L’infanzia la Resistenza gli anni bui della persecuzione (1985) e Il Delitto Mirotti. Ho pagato innocente. L’omicidio il processo il carcere (1989) – non avessero montato un'onda così alta. Eppure in quei volumi si toccavano tasti altrettanto delicati. Oppure, così si accennava sopra, la questione degli scomparsi fascisti a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nelle ultime settimane di guerra e nelle prime post-Liberazione sollevata alla fine dell'aprile '90 – quindi, solo pochi mesi prima – da un figlio di uno degli scomparsi, sia rimasta, sì, diversi giorni sulle pagine locali ma senza eco nel resto d'Italia, come accadrà per la lettera di Otello Montanari96. Le cause vanno ricercate, probabilmente, in una particolare congiuntura storico-politica e, strettamente legata ad essa, nella fonte autorevole di quelle ammissioni. Le cause storico-politiche. Come già brevemente ricordato nel prologo, la dissoluzione dell'assetto geopolitico formatosi dopo la seconda guerra mondiale e alla cosiddetta “guerra fredda” – che possiamo riassumere simbolicamente nell'abbattimento del muro di Berlino nel novembre 198997 – innesca nel Pci un'accelerazione del processo di revisione della propria storia che sfocerà, a partire dalla Bolognina e attraverso successive tappe, nel congresso del gennaio 1991 con la nascita del Pds. Nel novembre dello stesso anno si costituirà il Partito della rifondazione comunista, frutto della scissione cossuttiana. Com'è ormai noto, il 12 novembre 1989 alla Bolognina Occhetto, segretario del Pci, lanciò la proposta di cambiare nome al partito98. Da allora inizierà un aspro confronto fra i fautori del “sì” e quelli del “no” (per semplificare definiamo i primi occhettiani mentre i secondi sono legati alle figure di Cossutta e Ingrao, una strana coppia davvero). E che si risolverà in un'ulteriore scissione che confluirà nel Prc. Chi scrive ritiene che la sortita pubblica di Otello Montanari possa rientrare nella lotta fra i due 96
. Interessante il collegamento che Salvatore Scarpino sulle colonne del “Giornale” del 31 agosto 1990, in prima pagina, compie tra l’“esternazione” di Montanari e la presentazione nel giugno precedente del libro di Liano Fanti sulla vicenda dei fratelli Cervi. “A Reggio Emilia nel giugno scorso aveva già creato polemiche la presentazione del libro di Liano Fanti Una storia di campagna, edito da Camunia, in cui si sostiene che i comunisti reggiani non fecero nulla per salvare dalla fucilazione i sette fratelli Cervi. Per la prima volta la versione ufficiale del Pci su un episodio saliente della Resistenza veniva attaccata non da destra – cosa già avvenuta – ma da sinistra, perché Liano Fanti ha lavorato come giornalista prima all’“Unità” poi all’“Avanti!”. È stato come lanciare un sasso nello stagno. La sortita di Montanari dimostra che le acque continuano a muoversi e, d’altra parte, non c’è più un apparato capace di placarle, di imporre il silenzio su certi episodi”. La polemica sollevata dal libro di Fanti è ricordata anche da Michele Smargiassi nell’articolo Quei delitti che scuotono il Pci in “La Repubblica”, 31 agosto 1990 97 . Chiarissime le parole di Nicola Gallerano “Quale che sia il giudizio sugli eventi del 1989, una cosa è certa, simboleggiata nel modo più chiaro dall’abbattimento del muro di Berlino: il dopoguerra è finito” tratto da Memoria pubblica del fascismo e dell’antifascismo in Politiche della memoria, Manifestolibri, Roma 1993 98 . Cfr. Igino Ariemma, La casa brucia. I Democratici di sinistra dal Pci ai giorni nostri, Marsilio, Padova 2000; per un approfondimento sul “pci che non è più il pci” si vedano anche: Gianfranco Baldini, Piergiorgio Corbetta, Salvatore Vassallo La sconfitta inattesa. Come e perché la sinistra ha perso a Bologna, Il Mulino, Bologna 2000; Paolo Bellucci, Marco Maraffi, Paolo Segatti, Pci, Pds, Ds. La trasformazione dell'identità politica della sinistra di governo, Donzelli, Roma 2000; Michele Prospero, Roberto Gritti, Modernità senza tradizione. Il male oscuro dei Democratici di sinistra, Manni, Lecce 2000) 35
schieramenti. Ovvero da parte dei fautori del cambiamento, o se si preferisce del de profundis del vecchio partito comunista, esisteva la necessità di sbloccare il sistema politico italiano attraverso una reale resa dei conti con tutti i punti oscuri della storia comunista a partire proprio dagli anni della fondazione della Repubblica. Secondo i sostenitori del “no”, viceversa, della storia del Pci e del suo patrimonio politico e culturale non c'era nulla da “rinnegare”, ma, caso mai, da rivedere criticamente quegli episodi palesemente in contrasto con i principi del socialismo e della libertà dei popoli all'autodeterminazione. Entrambi gli schieramenti, a parte i cossuttiani, nutrivano per la storia passata dell'Urss un comune senso critico. L'ascesa al potere di Gorbaciov, nel 1985, però aveva instillato nel partito la speranza di una possibile autoriforma dell'“orso” sovietico in senso squisitamente democratico e di conseguenza aveva riattivato nel Pci, ma non solo, energie (illusorie) che la storia dell'Urss fino ad allora avevano spento 99. In altre parole i germi posti dalla rivoluzione d'Ottobre non erano sterili e le riforme gorbacioviane ne erano la prova, per cui si sarebbe potuto cambiare nella continuità100. Ma poi accadde ciò che accadde. E il Pci, secondo alcuni storici e politologi, aveva perduto del tempo prezioso rimandando l'ineluttabile cambiamento che i fatti storici man mano suggerivano e/o imponevano dopo il costante declino successivo al 1976. Anno importante anche per un altro motivo, ai fini del nostro discorso: nel 1976 alla segreteria del Psi approdò Bettino Craxi, che inaugurò una stagione di aperta ostilità verso il Pci, mentre quest'ultimo giunse ad accusare Craxi, un indubbio politico energico che fece del “decisionismo” la sua bandiera, di essere una “minaccia alla democrazia”101. Questi, in estrema sintesi, i rapporti fra Pci e Psi che percorsero tutti gli anni Ottanta e che si risolsero, si può dire, solo per cause extrapolitiche, cioè giudiziarie. Così nel 1990 con il Pci alle prese coi problemi di cui abbiamo detto e il Psi che puntava all'“Unità socialista” che avrebbe dovuto (e voluto) inglobare il Pci, si può capire il significato che assunsero le “rivelazioni” di Otello Montanari ex partigiano, ex deputato comunista e presidente dell'Istituto Cervi. Indubbiamente, una maggior chiarezza coeva agli episodi delittuosi che videro coinvolti Pci e partigiani 99
. “La caduta del muro di Berlino aveva smosso tante coscienze, ma forte restava ancora il peccato originale nei comunisti italiani, cioè la convinzione che quei Paesi [dell'Est, ndr] a regime comunista potessero essere riformati democraticamente. Uno dei fattori che più ha aperto gli occhi ai militanti e agli elettori comunisti è stato ciò che si è visto dopo il crollo” Igino Ariemma. La casa brucia. I Democratici di sinistra dal Pci ai giorni nostri, Marsilio, Padova 2000, p. 29; cfr. Valerio Castronovo, L'eredità del Novecento, Einaudi, Torino 2000, in particolare tutto il capitolo Le ceneri del socialismo reale) 100 . Gerardo Chiaromonte, Senza timore della storia, in Se vince Gorbaciov. Storia immagini documenti riflessioni nel 70° della rivoluzione d’ottobre, supplemento all’“Unità” del 1° novembre 1987. “Ci sia consentito – scrive il direttore dell’“Unità” di allora – di esprimere ... una convinzione profonda: uno dei nodi da sciogliere, e non tra i meno importanti, nel nuovo corso proclamato dal nuovo gruppo dirigente sovietico è proprio quello relativo alla storia stessa del loro paese e del loro partito. Una storia assai ricca, della cui conoscenza critica e del cui studio non potrebbe che trarre vantaggio la causa del rinnovamento politico e culturale dell'Urss e del Pcus. Ci sembra inutile sottolineare il nostro apprezzamento per le posizioni e gli intendimenti che oggi vengono espressi da Gorbaciov e dal nuovo gruppo dirigente sovietico ... La determinazione di Gorbaciov e dei nuovi dirigenti sovietici, il loro coraggio nel riconoscere e denunciare la verità e nell’insistere sulla necessità di cambiamenti radicali, il loro ragionare “in grande”, il loro vedere i problemi del mondo contemporaneo in modo interdipendente e correlato, il non lasciarsi guidare da interessi “di parte” o schematismi ideologici: tutto questo ci sembra veramente assai importante. E travalica – e invita tutti noi a superare – ogni inerzia culturale e politica” (p. 7-8). Una nota a parte per segnalare il libro di Giulietto Chiesa, Russia Addio, Editori Riuniti, Roma 1997, un’indagine di taglio giornalistico, com’è intuibile fin dal titolo, sulla fine dell’Urss 101 . Massimo L. Salvadori, La Sinistra nella storia italiana, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 183. in particolare sul rapporto PsiPci nell’era del craxismo si veda il capitolo XII 36
avrebbe, probabilmente, disinnescato nei suoi eccessi una propaganda volta a bollare l'Emilia come “triangolo della morte”. I morti ci furono e gli esecutori militavano e nel Pci e nell'associazione partigiana 102 . Un dato innegabile, ma se si vuole fare ricerca storica autentica e non una vulgata cronachistica e scandalistica come media e forze politiche e intellettuali hanno fatto, gli avvenimenti di allora devono essere ricondotti al loro contesto senza, però, facili giustificazionismi e reticenze, e in quel contesto studiati. Storicizzare gli avvenimenti significa, è opportuno ribadirlo, calarsi in un determinato contesto storico per coglierne i diversi aspetti, non ultimo la mentalità degli attori che in esso agiscono. Capire questo non vuol dire giustificare ma compiere lo sforzo, che uno storico è tenuto a fare, di interpretare la complessità che ogni momento storico presenta. Oggi, possiamo dire, come anche allora qualcuno denunciò, che il bene del partito, l'entità astratta Partito, veniva prima delle persone in carne e ossa, come i casi emblematici e clamorosi di Germano Nicolini (delitto don Pessina) e di Egidio Baraldi (delitto Mirotti) stanno a dimostrare. Verità ancora parziale che Miriam Mafai, giornalista di “Repubblica” e compagna di Gian Carlo Pajetta, coglie ponendo nella giusta prospettiva il rapporto fra i singoli e il Partito (con la P maiuscola). Erano innocenti che “sapevano e tacquero, per disciplina politica [corsivo mio], i nomi dei veri esecutori e dei mandanti. E scontarono, da innocenti, molti anni di galera”103. Questo è uno dei tasselli del complesso quadro in cui le vicende del dopoguerra si svilupparono, e che sarebbe bene tenere presente. Come non si può dimenticare che il livello dello scontro all'interno della società politica e civile italiana dopo la rottura della solidarietà ciellenistica avvenuta nel maggio '47, cioè l'allontanamento dal governo della sinistra, e il processo di formazione di due schieramenti mondiali contrapposti, con identiche ricadute nazionali, divenne scontro fra civiltà, ossia guerra ideologica. Un 102
. Cfr Massimo Storchi, Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra, Marsilio, Venezia 1998 103 . “La Repubblica”, 31 agosto 1990. Scrive in proposito Sandro Spreafico in Storia della chiesa... vol V tomo I: “Certo, l’uomo Nicolini era persona politicamente troppo intelligente per dare un ordine scellerato come quello di eliminare un sacerdote nel giugno del 1946; ma il comunista Nicolini non era libero, nonostante la sua autorevolezza, di opporsi alla linea del partito che era ben determinato ad impedire che si facesse luce piena sul delitto. Perciò l’innocente Nicolini disse tutta la verità relativamente a se stesso, ma non tutte le verità che riguardavano le responsabilità di compagni carissimi di lotta partigiana o di partito [corsivo mio]” (p. 15/1). A Michele Smargiassi della “Repubblica” che gli domanda se la tessera del Pci ce l’ha ancora in tasca, Egidio Baraldi – accusato del delitto Mirotti – risponde “Io non accuso il Pci. Accuso una parte del Pci. Quelli che allora, e anche dopo, avevano la “doppia linea”. Quando uscii dal carcere nel ‘53, chiesi un incontro con il segretario: in 37 anni nessuna risposta” (31 agosto 1990). Sempre nello stesso articolo in riferimento alla sua vicenda, Germano Nicolini (delitto don Pessina) afferma: “Ho resistito al carcere perché mi sentivo un eroe; mi dissero bravo, sei un martire, ma stop, non mi vollero affidare nessun incarico”. “E il “diavolo’ [nome di battaglia di Germano Nicolini, ndr] dice di sapere i nomi dei veri colpevoli, qualcuno cammina ancora sotto i portici di Correggio: ma i nomi non li ha mai voluti fare” Mike Scullin, Vittima di quegli anni terribili, “Il Resto del Carlino”, 31 agosto 1990. Francesco Alberti nell’articolo Tra compagni lacrime e silenzi pubblicato lo stesso giorno sul medesimo quotidiano riporta le dichiarazioni di Oddone Cattini “Sbafi”, all’epoca del delitto Vischi in polizia e per questo suo ruolo fu accusato di omissioni di atti d’ufficio e arrestato. Scontò oltre 28 mesi di carcere. In carcere con Cattini c’era l’ex segretario del Pci Arrigo Nizzoli che invece fu quasi immediatamente scarcerato: “Eppure – scrive Alberti – nonostante l’ingiustizia subita, non solo è rimasto comunista (“Perché essere comunisti è una fede”) ma di fronte alle rivelazioni di questi giorni così risponde: “Dico quello che Ho Chi Minh disse a Kruscev: i panni sporchi bisogna lavarli in famiglia”. E non è il solo. Alla teoria del “bucato in famiglia”, autodifesa che per decenni è puntualmente scattata nei momenti di crisi, si allinea, anche se in maniera più sfumata un’altra figura di spicco del Pci reggiano del dopoguerra: l’ex segretario provinciale, ex partigiano Onder Boni... “ora si sanno cose nuove. Ma quelli della mia età sono stanchi e l’unica cosa che possono fare è stare a vedere” 37
guerra ideologica che si rifletterà ancora sui mass media con uno spregiudicato uso pubblico della storia, e parliamo del settembre '90, oltre quarant'anni dopo e con le macerie del muro ancora fumanti. È come se le “confessioni” di Montanari avessero rotto una sorta di vaso di Pandora che contenesse tutte le “malefatte” del Pci104. Se nel vaso di Pandora solo la Speranza è rimasta a disposizione degli uomini, nel nostro caso il fatto nuovo e positivo che il “Chi sa, parli” ha prodotto è stata la rottura di certe, diciamo, inibizioni che impedivano di accostare il termine violenza all'evento Resistenza. Un libro per tutti, il saggio di Massimo Storchi, Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra. Riportiamo un breve passo a proposito dell'uccisione dell'ingegnere Arnaldo Vischi per capire che “Italia era quella del ‘45”, e per riconoscere che se vi era una violenza legata a sete di giustizia, ve ne era un'altra, finché si vuole limitata e circoscritta, che aveva scopi di “classe” (naturalmente qui non interessa il puro banditismo)105. Scrive Storchi: Ma il crimine rimane rilevante non solo per la personalità dell'ucciso ma soprattutto per le connessioni e le complicità che esso mette in luce in particolare all'interno della federazione del Pci reggiano che rimane coinvolto nel caso fino ai massimi livelli. In una sorta di tragico carosello, infatti, il responsabile materiale viene ben presto individuato e segretamente arrestato da elementi della questura reggiana che lo consegnano, anziché alla magistratura, a un gruppo di partigiani gappisti che provvederanno alla sua eliminazione e sparizione, dopo aver sequestrato e percosso il partigiano incaricato di una indagine parallela dallo stesso Pci reggiano. Nel tentativo poi di coprire l'accaduto e accreditare l'ipotesi di una fuga del colpevole all'estero, gli stessi ex gappisti non esiteranno a uccidere parecchi mesi dopo l'accaduto anche un ulteriore testimone106.
Non è compito di questo lavoro entrare nel merito delle complesse questioni che l'Italia del ‘45 viveva, ai nostri fini ci basta il passo citato di Combattere si può vincere bisogna che consente di comprendere perché il “Chi, sa parli” reggiano abbia di fatto aperto le porte a titoli nazionali come quello del “Giorno” del 7 settembre 1990, Gli operai dalla piazza: “D’Onofrio, dacce er via!”, invocazione urlata, secondo il raffinato giornalista del quotidiano milanese, dai comunisti dopo l'attentato a Togliatti; oppure, sempre sul “Giorno”, come quello del 2 settembre Il festival degli scheletri nell’armadio, in concomitanza con l'apertura del festival nazionale dell'Unità di Modena; Se mai può valere la considerazione che chi fa storia fa sempre storia del presente (e aiuta le forze in campo nel loro sviluppo, Gramsci), il “Chi sa, parli” è il caso della sua dimostrazione empirica. Consultando la stampa di quel settembre si intuisce la profondità della frattura nel mondo politico e culturale italiano che la conclusione della guerra “calda” e lo scoppio di quella “fredda” provocarono. 104
. “Certo – scrive Domenico Settembrini – è importante che il Pci, accogliendo la sollecitazione di Otello Montanari, aiuti a fare finalmente chiarezza su tutti questi episodi; quanto se ne sa già è tuttavia più che sufficiente a indicare l’opportunità di farla finita con il mito storiografico della Resistenza tradita. In realtà la Resistenza aveva in Italia due anime: quella liberale, democratica, nazionale, che grazie a De Gasperi e Scelba – grazie anche al popolo italiano – il 18 aprile 1948 confortò col suo consenso l’operato di questi statisti e quella rivoluzionario-comunista. Dalla frustrazione che quest’anima dovette subire sono nati i fatti di sangue del dopoguerra ed è nato il terrorismo delle Brigate Rosse. Per sapere quale sarebbe stato il nostro destino, se avesse trionfato questa Resistenza, non abbiamo che da guardare alle tribolazioni dei paesi dell’Europa dell’Est” [“Il Resto del Carlino”, 31 agosto 1990] 105 . Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999; in particolare il capitolo II Un fenomeno parallelo: la delinquenza comune, p. 133 e segg. 106 . Massimo Storchi, op. cit. p. 131 38
Una spaccatura che ha accompagnato (e tuttora accompagna) la vita politica, culturale e sociale della Repubblica fin dalle sue origini. Infatti, sull’onda delle “rivelazioni” dell'ex deputato comunista tante altre questioni furono letteralmente sbattute in prima pagina: il filo rosso che “univa” i partigiani alle Br, i rapporti tra il Pci e la Cecoslovacchia, il “Piano K” e la “doppia linea”, lo stalinismo di Togliatti (il “Migliore”). La divisione del mondo in due blocchi contrapposti è stata la morsa che ha stritolato il sistema politico italiano inficiandone uno sviluppo più articolato, ma che non ha impedito al Partito comunista, soprattutto nei momenti più drammatici della storia d'Italia, di difendere – con, forse, un eccesso di statalismo – quella Repubblica che aveva contribuito a fondare. Tuttavia non si può nascondere o negare che c'era chi pensava a una soluzione diversa da quella parlamentare, da quella che nei fatti è prevalsa. Al Pci di allora mancò il coraggio della denuncia chiara e inequivocabile, come testimoniano alcuni protagonisti107. Scrive Storchi Con l'uccisione di Vischi ci si trova di fronte a un nuovo tipo di azione di violenza .... Gruppi di ex partigiani, ancora organizzati secondo le gerarchie della lotta clandestina, e parti importanti della struttura del Pci reggiano con una ramificazione diffusa nel territorio, proseguono in una attività di controllo, sorveglianza e individuazione di possibili obiettivi. Con la collaborazione di agenti della polizia partigiana, fino all'interno della stessa questura, si muovono elementi che rispondono direttamente ancora alle logiche e alle strategie attuate nei mesi della lotta clandestina. Pur di fronte alle ricorrenti prese di posizione ufficiali, la prassi rimane quella del “doppio pensiero” e della “doppia azione”108 . Risulta chiaro, quindi, che il cuore del problema a cui mirano politici e mass media, a partire proprio dai quei morti ammazzati, è la questione della fondazione della Repubblica e della legittimità democratica e nazionale di uno dei suoi fondatori, il Pci109. Mass media e mondo politico non si lasciano sfuggire l'occasione Montanari, il quale finì, con foto, anche su un cruciverba110. Il legame con Mosca e l'elaborazione del “Piano K” sono proprio il leitmotiv su cui si costruisce l'intera campagna politica e di stampa, in particolare di quella locale e degli organi di partito. Infatti il tema della legalità/illegalità, ossia l'abusata querelle sulla doppiezza del Pci (respinta con sdegno dalla dirigenza dello stesso partito)111 , è il nucleo centrale su cui si costruisce la reazione alle “confessioni” di Montanari. 107
. Massimo Storchi, ivi, p. 134, testimonianza di Ervé Farioli
108
. Massimo Storchi, ivi, pp. 131-132 . Mi pare significativo il commento di Rusconi, scritto nel 1995, su ruolo del Pci nella storia dell’Italia Repubblicana. “Il Partito comunista per il tipo di opposizione che esercita, diventerà di fatto funzionale all'evoluzione e alla maturazione del sistema democratico italiano. Diventerà un fattore di stabilità costituzionale. Trasformerà gradualmente il “nemico di classe” da combattere e da eliminare (politicamente, beninteso, ma pur sempre da fare sparire nella sua identità) in “avversario/concorrente” da vincere nel gioco democratico (con il sottinteso che manterrà la sua identità). Ma non riuscirà a diventare forza una forza di governo. Lealtà costituzionale e disabilità governativa sono i tratti di fondo della “questione comunista” che non si è risolta neppure con l’eutanasia del Pci” (op. cit. pp. 178-179) 110 . Montanari nel cruciverba, Resto del Carlino (Carlino Reggio), 18 settembre 1990 111 . Sulla questione della “doppiezza” il terribile 1956 è il turnin' point che prova a chiarire i rapporti fra il Pci e l’Unione Sovietica e fra democrazia e socialismo. Con Gli Elementi per una dichiarazione programmatica del Pci e con il progetto Per una via italiana al socialismo. Per un 39 109
È il prezzo pagato alla storia per il legame con l'Urss, contraddistinto da rivendicazioni di autonomia e da disciplinata “introiezione della “superiorità” di Mosca” che altro non erano che le “due facce della stessa medaglia”112. Pur non essendoci motivi per dubitare della sostanziale lealtà costituzionale del Partito comunista “il rapporto privilegiato con il modello sovietico – mai seriamente criticato da Togliatti – si rivela alla fine un veleno per il comunismo italiano”113. Tanto i titoli quanto i contenuti mettono a dura prova il delicato equilibrio fra storia e politica. “Chi volesse una conferma che la storia è sempre storia contemporanea – scrive Massimo L. Salvadori sulla “Stampa” del 1° settembre 1990, A carte scoperte. I processi alla storia – non ha che da guardarsi attorno”. E solo di sfuggita segnaliamo che a Rimini, mentre monta l'“operazione verità”, al meeting di Comunione e Liberazione è in corso il processo al Risorgimento, quello di Garibaldi, ovviamente. governo democratico delle classi lavoratrici materiali preparatori dell’VIII congresso – su cui si formeranno negli anni successivi i quadri del Pci, attraverso lo studio che si farà di essi nelle scuole di partito – la dirigenza comunista chiarisce molte cose in tal senso ma non risolve il legame con l’Urss, lasciando quindi in sospeso uno dei motivi su cui si basa l'accusa di doppiezza. Togliatti nel rapporto all’VIII Congresso sostiene che le trasformazioni strutturali devono compiersi nel quadro previsto dalla Costituzione repubblicana. “Su questo punto – scrive Aldo Agosti – le novità più esplicite non sono contenute nel rapporto di Togliatti al congresso, ma nella Dichiarazione programmatica, da lui in buona parte redatta, che viene approvata alla fine dei lavori: “Il regime parlamentare – vi si afferma – il rispetto della maggioranza espressa, il metodo definito dalla Costituzione per assicurare che le maggioranze si formino in modo libero e democratico, sono non soltanto compatibili con l’attuazione di profonde riforme sociali e con la costruzione di una società socialista, ma agevolano e assicurano, nelle condizioni di oggi, la conquista della maggioranza da parte dei partiti della classe operaia”. Non solo il Parlamento “può e deve esercitare una funzione attiva” nel corso della trasformazione democratica della società italiana, e poi in una nuova società socialista: ma “non esiste nessun principio che escluda la pluralità di partiti nel Paese e al potere durante la costruzione di una società socialista, e il libero confronto fra le differenti ideologie”. L’adesione, non tattica e strumentale ma di principio alla democrazia politica, ai suoi metodi e ai suoi istituti non potrebbe essere espressa in termini più chiari, e rappresenta una rottura netta rispetto alla tradizione comunista, connotando in termini profondamente originali la “via italiana al socialismo”. Resta però un limite insuperato, una contraddizione profonda: la conclamata superiorità del modello democratico e socialista realizzato nell’Unione Sovietica non può non proiettare un’ombra sulla stessa scelta a favore della democrazia politica in Occidente (corsivo mio, ndr)” (Aldo Agosti, Togliatti, Utet, Torino 1996, p. 458). Una contraddizione messa in luce, in modo ancor più articolato, da Gozzini e Martinelli nella loro storia del Pci: “[Togliatti] ha parlato ... di “rinnovamento nella continuità”, valorizzando questa formula come un criterio di validità permanente nella storia del Pci. Ma quanto corrisponde la realtà a valutazioni di questo genere? Quale bilancio è possibile trarre, in termini storici e non immediatamente politici, dall’VIII congresso del Pci? Bisogna sottolineare prima di tutto che la versione tramandata dalla memoria comunista coglie un dato soggettivo di fondo, fortemente presente nella consapevolezza del gruppo dirigente alla guida del Pci nel corso del 1956, che lette in rilievo i tratti più evidenti della svolta congressuale sul piano politico: la condanna esplicita della “doppiezza” e l’affermazione di una “via italiana al socialismo” fondata sulla Costituzione. Questo elemento soggettivo corrisponde a una parte della realtà” (op. cit. p. 633). “Nel rapporto tenuto al congresso – scrivono più avanti gli autori – il segretario è stato molto esplicito: anche se la Costituzione rende possibile un’avanzata democratica delle forze lavoratrici, la resistenza dei ceti dominanti e la possibilità di “colpi di testa reazionari” fa sì che non sia pensabile “una modificazione del carattere del nostro partito e della sua strategia rivoluzionaria. Anzi insistiamo su questa” (op. cit. p. 635) Che in termini di cultura di partito significa che “il legame con l’Unione Sovietica viene infatti ribadito dal gruppo dirigente, dopo i “fatti d’Ungheria”, sulla base della realpolitik di una scelta di campo che contiene in sé elementi di gerarchia e di identità (tipici di tutta la politica togliattiana); ma anche in termini assoluti di valore ideologico, secondo l’affermazione e la convinzione che la società sovietica resta comunque una società socialista. A questa posizione si pensa di non poter rinunciare, ed è per questo che gli spunti di analisi marxista del regime sovietico, affacciati da Togliatti nell’intervista a “Nuovi argomenti” rimangono privi di sviluppo. Anche se non si crede più allo stato-guida, il “legame di ferro” con l’Urss rimane per i comunisti italiani una sorta di barriera mentale insuperabile, un fattore essenziale di appartenenza e di conservazione” (op. cit. p. 635-636) 112 . Marcello Flores-Nicola Gallerano, Sul Pci. Un'interpretazione storica, Il Mulino, Bologna 1992, p. 71 113 . Gian Enrico Rusconi, Resistenza e Postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995, p. 178 40
È tra questi due poli estremi, processo al Pci e al Risorgimento garibaldino, che acquistano un preciso significato politico le parole di Fabio Fabbri, presidente dei senatori socialisti Da noi la rivoluzione industriale non è stata preceduta dall'affermazione del liberalismo. Lo sbandamento che colpisce comunisti e democristiani incoraggia a operare perché il vuoto possa finalmente essere colmato dai valori del nuovo liberalismo sociale, che si ispira al socialismo liberale di Rosselli e Turati, finora rimasto minoritario114.
Ci pare perciò contraddittoriamente pertinente il rilievo di Pierluigi Battista, giornalista della “Stampa” di Torino, che scrive: “Il fatto politicamente rilevante [del “Chi sa, parli”, ndr] rimane la riapertura del conflitto storiografico”115. Così affermando l'articolista attribuisce alla storia un valore politico, che è proprio ciò che mette in evidenza l'intera “operazione verità”, contrassegnata dalle parole chiave perestrojka e glasnost, i due fortunati termini del lessico gorbacioviano adottati, spesso a sproposito, dai media e dal mondo politico italiano per descrivere la “confessione” di Otello Montanari, uno dei passaggi ritenuti necessari dal Pci per fare i conti col proprio passato. “L'autorevolezza della fonte” La “confessione” di Otello Montanari fu autorevole ed espresse la volontà di buona parte del gruppo dirigente del Pci reggiano (i dirigenti nazionali all'inizio sembrarono defilarsi) di segnare con un atto significativo il passaggio a una nuova fase della storia della sinistra comunista italiana che la Bolognina aveva annunciato. Che poi l'eco della parole di Montanari sia andata oltre le quattro pareti domestiche (leggasi Reggio Emilia) è da imputare, come si è detto, alle particolare congiuntura storico-politica che ha amplificato a tutto il territorio nazionale un'iniziativa che appariva ai promotori, probabilmente, non degna di simile pubblicità. Le parole di Giovanelli, riportate dalla “Gazzetta di Reggio” (4 settembre) sono illuminanti A Reggio molte cose dette da Montanari sono sempre state risapute, scritte e riscritte, tranne qualche elemento. Per questo non si poteva immaginare il clamore a livello nazionale che avrebbero suscitato.
Sottovalutarono, forse, il fatto che il Pci fosse ancora considerato un corpo anomalo o estraneo alla democrazia occidentale e in particolare italiana, ritenendo, al contrario, che fosse del tutto assodata la sua completa aderenza alla pratica democratica occidentale. Fatto sta che il Pci reggiano si trova al centro dell'attenzione di tutti. Giornalisti, la Rai hanno preso d'assalto via Toschi [sede dei comunisti reggiani fino ad alcuni anni fa, ndr] e hanno fatto ripetere i concetti di “trasparenza” e di esigenza di “verità” al segretario provinciale Fausto Giovanelli e allo stesso Montanari. Giovanelli ha detto di aver ricevuto una telefonata sul tema dal membro della segreteria centrale Umberto Ranieri: “Voleva sapere”116. 114
. “l’Avanti!”, 1 settembre 1990
115
. “La Stampa”, 2 settembre 1990
116
. Sa il nome di un carnefice, “Il Resto del Carlino”, 31 agosto 1990
41
Interessante sarebbe poter accedere alle registrazioni complete del Comitato federale che si svolse a porte chiuse l’11 settembre 1990, di cui si hanno solo scarni resoconti giornalistici117 . Non crediamo si possano trascurare tra le cause che spinsero una parte del Pci a ritenere utile una “catarsi” pubblica di quel tipo, gli aspetti psicologici e pratici. Se fosse stato coinvolto tutto il partito in una discussione sull'opportunità e sul modo di affrontare le tragiche e delicate vicende dell'immediato dopoguerra – sollecitate dall'esterno del partito – vista la dura reazione nei confronti dello scritto di Montanari da parte di tanti comunisti ed ex partigiani, sicuramente sarebbe stata scartata la via della “lettera confessione” a un quotidiano, per di più con riferimenti politici e d'opinione abbastanza lontani dal partito comunista. Infatti una delle accuse più ricorrenti all'“operazione verità” da parte degli ambienti comunisti e dell'Anpi a Montanari sta proprio qui, nell'aver scelto un protagonismo pubblico che ha scatenato una furibonda campagna antipartigiana, mettendo in discussione la legittimità stessa della “Repubblica fondata sulla Resistenza”. Ma proprio questa reazione può aiutare a capire perché l'“operazione verità” ha scelto la strada della carta stampata e non quella di un pronunciamento ufficiale del partito comunista. È stata una scorciatoia per evitare veti all'interno del partito, lanciato sulla via del cambiamento del nome e della sua stessa natura. Una delle condizioni perché il nuovo partito fosse davvero nuovo e moderno, secondo una buona parte della dirigenza affermatasi durante gli anni Ottanta, era far chiarezza sui “luoghi oscuri” del suo passato118. Il giornalista del “Carlino”, Mike Scullin, lucidamente, sulla scorta della vicenda di Germano Nicolini – accusato e condannato per il delitto consumato nel giugno 1946 di don Umberto Pessina, parroco di San Martino piccolo di Correggio (ma del quale nel 1994 verrà completamente scagionato) – afferma che sulla vicenda “Diavolo” si sta costruendo adesso l'autoflagellazione del Pci, una confessione – quasi masochistica nella sua ferocia – degli errori commessi nel dopoguerra: i leader di allora anche se non tutti, tollerarono, ebbero addirittura legami con chi si macchiava di sangue. E a dirlo fuori dal palazzo non sono stavolta i soliti ‘reazionari’, ma proprio loro, gli uomini che contano119 .
Chiudiamo queste considerazioni con Marzio Breda che sul “Corriere” del 4 settembre si concede citazioni letterarie per descrivere la situazione “psicopolitica” della “Cosa”: Scomodare Dostoevskij e il suo universo in dissoluzione, dove l'anima di ciascuno “si agita, si sdoppia, si batte con se stessa, ferisce e invita a ferire”, può sembrare eccessivo. Eppure non c'è forse riferimento più appropriato per raccontare di quel che sta accadendo fra i comunisti reggiani, sempre più incerti e divisi, frastornati, sulle rivelazioni e autocritiche fatte da un loro dirigente ... Otello Montanari. 117
. Il resoconto più “esauriente” si trova sull’“Unità” del 12 e 13 settembre 1990, Gian Piero Del Monte, “Si vorrebbe sterilizzare il nostro patrimonio storico”; Giovanni Dal Fiume, “Non si riscrive la storia”. Tutti uniti nel Pci Reggiano” 118 . Cfr. Renzo Martinelli Storia del Partito comunista dalla Resistenza al 18 aprile, op cit., sul Pci nel dopoguerra 119 . Mike Scullin, Vittima di quegli anni terribili, “Il Resto del Carlino”, 31 agosto 1990. Sul fatto che è dal “palazzo” che giungono le accuse insiste anche Francesco Alberti nell’articolo Tra compagni lacrime e silenzi, “Il Resto del Carlino”, 31 agosto 1990 42
Alcune osservazioni finali Il titolo dell’ultimo capitolo Alcune osservazioni finali andrebbe completato con l’ulteriore aggettivo virtuale, nel senso che i temi e i problemi “sbattuti in prima pagina” nel settembre ‘90 sono tutt’altro che risolti. Le questioni legate alla fondazione della Repubblica e ai suoi protagonisti, a dir il vero sempre più inghiottiti dalla storia ma non per questo “serenamente” ricordati, continuano nel nuovo millennio ad essere oggetto di dispute politiche piuttosto che storiche. Per questo motivo, ci affidiamo a voci diverse che allora, in quel “fatidico” settembre, dopo i quindici giorni che sconvolsero la memoria della Resistenza e l’identità del Pci, cercarono di trarre alcune conclusioni storiche e d’indicare possibili linee di sviluppo del dibattito infuocato che l’articolo di Montanari suscitò in Italia, ma anche in Europa. Siamo sempre, vale la pena ricordarlo, nell’ambito giornalistico quindi fatalmente legati alla “quotidianità” delle riflessioni, che tuttavia, negli articoli proposti, cercano di trovare un equilibrio, se così possiamo dire, fra miopia e presbiopia. Ossia, in altre parole, di vederci chiaro in prospettiva. Il “manifesto”, il 16 settembre, commenta la messa in onda (venerdì 14 settembre) da parte della Rai di uno Speciale Tg1, curato da Paolo Frajese, dedicato al “Chi sa, parli!”, o all’“operazione verità” che dir si voglia, dando un giudizio perentorio sul “messaggio” del programma.. A pochi minuti da ben altre immagini – scrive Marco Sotgiu – quelle delle lacrime e delle commemorazioni per il partigiano Giancarlo Pajetta [morto il 14 settembre, ndr]. La tv della Repubblica, si potrebbe dire, ha pubblicamente tagliato le sue radici. Perché è pur vero che il programma alla fine ha dovuto ammettere che pure qualche valore della Resistenza andrà passato ai giovani, ma l’immagine che abbiamo avuto (e che purtroppo anche i bambini di Sant’Ilario hanno avuto) dalla trasmissione di venerdì è quella di un paese in balia di orde di comunisti, fino ad oggi rimasti impuniti120 .
Questo è uno dei punti chiave: quale storiografia e quale memoria per le nuove generazioni. Interrogativo che rimanda ad un’altra domanda: perché l’“operazione verità” sulla Resistenza? Quale Repubblica? In ballo c’è – scrive Guido D’Agostino, utilizzando lenti gramsciane, sempre sulle colonne del “manifesto” – l’egemonia ed essa va conquistata in tutti modi, sino a trasformarla in dominio attraverso lo stabilimento del monopolio ideologico: amalgamare, azzerare, omogeneizzare il campo, riempiendolo dei propri referenti ideologici e culturali rendendoli progressivamente gli unici esistenti, senza possibilità di riscontri o paragoni sul piano dell’esistente che diventa così il “modello assoluto”121 .
Ma la bagarre scatenata ha proprio lo scopo di fare tabula rasa della memoria partigiana e comunista per rifondare “ideologicamente” la Repubblica? Gian Enrico Rusconi in La memoria liberata, che già il titolo rende chiaro il suo pensiero, pubblicato dalla “Repubblica”, il 13 settembre, afferma In realtà quello che è andata perduta è soltanto l’immacolatezza fasulla, che è tipica del mito. Demitizzare senza 120
. Marco Sotgiu, “il Manifesto”, 16 settembre 1990 . Guido D’Agostino, “il Manifesto”, 16 settembre 1990
121
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perdere il rapporto di senso con quel passato implica una revisione storica seria. Non un ennesimo aggiustamento che fa assomigliare la Resistenza a quelle grottesche fotografie del periodo staliniano sottoposte a periodici ritocchi. Le linee della necessaria rivisitazione storica sono già implicite negli interventi dei due dirigenti che sono intervenuti a Reggio. L’insistenza di Lama sulla ferocia della guerra partigiana non va intesa come riconoscimento della presenza di fattori umani, che spiegano passioni e atteggiamenti ad un tempo eroici ed assassini. È un rilievo storico, “tecnico” per così dire. Fu una guerra civile a tutti gli effetti. Questa definizione non è un nominalismo accademico né una concessione a chi pretende di togliere senso e valore alla Resistenza chiamandola “guerra civile”. Ancora più importante politicamente è lo spunto critico di Fassino contro Togliatti e il prevalere della “ragion di partito” su altre logiche democratiche. Solo insistendo, senza timidezze, in questa direzione si riuscirà a distinguere tra Resistenza come evento storico e il suo uso strumentale; tra le attese rivoluzionarie di alcuni militanti e la strategia togliattiana con le sue ambiguità ed errori.
Non si processa la storia122 è il bel titolo dell’articolo di Umberto Bonafini, direttore della “Gazzetta di Reggio”. Nel corso di questo lavoro abbiamo ritenuto che una certa importanza abbia rivestito il fatto che certe ammissioni venissero proprio dall’interno del Pci, attraverso la penna di Montanari. Secondo Bonafini è un fatto se non irrilevante certamente secondario “perché quelle cose le avevano scritte sia dei comunisti che degli anticomunisti e poi perché sono state scritte in sentenze di tribunali della Repubblica”. Ma poi precisa: “non considero solo [corsivo mio, ndr] Otello Montanari responsabile della querelle insorta”. È venuto a mancare, insomma, scrive il direttore della “Gazzetta” “quell’equilibrio che è tipico della lettura della storia e che qualifica, in senso culturale, il rapporto fra storia e politica”. un equilibrio che non si poteva chiedere all’ex partigiano “ma che avevano ed hanno il dovere di mostrare coloro i quali guardano ai fatti ben oltre i confini degli interessi personali o di parte”. “Montanari – conclude Bonafini – ha sicuramente sbagliato nella sostanza e nel metodo; ma hanno altrettanto sicuramente sbagliato e forse ancora di più coloro i quali, approfittando del suo ingenuo operato, hanno pensato e pensano di processare la storia dell’Italia democratica” Quello che è accaduto, in sostanza, è stata la sovrapposizione e l’intreccio perverso di storia e politica. Ed è ciò che sostengono ventitré giovani storici reggiani ed emiliani: “Non un solo sforzo per capire e approfondire la complessità del problema che le presunte rivelazioni iniziali avevano innescato ma solo vuote ripetizioni di stereotipi trascorsi e abusati, ricerca dello scoop e dell’evento a sensazione anche a costo di approfittare di dolorose vicende personali, ex funzionari di partito improvvisatisi storici che contribuiscono ulteriormente alla confusione dei ruoli e delle competenze ... La storia è una cosa seria, è una scienza, non è una delle figliastre della politica”123 . Tuttavia una questione rimane in sospeso. Probabilmente – scrive Gian Enrico Rusconi – si è persa l’occasione per creare davvero una memoria collettiva, 122
. Umberto Bonafini, Non si processa la Resistenza, “Gazzetta di Reggio”, 16 settembre 1990
123
. Fabio Macchi, “Giù le mani dalla storia”, “Gazzetta di Reggio”, 16 settembre 1990
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critica e solidale insieme. Quella memoria sempre invocata come fondamento del vivere civile democratico. Una memoria capace di comprendere le motivazioni di tutti pur tenendo fermo il criterio per distinguere chi era dalla parte della ragione e chi da quella del torto, tra chi era nel giusto con le armi in pugno e chi con esse ha commesso ingiustizie124.
E qui che s’innesterà, ci pare, il tema storiografico del “riconoscimento”, ovvero delle memorie divise all’interno delle comunità stesse rispetto a quella “egemone” e delle memorie dell’altra parte, che alcuni storici affronteranno negli anni successivi. Quello che possiamo dire qui a titolo di commento è che essa è una riflessione condivisibile, da cui Rusconi ha sviluppato il ragionamento dell’articolo citato alcune righe sopra, ma che ci rimanda alla famosa frase di Marx: “i filosofi hanno interpretato il mondo ora si tratta di cambiarlo” che significa, mutatis mutandis, a quali gambe affidare le idee perché, per citare ancora D’Agostino non va sottovalutato il fatto che la strada imboccata dal sistema è di quelle che conducono all’autodistruzione, per consunzione e disfacimento dal di dentro, sotto i colpi delle lotte intestine e della mancanza di ricambio, o della compresenza, concorrenziale, di qualcosa d’altro da sé che non sia la propria immagine, tragicamente speculare125.
Una questione tutta da approfondire.
124
. Gian Enrico Rusconi, La memoria liberata, “La Repubblica”, 13 settembre 1990 . Guido D’Agostino, cit. 45
125
(una) Bibliografia Associazione Nazionale Famiglie caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana Delegazione di Reggio Emilia (a cura di), Reggio Emilia 1943-1946. Martirologio, L’Ultima crociata [Rimini]1991 [I edizione] Associazione Nazionale Famiglie caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana Delegazione di Reggio Emilia (a cura di), Reggio Emilia 1943-1946. Martirologio, L’Ultima crociata, s.i. 1994 [II edizione] Egidio Baraldi “Walter”, Il Delitto Mirotti. Ho pagato innocente. L’omicidio il processo il carcere, Tecnostampa, Reggio Emilia 1989 Egidio Baraldi “Walter”, Nulla da rivendicare. L’infanzia la Resistenza gli anni bui della persecuzione, Tecnostampa, Reggio Emilia 1985 Il libro nero del comunismo, a cura di Stéphane Courtois, Mondadori, Milano 1998 I. Basenghi, S. Pastorini, M. Storchi, Umberto Farri nella storia di Casalgrande (1900-1946), Amministrazione comunale Casalgrande, Casalgrande 1987 Luciano Bellis, La Balilla del direttore, Edizioni Reggio Oggi, Reggio Emilia 1966 Paolo Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al Pci la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953, Mondadori, Milano 1998, Nadia Caiti, Romeo Guarnieri, La memoria dei “rossi”, Ediesse, Roma 1996 Antonio Canovi (a cura di), Comunisti, cattolici, socialisti: una generazione politica si racconta ai Giovani Storici Emiliani, Istoreco, Reggio Emilia 1998 Stefania Conti La Verità. La Federazione comunista reggiana dalla Liberazione al VII congresso, Tesi di laurea Sergio Cotta, La Resistenza come e perché, Bonacci, Città di Castello 1994 (I ed. 1977) Renzo De Felice, Rosso e nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995 Giovanni De Luna, Adolfo Mignemi (a cura), Storia fotografica della Repubblica sociale italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1997 Giovanni De Luna, Marco Revelli, La Resistenza da processare. Fascismo Antifascismo, La Nuova Italia, Firenze 1995 Angelo Del Boca, Massimo Legnani, Mario Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Laterza, Roma-Bari 1995 Mauro Del Bue, Perché la verità della storia diventi storia della verità, Fotocopia dep. in Istoreco Atp Mauro Del Bue, Storie di delitti e passioni. Dal Triangolo rosso alle Br, Magis Books Editori, Reggio Emilia 46
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Massimo Storchi, Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra, Marsilio, Venezia 1998 Massimo Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e forze politiche a Modena, Franco Angeli, Milano 1995 Storia fotografica della Repubblica sociale italiana, a cura di Giovanni De Luna e Adolfo Mignemi, Bollati Boringhieri, Torino 1997 Una scelta difficile, Dea Cagna Editrice, Reggio Emilia 1995 Nicola Tranfaglia, Un passato scomodo. Fascismo e postfascismo, Laterza, Roma-Bari 1996
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Appendice 2 - Cronologia degli articoli Riportiamo qui di seguito il numero degli articoli comparsi nel mese di agosto e settembre 1990, suddivisi per giorni Articoli comparsi sulla stampa dal 28 agosto al 30 settembre 1990 Agosto 28 martedì 29 30 31
001 005 010 040
Totale Agosto
56
Settembre periodici ago/set 01 02 03 lunedì 04 05 06 07 08 09 10 lunedì 11 12 13 14 15 16 17 lunedì 18 19 20 21 22 23 24 lunedì 25 26 27 28 29 30
002 059 060 022 061 084 096 119 107 100 022 058 036 039 044 043 046 018 042 044 023 033 025 046 010 021 020 009 008 010 014
(comprese 24 lettere al direttore)
Totale Settembre
1321
50
Bisogna, poi, tenere conto del fatto che, per riflesso, l’eco del settembre si fece ancora sentire nei mesi successivi. È il caso, ad esempio, della “Giustizia”, giornale del Psi reggiano che, non uscendo con regolarità, a metà ottobre pubblicherà integralmente gli atti del convegno tenuto a Reggio Emilia il 16 settembre 1990, promosso dalla Federazione provinciale Psi, dall’Istituto storico socialista “P. Marani” e dal gruppo consiliare socialista regione Emilia Romagna dal titolo, “Perché la verità della storia diventi storia della verità” (gli atti furono anche pubblicati nel volume La Resistenza tradita. Atti del convegno sulla violenza politica nel dopoguerra a Reggio Emilia, Psi – Ufficio centrale stampa e propaganda, 1990). E, su scala nazionale, possiamo portare il caso di “Mondoperaio”, che nel mese di ottobre pubblica due articoli sull’argomento. Rispetto al mese di settembre, per i tre mesi successivi, ma in particolare per ottobre, la ricerca è stata condotta, principalmente, usando come indicatori gli “umori” dei periodici (Panorama, Rinascita, Espresso, Epoca), che davano il segno del diminuito interesse alla vicenda. Inoltre, sono state consultate: “Patria Indipendente”, “Notiziario Anpi”, “Ricerche storiche” (la rivista dell’Istituto storico della Resistenza di Reggio Emilia – oggi Istoreco), “Tuttoreggio” e con un “carotaggio” abbiamo “prelevato” articoli da diversi quotidiani nazionali e locali. Il campione ricavato sull’argomento nei mesi di ottobre novembre dicembre 1990 è senz’altro significativo: Articoli comparsi sulla stampa dall’ottobre al dicembre 1990 Ottobre Novembre Dicembre
36 26 20
Totale
82
Articoli comparsi sulla stampa dal marzo 1990 al giugno 1990 Marzo Aprile Maggio Giugno
01 38 04 13
Totale
56
Per gli anni successivi, dal 1991 al 1999 ci siamo orientati a seguire i mezzi di informazione in coincidenza di ricorrenze e avvenimenti particolari, raccogliendo materiale per un totale di 616 articoli.
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