Numero 3 GIUGNO 2013
anno 3
CENTOANNI INDIVISI LA COOPERATIVA CASE POPOLARI MANCASALE E COVIOLO “ PRINCIPI FONDAMENTALI, ARTICOLO 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale PARTE I, TITOLO III, ARTICOLO 45 La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e la finalità.
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COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
IL VIOLINO PARTIGIANO Ha dell’incredibile questa vicenda, per tanti aspetti. Ancora oggi, a distanza di oltre sessanta anni dalla fine della guerra, possiamo riunirci davanti ad un reperto che ci parla in modo violentemente vivo dei momenti di disperazione e concitazione vissuti dalla generazione dei miei nonni. Un altro terribile evento, il terremoto del maggio 2012 è stato il volano per il ritrovamento di quello che si può considerare uno strumento musicale dalla storia lunga. Luigi Freddi, “Geppe” era il proprietario del violino e Selvino Lanzoni il suo compagno; i due partigiani vengono barbaramente impiccati a un lampione a Casoni il 23 marzo 1945 a soli 19 anni. E da quel momento il violino rimane nella casa dei parenti del Freddi, i Vezzani. Ne abbiamo sentito parlare in aprile durante la festa dell’anniversario della Liberazione alle case popolari da Alfreda Ongari, socia assegnataria e parente di Selvino ed ora, eccolo qua, testimone e monito per le future generazioni. Per un istante sarà come riaverli con noi questi ragazzi, sentendo risuonare le note dello strumento restaurato dal Cottafavi, appassionato intenditore e costruttore di violini, che per pura passione e dedizione ha omaggiato la memoria e gli ideali della liberazione con un’operazione di restauro conservativo completo. Vida Borciani • LA STORIA DELLA MOGLIE DI UN PERSEGUITATO POLITICO Dal 1914 AL 1945: tratto dalle memorie di Dolores Gemmi in Giaroni La Resistenza I tempi sono molto duri perchè si deve lavorare nella clandestinità, mio marito è proprio uno di quelli che i
fascisti sorvegliano di più e di conseguenza la nostra casa viene continuamente sorvegliata ed io non ho mai pace. Un giovedì di ottobre del 1923 vennero due carabinieri e misero sottosopra la camera da letto, rovesciarono tutto ma non trovarono niente. La domenica mio marito viene nuovamente picchiato perchè rifiuta il distintivo fascista che volevano obbligarlo a portare. Poi giunge il giorno delle elezioni: aprile 1924. Mio marito parte da Gavassa e va dai miei genitori. Mi ricordo che mi disse che se venivano i fascisti a cercarlo dovevo dire che non sapevo dove fosse andato. La giornata passò abbastanza tranquilla, ma a sera giunsero due fascisti armati di pistole e bastoni e mi dissero che se mio marito non andava a votare prima della chiusura serale dei seggi avrebbero bruciato la casa. Io avevo solo 16 anni e mi spaventai alle loro minacce. Partii da casa e attraversai la campagna correndo scalza fino alla casa dei miei genitori, gli dissi tutto e cercai di convincerlo ad andare a votare consapevole che i fascisti quello che dicevano mantenevano se si trattava di far male alla gente. Passarono otto giorni dalle elezioni e mio marito, che era andato a votare facendo in modo che la scheda venisse annullata, viene di nuovo bastonato. Io ero sempre in apprensione, sia quando era in casa sia quando era fuori: lui continuava a distribuire manifestini e a fare riunioni e il 1° maggio andava a mettere le bandiere rosse sui pali della luce e a fare altre cose di questo tipo. Il 21 aprile vi è una festa fascista e a tutte le case vogliono la bandiera tricolore: noi non l'abbiamo esposta e i fascisti, che controllano tutte le case del paese quando arrivano alla nostra ci ordinano di esporre la bandiera tricolore. Io dico che non potevo farlo perchè non avevo la stoffa e che non potevo nemmeno comperarla perchè i negozi erano chiusi. Ma loro la vogliono a tutti i costi, così piangendo vado nella mia camera da letto, dove ho la mia coperta imbottita rossa e verde, ne prendo due pezzi e poi con un pezzo di asciugamano bianco la
bandierà è pronta. La esponiamo. Ho tanto pianto avendo dovuto tagliare la mia unica coperta imbottita per fare una bandiera per la festa fascista contro la nostra volontà. Dopo un po' di tempo passa una squadra di fascisti davanti a casa mia e si mettono a cantare: “Allarmi siam fascisti ed uccideremo tutti i comunisti”. Io ero sempre spaventata, mentre mio marito è sempre stato molto coraggioso e calmo; io ero solo capace di piangere e volevo che smettesse di fare politica, ma lui in quei tempi parlava poco con me e non abbandonò mai l'attività per il partito comunista. Non avevo mai il sorriso sulle labbra e ne avevo motivo, tanto tempo durava il fascismo, tanto dolore, lacrime e fame dovevo sopportare e non avevo mai un attimo di pace. Il carcere In quel clima gli anni passarono e arrivò iol 1932. Abitavamo allora a Pieve Modolena in un caseggiato dove abitano altre cinque famiglie tutte antifasciste. Una era vedova, suo marito era stato ucciso dai fascisti, si chiamava Ferretti Evaristo ed aveva lasciato la moglie e tre figli piccoli. Un altro era stato costretto a fuggire in Francia per evitare il carcere. Così avevo trovato un ambiente amico, dove potevo parlare liberamente senza paura che qualcuno mi sentisse. Ma tutto questo dura poco: nel mese di maggio del 1932 cominciarono molti arresti. In giugno presi molta paura perchè gli arresti si allargarono ovunque ed una sera, alle dieci e mezza circa, prendo i miei tre bambini – Isotta di 9 anni, Mafalda di 8 ed il più piccolo Vittorio di 4, io ho solo 24 anni, e mi preparo ad andare a letto. Dopo poco arriva mio marito e ci addormentiamo. Alle due dopo mezzanotte sentiamo bussare alla porta. Chiediamo chi è e ci rispondono: - Siamo della Questura! Aprite che dobbiamo parlarvi. Ci vestiamo e spalanchiamo la porta. Entrano quattrto questurini prendono mio marito, lo ammanettano e lo trascinano via. Comincio a piangere, svegliando i miei figli e qualche famiglia del caseggiato. Gli uomini della Questura si erano raccomandati di non piangere che il giorno dopo mio marito sarebbe tornato a casa. Per non spaventare i miei figli facevo ogni sforzo per calmarmi. Passano giorni e mesi e mio marito non ritorna fra noi. I primi giorni li passai facendo la spola fra il carcere e la Questura di Reggio Emilia per avere sue notizie ma, per otto giorni, nessuno mi dice dove si trova. Non potevo più sopportare questo dolore. Vado davanti al carcere piangendo e suono il campanello: si presenta una guardia e gli chiedo: - Per favore ditemi la verità... dove si trova Angelo Giaroni? Sono otto giorni che lo cerco dappertutto. Lui mi rispose che qualora fosse stato in carcere i suioi familiari sarebbero stati avvisati e che quindi io me ne andassi, perchè Angelo Giaroni non era in carcere. Mi trovavo davanti alle carceri di “S. Tommaso” con delle mie amiche che avevano mariti e fratelli in carcere e a sentirmi dire che mio marito non c'era mi sembrava di impazzire. Cominciai a piangere. Mentre le mie amiche cercano di farmi coraggio, pas-
sa una signora, si ferma e chiede cosa avessi da piangere. Io le spiego cosa era successo. La signora, molto gentile mi chiede come è mio marito ed io glielo descrivo anche negli abiti, mi dice allora che sette giorni prima passando davanti alle carceri aveva visto un “lando” fermo. Si era nascosta in un angolo della via e così aveva visto uscire dal carcere un uomo ammanettato che era poi salito sulla vettura con due uomini della Questura. Il “landò” era partiro e lei dietro in bicicletta fino a Piazza Gioberti: proseguono fino a metà di Corso Garibaldi, entrano in un portone e qui – mi dice – lei aveva smesso di seguirli. Mi dice che la descrizione che le avevo fatto di mio marito corrispondeva all'uomo che aveva visto quella giornata. Andai allora immediatamente davanti al portone che mi aveva detto la signora. Ho molta paura, ma mi faccio coraggio ed entro: vedo solo lapidi di cimitero, abbandonate, diroccate in un grande silenzio. Vedo un giovanotto e gli chiedo se lì c'è un carcere. Mi risponde che lui non sa nulla e se ne va. Resto ferma un attimo e vedo un altro uomo, più anziano, e chiedo anche a lui se lì c'è un carcere. Sottovoce mi dice che lì c'è una camera di sicurezza per i detenuti politici, mi indica una scala e sparisce. Faccio una rampa di scale e trovo un ufficio, busso alla porta e si presenta un signore che mi chiede che cosa voglio. Gli rispondo che da otto giorni, da quando la Questura ha arrestato mio marito, non avevo più sue notizie ed ero venuta per sapere qualcosa da loro. Gli dico che sono madre di tre figli, senza soldi, senza lavoro e che avevo abbastanza pensieri, anche senza quello della sorte di mio marito. Quel signore mi chiede il nome ed alla mia risposta ci pensa un poco e poi mi risponde affermativamente. Posso vederlo? Chiedo – Si – mi risponde quell'uomo. Scendiamo le scale. Apre una porta, mi fa entrare in una stanza buia. Io continuavo ad avere paura. Mi Mi accompagna davanti alla cella di mio marito. Apre un finestrino. C'è buio. Accende una lampada e finalmente vedo mio marito, solo, con accanto un tavolaccio di legno. Questa volta mi faccio coraggio e non piango. Non gli chiesi come si trovasse, l'avevo già capito. Dove dormi – gli chiedo. Sul tavolo. Mi ricordo che mi sembrò impossibile che un essere umano potesse dormire per otto giorni du un simile tavolaccio: eppure era così. Hai fame – gli chiedo. Sono cinque giorni che non mangio – mi dice – e ho molta fame. E sottovoce io mormorai: anche questo può succedere in questo mondo! Il questurino ci lascia parlare per tre minuti poi chiude il finestrino e mi fa uscire, mentre gli chiedo se posso portare da mangiare a mio marito e lui fa cenno di si. Mi misi allora a correre verso casa: ho sei chilometri da fare a piedi e mi levo le scarpe con i tacchi alti per fare più presto, corsi per mezz'ora sopra l'asfalto scottante ed infine arrivai a casa. Due donne del caseggiato mi chiedono di mio marito ed io gli spiego tutto, mentre una mi da un po' di brodo e l'altra un po' di sfoglia fatta in casa. Preparo così la minestra, faccio due uova fritte, pren-
do una bottiglia di vino e in bicicletta – che mi era stata prestata – ritorno immediatamente da mio marito a portargli qualcosa da mangiare. Il questurino riceve la roba da mangiare, ma rifiuta il vino dicendo che per il bere ci pensavano loro. Piangendo gli chiedo: fatemi vedere ancora mio marito. Te lo faremo vedere domani quando ritornerai a portargli da mangiare. Ma il giorno dopo, quando ritorno, il questurino mi rifiuta il cibo, dicendomi che mio marito veniva trasferito alle carceri “S. Tommaso” e che quindi avrebbe mangiato quello che gli avessero dato in carcere. Gli chiedo di farmelo vedere e lui acconsente: ma lo posso vedere soltanto dalle cosce in giù. Io protesto, ma lui dice di accontentarmi e di andare a casa. Il giorno dopo vado al carcere e mi confermano che mio marito si trova lì; così vado alla Questura e chiedo di poter avere corrispondenza con mio marito e mi viene concessa. Nella prima lettera gli domando di spiegarmi perchè non me lo avevano fatto vedere in viso il giorno dopo la mia prima visita: durante la notte lo avevano interrogato e gli facevano vedere fotografie di compagni comunisti, chiedendoglise li riconosceva. Lui rispondeva sempre di non conoscerli ed ogni volta gli sputavano in faccia e lo schiaffeggiavano: c'erano cinquanta fotografie ed erano stati cinquanta sputi e cinquanta schiaffi. Per questo non mi avevano permesso di vederlo in viso, per tenere nascosta la loro bestialità: la lettera era mezza cancellata ma riuscii ugualmente a capire qualcosa. Passò un po' di tempo e mi scrisse una lettera e mi dice che sarebbe stato processato dal Tribunale Speciale di Roma. Lui era riuscito a sopportare le torture e a respingere buona parte delle accuse, in questo modo arrivò il dicembre del 1932, quando vi fu un'amnistia per il decennale della marcia su Roma, così che riuscì ad uscire prima di essere inviato al giudizio del Tribunale Speciale, anche se in libertà vigilata.
• IL SUONATORE DI VIOLINO Mentre sfogliavo le pagine di un giornale locale, la mia attenzione fu attirata da un articolo che oltre a descrivere i danni del recente terremoto (20/5/12) diceva che uno strumento musicale non è andato perso per sempre. In un paese poco distante da Luzzara, durante l’abbattimento di una casa colonica danneggiata dal terremoto, è stato salvato dalla distruzione un vecchio e malandato violino. Mi colpì quella notizia abbastanza inusuale, come se quel violino fosse uscito dall’oblio del tempo per raccontarci qualcosa. Appassionato e restauratore di violini, quella storia mi risvegliò un certo interesse quando appresi che quel violino era appartenuto ad un giovane partigiano del luogo. Dopo la storia del violino di Cervarolo, ora fissata in un film (Nico Guidetti….Il violino di Cervarolo), un altro violino sembrava voler raccontare un pezzo della nostra resistenza al nazifascismo. Nonostante i tanti anni trascorsi dalla fine di quel tragico e terribile periodo, non posso fare a meno di lasciarmi coinvolgere dai racconti di vita partigiana e nel primo pomeriggio del 14 agosto scorso fui invaso da una certa frenesia nel recarmi a Luzzara, senza nemmeno sentire l’aria bollente che avvolgeva tutto e tutti. Quel fatto sembrava uscito da uno dei tanti racconti di Zavattini. Ma come non ricordare i giorni della liberazione da una dittatura violenta e corrotta, quando un giovane partigiano, malamente vestito mi fece una promessa mai più dimenticata: come se fossi sottoposto ad un battesimo laico, con una mano appoggiata alla mia testa, in dialetto, mi disse: “ tu bambino con la pace, la libertà la giustizia, crescerai in una società più giusta”. Accolto dal presidente dell’Anpi di Luzzara, Simone Lasagna e dal responsabile della biblioteca, Simone Terzi, andammo a visionare il violino riemerso dall’oblio. Quando la custodia fu appoggiata sull’ampio tavolo, per un attimo, prima di toccarla, provai una specie di titubanza, come se violassi la vita di quel giovanotto. In un silenzio da cattedrale, in tre uomini di due diverse generazioni, accomunati dalle stesse forti emozioni. Tornato a cassa e appoggiata la custodia sul banco di lavoro, ora la vedevo in tutta la sua distruzione, causata dall’umidità dal tempo trascorso. Il lavoro si preannunciava molto difficile ma la mia ferma volontà di portarlo a termine fu più forte di ogni problema. Da subito, era evidente che quel violino era stato acquistato da una persona povera ma desideroso di esprimersi attraverso la musica. La misura e la forma corrispondevano vagamente allo Stradivari, come annunciava la targhetta trova sul fondo, che diceva anche Made in Germany. Pare essere del 1920, ma subito capii che era l’esito di assemblaggio di parti diverse, infatti le due effe del piano armonico, ben fatte erano il lavoro di un buon liutaio, mentre il fondo del violino contrastava col pia-
no armonico; il manico, spezzato in due e ben riparato. Lo smontai completamente, accorgendomi che doveva essere stato fatto da un paziente liutaio che assembrò diverse parti per poi venderlo ad una cifra modesta, ad uno studente o un appassionato. Le riparazioni subite paiono essere state tantissime. Con passione e rapidità affrontai il restauro completo, conservativo di tutto e il 14/9/12 lo riconsegnai nelle mani del Presidente dell’Anpi. Quando il violino passerà nelle mani di qualche giovane del paese, sono certo che con le sue note scaverà nei sentimenti delle persone, forse come avrebbe voluto quel giovane partigiano. Carlo Cottafavi
Il Manutentore Urbano. Vorrei aprire, a partire da questo numero del giornale, una piccola rubrica dedicata essenzialmente a questo nostro luogo dell’abitare. Le Case Operaie, ossia il sistema fisico e vivente che si stringe tra le quattro vie del “giro di Farina”; poi la stessa Cooperativa, intesa nella sua dimensione sociale e nel suo significato antropologico. Spazio fisico, dicevo, in quanto luogo tangibile, vero; realtà urbana costituita da un tessuto fitto, stretto in un circuito “a chiocciola” formato da poche vie e una realtà densa di co-abitazioni, non esattamente condomini, quindi. Vivente, perché pulsante, ossia contenuto idealmente in una Cooperativa di persone, in un insieme organico di storie, emozioni e bisogni autoomologati. Proprio di questi bisogni, e lo dico cercando di interpretare seppur modestamente il ruolo del manutentore, spesso esprimono, liberandole, le emozioni di tutte le storie attive di una co-abitazione sociale come la nostra; in altre parole, le storie di abitanti sempre più anomali perché uniti dalla particolare condizione insediativa data dall’abitare in una proprietà indivisa. La “raccolta” dei bisogni rappresenta forse il punto dal quale partire per comprendere gli aspetti e le forme del cambiamento; perché quello di cui parlo si rivela ogni giorno un luogo in continuo movimento, forse un Paesaggio, e di certo uno spazio urbano da sempre capace di produrre una propria ciclica ma costante trasformazione. Così dimostra di essere la Cooperativa, nel suo modo ambivalente, un po’ autarchico ma soprattutto democratico, di saper sempre ri-generare una propria Misura, mantenendo attivo più o meno consapevolmente quel battito vitale che dona alle Case la giusta musicalità, sostenendo la centenaria sopravvivenza del suo “rifugio”. Ma non solo. Si salva la permanenza delle Cose che custodiscono il valore identitario portato dalla Storia di queste Case. Infine, tutta la necessaria tutela per la loro preziosa “cosità”. Il solo fatto di manu-tenere criticamente, cioè realizzare in modo sensibile e non automatico il principio stesso dell’aver cura o del prendersi cura, contribuisce ad accrescere ulteriormente la qualità dello spazio urbano di Santa Croce Alta e Coviolo; fa sì che lo sguardo di tutti possa rimanere acceso sulla verità del cambiamento e sulla fedeltà che le Cose riservano nei confronti della Realtà presente. Manutenere diventa perciò un dovere ma nello stesso tempo un preciso diritto, quello cioè di riservare per sé e per gli altri la giusta pratica di cura, di nutrire e rinnovare continuamente un senso "disponibile" di bellezza. Alessandro Ardenti dittongoarchitetti
3 maggio 2013 Saletta Civica: inaugurazione della mostra fotografica "épouse" ↘ 15 maggio 2013 Asemblea Generale dei Soci
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Centoanni Indivisi Periodico della Cooperativa Case Popolari di Mancasale e Coviolo Numero 3 - Giugno 2013 - Anno 3 Redazione*: Vida Borciani Disegni, progetto grafico, impaginazione: dittongoarchitetti Fotografie e immagini: Carlo Cottafavi
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* Per partecipare alla redazione dei prossimi numeri contattare i seguenti indirizzi di posta elettronica: vida.borciani@tiscali.it info@dittongo.com