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tUSTYLE

La prima sbronza a 18 anni. La bottiglia che diventa come una relazione che nulla chiede in cambio. Violetta beve con ferocia, finché un giorno dice basta. Ma per uscirne davvero c’è voluto altro… testo di Carmen Scotti foto di ValentinaVasi

storie di donne

L’alcol era il mio amore malato.

L’ho lasciato

«Mi chiamo Violetta, ho 28 anni e sono un’alcolista»: con queste parole, pronunciate alla mia prima riunione di Alcolisti Anonimi, è cominciata la mia rinascita. Da allora non ho più toccato un goccio d’alcol. Cosa mi ha spinto a prendere quella decisione? Forse il fatto di aver toccato il fondo una volta di troppo. L’essermi addormentata, la sera prima, lasciando la porta di casa aperta, essermi svegliata con la bocca che sapeva di sabbia e il maglione che puzzava di sudore. Quella mattina mi sono guardata allo specchio e ho detto: «Basta, non voglio più vivere così». E ho chiamato gli Alcolisti Anonimi. La mia storia d’amore con la bottiglia è cominciata quando avevo 18 anni, a una festa di compleanno. Avevo già bevuto in precedenza, ma quella fu la prima volta in cui persi davvero il controllo. A un certo punto della serata ero così ubriaca che mi si spezzò la chiave nella toppa mentre cercavo di uscire dal bagno. era una via di fuga

Violetta Bellocchio scrittrice, ha 36 anni. Ha smesso di bere nel 2006, dopo tre anni di dipendenza dall’alcol.

Come è successo? Sarebbe facile dare la colpa ai miei genitori, dire che non mi hanno amato abbastanza, ma non è vero. La colpa non era loro, ma del resto del mondo. Ho passato la mia infanzia a sentirmi dire che ero brutta, a subire atti di bullismo senza mai reagire o chiedere aiuto. Crescendo, pensavo di essermi 31 MARZO 2014_53

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storie di donne lasciata tutto alle spalle, ma mi sbagliavo. La verità è che, a un certo punto della mia vita, io non volevo più “essere io”. Volevo fuggire da me stessa e l’alcol era lì a portata di mano. L’unica relazione d’amore che mi regalava una via di fuga senza chiedere nulla in cambio. Dopo quella festa, ogni “happy hour” diventò un’occasione per perdere il controllo, finché una sera del 2002, un mese dopo la mia laurea, mi risvegliai in un letto d’ospedale senza neanche sapere come ci fossi finita.

ancora un altro giorno, il tempo sufficiente per sbronzarmi ancora. Come ho fatto a restare viva? Me lo domando ancora, a distanza di tanti anni. I miei genitori intuivano che stavo male, ma non sapevano come aiutarmi, anche perché ero diventata bravissima a mantenere un decoro “di facciata”. Qualcuno dei miei conoscenti preferiva girarsi dall’altra parte, imbarazzato dal mio stato, altri, invece, si limitavano a ridere di me. Gli uomini? A molti piace avere a che fare con le donne che bevono, le trovano meno complicate, più affascinanti, e a me piaceva essere all’altezza delle aspettative. L’alcol continuava a darmi tutto ciò di cui avevo bisogno e allora perché avrei dovuto smettere? In un freddo giorno di gennaio, però, mi sono guardata allo specchio e, per la prima volta in vita mia, ho capito che dovevo farlo. Quel pomeriggio, prima di andare alla riunione degli Alcolisti Anonimi, mi sono fermata da McDonald a bere una birra. L’ultima. Non sarei sincera se dicessi che il recupero è stato rose e fiori. Per una “binge drinker” cioè una che trangugia alcol con la stessa ferocia con cui altri svuotano la dispensa o il frigorifero, smettere non è facile. Per mesi ho continuato a sudare, ad avere attacchi di fame, tremori e spasmi muscolari;

A molti uomini piacciono le donne che bevono

al super per fare scorte

Quella fu la prima volta in cui sperimentai la sensazione di un “black out” totale, e fu spaventoso. Se questo fosse un film, la protagonista a questo punto ritroverebbe il senno e tornerebbe sui suoi passi. Però questo non è un film, e il lieto fine, per me, era ancora lontano. Quando mi dimisero, la prima cosa che feci fu tornare tra le braccia del mio “amante”, l’alcol. Andai a vivere da sola, e per i successivi tre anni le mie giornate diventarono una sbronza infinita, un accumulo di bottiglie e di tentativi, mal riusciti, di nascondere i vuoti ai miei coinquilini. Nei brevi momenti di lucidità riuscivo a scrivere articoli e a consegnarli in tempo (allora collaboravo con diverse riviste), ma la maggior parte del tempo la passavo a bere fino a perdere i sensi. Bevevo, mi lavavo la faccia, uscivo, tornavo a casa e ricominciavo daccapo. Mi ubriacavo alle feste e anche in casa da sola. Quando le scorte finivano, mi vestivo e andavo al supermercato a fare rifornimento. Sei bottiglie di birra e un pezzo di pane, tre bottiglie di vino e due pomodori: questa era la mia spesa “tipo”, il mio carburante per superare la notte, per sopravvivere

a sentire la pelle in fiamme, come se avessi un incendio dentro. Alle riunioni, per esempio, mi hanno insegnato “trucchetti” per compensare la mancanza degli zuccheri nel sangue. Ma l’alcol mi è mancato come può mancarti un compagno con cui hai condiviso tutte le notti e tutti i tuoi risvegli, però alla fine ce l’ho fatta. non volevo ricordare

Ho chiuso a tripla mandata i ricordi di quando bevevo. Ho preso quei tre anni di inferno, con tutto il corredo di dettagli imbarazzanti, e li ho mandati giù in fondo allo stomaco, il più lontano possibile da me. Allora mi è sembrata la cosa più saggia da fare, ma ancora non sapevo che il corpo non dimentica. È stata la mia psicoterapeuta, nel 2012, dopo una terribile crisi di pianto, a spingermi a ricordare, a farmi capire che quanto avevo rimosso mi faceva diventare una persona insicura e fragile, pronta a crollare davanti alle avversità. Ricordare è stato quasi più duro che smettere di bere, ma alla fine ho recuperato il mio passato, quella parte di me che mi teneva sveglia la notte e che io mi ostinavo a cancellare quando avrei dovuto imparare a conviverci. Oggi, quando vado al supermercato, passo davanti allo scaffale degli alcolici senza sentire l’impulso di riempire il carrello e di scolarmi tutto. «Vedi, ce la stai facendo» mi dico, «è tutto passato». E so che è vero. T

Una dipendenza tatuata sulla pelle Il corpo non dimentica (Mondadori, Strade Blu, 17 euro) è il titolo del libro di Violetta Bellocchio. Una storia fatta di angoscia, ricoveri in ospedale, svenimenti, paura di chiudere gli occhi per l’ultima volta. Una storia iniziata quasi per caso, che resta tatuata

sulla pelle con tutta la sua violenza, ma anche con l’assurdo splendore delle esperienze estreme. Così che, per liberarsene, la sola via è trovare il coraggio di rievocarla, e anche di ammettere tutto il fascino che emana. E lei lo fa, perfino con ironia.

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