MEMOIR (
TUTTO FA UN PO’ MALE Ti parte un rene: scrivi un memoir. Vomiti tutto quello che c’è da vomitare: scrivi un memoir. Muore tua madre, muore tuo padre, muori tu: scrivi un memoir. Ma cosa ce ne facciamo, di tutto questo dolore? E la storia di un collasso, dev’essere per forza triste?
La prenderò alla lontana. A 28 anni, Hubert Selby Jr. aveva già trascorso quattro anni della sua vita in ospedale. Gli avevano tolto dieci costole e si era ammalato di tubercolosi nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Durante la malattia, aveva preso una decisione “spirituale”: iniziare a scrivere. Nel 1964 ha pubblicato Ultima fermata a Brooklyn e il resto è storia. Quei racconti sarebbero mai esistiti senza la lunga degenza, oppure è solo una cornice che scegliamo di adottare per epicizzare una vocazione che sarebbe esplosa comunque?
di Claudia Durastanti
Esistono dozzine di saggi sul rapporto tra depressione, disturbo bipolare e creatività, mentre pochi sulla correlazione tra affezioni meno nobili e la scrittura: qualche anno fa, un articolo sul “New Statesman” si interrogava sul numero di poesie composte per una scoliosi o un mal di denti. La malattia è un’interruzione nel corpo che non solo fornisce il tempo per sviluppare un talento, ma diventa anche la causa di un racconto: i polmoni collassano, le ovaie incancreniscono e morire diventa uno stile di vita. Cosa fare, quando sei uno scrittore
JOAN DIDION
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o stai per scoprire di esserlo, e il tuo corpo o quello di chi ami si ferma? Oggi, complice la pressione di un’industria editoriale esaltata dai mille usi della non fiction e un ritorno alla “realtà” trasversale al cinema e alla letteratura, scrivi un memoir. Oppure fai un album fotografico su tua moglie che sta in chemioterapia. Quando ero piccola, ogni volta che finivamo di vedere un film, e poteva essere un action movie così come un drammone in cui Jodie Foster veniva stuprata e si ribellava al sistema, mia madre chiedeva
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MENTRE MORIVO CINQUE LIBRI D. ANTRIM LA VITA DOPO S. SONTAG MALATTIA COME METAFORA V. MAGRELLI GEOLOGIA DI UN PADRE L. WOLFSON MIA MADRE, MUSICISTA... J. CARROLL JIM ENTRA NEL CAMPO...
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Chiediamo spesso a un autore di fiction quanto c’è di vero nel suo romanzo, ma se questo fosse davvero importante, allora dovremmo chiedere all’autore di un memoir quanto c’è di falso nel suo ricordo.
mentato che cerchiamo faticosamente di ricomporre nella scrittura, nell’illusione che questo non solo ci guarirà, ma sarà anche di aiuto a qualcuno? I memoir sono libri strani da giudicare, perché è difficile valutare lo stile del dolore. Titoli agli antipodi tra loro come Dodici anni bulimica, Questa è cistifellea (sono inventati, ma non escludo che esistano) o L’anno del pensiero magico di Joan Didion, libri che non hanno niente in comune a parte una ferita da rimarginare, mettono in gioco il nostro concetto di empatia e di letteratura, oltre a smascherare la nostra pericolosa fascinazione per la bellezza quando assume la forma di un rischio. Per chi scrive memoir, i margini sono molto stretti: quando Isabel Allende in Paula si
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sempre: “Ma è una storia vera?” (lo ha domandato persino per The Ring). Se rispondevamo di no, il film veniva declassato. La sindrome della “storia vera” è tipica del lettore che acquista un libro che promette di raccontare traumi. Il suo investimento emotivo è proporzionale al tasso di realtà nel racconto: se questa aspettativa viene tradita, il libro è da cestinare. Ma, ovviamente, non tutto quello che viene raccontato in prima persona e presuppone una ferita, è un memoir o può dirsi reale. In un milione di piccoli pezzi di James Frey non lo era, Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa di JT Leroy non lo era (ripensandoci, la parola ingannevole era un tocco di classe), eppure tutti e due i libri hanno dimostrato, con una virtuosità ai limiti della performance, che esistono storie di tossicodipendenza immaginarie molto più efficaci di storia di tossicodipendenza vissute. Ogni formato è sedotto dal suo opposto: chiediamo spesso a un autore di fiction quanto c’è di vero nel suo romanzo, ma se questo fosse davvero importante, allora dovremmo chiedere all’autore di un memoir quanto c’è di falso nel suo ricordo. Se rileggo i miei vecchi diari, penso che sono onesti, ma non sempre veri. È la mia vita quella, ma dozzine di cose non sono mai successe. Tutto sta nel come pensiamo si ricordi la nostra esistenza, soprattutto quando coincide con una malattia: il momento in cui il medico ci ha detto che eravamo borderline o che nostra madre sarebbe morta, è davvero un episodio lucido e organizzato da cui far partire una storia? O non è piuttosto un evento caotico e fram-
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lascia andare al melò per la morte della figlia, pensiamo di avere davanti una brava madre e una cattiva scrittrice. Quando leggiamo Joan Didion in Blue Nights, che tratta lo stesso argomento con una lucidità a volte agghiacciante, pensiamo di avere davanti una brava scrittrice e una cattiva madre. Questo perché ci avviciniamo al memoir con aspettative diverse: c’è chi vuole un manuale di auto-aiuto, chi vuole essere rassicurato nel potere della scrittura di assolvere anche l’indicibile e chi vuole solo piangere. I memoir che definiamo patetici rinunciano alla bella scrittura sia ››
HUBERT SELBY JR.
per incapacità - in fondo si tratta di malati che si improvvisano scrittori e non viceversa - sia per ideologia: quando trascorri metà della tua adolescenza a vomitare nella tazza del cesso, pensi che la gente voglia leggere quello. Di come ti sentivi quando vomitavi nella tazza del cesso, non quanto questo ti facesse sentire vicina a Santa Teresa D’Avila. Pur non contenendo una sola metafora memorabile o pagina che valga la pensa sottolineare, La ragazza interrotta di Susanna Keysen è un memoir riuscito né più né meno di quelli di Didion o Sedaris. Se c’è una cosa che ho imparato leggendo memoir, è che accusare un autore di rappresentazione narcisistica del dolore - sono le Sacre Scritture a insegnare quanto siamo belli sulla croce e non riusciamo ancora a sbarazzarci di questa idea - non è un buon argomento. Perché la malattia è una delle esperienze più intime che abbiamo. Il dolore è narcisista: provate a passare sei mesi in compagnia di un malato terminale, e la parola che sentirete di più non è morte. È IO. E ha poco senso interrogarsi sui dati della malattia: non conta la quantità di alcol o di pillole ingerite da chi scrive, non conta il “io ho fatto di peggio”. Non è una gara a chi beve meglio, vomita meglio o muore meglio. Conta quello che quell’autore ricorda. Ma soprattutto, come quel ricordo è scritto. Così come non conta che Valeria Parrella abbia pubblicato un romanzo su un bambino autistico e l’esperienza di una madre che lo cresce, senza specificare se fosse lei quella madre. Questo, nel caso, non farebbe di lei un’autrice meno coraggiosa, e di tutti i motivi per cui Tempo di imparare ci può sembrare più o meno interessante, il suo statuto di verità è il meno importante. Ogni scrittore ha diritto a scegliere le strategie di difesa o di rivelazione che ritiene più opportune. E ogni storia è abbastanza intelligente da chiedere il suo formato: non possiamo pretendere che la malattia assuma la forma che vogliamo. I memoir, come le disfunzioni a cui spesso si ispirano, contengono un mistero. Ci sono narrazioni di morti strazianti che non ci smuovono, e racconti di cadute in bicicletta a cinque anni che ci spezzano per anni. Quel mistero, viene da sperare, è dato dalla lingua. Siamo solo malattie in attesa di accadere: non siamo più belle perché vere, e non siamo più belle perché dolorose. Siamo più belle perché veniamo dette. ×
FOTO © VALENTINA VASI
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VIOLETTA BELLOCCHIO FROM ALCOL WITH LOL
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Tra le storie disfunzionali predilette dal memoir anche Il corpo non dimentica che racconta di quando era l’alcol a dettare
Tra un naso rotto,
le giornate della scrittrice. di Beatrice Mele
esplosioni di rabbia, spedizioni al supermercato per scorte alcoliche da poco prezzo e notti catatoniche a fissare la tv, succede che leggi Il corpo non dimentica e, a tratti, ti viene da ridere. Sei lì che segui il dramma di una donna alle prese con la dipendenza, senti la sua sofferenza, ti immedesimi nel disagio e sì, ridi. Perché Bellocchio non solo è capace di essere onesta e spietata con se stessa, ma anche incredibilmente ironica.
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Insomma, non ce la raccontiamo più, ma la mettiamo giù per come è: un segno dei tempi, una questione di forma più congeniale di un’altra o cosa? In generale, mi sembra che le “storie vere” non nascano in un vuoto; c’è un’industria (editoriale o audio-visiva) che ha individuato in loro un genere funzionale, c’è il desiderio da parte di chi scrive/filma di mettere in gioco un materiale diverso dal-
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Si rinuncia a un’ossessione, o a una ferita,
per tenerne con sé altre. Si fa una sorta di triage interiore.
la fiction, e c’è un pubblico (di massa o di nicchia) che dimostra di apprezzare. Qualche anno fa The Night Of The Gun di David Carr è stato salutato come “il libro che avrebbe salvato il genere memoriale”, ma solo perché lui era uscito dopo un paio di pacchi clamorosi, libri spacciati per nonfiction e quasi subito smontati punto per punto. Carr arrivava con la sua reputazione da cronista investigativo del “New York Times”, si metteva a indagare (con lo stesso stile) sui punti oscuri del suo stesso passato, e quindi pareva che avesse fissato come si dovevano scrivere le storie vere per essere, noi, veri al 100 per cento. Nel frattempo, ovviamente, continuavano a essere scritti e girati testi documentari che sceglievano ogni approccio possibile, e andavano incontro a gusti diversi. Vai in una libreria americana o inglese e trovi scaffali “non fiction”, “biography”, “travelogue”, “memoir”, eccetera - l’unica cosa che mi rende più felice sono gli scaffali “paranormal romance”. Dall’altro lato penso a Tarnation, dove Jonathan Caouette tirava fuori un film da una quantità di filmini familiari con madre e nonni, ma ci metteva dentro anche se stesso che da bambino interpretava scenette dove si assegnava il ruolo della moglie maltrattata. Ecco, da spettatore, quella era stata una botta pazzesca: Caouette prendeva materiale al 100 per cento “vero”, di repertorio, i suoi Super8 tirati fuori dalla cantina di casa, e ti faceva capire che persino da bambino lui per parlare di sé doveva anche essere qualcun altro. È rimasto un film di nicchia, ma la sua nicchia è stata una nicchia mondiale: io l’ho visto in Italia, in DVD, e forse ho provato lo stesso disagio del ragazzo di Milwaukee che se l’è guardato in streaming per caso. Tra tutti i contro che hai messo in conto prima di esporti ne Il corpo non dimentica quanto ha pesato il rischio di essere marchiata, di essere d’ora in poi per gli altri solo e sempre “quella che beveva”? Oggi ho 36 anni. Se vengo marchiata a vita per una cosa, vuol dire che era arrivato
il momento giusto. Non credo avrei scritto di questo argomento quando avevo appena smesso, comunque. Mi avevano suggerito di tenere un diario, durante la disintossicazione. Io facevo segno di sì con la testa, e intanto pensavo: “Oddio che idea narcisista, non lo farei mai”: col senno di poi, era un ottimo suggerimento. Ad una dipendenza se ne sostituisce un’altra? Com’è che funziona? Ci ho scritto un libro e temo di non averlo ancora capito. Per qualcuno di sicuro andrà così: si rinuncia a un’ossessione, o a una ferita, per tenerne con sé altre. Si fa una sorta di triage interiore, ecco.
Scrivi di happy hour, di sesso, di ospedali senza omettere i tuoi pensieri più spiacevoli. Bene, sai che è quando affronti l’invidia che mi hai davvero colpita? Mica facile confessare questa roba. Ti ringrazio, l’invidia è stato un coming out terrificante da affrontare. Anche perché, a differenza di abusi alcolico/farmaceutici, quella è una cosa che mi sono portata dentro a oltranza, e che mi ha fatto perdere un sacco di occasioni. Per dirne una: sono andata al liceo negli anni 90 e sto ascoltando adesso i dischi delle Bikini Kill, allora le musiciste donne erano un mondo inaccessibile, tutte loro mi sembravano lontanissime, carichissime, più belle e più dure di quanto io potessi mai essere. La guarigione passa per una presa di coscienza che passa a sua volta per il racconto. La storia avanza per flashback suggeriti dagli esercizi della tua psicoterapeuta. Una trovata che funziona ma che forse alla lunga stanca un po’. Che difetti puoi individuare nel tuo libro? Sinceramente? Ci voleva più LOL. A un certo punto, durante le revisioni, ci ho anche pensato, ma il grosso del libro era stato davvero scritto “in diretta”, e smontarlo troppo per inserire più cose buffe mi sembrava rischiosissimo. Di sicuro al di
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sopra delle mie capacità. Il libro più LOL mai scritto sulla dipendenza è Mezzanotte a vita di Jerry Stahl, ed è un libro terribile, ma sfido chiunque a leggere certi passaggi senza spaccarsi dal ridere. Condividere le esperienze ha dei risvolti che non possiamo controllare, talvolta straordinari: come ti fa sentire aver dato il la al circolo virtuoso che coinvolge chi vive o ha vissuto situazioni simili alla tua? Beh, la cosa più assurda che mi è successa fino a qui è stata andare ospite a un talk show di prima serata a “raccontare la mia storia” e parlare del libro, che a quel punto era uscito da un giorno. Il mattino dopo volevo cancellare la mia biografia e sostituirla con la frase “caso umano da prime time”. Non l’ho fatto, non per rispetto verso me stessa (quando mai), ma perché mi sembrava di stare giocando con una cosa pericolosa; mi stavano già arrivando le prime mail di estranei, di donne che chiedevano aiuto. Potremmo considerare Il corpo non dimentica uno spin-off di “Abbiamo le prove”, la rivista di nonfiction che hai creato sul web e che ogni giorno pubblica storie di donne? Il corpo non dimentica è venuto prima; tra un passaggio della “filiera editoriale” e l’altro mi sono accorta che volevo leggere le storie degli altri. Detto ciò, se venivi da me dieci anni fa e dicevi “tu scriverai storie vere”, ti avrei attaccato un pippone sul potere trasformativo della Pura Fiction. ×
il corpo non dimentica Mondadori pag. 276 + euro 17