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COMUNE DI PORTOGRUARO
22 marzo 2014
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Etica è Estetica
Maria Teresa Ret Assessore alla cultura Comune di Portogruaro
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“Fuori i poeti dalla repubblica” scriveva Platone in una delle sue opere più importanti. Poesia, dal greco poiesis, un agire senza finalità concrete, in contrapposizione alla prassi, agire finalizzato alla produzione. Se la prassi è fare, poiesis è agire, fare arte. Ma è possibile uno Stato senza arte, una società senza arte, una città senza arte? Per Stefano Orsetti, uno degli artisti più originali che in questi anni si sono affacciati sulla scena portogruarese ( e non solo), la risposta è negativa. Intitolando la Sua mostra EST-ETICA ci sollecita a riscoprire il legame tra kalos, il bello, e agathos, il buono, in un orizzonte dove al primo è affidato il compito di esprimere il secondo. Come scrive l’Autore, “tutto ciò che è etico (giusto) è estetico (ha in sé il bello e di questo è prova)”. Arte che, senza cadere in tentazioni pedagogiche, lontana da concezioni elitarie, recupera la dimensione sociale, il senso di comunità. Arte cui è affidato un ruolo guida, e in questa direzione Stefano Orsetti ci pungola. È sufficiente far riferimento all’ormai lunga e significativa attività di Orsetti, alla sua corposa attività espositiva, ma anche alla volontà di “esserci”, dentro il dibattito culturale cittadino con originalità, rispondendo alle sollecitazioni della città. Non è dunque solo la sua arte a farne una figura significativa, ma il porsi come interlocutore nel dibattito e nel panorama culturale cittadino, in un’ottica di apertura e disponibilità, fattiva, rispetto all’attualità.
Colgo, negli appunti che Stefano Orsetti ha scritto in preparazione a questa mostra, un’idea precisa, che è questa: non si dà creazione artistica se non implicata in partecipazione etica, tanto più che la “creazione” è, per l’operatore, anzitutto indagine, e indagine della realtà, non “invenzione”, non “immaginazione” concretata in segni e colori. È una posizione impegnativa, che esclude a priori ogni atteggiamento edonistico e che egli rende concettualmente nel titolo della mostra, quell’ “Estetica” che va letto “Est/etica” e che nella sua impostazione grafica dice, senza equivoci, che il concetto di “etica” sta dentro il concetto di “estetica”, e che quindi non si può dare “ricerca del bello” se non all’interno di un rapporto con il proprio operare che sia trasparente e diretto, vale a dire previamente non preoccupato del giudizio altrui, perché questo giudizio potrebbe costringere l’opera in direzione “opportunistica”, nel senso cioè del “voler piacere”, qualunque sia la ragione di questo “voler piacere”: far colpo, stare sull’onda, solleticare un determinato genere di gusto o di pubblico. Siamo, come si vede, in altri territori rispetto ad un certo tipo di avanguardia, quello che, nelle parole di Francis Picabia, si esprimeva così: “Vivi per il tuo piacere. Non c’è nulla da capire, nulla, nulla, nulla, solo i valori che tu stesso darai a tutto”. Il che, tradotto in termini sociali – poiché l’arte esiste solo nel rapporto tra artista e pubblico, cioè nel sociale – significa che
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La creazione artistica come impegno morale
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il valore sarà quello imposto da questo medesimo “sociale”, dalle sue logiche e dai suoi poteri, con i risultati – ma qui non mi dilungo – che sono sotto gli occhi di ognuno, se questo ognuno li vuol vedere: una crosta di Picasso – grandissimo artista, ma ha fatto anche delle croste – vale infinitamente di più di un bellissimo Tramontin, di un bellissimo De Rocco – e cito Tramontin e De Rocco proprio perché si tratta di artisti noti nel nostro territorio. Come si rende visibile, nella mostra, questa posizione etico-estetica che ho cercato di interpretare e riassumere? Si rende visibile anzitutto – e soprattutto – nella probità del “mestiere”, del lavoro propriamente artigianale che è necessario eseguire per portare a termine il “progetto”, cioè l’idea di quadro o disegno da cui l’artista è partito, la quale ha bisogno di uno svolgimento che necessariamente passa attraverso una serie di tappe, di “stati d’opera”, prima di tagliare il traguardo di una possibile, magari provvisoria, finitezza. Credo si possa comprendere quel che vado dicendo se si osserva con attenzione la serie dei ritratti. C’è qui un costruire che non si dimentica mai della realtà, per la semplice ragione che la realtà è già “costrutta”, basta guardarci dentro e saperne svelare i piani. Questo richiede propriamente un “lavoro”, non un’intuizione ed è, in questo caso, un lavoro che si svolge all’interno di un linguaggio di tradizione cubista, ma anche qui: ogni linguaggio può essere ripreso, e portato a definire una realtà formale che si declina in maniera specifica, che non è ripetizione, ma innovazione all’interno di parametri dati, come accade per le variazioni musicali. Ciò che a me sembra assolutamente importante, relativamente a questi ritratti – che sono poi autoritratti, anche se questa connotazione si va mano a mano perdendo per libe-
rarsi in costruzioni separate dal dato della somiglianza – è la loro proprietà costruttiva, la loro chiarezza spaziale, una precisione grafica che diventa ad un certo punto cristallina capacità di raffigurare il volto umano come un problema della pittura, che diventa anche un problema dell’esistenza, domanda ben lontana dall’esercitazione accademica. C’è poi il riferimento “storico” ad alcuni altri ritratti che sostano in area espressionista, ma di un espressionismo che non intende perdere del tutto la costruzione, che non è diretto verso l’informale, che sembra piuttosto intenzionato ad un recupero di realtà. E c’è infine – se Orsetti manterrà un’idea d’installazione cui mi accennava - il rapporto simbolico tra un autoritratto espressionista e un cranio animale, in cui si può vedere con nettezza come lo scopo del suo lavoro sia, in definitiva, sempre quello di toccare un’arte “significante”, un’arte cioè con la quale ci si possa mettere in colloquio, anche se si tratti di un colloquio né facile né scontato.
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Giancarlo Pauletto
Riesco finalmente a lavorare fluidamente. Quanti anni sono stati necessari per fare chiarezza. Io veramente non sapevo che quasi tutto quello che si dice quando si parla di arte è, a dir poco, demenziale. Finiti gli studi all’accademia di Venezia avevo constatato, considerando anche i quattro anni di liceo artistico, che solo con tre insegnanti avevo parlato veramente di pittura, di arte. Tutti gli altri, come poi quasi tutte le persone che ho incontrato nel corso degli anni, ripetevano i soliti mantra: non c’è più nulla da inventare, è già stato fatto tutto, devi andare a Milano ma meglio New York, devi trovare uno che ti lancia, insegna che con il posto sicuro... Non sapevo perché, ma ero certo che queste persone parlassero di un’altra cosa, dicendo Arte. Mi sembrava tutto miserabile e meschino. Io ero sicuro che fosse altro. Da bambino, a sei anni forse, entrai nella sede della Cassa di Risparmio di Portogruaro e vidi una tela che mi sembrò immensa, per le dimensioni e il soggetto. Mio padre mi spiegò che quei giganti tiravano i burchi controcorrente, come animali da soma. Quella banca mi sembrò un luogo importante, solenne. Fu una grande emozione. Questo avrei fatto. Non lo decisi in quel momento ma, credo, sei anni dopo, perché nel frattempo mi successero altri episodi che conducevano nella stessa direzione. La passione per il lavoro che i miei genitori, maestri, incarnavano. Negli anni in cui, in una famiglia numerosa, i figli vanno tutti a scuola, c’è una forza vitale sorprendente. Mia madre e mio padre non si portavano il lavoro a casa, come si usa dire, perché non
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Racconto me, il mio lavoro
smettevano mai. Erano il loro lavoro. Forse non è un caso il fatto che proprio in quel periodo stessero sperimentando il “metodo globale”, perché globale era la loro visione di ciò che era giusto e bello. Un’altra cosa che mi riempiva di emozione e desiderio di emulazione era vedere danzare le mani di mio padre e di mio fratello nell’atto di costruire qualcosa, qualsiasi cosa. Una danza fatta di movimenti sicuri ed eleganti, armonici. Io, poi, provavo e riprovavo. Succedeva anche con il disegno e con lo sport. Mio fratello aveva, con tutto il corpo, la stessa naturale efficace eleganza. Non riuscivo mai a disegnare e a muovermi così, anche se ero bravo. Io dovevo faticare, pensarci, affinare, per l’attività sportiva, mentre per il disegno capii subito che avrei dovuto lavorare. Paolo faceva un cavallo bellissimo e il mio sembrava un toro infuriato. Mi andava bene. Prima di finire questa frazione intima aggiungo un altro episodio. Ancora mio padre che mi dice: “uno che vuole fare l’artista non dovrebbe fare altri lavori”. Si sa che è difficile, ma per fare qualcosa di serio non si ha scelta, purtroppo. Non è obbligatorio fare gli artisti. Si sa che può essere una strada di sofferenza, bisogna scegliere. Credo, dopo tutti questi anni, ancora di più a queste parole. Perché un insegnante ha bisogno di fare il creativo fuori dalla scuola? Il suo è il lavoro più creativo del mondo.
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Arte e città
L’abbrutimento è un campanello d’allarme. Dietro, c’è una menzogna, una causa. Mentire sapendo di farlo è, per me, eticamente inaccettabile perché produce dolore. L’arte è intrappolata nelle menzogne oggi, come in passato lo sono state ideologie e religioni. L’avanguardia sconfisse nel secolo scorso l’accademismo, perché era una menzogna che non
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ci potesse essere qualità nella più assoluta libertà espressiva. Oggi, con aggettivi come “fluida”, “ironica”, “sconcertante” e “demolitrice”, si giustifica un’arte vile, inutile, più simile ad un affare sporco che ad un’alta aspirazione. Io penso all’arte, oggi, come ad una fonte di lavoro inesauribile. È evidente che per poterlo immaginare, bisogna avere il coraggio di fare tutto quello che serve, anche se si rischia la derisione. Propongo infatti, con questo lavoro, pitture e disegni che ogni galleria importante al mondo boccerebbe. Un atto di coraggio e una visione: laboratori con i nostri figli nel pieno di un’attività frenetica che, da immagini molto più belle di quelle che propongo io, facciano lavori con tutti i mezzi di produzione dell’arte esistenti e mettano in moto un indotto artigianale, scientifico e produttivo, perchè la città ne trovi linfa vitale. Bisogna avere il coraggio, quindi, di farsi bocciare. Fare il lavoro che serve per portare avanti un progetto, senza doverlo modificare o, peggio ancora, rinunciare a farlo, per il terrore di essere tagliati fuori. Anzi, non solo il coraggio, ma la sfacciataggine di dire che l’arte riprenderà a salvare il mondo, che non c’è mai stato così tanto da fare e che, se sembrava già fatto, o non era stato capito, o bisogna rifarlo perché non ha funzionato. Mi rendo conto che sia difficile da credere, di questi tempi, ma, l’ambizione di essere ritenuto un grande non ce l’ho. Ho ricevuto già il riconoscimento più ambito. Ho cercato di fare arte e non sta a me dire se ci sono riuscito, in compenso l’arte ha rifatto me. Io voglio far parte di un organismo che faccia qualcosa di grande. Una città che agisca come un individuo. Un organismo capace di funzionare solo se funzionano i suoi organi. Parti che devono avere coscienza, ognuna del proprio ruolo. Non c’è ancora questo, nell’organismo Portogruaro, questa consapevolezza. Compito della Galleria d’Arte Contemporanea di Portogruaro è
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formarlo. Successivamente, lavorare con le altre parti del cervello della città: scuole, museo, teatro e biblioteca. Preoccuparsi di dare impulso e coraggio al cervello perché si tenga pronto a sostenere tutto lo sforzo del corpo. Portogruaro è un individuo che, come mille altri in Italia, ha dimenticato il forte legame tra bellezza e dinamismo. Se la sua struttura sembra fatta apposta per un destino che non riesce a vedere, o riusciamo a renderlo visibile o continuiamo nel naturale declino già pericolosamente avviato. Non voglio fare il passo più lungo della gamba e per questo mi fermo qui. Per concludere, direi che è necessario nominare un responsabile capace. Un gruppo di persone generose, ma, a mio parere, se non ancora padrone del proprio destino e consapevole della sua storia, non riuscirà mai a muovere un passo. L’arte non è democratica, democraticamente la si deve usare. Questa è la risposta che avevo promesso all’assessore alla Cultura a proposito del futuro della Galleria Comunale. Questo mio lavoro è solo un esempio di coordinamento tra collezionisti, operatori dell’informazione locale, commercianti. Gente che merita un’arte che non li faccia sentire ignoranti e li derida. Arte che li aiuti a nobilitarsi e a non voler diventare snob come chi li umilia. Lo snob ama mettere in difficoltà chi non è “titolato”. Essere snob per ricchezza economica è primitivo, ma lo snobismo intellettuale è contraddittorio e patetico! Dicevo: gente che vuole, grazie alla capacità che ha solo l’arte, essere attratta dalla bellezza e portata alla giustizia che solo con l’autostima si raggiunge. Chi è fiero della sua ritrovata bellezza è nobile. Solo una cosa egli considera peggiore della riduzione alla servitù: praticarla sugli altri.
Stefano Orsetti
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Da tanto volevo vedervi così, uno di fronte all’altro. Riesco più facilmente ad immaginarvi sospesi nell’aria. Ri-conoscersi.
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Disegnando un oggetto compio l’azione dello studente, che studia un testo e prende appunti.
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Nell’atto di scrivere, con la sua grafia, si appropria dei contenuti.
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Il soggetto, ormai memoria, è già materia del mio pensiero. Già in questo lavoro-documento si registra l’azione prodotta da questa acquisizione.
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Io, assieme alla mia disciplina, sono strumento di indagine. Lascio andare dei gesti colorati su una carta. Come un sismografo ho registrato un sussulto. Non sono un Dio creatore. Non sono un creativo. Se sono bravo, sono uno strumento dell’arte.
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Una testimonianza. La pittura liberata da me, oggetto d’indagine per altri.
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Poi, alcuni segni, duri, fanno affiorare pitture amate che furono avanguardia e che io amo ancora e uso come linguaggio e materiale trovato. Mio.
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Voglio entrare, farmi spazio tra le forme smembrate. Ne faccio emergere una, la assottiglio, allungo, allargo. Per essere soddisfatto il colore deve avere una sua tessitura, una trama.
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Fuori dal suo contesto è una forma che può essere qualsiasi cosa.
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Emerge un volto. Cerco di chiuderlo in geometrie. PerchĂŠ riemerge?
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Cedo. Eccolo. Ma è una lotta.
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Riprendo il controllo. Ora cerco le forme ma è come se pitturassi su uno specchio.
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Riaffiorano parti del volto tra un vuoto e l’altro della pittura. Riduco anche loro a geometrie.
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Mi fermo. Rendo stabile questo flusso di forme. Metto una base rettangolare. Adesso ho una scultura. Esco dal laboratorio.
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Tutto da rifare. Entro di nuovo nel quadro e ancora tolgo, piego, schizzo veloce in fonnnndo ALT! Questa volta ci sono finito dentro, cazzo! Mi giro di scatto! Guardo in alto. Da dove viene quell’onda rossa e viola. Quanta energia! Quest’altra è nata adesso, davanti a me, da tutta quell’energia. No! Esco. Vado di là, dove l’aria ha una densità verde (pag-36). Qui è tutto troppo elettrico.
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Sono già stato qui. Allora non era così. Era tutto più freddo e slegato. Poi vedo un signore elegante che, con calma, mi dice: “a me queste cose che svolazzano non piacciono mica tanto ma ti ho dato una mano lo stesso”. Ha una pronuncia vagamente bolognese. Da quel punto in poi non so cosa ho fatto ma, una volta fatto un giro di 360 gradi su me stesso, dico piano come parlando tra me: “ma che fosse...”. “Morandi” dice lui aggiungendo: “comincia a funzionare ma c’è da farne di lavoro!”
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E allora lavoriamo. Ogni viaggio in questo universo è talmente intenso che comincio ad essere stanco. La verità è che non riesco più a smettere. Non è come l’adattamento al fuso orario dei viaggi aerei, qui cambia la gravità la pressione. La luce poi non sai se viene dagli oggetti o se li illumina.
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Oggi ricordo momenti. I ricordi di quando ero studente riguardano le persone. Le facce. “Stefano, vieni alla vernice di.. x , lo presenta…Y. Non sono occasioni da perdere se vuoi fare carriera!” - “No torno in aula a pitturare”. E pensavo: “io non voglio far carriera perché ho conosciuto X o Y, ma perché ha un senso il lavoro che faccio”. E loro ancora ”non devi buttare il talento, hai già perso un treno, cosa dico, un missile!” Io per schermirmi dicevo: “non darti pena , io abito in una stazione” ma dentro di me pensavo che nemmeno questa volta avevo comperato il biglietto. Questa rassegnazione a mendicare un posto al sole che tutti mi sbattevano in faccia mi abbrutiva, cosi mi fermavo in campo San Bartolomeo a comprare un po’ di oblio. Pochi capiscono che l’oblio è meglio della sconfitta. Il fatto è che questo si può dire solo a guerra vinta.
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Ma, visto che l’ho vinta, torniamo a noi. “Eccoti faccione. Dove li hai trovati i pezzi per combinarti così? Ero abituato a vederti tra colore e colore quando pitturavo gli specchi. Tu sei quello che rimaneva riflettente e lì, ci vedevo me”.
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Il lavoro non è solo stare davanti alla tela con il pennello in mano. Se non sei completamente immerso fino a giocarci non riesci ad uscire da quelle patetiche scenette che tutti abbiamo vissuto. Quelle in cui sei a disagio perché, pur non ammettendolo, e proprio perché non si è in grado di farlo, menti. Muovendoti, parlando come chi non sei e, solo forse, vorresti essere. Scusate la complicazione. Serviva a dare il senso del disagio. Lavorare dà dignità, prima ancora che per la sussistenza, per il ruolo. Vivere bene è molto più facile che vivere male. Queste velature geometriche sono il ritratto, non di una persona, ma delle forme associate e felici che questa persona mi fa vedere quando la guardo. Infatti quest’uomo ama ed è il suo lavoro. Fa il contadino con serietà e gioia e con il suo motoscafo d’estate, al mare, non naviga, ma disegna rotte sicure e veloci come se il suo motoscafo fosse la punta della matita che corre sul foglio d’acqua. Conosce la bellezza!
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Si è rotto lo specchio. Voglio fare il ritratto cubista. Ma i due ritratti che si scontrano sono un crash. È un volto a tre quarti che entra nello specchio che è, poi, lo stesso volto a tre quarti, nella direzione opposta. Non resisto a fargli due orecchie da fumetto, così ho anche un frontale. Eppure, più entro ed esco da questa battaglia tra il guidare l’idea e farmi guidare da lei, più mi sembra di ritrarre il respiro della vita. Curioso, l’altro giorno pensavo: “la nostra stessa esistenza è una fase del respiro della natura. Materia che si congiunge e si separa, e così via , senza soluzione di continuità”.
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Dentro e fuori dalla pittura, dentro e fuori dallo studio. Per essere soddisfatto devo far “funzionare” l’immagine. Sento che mi affino. Non è possibile se non in modo globale. Se non sono come pitturo, quello che pitturo si allontana da me. Fuori dallo studio, il mondo è pitturato meravigliosamente. L’arte è dentro di noi. Come avrei potuto vedere l’opera fantastica che è la vita, se non avessi fatto tutta quella fatica cercando di inventarla. Questi segni sono così forti e raffinati che mai si sognerebbero di essere irrispettosi del contesto che li accoglie. Un problema alla volta, risolto con calma, senza paura. La paura attanaglia, ti rende vile e ti fa scappare, così i problemi si moltiplicano in modo esponenziale. La vita anti etico estetica. Lavorare per capire e vincere la paura. Poi, resta la meraviglia. Vivere per la vita.
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I segni forti non si cancellano, semmai si cesellano, o si coprono con segni più scuri e taglienti. Loro non se la prendono. D’altra parte dentro il quadro non sono sotto ma dietro, perché essi vivono nelle tre dimensioni che io immagino. Ma questo grande disegno sta diventando una torre. Ha la faccia che manca agli edifici ma sappiamo tutti che gli edifici hanno un carattere, e sono cosi presuntuoso da consigliare agli architetti di pitturare, così potrebbero fantasticare sugli edifici e non sulla carriera. L’antropomorfismo è caratteristica del lavoro degli uomini.
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Questa è la veduta dall’alto di un altro angolo di città ma può essere diviso. Le sue parti smembrarsi per farci scoprire che è un luogo di partenza ed arrivo. Faccia, aeroporto, stazione, quelli che vanno, che restano. Addio! Amavo viaggiare. Adesso mi diverte di più sentire a che velocità stanno fermi i viaggiatori .
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Quale materiale liquido ma denso potrebbe, stretto tra due vetri, dare continue mutazioni, impercettibili da uno sguardo, ma riconoscibili giorno dopo giorno. La grande parete dell’ edificio all’angolo diventa altro, lentamente. Con i movimenti di una pianta. Un rampicante per esempio. Il grande quadro potrebbe ritrarre così i passanti abitudinari. Il quadro che dipinge l’uomo. Basta un grande schermo, poi con un computer evoluto... credo che già esista una tecnologia capace almeno di cominciare un lavoro così. Ve lo dirò la prossima volta. È la prima volta che scrivo con il computer e anche lui è una meraviglia. Gli manca ancora quell’erotismo di tutte le cose che hanno odore e, per farla breve, scatenano i sensi. Credo, ne sono certo, che ci sia gente che lavora a questo con la passione vitale necessaria.
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Forse una settimana dopo saresti così. Lavorare con un computer è bello, ma sento la necessità di capire meglio come funziona. Quante possibilità! Il quadro lo puoi comporre ed hai infinite varianti. Una sequenza. Questo è meraviglioso. Faccia blu, tu, pittura arcaica sei un concetto futurista inarrivabile. Perche? Ma perché il movimento e la sequenza sono tempo. Tu, Faccia blu, non sei un segmento ma una retta. Io sono di fronte a te, la retta mi attraversa la testa e attraversa te. Ne vediamo solo lo spessore. Quant’e’ lo spessore di una retta? Un punto. Alla pittura il privilegio di non considerare il tempo. In pittura è ininfluente. Una musica uno scritto un film un balletto durano un tempo, sono scandite dal tempo sono trascrizioni del tempo. Dura il tempo di un segmento. In pittura quel tempo al massimo lo puoi vedere mettendo quel segmento davanti al tuo occhio dalla parte dello spessore. Quindi, sei una sezione. Anche la tua larghezza e altezza sono solo l’occasione per materializzarti. L’avresti mai detto Faccia blu, o non sei il tempo o sei il tempo assoluto.
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Una pittura grande, che da cinque metri sembri grande come uno schermo cinematografico, vista nel foyer del cinema. Questa faccia, per esempio. Il film comincia con la stessa inquadratura, poi, diviso in altre frazioni, ognuna successiva ad un’altra pittura che appare allo stesso modo. L’immagine, l’inquadratura, resta ferma qualche secondo, solo il tempo per capire che è una relazione voluta. Nel foyer ci sono altre sei grandi tele. La prima inquadratura, la faccia, è un personaggio del film. La storia continua divisa in sei parti e per ognuna c’è lo stesso riferimento iniziale ad una tela. Avevo parlato di questo progetto che credo non abbia subito interessato il mio interlocutore. Poi, scordandosene, deve aver realizzato qualcosa di simile separando le parti. Solo chi stacca fisicamente dal proprio corpo le idee completa il lavoro dandogli senso. Le pitture sono state esposte in una galleria come story board del film. Se è in ascolto, però, lo autorizzo fin da ora a completare il plagio: noblesse oblige.
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Sei malinconico ma non guardi me. Ti immagino come se ti vedessi la nuca. Stai guardando gli altri tre. Li vedi, quindi, come li sto vedendo io. Come se stessero seguendo la pallina in una partita a tennis
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La variante a colori della libreria antropomorfa. Ti ho pensata dĂŹ legno pitturato. Sembri un automa di vetro.
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Un giorno riuscirò a costruirti e a stendermi davanti a te, nella tua stessa posizione. E con calma, ti sfilerò un libro dalla pancia.
Ringraziamenti A mia moglie Dani e mia figlia Ele per aver sostenuto anni di battaglie. Ai collezionisti che mi hanno acquistato il lavoro in corso d’opera sono contento di dire che sono parte produttiva. Un grazie particolare ai medici e alle infermiere del reparto di cardiologia di Portogruaro per il lavoro condotto est-eticamente, in cui ho trovato quello che ho cercato nel mio.
Un ringraziamento speciale, infine, agli imprenditori che hanno creduto in questo progetto:
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