Calisto Cover
18-11-2009
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CALISTO ZOVICO
Ricordi degli anni della seconda guerra mondiale
In caserma mi si avvicinò un soldato che, vedendomi magro e con il viso da fanciullo, mi disse: «Ragazzo, hai fatto a tempo a conoscere tua madre?».
VitoCatozzo Edizioni
CALISTO ZOVICO
Ricordi degli anni della seconda guerra mondiale
VitoCatozzo Edizioni
A Bertilla e ai miei “pampani�
RICORDI DEGLI ANNI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Le origini Mi chiamo Calisto Zovico e sono nato a Torri di Quartesolo, in provincia di Vicenza, il 16 dicembre 1923. La mia famiglia si è trasferita a Quintarello nel 1924 rimanendovi fino al 1929, quando trovò la successiva dimora a Quinto Vicentino. Lì iniziai la scuola elementare. Nel 1930 fui colpito in maniera piuttosto grave dal tifo, che non mi permise frequentare la scuola per un lungo periodo e di fare la prima Comunione; riuscii a farla fortunatamente l’anno successivo, una volta guarito. Erano anni molto duri. Mio padre Calogero, classe 1892, reduce della guerra in Eritrea, partecipò nel 1916 alla prima guerra mondiale nel “dente” del Pasubio, dove rimase ferito; di conseguenza venne ricoverato in ospedale a Torino. Per questa e per altre vicende fu decorato più volte. Finita la guerra fece il muratore
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lavorando nel periodo da marzo a ottobre, cioè quando il clima lo permetteva. Negli anni trenta frequentai la scuola in clima fascista; eravamo tutti caricati di amor patrio, tutti intenti a seguire il motto “Dio, Patria e Famiglia”, ma vivendo in una miseria immensa.
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Calisto nel ruolo di “Alfiere” dei Fanti vicentini
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Una veduta di quei tempi di Volta Mantovana
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Il periodo della guerra Primo di sette fratelli, a 13 anni andai a fare il garzone da un panettiere; così in casa c’era almeno una bocca in meno da sfamare. Lavorai fino al giorno in cui partii per il servizio militare; desideravo tantissimo poterlo fare, immaginando una vita migliore, visto che da quando avevo iniziato a lavorare avevo sempre patito il sonno perché mi dovevo alzare sempre prima dell’alba; non conoscevo mai riposo, nemmeno nei giorni di festa. Ecco, dunque, che il mio desiderio si avverava. Il 16 dicembre 1942 compii 19 anni. Il 5 gennaio successivo mi presentai al Distretto militare di Vicenza. Il giorno dell’Epifania entrai in caserma a Mantova nell’80° Reggimento Fanteria, Divisione “Pasubio”, una divisione che fu tra le prime a partire per la Russia nel 1941 durante il secondo conflitto mondiale. In caserma mi si avvicinò un soldato che, vedendomi magro e con il
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Il centro di Sala Baganza negli anni della guerra
viso da fanciullo, mi disse: «Ragazzo, hai fatto a tempo a conoscere tua madre?». L’istruzione al servizio militare avvenne vicino al Palazzo Te di Mantova, in mezzo a tanto freddo e nebbia. Alla sera non c’era libera uscita. Ci facevano fare pratica di armi, perché in marzo avremmo dovuto raggiungere il Reggimento in Russia. Sopraggiunse però la ritirata di Stalingrado e quindi, fortunatamente, non dovemmo partire. In febbraio fummo trasferiti a Volta Mantovana. Lì divenni fuciliere: su sei pallottole facevo sempre quattro o cinque centri. Un giorno facemmo i tiri con il fucile mitragliatore: dietro di me c’era il mio Tenente e il Comandante di brigata che mi osservavano. Feci diciassette centri su venti e il comandante disse: «Questo diventerà tiratore scelto». In quel periodo,
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però, non vidi più il mitragliatore e rimasi con il mio fedele fucile “91”. Il 9 giugno 1943 fummo mobilitati: rientrammo in caserma a Mantova per prendere la bandiera del Reggimento. Poi partimmo per Sala Baganza (Parma) per completare un Reggimento con i reduci di Russia e con le divisioni sciolte di Torino, Vicenza e Sforzesca. Con la mia prima compagnia fummo collocati nella fabbrica di conserve dei fratelli Tanzi, fra le grandi caldaie in rame. Di giorno facevamo marce e istruzione, alla sera eravamo in libera uscita. Feci amicizia con il fornaio del posto e andavo da lui a cuocere due-tre forni di pane per avere in compenso delle pagnotte anche per i miei amici. Quel fornaio andava sempre a dormire stanco per il troppo lavoro che in quel periodo era causato dalla presenza di tanti militari. Il 29 giugno fummo radunati in piazza per la partenza verso il meridione. Con noi il Comandante Amilcare Simeone che tenne un breve ma chiaro discorso: «Ora tocca a noi! Sappiamo che il nemico ha aerei, carri armati e cannoni. Ma il mio battaglione ha i c… di ferro». Dopo due giorni arrivammo a Sparanise, vicino a Teano, dove ci sistemammo in tenda. Un giorno facemmo una manovra nella zona di Teano; alla fine arrivammo in un cortile di contadini che battevano con due bastoni il frumento e tutti noi rimanemmo molto incuriositi da quel modo di lavorare. Il nostro comandante ci disse in modo sconsolato: «Non abbiamo più niente da fare. Con duemila chilometri di fronte da tenere non possiamo proprio fare nulla». Il 13 luglio del 1943 facemmo una marcia di quaranta chilometri con zaini in spalla sotto un sole cocente e con destina-
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Sparanise negli anni ’40
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zione Cancello Arnone; ci posizionammo in alcune case coloniche in zona di bonifica vicino al fiume Volturno. Feci servizio all’altezza del crocevia fra Castelvolturno, Villa Literno, Grazzanise e Capua Vetere; qualche volta mi spostavo alla stazione ferroviaria che era sotto controllo degli alleati per operazioni di spionaggio. Partecipammo, così, alle operazioni di guerra dello scacchiere mediterraneo. Il 16 agosto fui colpito da febbre malarica. Venni ricoverato in ospedale a Caserta il giorno successivo. Con due iniezioni di chinino cessò la febbre, ma non la fame, che era davvero potente. Il 25 agosto fui trasferito per convalescenza alle scuole di Pagani, dove conobbi la vera fame. Al mattino passavano dicendo «Caffè?», ma non ne arrivava più di un cucchiaio; a mezzogiorno ci accontentavamo di settanta grammi di pane e una scodella di quella che veniva chiamata minestra, cucinata senza sale. Davvero una grande fame. Spesso suonava l’allarme per gli attacchi aerei, così dalla scuola si andava verso la montagna dove si trovavano piante di cachi: quelli, ancora crudi data la stagione, erano la nostra cena. Ai primi di settembre ricevetti da mia sorella un santino della Madonna di Monte Berico (che ancora adesso tengo nel portafoglio). Arriva l’8 settembre. Sentimmo un gran vociferare. Dalle stanze di sotto sale una persona gridando che è stato firmato l’armistizio. Io, collegandolo all’arrivo del santino, pensai che si trattasse di un miracolo della Madonna. Ci furono dieci minuti di silenzio totale: tutti ad ascoltare Radio Naia. Ascoltammo un discorso con il quale venivano
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Il santino di Monte Berico che Calisto ha ricevuto dalla sorella
La scuola di Pagani
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concesse ai tedeschi quarantott’ore per trasferirsi in Germania. Dopo un po’ sentimmo un trambusto di camion e carri armati che si stavano dirigendo verso Napoli. All’alba del giorno dopo ancora lo stesso rumore: speravamo che fossero gli americani e che ci portassero qualcosa da mangiare. Invece erano i tedeschi che salivano verso il nord. All’alba ci affacciammo alla finestra e vedemmo un carro armato con una croce nera: era dell’ottava armata Inglese, di quelli sbarcati a Salerno. Quel 9 settembre, per tutto il giorno, poco lontano da noi, furono piazzati carri mortai e, verso sera, iniziarono a sparare cannonate sopra il monte. Alla mattina del 10 settembre ancora cannonate inglesi contro i tedeschi e inizia la tragedia. Nella scuola dove eravamo posizionati arrivarono morti e feriti in continuazione. Il medico si affannava a dire che lì c’era solo un servizio di medicina e non di chirurgia. Le bombe cadevano in tutta la valle. I tedeschi piazzarono i loro cannoni vicino all’ospedale. 13 settembre. I sanitari ci avvertirono che il Colonnello Schiru aveva dato ordine, vista la situazione, di concedere una convalescenza di trenta giorni a coloro che risiedevano in Campania e che volessero uscire. Mi misi in lista anch’io, anche se non ero campano: pensai che forse sarebbe stato meglio uscire nella speranza di trovare qualcosa da mangiare, piuttosto che restare lì e morire di fame; nei campi qualche frutto l’avrei trovato. Il pomeriggio venne il Sanitario e mi fece fare tre firme con le quali dichiaravo che, una volta uscito, lui non aveva più alcuna responsabilità nei miei confronti e mi consegnò la licenza. Di quelli che uscirono alcuni poi rientra-
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Una delle frequenti cartoline che Calisto spediva a casa
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rono, perché avevano paura che i tedeschi li prendessero a combattere con loro. Guardai la carta geografica e scelsi la direzione dell’Adriatico. Intanto i proiettili cadevano dappertutto, colpirono una chiesa a cento metri di distanza da me. Andai nel ripostiglio a consegnare il vestito e trovai la divisa sotto le macerie. Lì incontrai un soldato di Bari e uno di Foggia e tentammo di uscire. Portai con me il santino della Madonna di Monte Berico e lo tenni sempre con me. Una volta usciti, verso sera, trovammo per le strade la gente molto spaventata. Un uomo mi disse: «Paesà, gira in coppa a monte, ci sta i germanesi». Gli altri due, più anziani di me, stavano a distanza, ma io ero deciso a tutto, non avevo paura. Dopo più di tre chilometri incontrammo un tedesco con un mitra. Gli feci un cenno e lui mi indicò di andare avanti. Sulla destra era posizionato un camion di tedeschi e temei il peggio. Provvidenzialmente dal monte giunse una raffica di mitraglia e i tedeschi fuggirono. Sulla sinistra c’era la ferrovia e noi andammo in quella direzione in tutta fretta. Binari e carrozze erano tutti distrutti. Poco dopo arrivammo all’ospedale di Nocera Inferiore. Lì vicino vedemmo una casetta per gli attrezzi per l’orto, dove trovammo un militare italiano che vi era rimasto per proteggersi. Ci disse che se fosse riuscito a cavarsela sarebbe diventare ricco: lì, infatti, c’erano zaini, valige e quattro cavalli lasciati da altri italiani che erano fuggiti. Gli chiedemmo se potevamo rimanere lì per la notte e lui accettò volentieri, così avrebbe avuto un po’ di compagnia. Per noi andò molto bene: aveva gallette e scatolette di carne oltre a verdure dell’orto. Finalmente dopo tanti giorni riuscimmo a mangiare qualcosa.
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Poco lontano c’era una strada dove transitavano i tedeschi. Dalle 8 di sera fino alle 4 del mattino successivo vi furono attacchi e bombardamenti. A causa dei vari trasferimenti rimasi senza un soldo in tasca anche se da casa mi avevano spedito cento lire. Io infatti non ero più nel luogo dove arrivò il vaglia e così i soldi andarono persi. Il 14 settembre, verso le 5 del mattino, partimmo con altri soldati che trovammo in quella zona: eravamo una decina. Trovammo un piccolo vigneto e cogliemmo un po’ di uva per rifocillarci. Poi, in fondo alla valle, iniziammo a salire il monte in direzione di Avellino facendo molta attenzione, perché nelle retrovie c’erano delle batterie antiaereo; vedemmo per la prima volta i cacciabombardieri con due fusoliere. Per evitarli ci inoltrammo nei boschi. Alla sera arrivammo a pochi chilometri da Avellino. Giù dal sentiero, sulla destra, c’era una postazione di tedeschi con camion e cannoni mimetizzati tra le viti. Decidemmo di proseguire. Forse, se fossimo tornati indietro, li avremmo insospettiti. Andò tutto bene e ci ignorarono. Ma poco dopo, quattrocento metri più avanti, a un incrocio, un altro tedesco con un mitra ci attendeva. Mi avvicinai e gli dissi: «Camerata, per Avellino?». Lui, facendomi segno con la mano rispose con un buon italiano: «Ja! Voi fortunati, guerra finita. Noi ancora qui». Mi commossi e pensai che, in fondo, anche i tedeschi avevano un cuore. A quel punto con i due di Foggia e Bari ci salutammo e ci facemmo reciprocamente gli auguri. Salutammo pure il tedesco. Per fortuna restò con me un soldato di Benevento che credeva che al nord la guerra fosse finita. Pensai che se avessi
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avuto la fortuna di tornare a casa, prima me ne sarei andato a fare voto a Monte Berico. Siamo a pochi chilometri da Avellino. Andiamo in una casa di alcuni contadini che mi danno da mangiare e dei vestiti borghesi. Lasciammo là le divise. Ci sistemarono in un pagliaio per la notte. Non mi sembrava vero: non ricordavo più da quanti giorni non dormivo. Al mattino del 15 settembre il contadino venne a svegliarmi: «Avete sentito che bombardamento c’è stato in città questa notte?». Noi non avevamo sentito nulla dalla stanchezza. Mi diede del pane e del latte e, perfino, dieci lire: quanta generosità. Ci salutammo con mille ringraziamenti. Ora dovevamo attraversare Avellino che era piena di tedeschi, mentre continuavano gli attacchi dei cacciabombardieri. Girammo non so quanti chilometri al largo della città e ci indirizzammo verso Benevento. Camminammo per tutto il giorno e la notte e, la mattina del 16 settembre, uscimmo dalla galleria di Benevento che era piena di cittadini rifugiatisi dai bombardamenti. Lasciai l’altro soldato e rimasi solo. Mi diressi verso Pietralcina dove, alla stazione, trovai molti sbandati che aspettavano un treno. Mi dissero che in paese c’era un prete che dava mangiare a tutti. Dopo tanti anni mi chiedo se per caso quel prete fosse stato padre Pio. Io però non ci andai: non avrei voluto perdere il treno. Vidi un contadino e gli chiesi uva e fichi, così riuscii a mangiare qualcosa. Verso sera, arrivato il treno, ci sistemammo abbastanza comodi e partimmo. In piena notte la corsa terminò a Campobasso. Allora proseguimmo a piedi per Larino.
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Calisto guarda nella “scatola dei ricordi” foto, cartoline e giornali dell’epoca
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All’alba del 17 settembre arrivammo a Termoli e mi trovai davanti il mare, che non avevo mai visto in vita mia. Poco più in là vidi la ferrovia. C’erano tantissimi uomini, chi andava a nord e chi a sud. Per fortuna c’era tanta uva e ancora una volta riuscimmo a mangiare. C’era un treno che andava in direzione dell’Adriatico. A settanta chilometri di distanza c’è Pescara. Passò un treno a vapore strapieno di gente accalcata anche sui tetti dei vagoni. Trovai posto soltanto davanti alla macchina a vapore, aggrappandomi alle gambe di quelli che erano in piedi. Guardando i binari davanti a me pensavo a quanto sarei riuscito a resistere in quella posizione… Di lì a poco, però, tutti fuggirono. Arrivò un tedesco che puntò la pistola verso di me e disse «Rota! Rota!». Ancora oggi mi rivedo quella pistola in faccia. Scendemmo e si riprese il cammino per tutto il sabato, giorno e notte. Domenica 19 settembre, al mattino, arrivammo a Montesilvano. Salii sul treno che subito fu strapieno, tutti stipati come sardine, tanto che pensai che forse sarebbe stato meglio andare a piedi. Verso sera arrivammo a Rimini e alla stazione riuscii a farmi dare un grappolo d’uva da alcune donne. A Ravenna le donne offrivano delle mele; ne presi una. Ogni tanto mi addormentavo in piedi, sul treno, tenuto su dai vicini. A pochi chilometri da Ferrara il treno si fermò. Giù tutti. Alcuni dicevano che i tedeschi ci avrebbero portato in un campo di concentramento a Mantova. Appena tutti uscirono, non avendo più il sostegno dei vicini, caddi a terra stremato e non riuscii a rialzarmi. Il treno partì e mi ritrovai solo e rassegnato. Pensai che mi avrebbero buttato da qualche parte. Quando ripresi le forze ero alla stazione di Ferrara, piena
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di tedeschi. C’era un treno fermo. Dall’altoparlante sentii annunciare che un treno stava partendo per Padova. Mi girai e vidi un treno in movimento. Non so ancora come ho fatto a salirci: mi trovai sul carro del carbone. Il 20 settembre arrivai a Padova. Anche lì era pieno di tedeschi. Il soldato di guardia alla stazione faceva il solito movimento avanti e indietro. Calcolai il momento più opportuno, scesi e andai in bagno. Mi guardai allo specchio: ero distrutto, tutto sporco del fumo della locomotiva, ma ormai pensavo che sarei riuscito a tornare a casa. Cominciavo a sperarci. Mi vide un ferroviere e mi disse: «Maria santissima, da dove vieni?». Gli raccontai la mia storia e gli chiesi se c’era un treno per Vicenza. Nel vedermi in quelle condizioni rimase sconvolto e confuso. Mi disse di aspettare lì dov’ero, che sarebbe venuto ad avvertirmi non appena ci fosse stato un treno per Vicenza. Dopo un’ora tornò avvisandomi di una littorina diretta a Grisignano. Al momento opportuno mi avrebbe fatto salire. Una volta salito lo ringraziai dell’aiuto e lo salutai. Anche la stazione di Grisignano era piena di tedeschi. A un certo punto vidi un carabiniere del mio paese che prestava servizio. Lo chiamai: «Guerin!». Lui non mi riconosce: «A son mi, Calisto!». «Aspetta, ti faccio segno io» mi disse. Poi mi fece scendere e mi nascose in uno sgabuzzino circondato dai tedeschi. Dopo un’ora tornò e mi disse che stava per arrivare un treno con carro postale e che al momento giusto mi avrebbe fatto salire. Il treno arrivò e vi salii. L’addetto al vagone rimase allibito delle mie condizioni. Gli raccontai tutto. Mi chiese dove abitavo. Gli risposi che stavo a Quinto, ma che prima volevo
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andare a Vicenza, a Monte Berico, perché avevo fatto voto alla Madonna. Lui mi disse che se mi prendevano a Vicenza mi avrebbero portato in Germania e che sarebbe stato meglio scendere a Lerino. «Adesso faccio segno al macchinista che si fermi a Lerino» disse. Fece il segnale e il treno si fermò. Nemmeno il tempo di salutarlo e mi buttò giù. Uscii dalla stazione e stentavo a reggermi in piedi. Mi venne incontro una donna che mi domandò da dove arrivavo in quelle condizioni. Anche a lei raccontai la mia avventura e le chiesi un po’ di latte caldo. Mi portò in casa sua che stava duecento metri più in là. Mentre scaldò il latte mi fece bere un uovo, mi mise in tavola pane e latte abbondante. Mi sentii risorto. Ringraziai e la salutai. Dopo un po’ arrivai a Marola e vidi il campanile di Quinto. Mi sentii rinato. Alle 11 ero casa. Mia sorella mi vide dalla finestra e disse: «Mamma, xe qua Caisto!». Ero tutto sorridente nel vedermi a casa. Uscirono tutti dalla cucina. Mia mamma quando mi vide si mise le mani negli occhi e disse: «Maria Vergine, quanto gheto tribolà?». Mi passò per la mente tutto quello che avevo vissuto, la spinsi via ed entrai in casa. Scoppiai a piangere così tanto che sembrava non smettessi più. Mi ripresi: mangiai, mi lavai e dormii per due giorni interi. Quando mi risvegliai feci una bella colazione con cinque-sei pezzi di pane. Così ebbe fine la mia storia militare. Il 21 settembre sentii dalla radio di un vicino di casa che tutti gli sbandati dovevano ripresentarsi. Da allora iniziai una
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Bertilla e Calisto ai tempi del loro matrimonio
vita da sbandato con tante altre vicissitudini fino all’aprile del 1945. Era la fine della guerra. Dopo un mese andai dalla Madonna di Monte Berico con il mio fedele santino, a piedi, da Quinto Vicentino. Ringraziai la Madonna perchÊ mi sentivo un miracolato, considerata tutta la mia storia.
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Epilogo Aprile 1945. La guerra è finita. Finalmente siamo liberi. Torno a lavorare, a fare il panettiere. A trent’anni mi sposo con Bertilla. A quarant’anni vedo la vita color di rosa, con cinque figli e la mia sposa. A cinquant’anni arriva Christian e completa la famiglia. A sessant’anni vado in pensione, grazie a Dio, in buona salute, con moglie, figli e nipotini… e perché no, con un po’ di quattrini. D’ora in poi ogni giorno che passa è una VITTORIA. 1923-2009 Calisto Zovico Bertesina (Vicenza), novembre 2009
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La “scatola dei ricordi� degli anni della seconda guerra mondiale
Prima edizione novembre 2009 Ristampa del maggio 2014 Stampa Grafiche Simonato Fara Vicentino (VI)
Una recente foto di Calisto
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In caserma mi si avvicinò un soldato che, vedendomi magro e con il viso da fanciullo, mi disse: «Ragazzo, hai fatto a tempo a conoscere tua madre?».
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