Entropia dell'anima

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Vittorio Conti

l’entropia dell’anima

Romanzo


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Vittorio Conti ________________________________________________

L’ENTROPIA DELL’ANIMA romanzo

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L’ENTROPIA DELL’ANIMA

A Chiara, alla quale sarò per sempre debitore. A Meris, alla quale sarò per sempre riconoscente.

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PERSONAGGI

Guido: un pilota Federico: specialista aeronautico Katia: una ragazza alla ricerca Renato: il padre di Katia Maria: la madre di Katia Silvano: Fratello di Katia Angela: amica di Katia Giovanni: il fornaio Silvia: una ragazza conosciuta in Africa Wadja: l’uomo di Douz Alì: ingegnere palestinese Karima: agente della CIA Capo: al vertice della cellula terrorista Nadir: terrorista Mohammed: terrorista Samirha: terrorista Mabrha: la ragazza a cui si sostituisce Karima Adam: maggiore israeliano Barrett: il capo di Karima alla CIA Abed: terrorista Faisal: terrorista Afeef e Jihad: capi di una cellula terroristica a Shu’fat Omar: la guida in Akakus Diane e Fabian: la coppia francese Elis e Pòl: la coppia irlandese Francesca: la ragazza della panchina Erika: collaboratrice domestica

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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati, sono invenzioni dell’autore, e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte è assolutamente casuale.

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1 Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza Dante Alighieri

Guido stava dormendo profondamente, quella mattina. Il sonno, privo di sogni, continuava a sottrarlo alla sua quotidianità. Nella stanza in cui riposava c’era un debole chiarore. I raggi del sole nascente penetravano timidamente dalle fessure delle persiane, non del tutto chiuse. Quando doveva alzarsi molto presto, aveva l’abitudine di non chiuderle completamente. Pensava che la luce del sole lo avrebbe, in ogni caso, svegliato. In quel modo, esorcizzava il timore di non sentire, nel sonno, la radiosveglia che si sarebbe attivata all’ora per la quale era stata programmata, la sera prima. Lo faceva con attenzione, verificando, dopo averla accesa, l’intensità del suono ed eventualmente, regolandolo. Sempre, nel compiere quel rito, gli capitava di dover fronteggiare una leggera inquietudine, ma l’esecuzione di gesti abituali gli permetteva di gestire quel disagio a lui così noto e così misterioso.

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Sempre selezionava una stazione che avrebbe trasmesso, la mattina seguente, della buona musica. Non aveva importanza di quale tipo. A lui interessava non essere svegliato da un fastidioso trillo. Le note trasmesse lo avrebbero predisposto positivamente nei confronti della nuova giornata. Così aveva fatto anche la sera precedente, decidendo che le sei fosse l’ora più appropriata. Fece un controllo veloce e rassicurante del volume per verificare che l’intensità del suono fosse quella giusta; come al solito, lo era. Non gli rimaneva che spegnere la luce; protese la mano verso l’interruttore e con il dito indice pigiò sul tasto. Guido si trovò al buio, lentamente scivolò sotto le lenzuola, si girò e rigirò nel letto ed infine si sistemò a pancia in giù con le braccia sotto il cuscino. Quella era la posizione che assumeva per prendere sonno. Facendo un piccolo sforzo, girando gli occhi, guardò le cifre rosse dell’orologio digitale della radio-sveglia. Erano le ventidue e trentasette; realizzò che le ore di sonno che gli rimanevano, di lì alle sei, sarebbero state sufficienti, purché si fosse addormentato alla svelta. Dal nulla, nella sua mente, si materializzò l’immagine di lui bambino. Stringeva con la mano destra un aeroplanino di legno bianco e nero. Ricordava di aver visto, nella sua giovinezza, incollata in un vecchio album di fotografie, una foto che lo ritraeva con quel giocattolo. Era stato ritratto nel giardino della sua vecchia casa natale; infatti se ne potevano osservare alcuni dettagli. Sicuramente, pensò, che era stata scattata in inverno. Lo confermava il fatto che era imbacuccato in una pelliccia ed in testa portava una papalina di lana, con pon pon.

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Quell’immagine iniziò a dilatarsi nella mente di Guido. Lentamente i meandri della sua mente furono invasi da quella figura in bianco e nero, ingiallita dagli anni, come l’acqua del mare che, insinuandosi nelle umide pieghe del bagnasciuga, vi lascia traccia. La sua coscienza stava perdendo criticità e, dolcemente, si faceva penetrare dalla reminescenza di lui bambino con quell’aeroplanino stretto fra le mani. Fu cosi che Guido, quella sera, permise ad un ricordo di trasformarsi in sogno. Sebbene la radio-sveglia non si fosse ancora accesa, Guido aveva già percepito il tenue chiarore che si stava diffondendo nella camera. Con indolenza, vincendo la resistenza ad abbandonare il tepore del letto, socchiuse gli occhi e diresse lo sguardo verso l’orologio. Erano le cinque e diciassette. Pensò che poteva rimanere ancora un poco a letto. Avrebbe atteso, fra il dormi veglia, che la radio si accendesse. Poi, avrebbe ascoltato, ancora per alcuni minuti, la musica trasmessa. Durante quella parentesi temporale, pensò alle attività che avrebbe svolto durante la giornata che stava iniziando. Finalmente era giunto il momento per il quale aveva fantasticato, prima, lavorato poi. Aveva cullato amorevolmente il suo progetto per tanti mesi. Inizialmente, era stata un’idea allo stato embrionale e, come tutti gli embrioni, informe, ma fin da subito amata. In lui si era formato un processo d’identificazione con il suo disegno, ed ora stava vivendo per quel sogno. Con il trascorrere del tempo, dettagli si erano aggiunti a dettagli e questi erano stati ordinati, classificati ed incasellati. Alla fine la costruzione era stata rifinita ed il tutto aveva preso corpo. Solamente quando gli parve che non ci fossero più incoerenze e che nulla fosse stato lasciato al

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caso, decise di passare alla realizzazione della sua idea. Forse, un giorno, avrebbe potuto affermare che i sogni possono trasformarsi in realtà. Ora, in quella mattina d’estate, stava iniziando la sua avventura. Mentre era avvolto dal torpore del risveglio e meditava su tutto ciò, una dolce melodia, che comunicava una lieve malinconia, lo riportò alla realtà. Erano scoccate le sei. La volontà di alzarsi, di iniziare la giornata, si contrapponeva al desiderio di rimanere ancora un poco a letto. Così fece, ascoltando la musica trasmessa dalla radio, in compagnia del pensiero di ciò che doveva e voleva fare. Pochi minuti, poi, lentamente, con gesti misurati, si sedette sul letto. Rimase in quella posizione qualche secondo, alzandosi si diresse verso la finestra che spalancò. La brezza fresca del mattino investì il suo viso, infondendogli vitalità e il desiderio d’agire. Ora non doveva più trastullarsi; senza indugiare oltre andò in bagno per sistemarsi. In seguito mise in ordine la camera da letto. Desiderava trovare tutto in ordine, quando sarebbe rientrato. Sceso in cucina, riempi una tazza con acqua che mise a scaldare nel forno a microonde. Quando il timer suonò, pose il tè verde in infusione. Ancora cinque minuti e avrebbe iniziato la colazione con miele e biscotti. Durante l’attesa ripensò alle cose che doveva portare con sé uscendo di casa e che già da qualche giorno aveva preparato. Concluse che non aveva dimenticato nulla. Preparò la tavola per la colazione, posandovi una piccola tovaglia per single, un cucchiaino, il miele ed i biscotti, poi si sedette. Mentre stava facendo colazione, la sua attenzione fu attratta dalle mani. Per la prima volta notò la consistenza ed il colore della pelle.

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Con sorpresa e disagio si accorse che aveva perso elasticità. Piccole e sottili pieghe la ricoprivano uniformemente e, a secondo della posizione assunta, erano più o meno visibili. Macchioline dai contorni irregolari e di color pastello, si erano materializzate, ai suoi occhi, come per incanto. Guido, inaspettatamente, stava prendendo coscienza del fluire del tempo, degli anni che erano trascorsi. Quei segni, che la sua mente aveva voluto vedere, solamente quella mattina, erano un riscontro oggettivo della età anagrafica. Ancora qualche mese e sarebbe arrivato il sessantaquattresimo anno. Ripeteva, fra sé e sé quel numero, quasi incredulo. Non aveva la percezione degli anni che erano trascorsi, ma di una cosa era certo: non aveva rammarichi e conti in sospeso con se stesso. Alzò le spalle, quasi per volersi sbarazzare di quella realtà. Di fatto, non aveva la percezione della sua età. Le energie fisiche e mentali non gli mancavano. Per fugare ulteriormente ogni incertezza malefica, pensò alle attività che svolgeva regolarmente: viaggi, tennis, escursionismo, sci, vela, nuoto e quella elettiva: il volo. La propensione, a mettere in cantiere nuovi progetti di vita, era più che mai forte. Disse a se stesso, quasi per rafforzare la sua convinzione, che: <<Non era proprio il caso di farsi condizionare da pensieri potenzialmente limitanti.>> Terminata la colazione, con la mente predisposta positivamente, si alzò e riordinò la cucina. Lo fece per la stessa ragione per la quale aveva sistemato la camera da letto. Il pensiero di trovare la casa in ordine, al suo ritorno, lo confortava! Uno sguardo all’orologio: le sei e quarantuno. Con fare deciso scese in garage.

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Disposte ordinatamente, su uno scaffale, vide le cose che aveva preparato nei giorni precedenti: uno zaino contenente gli abiti che gli sarebbero serviti durante il viaggio, una sacca termica con cibo, una scatola con attrezzi multiuso che, nel caso avesse avuto problemi con l’aereo, gli sarebbe stata utile. Inoltre: le carte aeronautiche, un navigatore satellitare e gli appunti di viaggio. Aveva annotato, sinteticamente, tutte le informazioni che riteneva necessarie ed indispensabili avere con sé durante il viaggio ed il volo. Qualora ne avesse avuto bisogno, avrebbe saputo dove attingere, velocemente, i dati del caso. Guido, con gesti veloci, dispose il tutto nel baule della sua quattro per quattro, poi aprì il portellone del garage. Non gli rimaneva che salire ed accendere il motore. Un disagio indefinito lo tratteneva, ma si disse che tutto era a posto. Non c’era nessun motivo per tergiversare. Salì in auto e mise in moto. Inserì la retromarcia e fece uscire l’auto, poi, con fastidio, scese per chiudere il basculante. Sollevato dal pensiero che tutto era stato fatto correttamente, rientrò in auto e partì. Dette uno sguardo alla sua casa e pensò che sarebbe trascorso molto tempo, prima del suo ritorno. Doveva guidare circa un’ora per raggiungere il campo volo dove era hangarato il suo aeroplano. A quell’ora il traffico era quasi assente e l’idea di guidare in scioltezza lo confortò. Guido giunse a destinazione in breve tempo; così gli parve.Federico, il meccanico del club, era arrivato prima di lui. Lo trovò già al lavoro. Stava facendo la manutenzione ad un aeroplano. <<Ciao Guido, come va?>>

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Gli disse. <<Tutto bene? E’ arrivato il gran giorno: eh eh…!>> <<Ciao Federico, Tutto bene, grazie.>> <<Già, sembra proprio di sì.>> <<Ti serve aiuto per spostare l’aeroplano fuori dall’hangar?>> <<Non ancora, grazie. Prima voglio caricare in cabina il bagaglio ed i ferri del mestiere.>> Guido, con meticolosità, dispose all’interno dell’ abitacolo di pilotaggio le cose che aveva preparato nei giorni precedenti. Doveva farlo nel modo più ordinato e razionale possibile. Sapeva che se non fosse stato così avrebbe potuto avere dei problemi durante il volo. A lui premeva avere tutto a portata di mano e contemporaneamente voleva che le cose fossero ben fissate; non si sarebbero dovute muovere in nessun caso. Se, durante il volo, avesse incontrato delle turbolenze, avrebbe potuto correre il rischio di avere oggetti liberi in cabina, se non li avesse bloccati. Guido, dopo aver sistemato il bagaglio nel migliore dei modi, iniziò i controlli sull’aeroplano. Si chinò sotto la pancia del suo aereo per raggiungere il rubinetto di spurgo carburante, sotto al quale collocò un piccolo recipiente di vetro. Girò la chiavetta. Dal rubinetto usci il carburante che, gorgogliando, confluì all’interno del contenitore. Quando ne ebbe raccolta una quantità sufficiente, chiuse il rubinetto e ritornò in posizione eretta per esaminare, comodamente, il contenuto del recipiente. La benzina appariva perfettamente limpida. Guido si senti soddisfatto e sollevato. Non aveva avuto dubbi. Era certo che sarebbe andata cosi, ma non doveva dare nulla per scontato.

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Iniziò, poi, ad eseguire i controlli, aprendo il cofano motore. Sapeva esattamente cosa doveva fare. Aveva compiuto quella serie d’operazioni tantissime volte. Gesti che si erano impressi nella sua mente, come un marchio rovente sulla pelle. Federico, anche se apparentemente concentrato nel suo lavoro, non aveva perso un solo movimento di Guido. Con sincera partecipazione gli chiese: <<Tutto bene?>> <<Sì, tutto bene.>> A Guido fece piacere l’interessamento manifestatogli da Federico. Per un momento si era sentito meno solo. Era consapevole che per un lungo periodo lo sarebbe stato e avrebbe dovuto contare solo sulle sue forze. Non era preoccupato da questa circostanza. Anzi, era convinto che fosse la condizione che avrebbe dato un senso al suo agire e che lo avrebbe fatto sentire vivo. Un’esperienza del tutto intima e che voleva custodire gelosamente, quasi proteggere. Comunicarla, gli pareva sciuparla, sottrarle energie. Fu in quel momento che ricordò le parole che anni prima gli disse Silvia, una ragazza conosciuta in Tanzania, durante un safari, mentre lui le raccontava della sua vita. <<…Ma cosa si deve fare per sentirsi vivi…>> Non aveva mai dimenticato quella frase. Quelle parole erano diventate parte di lui e lo avevano indotto a meditare, più volte, sul loro significato profondo. Ogni volta che le ricordava avvertiva la fatalità che celavano, e quando le richiamava dalla memoria, un velo di tristezza si adagiava su di lui, come la nebbia d’autunno sulla pianura.

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Capiva il loro significato, ma sapeva anche che, se fosse stato coerente al messaggio che racchiudevano, non si sarebbe sentito vivo. Era vissuto sino ad ora con la convinzione che ha senso esistere essenzialmente in funzione di un progetto, di un ideale. L’agire per imitazione non apparteneva al suo modus vivendi. Lo considerava puerile e sterile. Lui voleva condurre la propria esistenza in funzione dei suoi ideali, dei suoi sogni. Quando riusciva a farli diventare realtà, si sentiva realizzato. La soddisfazione che assaporava era enorme; quasi una droga per lui. La coerenza alla sua convinzione viscerale, lo aveva fatto percepire alle persone con le quali gli capitava di interagire un diverso e, come tale, spesso era emarginato. Guido aveva sofferto per questo, ma non ci poteva fare niente, a meno di non rinunciare alla parte più vera di sé. Si sentiva disarmato. Cedendo alla tentazione di comportarsi in funzione dell’essere accettato, avrebbe negato la sua identità. Più volte si era domandato il perché la sua mente fosse strutturata in quel modo. Forse, si era detto, cercava, nel suo agire, carezze. Forse, cercava quello che a tempo debito non aveva ricevuto. Forse, lo cercava come surrogato al suo vero bisogno…Forse! Ma poi aveva concluso, chiedendosi: <<ha senso tentare di trovare risposte a questi interrogativi? Trovarle, gli avrebbe cambiato qualche cosa? Probabilmente, No.>> Meglio assaporare quello che la vita gli avrebbe potuto riservare, ma nel contempo, vivere nella consapevolezza.

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Delle valutazioni, dei commenti, delle critiche, delle maldicenze, circa il suo modo di vivere, che i conoscenti e non, avrebbero potuto fare, a lui poco importava. Le persone che entravano nella sua vita, costatavano l’originalità del suo modo di essere, e in qualche modo glielo facevano capire. Guido percepiva, frequentemente, il loro disagio. Sempre si stupiva. Il suo era lo stupore ingenuo del bambino. Non riusciva a farsene una ragione. Per lui, essere così, era la maniera che gli permetteva di esprimersi naturalmente, senza maschere. Sbagliando, pensava lo dovesse essere per tutti. Guido aveva capito che il suo modo di porsi, il suo modo d’essere, sollecitava i suoi interlocutori a mettersi in discussione. Se lo avessero fatto, avrebbero dovuto dare ascolto ai contenuti nascosti delle loro menti. Solitamente ignorati. Per molti sarebbe stato più comodo nascondersi le ragioni del loro disagio ed aggirare la cosa. Meglio criticarlo gratuitamente. Oltretutto, la critica e la calunnia permetteva loro di percepirsi migliori di quanto non lo fossero realmente! I ricordi che sbocciavano nella mente di Guido, svanivano con la stessa facilità con la quale si erano formati. La medesima sorte era riservata alle riflessioni che prendevano spunto da essi. Fu così che riprese ad eseguire i controlli. Rimontò il cofano motore, non avendo notato nulla d’anomalo. In seguito iniziò a controllare l’elica, per poi dirigere l’attenzione alla fusoliera, al carrello, alle ali ed ai piani di coda. Gli sembrò tutto a posto. Ora poteva interpellare Federico per spostare l’aereo all’esterno.

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<<Federico, hai due minuti per darmi una mano?; devo portare fuori l’aereo.>> Federico gli rispose prontamente. <<Certamente, vengo subito.>> Entrambi, con gesti misurati e competenti, fecero ruotare l’aereo su se stesso, mettendolo nella posizione per poter poi essere spinto fuori dall’hangar. Guido iniziò a tirare dall’elica, facendo attenzione di porre le mani, il più possibile, vicine al mozzo. Contemporaneamente Federico spingeva su di un montante alare. In breve portarono l’aereo all’aperto. <<Grazie Federico, per l’aiuto.>> <<Ma ti pare; se non hai più bisogno di me, riprendo il mio lavoro.>> <<Ok, vai.>> Guido si allontanò dall’aereo di qualche passo e lo guardò con sguardo amorevole, quasi fosse umano. Lui e quella macchina, con il trascorrere degli anni, erano diventati una cosa sola. Aveva volato per tanto tempo con quell’aereo, compiendo tantissime ore di volo nelle più svariate condizioni. Conosceva, del suo aeroplano, ogni particolare, ogni dettaglio; questo fatto lo rassicurava. Senza indugiare oltre salì a bordo. Cercò di adattarsi, al meglio, alla forma del seggiolino, chiuse la portiera ed azionò la chiusura di sicurezza. Con la mano destra estrasse, dalla tasca porta oggetti, l’elenco delle procedure che doveva eseguire prima della messa in moto. Una leggera emozione serpeggiò nel cuore di Guido. A lui capitava sempre, durante le fasi che precedono il decollo. Ne prendeva atto. Ma non si era fatto una ragione del perché gli capitasse ancora, dopo tanti anni di volo.

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Sebbene conoscesse a memoria quella lista, la lesse riga per riga, diligentemente. Fece esattamente quello che pretendeva, senza sconti, dai suoi allievi. Leggeva una riga, interrompeva la lettura, e subito dopo eseguiva il comando od il controllo che gli era stato rammentato; poi riprendeva la lettura, e cosi via. Punto dopo l’altro, eseguì tutta la procedura preaccensione; poi rivolse il suo sguardo a sinistra, oltre il finestrino, davanti a sé ed infine a destra. L’area di parcheggio era deserta. Gridò: <<Via dall’elica.>> Poi girò la chiave della messa in moto. Il motore partì al primo colpo. Come sempre Guido ne provò sollievo. Infatti non era scontato che l’accensione si sarebbe verificata così facilmente, poi regolò i giri in modo che fossero adatti al riscaldamento del motore. Ora, con pazienza, doveva attendere che gli indicatori degli strumenti si posizionassero all’interno degli archi verdi. Durante l’attesa aveva l’abitudine di riflettere su qualche argomento; così facendo, s’illudeva che il tempo potesse trascorrere più velocemente. Quel giorno iniziò a rimuginare circa la scuola di volo dove svolgeva l’attività d’istruttore. Si stava chiedendo fino a che punto fosse stato giusto abbandonare i suoi allievi. Sicuramente, al suo ritorno, li avrebbe trovati già in possesso del brevetto di volo. Un suo collega avrebbe completato il lavoro che lui aveva iniziato. La cosa gli dispiaceva non poco. Da tempo si era reso conto che fra allievo pilota ed istruttore s’instaura un rapporto particolare. L’istruttore di volo diventa per l’allievo il punto di riferimento in assoluto; è la persona le cui capacità aviatorie sono da imitare, anzi da raggiungere.

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E’ la persona alla quale è affidata la propria vita. Pilotare un aeroplano è un’attività particolare. Acquisire le abilità necessarie per farlo non è da tutti e chi riesce a raggiungere il traguardo che si è proposto, lo fà sempre a costo di sacrifici e d’impegno. L’allievo, in queste circostanze, molto spesso, si identifica nel suo istruttore. Andando oltre, si potrebbe anche dire che si determina una sorta di transfert; è facile che il proprio istruttore diventi un idolo per l’allievo in formazione. Di rimando, l’istruttore potrebbe essere coinvolto dall’atteggiamento dei propri allievi, compiacendosi per questo stato di cose. Sentirsi, erroneamente, importante. Guido aveva preso coscienza da tempo di queste dinamiche psicologiche e se n’era messo al riparo. Quando lo capì, ricordava, ne fu molto gratificato poiché si rese conto che aveva aggiunto un frammento di maturità al suo bagaglio esistenziale. Gli allievi di Guido gli volevano bene e si erano affezionati a lui. Chi più e chi meno s’intende, ma a nessuno era indifferente. Lasciarli gli dispiaceva. Sapeva che avrebbero dovuto adattarsi ad un’altra persona, a metodi d’insegnamento diversi e che, come tutti i cambiamenti, avrebbe comportato il dover superare delle difficoltà. Ma il diventare un pilota implicava, anche, il superamento di questo tipo di ostacoli. Guido controllò gli strumenti. Gli indicatori avevano raggiunto gli archi verdi. Non gli rimaneva che dare inizio alle comunicazioni radio. Prontamente accese la radio. <<Rimini torre da I – VCSM, buon giorno.” Dopo pochi istanti, in cuffia, senti gracchiare la risposta. <<I – VCSM avanti.>>

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<<Rimini torre da “I -VCSM per il rullaggio al punto attesa 16.>> <<A discrezione I – VCSM.>> Guido rispose: <<A discrezione.>> e cominciò a dare potenza al motore. L’aeroplano vibrò leggermente per poi muoversi lentamente verso il punto attesa. Giuntovi, azionò il freno di parcheggio ed iniziò ad eseguire tutti i controlli che precedono il decollo. Quando li ebbe terminati, chiamò il controllore del traffico. <<Rimini torre I – VCSM per allineamento e decollo immediato sulla 16 con allontanamento diretto.>> <<A discrezione I – VCSM.>> <<A discrezione.>> Rispose Guido condusse il suo aeroplano sulla pista e lo allineò, poi dette tutto motore. L’aereo ebbe un sussulto e iniziò ad accelerare; quando raggiunse la velocità di rotazione, Guido avvicinò a se la barra di comando. Lo fece con decisione, ma dolcemente, assecondando le sensazioni che l’aereo gli stava trasmettendo. Fu in quel momento che l’aereo si staccò da terra trasformandosi, da macchina terrestre, in macchina volante. Guido era concentrato a mantenere costante la velocità di salita. Prima d’iniziare il decollo, aveva individuato un casolare davanti a sé, lontano, lungo l’asse pista ed ora era impegnato a tenere la prua su di esso. Cinquecento piedi, retrarre i flaps, ridurre la potenza del motore. Mille piedi, escludere la pompa elettrica. Ora, poteva livellare l’aereo ed impostare la potenza per la crociera.

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Il motore girava regolarmente comunicandogli, con un borbottio rassicurante, che tutto era a posto. Gli indicatori degli strumenti di bordo erano posizionati correttamente. Guido decise che era giunto il momento di impostare la rotta. Doveva raggiungere Aiaccio, in Corsica. Lì, avrebbe fatto la prima tappa del suo lungo viaggio. Aveva calcolato che avrebbe impiegato circa due ore. Fece compiere all’aeroplano una dolce virata a sinistra e si mise in rotta per 210 gradi. Mantenendo quella direzione, sarebbe giunto nei pressi di Piombino. Prima di attraversare il mare per giungere in Corsica aveva deciso di costeggiare l’isola D’Elba. In quel modo avrebbe avuto un buon riferimento, limitando, inoltre, al massimo il sorvolo del mare aperto. Giunto a Piombino, avrebbe diretto il suo aeroplano sulla nuova rotta, 270 gradi, ed infine, arrivando sulla costa orientale della Corsica, in località Bastia, avrebbe virato per 195 gradi. In quel momento stava sorvolando le colline che precedono la dorsale appenninica. Il paesaggio si presentava, ai suoi occhi, molto bello e suggestivo. Il sole basso sull’orizzonte si trovava alle sue spalle. La luce calda del primo mattino colorava il luoghi sottostanti con una dominante color ocra ed i raggi radenti del sole, formando lunghe ombre sul terreno, amplificavano le irregolarità del suolo e nello stesso tempo ne aumentavano la plasticità, come fanno le mani esperte dello scultore che modellano la creta. L’alba ed il tramonto producevano, nell’animo di Guido, una sorta di struggente languore. Sempre, si sentiva inebriato da quelle sensazioni. Il piacere, trasmessogli dalla vista del paesaggio, si coniugava con quello derivante dal ricordo di brani musicali

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che aveva ascoltato stando comodamente seduto sulla sua poltrona preferita, in salotto. Quella mattina gli piacque accostare al paesaggio che stava sorvolando l’adagio di Albinoni. Quella musica lo rapiva tutte le volte che l’ascoltava. Lui si identificava con l’inquietudine che il compositore aveva voluto comunicare con quelle note. Nel frattempo, il terreno sotto di lui, stava crescendo. Doveva salire. Impostò l’assetto per la salita, decidendo di farlo lentamente. In quel modo non avrebbe corso il rischio di surriscaldare il motore; infatti, la dorsale dell’Appennino Toscoemiliano era sufficientemente distante e poteva permetterselo. Decise di raggiungere i seimila piedi; adeguati al superamento in sicurezza delle creste. Guido, quando l’aeroplano stava salendo, assorbiva le vibrazioni che il motore, sotto sforzo, produceva. Un leggero disagio s’impadroniva della sua mente. Lui si rapportava al suo aereo, come se questo fosse una creatura vivente. Era a disagio pensando che il motore stava forzando. L’ impazienza di raggiungere i seimila piedi, lo prese, come sempre. Cercò di distrarsi guardando il blu del cielo che aumentava di saturazione con la quota. Mentre saliva, vedendo i particolari del paesaggio sottostante rimpicciolire sempre di più, aumentava in lui il distacco mentale dalle cose, dai legami e, parimenti, la percezione di essere libero. Una sbirciatina all’altimetro gli permise di sapere che stava raggiungendo i seimila piedi. Ancora pochi istanti ed avrebbe livellato. Quando li raggiunse, portò la barra in avanti. L’aereo, prontamente, aumentò la velocità fino a toccare quella di crociera. A quel punto, ridusse motore e trimmò l’aereo. Era nuovamente in volo livellato.

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Davanti a sé vedeva la dorsale appenninica. L’avrebbe superata di li a poco. L’atmosfera in cui volava era calma, la visibilità ottima; si sentiva in pace con tutti e con tutto.

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2 Lascia che le distrazioni si sciolgano come nuvole Che scompaiono in cielo. Milarepa

Nello stesso momento in cui Guido stava sorvolando gli Appennini, Katia, terminato il suo turno di lavoro notturno, usciva dal negozio in cui lavorava. La luce del mattino, sebbene non ancora intensa a quell’ora, la investì violentemente, disturbando i suoi occhi chiari, color dello smeraldo. Stanca ed assonnata, estrasse dalla borsa un paio d’occhiali da sole che indossò per proteggersi dal riverbero, aggiustandoseli sul viso con fare annoiato. Durante il periodo estivo preferiva rientrare a casa camminando per le strade semideserte del suo paese. Le piaceva camminare e nel farlo, in parte, si liberava della stanchezza che aveva accumulato durante la notte di lavoro. Case e palazzi, di primo mattino, impedivano ai raggi del sole di surriscaldare le strade. Lei gradiva assaporare il silenzio ovattato di quelle ore, osservare le persone che, ancora non del tutto sveglie, stavano andando al lavoro. Fantasticava sulle vite di quegli sconosciuti e nel farlo pensava di appartenere ad un continuo, ad un disegno imperscrutabile, perdendosi, piacevolmente, in quella riflessione. Katia abitava, con i genitori, in un quartiere popolare. L’appartamento in cui viveva si trovava al terzo ed ultimo

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piano di un caseggiato anonimo, circondato da altri simili al suo. Tutte le volte che rientrava, malediva il fatto che non ci fosse, nel suo edificio, l’ascensore. A lei, di fare tre rampe di scale, proprio non andava giù. Anche quella mattina, arrivata di fronte casa, pensò ai gradini che doveva salire. Si fece forza ed entrò. Sbuffando, salì fino al terzo piano. Tolse le chiavi di casa dalla borsa e con gesti automatici aprì la porta ed entrò. <<Ciao mamma.>> <<Ciao Katia, tutto bene?>> << Si, tutto bene.>> <<Stanca?>> <<Come al solito.>> Guardandosi intorno e non vedendo suo padre, chiese: << il babbo?>> <<Il babbo sta ancora dormendo; non fare rumore.>> Katia andò sul terrazzo, al quale si accedeva dalla porta finestra della cucina e si sedette al tavolo che, nei mesi estivi, era utilizzato per cenare all’aperto. Voleva rilassarsi un poco. Un sibilo, alto nel cielo, la indusse a sollevare il capo. Vide un aereo argenteo che si stagliava, lontano, nel blu. Sicuramente stava trasportando, prevalentemente, vacanzieri. Pensò, con il viso ancora rivolto all’insù, chissà dove saranno diretti quegli sconosciuti. Il desiderio di partire, di chiudere con il lavoro ed evadere dai ritmi quotidiani era molto forte in lei. <<Mamma, cosa ne pensi, se mi prendessi una parentesi dal lavoro?>> <<Ma cosa stai dicendo? Che razza di idee hai questa mattina?>>

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Katia lasciò cadere il discorso e tacque. Quando non si sentiva capita, si chiudeva a riccio. Il sibilo, che per un momento l’aveva indotta a fantasticare, era svanito, portando con sé i sogni di Katia. Reclinando il capo sul petto, diresse la mano destra sui capelli ricci. Li accarezzò ed aggiustò il ciuffo che scendeva sulla fronte. Mentre copriva, con i suoi capelli biondi, la tempia destra, ricordò il terribile incidente stradale che, anni prima, aveva avuto. Ne era uscita gravemente ferita e una brutta cicatrice le era rimasta sulla fronte. Da allora aveva il vezzo di coprirla con i capelli. Con quel gesto desiderava evitare che altri vedessero quel segno. Se ne rendeva conto, ma non poteva e non voleva impedirselo. Guardò l’orologio e concluse che era venuto il momento di coricarsi. Comunque, al suo risveglio avrebbe ripensato all’intenzione di prendersi un periodo di pausa. Quel proponimento lo stava coltivando da tempo. Facendo attenzione a non fare rumore, entrò in camera sua. Abbassò completamente l’avvolgibile ed al buio si tolse il vestitino e l’intimo. Rimase per pochi istanti in piedi, nuda, assaporando la frescura che il suo corpo sottraeva all’ambiente, gustando il senso di libertà che quello stato le procurava. Poi, scostando le lenzuola, si sdraiò sul letto a pancia in su, senza coprirsi. Distrattamente, con entrambe le mani, sfiorò i suoi seni. Quella era la parte del corpo che prediligeva.

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Li visualizzò nel buio della stanza. Sapeva di avere un seno attraente. Considerava giuste le dimensioni; né troppo grandi né troppo piccole. Lo percepiva sodo con capezzoli prepotentemente sporgenti. Spesso, notando come i maschi la guardavano, si era resa conto di quanto a loro piacesse. Non faceva nulla per mortificarlo, anzi, ne era orgogliosa e sovente lo ostentava con civetteria tutta femminile. Le sfuggi un sospiro impercettibile. Poi, con indolenza, fece scorrere le mani lungo i fianchi, fin sulla pancia tonica e piatta, per poi accarezzare il pelo, rado e morbido, che le ricopriva il pube. Chiuse gli occhi e si addormentò immediatamente. Silvano, il fratello minore, aveva, in quel momento, la necessità di entrare nella stanza di Katia. Doveva prendere un DVD che aveva dimenticato. Stava temporeggiando. Temeva di svegliare la sorella e, conoscendone il carattere, voleva evitare una lite. Quel DVD gli occorreva, doveva renderlo ad un amico che lo attendeva, giù, nel bar di quartiere. Non poteva tergiversare oltre. Muovendosi con fare dinoccolato, si diresse verso la stanza di Katia. Poggiò la mano sulla maniglia, cercando di essere il più delicato possibile, la abbassò. La serratura produsse un cigolio acuto. Non aveva ancora aperto completamente la porta che dal buio della stanza fu investito da un urlo: <<Cretino…ancora non hai capito che non devi entrare in camera mia quando dormo?>> <<Ma…scusa, devo prendere una cosa...non posso farne a meno.>> << Deficiente, dovevi pensarci prima…>> Silvano, frettolosamente, si impossessò del DVD e chiudendo la porta dietro di sé, disse con tono mesto:

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<<Scusa.>> Dall’interno, Katia rispose: <<Scusa un cazzo.>> Sapeva che non si sarebbe più riaddormentata; era nera. Dormire, dopo una notte di lavoro, per lei, era molto importante: doveva recuperare energie! Rimase ancora un poco a letto, ma poi decise di alzarsi. Poltrire, senza poter dormire, l’avrebbe innervosita ulteriormente. Guardò l’orologio che portava al polso, appena le quattordici e ventiquattro, pensò. In soggiorno vide la madre seduta sul divano che leggeva un quotidiano. <<Ah… già in piedi?>> <<Quel cretino di Silvano mi ha svegliata.>> <<Ma su, non farne una tragedia.>> Come al solito, sua madre cercava di smorzare le controversie familiari. Lei non le rispose e con una mano cercò di aggiustarsi i capelli. <<Sai Katia, ha telefonato Carlo mentre eri a letto; voleva parlarti.>> <<Sì, sì, lo chiamerò dopo aver fatto la doccia.>> << Il babbo, piuttosto dov’è?>> <<Al bar, è uscito con Silvano.>> Da tempo la sua famiglia non le dava più nulla. Lei si sentiva estranea a quelle persone. Era arrivata, anche, a provare odio per il padre; non provando sensi di colpa per i sentimenti che nutriva nei suoi confronti. Considerava la vita del padre, pensionato da qualche anno, insulsa ed inutile. Ai suoi occhi, quell’uomo era una persona del tutto banale.

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I genitori non si amavano più da tempo. Sua madre, per il quieto vivere, da anni sopportava il marito. Lo faceva anche per i figli. Ma delle ragioni della madre, non le importavano nulla. Se si fosse potuta sostituire a lei, avrebbe mandato a quel paese il marito da tempo; quel dittatore sterile ed egoista. <<Mamma vado a fare la doccia.>> <<Va bene, fai con comodo, ma pulisci quando avrai finito.>> <<Non preoccuparti.>> La madre aveva la mania dell’ordine e della pulizia! Mentre l’acqua, che fuoriusciva dal diffusore bagnandola, la inondava di benessere, si rese conto che, in quei giorni, era feconda. Katia, infagottata nel suo accappatoio bianco, indossando un paio di ciabattine di plastica gialla, uscì dal bagno. Un asciugamano, avvolto sul capo a guisa di turbante, le nascondeva i capelli. Aveva fame. Decise di fare merenda prima di prepararsi, per poi uscire. Fu in quel momento che si ricordò della telefonata di Carlo. Lo avrebbe chiamato dopo essersi rivestita. Aveva, comunque, deciso che sarebbe uscita con lui, se glielo avesse chiesto. Mentre stava consumando la merenda, con indolenza e molto lentamente, sentì la voce della madre che le diceva: <<Katia, ricordati di telefonare a Carlo.>> << Ma sì, di cosa ti preoccupi.>> << Lo farò.>> Maria, la madre di Katia, era preoccupata che la figlia, non più giovanissima, non avesse ancora una relazione seria. E poi i vicini, cosa avrebbero potuto pensare?

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Ma…non riusciva a capirla e non le era possibile parlare di questi argomenti con lei. Quando aveva provato, Katia si era chiusa in un silenzio impenetrabile. Riflettendo sulla propria famiglia, si intristiva. Il marito, introverso ed affettivamente immaturo, non era stato capace di manifestare amore né a lei né ai figli. Contrariamente né aveva preteso molto. Lei non era mai riuscita ad imporsi, rimanendo invischiata nello strapotere egoistico di Renato. Il dialogo, poi, si era ridotto a monosillabi e mugugni. Lui usava come tattica il silenzio, quando si rendeva conto che non aveva argomenti per difendersi. Mai una volta aveva ammesso le sue responsabilità. Tantomeno aveva pensato di porvi rimedio. I suoi figli, in modo particolare Katia, avevano sofferto della situazione familiare e della privazione subita. Vittime, erano diventati anch’essi delle persone incapaci di esprimere affettività in modo compiuto e, inconsapevolmente, stavano ricalcando le orme del padre. Mentre Maria era assorta nei suoi pensieri, Katia, terminata la merenda, dopo essersi asciugata i capelli, pensò che era giunto il momento di telefonare a Carlo. Estrasse il microtelefono del cordles dalla base ed andò in camera sua. Chiuse la porta dietro di sé, si stese sul letto e digitò il numero di Carlo che conosceva a memoria. Attese qualche tuu…, tuu…, poi senti la sua voce che diceva: <<Si? Chi parla?>> <<Ciao Carlo, sono Katia.>> <<Ah, ciao.>> <<Mamma mi ha detto che mi avevi cercata.>> << Si, tutto bene? Come ti va?>> Pensò: i soliti convenevoli; che banale!

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<<Bene, grazie. Ti sento bene.>> Conoscendola a sufficienza, Carlo tagliò corto e rispondendole, disse: <<Avevo pensato di proporti di uscire, per poi andare a cena. Cosa ne pensi?>> Katia, con malizioso calcolo, lasciò passare alcuni secondi, prima di rispondere. <<Ma fammi pensare un attimo…>> << Ti ringrazio, va bene, accetto.>> Decisero, di comune accordo, che si sarebbero incontrati alle diciannove e trenta nel bar che si trovava nella piazza principale del paese. Katia rimase, ancora un poco, distesa sul letto cercando di immaginare come si sarebbe svolta la serata, ma poi si disse: <<sarà come sarà.>> Non aveva grandi aspettative, lei! Su, su, si spronò con un: <<vai a farti bella.>> Prima di rientrare in bagno, ripose il cordles nel suo alloggiamento. Ora doveva pensare al trucco. A lei non piaceva ricorrere a trucchi pesanti. Non lo riteneva adatto al suo viso ed alla sua corporatura; inoltre, non le interessava essere troppo appariscente. Si limitò ad applicare sul viso, del fondotinta leggero, per attenuare il pallore della sua carnagione. Sulle palpebre, con un pennello, mise un poco di ombretto, e dipinse le labbra con rossetto, rosa carico. Infine usò del rimmel per evidenziare le ciglia. Rimirandosi allo specchio, sorrise approvando il lavoro che aveva fatto. Si piaceva!

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Spostando l’attenzione ai capelli, li pettinò e li aggiustò con le mani. Non doveva farci altro; erano ricci naturali e non avevano bisogno di attenzioni particolari. In camera sua, di fronte all’armadio aperto, stava osservando i vestiti che vi erano ordinatamente appesi. Era molto indecisa su quale indossare! Ne provò parecchi, ma non si piaceva con nessuno. Finalmente, dopo molti tentativi, ne scelse uno decisamente semplice. Due spalline filiformi sostenevano un tubino di cotone leggero, color turchese. La scollatura era ampia e la parte che ricopriva il seno, ne valorizzava le curve. Decise di indossare un perizoma dello stesso colore, in quel modo avrebbe impedito che si vedesse da sopra il vestito. Rinunciò ad indossare il reggiseno. I suoi seni non né avevano bisogno; essendo sufficientemente tonici. Calzò un paio di sandali bianchi con tacchi molto alti. Lo fece per snellire le gambe e per apparire provocante. Con i tacchi alti si sentiva a proprio agio accanto a Carlo. Lui era alto e lei di statura medio bassa. Katia chiuse le ante dell’armadio e si guardò allo specchio che si trovava applicato su una di queste. Lo fece girandosi e rigirandosi, inarcando la schiena e ruotando il capo per meglio osservarsi. Al termine dei contorcimenti fu soddisfatta di come si era vestita. Non contenta, andò dalla madre per ricevere conferma e gratificazione. Maria, quando la vide, esclamò, portandosi una mano alla bocca: <<Come sei carina!>> <<Ti sei vestita veramente con gusto.>>

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Katia si sentì rassicurata da quelle parole che la resero felice come una bambina nel momento in cui riceve un complimento, per poi pavoneggiarsi un poco. Di lì a poco, la sua amica del cuore, Angela, la chiamò al telefono. <<Ciao Katia, ti va di venire da me?>> << Ok, arrivo.>> Le due ragazze si incontravano spesso. A loro piaceva vedersi anche senza uno scopo. Magari, per fare delle chiacchiere e fumare una sigaretta, in compagnia. Uscendo da casa, Katia salutò la madre e le disse di non attenderla per cena. Sarebbe rientrata tardi. Katia arrivò a casa di Angela in pochi minuti. Durante il percorso notò che i ragazzi, nei quali s’imbatteva, le rivolgevano occhiate voluttuose. Lei finse di non accorgersene ed aumentò, in modo provocante, l’ancheggiare; contemporaneamente si sentì lusingata dai loro sguardi. Civetta, si disse! Angela rispose immediatamente, quando l’amica suonò il campanello di casa. <<Sei tu?>> <<Sì.>> La stava attendendo sulla porta. <<Dai, entra.>> <<Prendi un caffè?>> <<Sì, grazie.>> Katia la seguì in cucina rimanendo con l’amica durante la preparazione della bevanda. <<Novità?>> <<Questa sera ceno con Carlo.>> <<Sei fortunata ad avere un ragazzo come Carlo.>> << Su, non esagerare, è uno dei tanti.>>

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<< Ma…ti sei rincretinita?>> Katia sapeva che, su questi argomenti, Angela non l’avrebbe mai capita. Al solito, non rispose. Quando il caffè fu pronto, andarono in soggiorno per berlo lì. Chiacchierarono di frivolezze. Ad un certo punto, Katia ebbe la tentazione di comunicarle le sue intenzioni circa il lavoro, ma poi cambiò idea. Eventualmente né avrebbe parlato a cose fatte. C’era tempo per farlo. In quel momento stava assecondando l’inclinazione che la condizionava a rimandare le confidenze. Si stava approssimando l’ora dell’incontro con Carlo. Angela lo ricordò all’amica. <<Sì, hai ragione. Devo andare.>> Angela, sebbene la conoscesse da molto tempo, non finiva mai di stupirsi dei comportamenti di Katia. Come si sentiva diversa da lei! Quando arrivò al bar convenuto, Carlo era lì che la stava aspettando. In mano stringeva un piccolo mazzo di fiori. Boccioli di rose. Con un inchino impercettibile glielo porse e la baciò sulla guancia, posando le mani sulle sue spalle. Il contatto con la pelle calda e vellutata di lei, non lo lasciò indifferente. Katia lo percepì e ne fu compiaciuta, pur non facendo nulla per manifestarlo. <<Grazie Carlo.>> <<Ma ti pare…è un piacere per me.>> << Non dovevi disturbarti…sono bellissime.>> << Sediamoci. Gradisci un aperitivo?>> <<Sì, Grazie.>> Al cameriere ordinarono un analcolico della casa per lei, mentre Carlo ne preferì uno alcolico. <<Katia, cosa mi racconti di bello?>>

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<<Solita vita da reclusa.>> <<Non lamentiamoci…>> Lentamente, fra una chiacchiera e l’altra, sorseggiando l’aperitivo, lo terminarono. Ad un certo punto, Carlo le chiese se fosse d’accordo di andare al ristorante dove aveva prenotato un tavolo. Katia fu sollevata da quella proposta. Si era stancata di rimanere in quel locale e le stava venendo fame. Durante il percorso che li separava dal luogo dove Carlo aveva parcheggiato l’auto, lui avvicinò la sua mano a quella di Katia, sfiorandola. Lei non si sorprese del gesto e non fece nulla per manifestare disappunto. Carlo le prese la mano ed intrecciò le sue dita con quelle di lei. L’immagine che stavano dando, a chi li avesse osservati, era di due innamorati. Quando arrivarono all’auto, le lasciò la mano e aprì la portiera per permetterle di salire. Lei si sentì lusingata da quel gesto, serbandogli riconoscenza e sentendosi un poco in colpa a causa della sua incapacità di essere sufficientemente espansiva. Si limitò ad un grazie. <<Dove mi stai portando?>> << Sorpresa…>> Carlo aveva prenotato un tavolo in un ristorante di sua conoscenza con l’intenzione di fare bella figura. A cena, era andato poche volte con Katia e sempre aveva fatto attenzione ai dettagli. Lo faceva per sé e per la sua ospite; sentendosi importante quando era apprezzato. Il ristorante non si trovava molto lontano dal centro. Era stato costruito a ridosso del fiume che attraversava il paese, in posizione leggermente sopraelevata. I tavoli erano collocati all’aperto, su una piattaforma naturale, a sbalzo sul fiume, coperti da una grande tenda bianca a forma di vela. Nei mesi estivi, la vicinanza all’acqua mitigava la calura e rendeva molto piacevoli le serate.

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All’interno, la coreografia dell’ambiente era stata curata nei minimi particolari. La disposizione dei tavoli era tale da assicurare intimità agli occupanti. L’illuminazione, infine, sapientemente disposta, dava il tocco finale, accentuando l’armonia del locale e il senso di riservatezza. Carlo aprì la porta del ristorante, cedendo il passo a Katia. <<Prego, dopo di te.>> Lei entrò senza esitare, ma appena varcata la soglia si fermò, sorpresa dall’armonia che quel luogo comunicava. <<Mi hai veramente sorpresa.>> Disse, entusiasta. <<E’ un gran bel locale…>> Carlo, soddisfatto, le rispose, ostentando indifferenza. Fra le righe voleva dirle che era nel suo stile agire in quel modo. <<Sono felice che ti piaccia.>> Il Caposala li condusse al tavolo, consegnando loro il menù. Carlo aveva chiesto che gli fosse riservato un angolino prospiciente al fiume, dal quale poter godere della vista del corso d’acqua sottostante. Poté costatare, con soddisfazione, che gli avevano assegnato la posizione che desiderava. Durante la cena parlarono di molti argomenti. I viaggi la fecero da padroni. Entrambi né erano molto attratti. Carlo amava la componente avventurosa che soleva ritagliarsi su misura. Katia, l’evasione dalla vita di tutti i giorni. L’avventura a lei interessava poco; potendo, la evitava. Carlo, quando gli parve essere il momento giusto, deviò la conversazione sulla loro vita, sul loro stare insieme. Protendendo la mano verso quella di Katia, gliela strinse e, a bassa voce, guardandola negli occhi, le chiese: <<Cosa vogliamo fare del nostro stare insieme?>> Senza attendere una risposta, aggiunse:

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<<Ho il desiderio di fare progetti seri, con te.>> Continuando a fissarla, non aggiunse altro. I battiti del suo cuore accelerarono. Lui cercò di nasconderle l’emozione che stava provando, riuscendoci. Katia non fu sorpresa dalle parole di Carlo. Da tempo aveva capito che, prima o poi, avrebbe affrontato l’argomento. Abbassando lo sguardo, ritrasse la mano da quella di Carlo. Fu un gesto istintivo, privo di premeditazione. Lui non fece nulla per opporvisi, ma si sentì ferito dal comportamento di Katia. Vigliaccamente, nascondendosi dietro ad una risposta evasiva gli disse: << Mi sembra prematuro parlarne ora…vedremo.>> Poi tacque. Carlo fu amareggiato da quelle poche parole, ma rimase in silenzio, continuando a fissarla. Aveva fatto progetti per entrambi, riponendovi grandi aspettative. Lui credeva fermamente nella loro storia. Aveva, e stava investendo tante energie in quel rapporto. Katia, rendendosi conto che la conversazione aveva raggiunto un punto morto, difficilmente superabile, disse a Carlo: <<Cosa ne pensi se chiedessimo il conto?>> Carlo, anche lui, imbarazzato da come stavano andando le cose, rispose prontamente: <<D’accordo; ora lo chiedo.>> Usciti dal ristorante, lui le prese nuovamente la mano, lei lasciò fare; cercava di mitigare il senso di colpa che provava. Passeggiarono tranquillamente, sull’argine del fiume illuminato dal tenue chiarore della luna, mano nella mano, continuando a parlare di argomenti futili. La sera era fresca.

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Senza motivarlo, Carlo si fermò, si pose di fronte a lei e con la mano libera le accarezzò il capo, poi la baciò sulle labbra. Katia, nuovamente, lasciò fare. Lui non lo sapeva, ma lei attendeva che lo facesse. Carlo, baciandola, aveva percepito il desiderio di lei e ne fu irretito. Rimasero un poco in silenzio guardandosi negli occhi, poi lui le disse: <<Cosa ne pensi se terminassimo la serata da me?>> <<Sì, d’accordo.>> In silenzio si diressero nel luogo dove Carlo aveva parcheggiato l’auto. Katia con un braccio gli cinse la vita mentre lui appoggiò il proprio sulle spalle. Durante il percorso che fecero per raggiungere la sua abitazione, scambiarono poche parole. Entrambi erano un poco tesi. Sapevano cosa sarebbe accaduto. Scesi dall’auto, entrarono in casa. I loro movimenti erano leggermente impacciati, legnosi. Carlo fece strada ed in salotto invitò Katia a sedersi. Lei lo fece, sistemandosi, con disinvoltura, sul fianco sinistro del divano; le gambe accavallate e le braccia incrociate sul petto. Assumendo quella posizione, il vestito lasciò scoperte gran parte delle cosce bianche ed affusolate. <<Cosa posso offrirti?>> <<Nulla, sono a posto così…>> Carlo si sedette accanto a lei ponendole, nuovamente, il braccio sinistro sulle spalle. Lei non si scompose e di rimando gli sorrise. Attendeva che lui prendesse l’iniziativa! Fu come se glielo avesse manifestato esplicitamente; senza indugiare, dopo averla guardata negli occhi, chiudendo i suoi, la baciò a lungo.

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Katia, mentre riceveva quel bacio, distese le gambe allargandole leggermente, mentre, con una mano, gli accarezzò il torace. Carlo, incoraggiato da quei segnali di gradimento le sfiorò il seno. Lo avvertì, sotto la stoffa del vestitino, turgido, con i capezzoli eretti. Poi, si allontanò un poco da lei e sussurrando, le chiese: <<Andiamo in camera?>> Lei, senza pronunciare parola, annuì con il capo. In camera, si distese sul letto, mentre lui la osservava in silenzio. Assunse una posizione supina, con le braccia allungate sopra il capo, come due parentesi tonde con al centro la sua voluminosa massa di capelli. Lo guardò sorridendo. Lui era titubante, raramente avevano fatto all’amore, ma in quel momento gli stava comunicando segnali inequivocabili. Lei attendeva, impaziente, che Carlo rispondesse al linguaggio silenzioso del suo corpo. Lui le sedette accanto, toccandole i seni. Rispondendo alle sue carezze, chiuse gli occhi emettendo un lieve sospiro che le fece sollevare il petto. Un leggero rossore le aveva colorato il viso ed il collo. Carlo, senza indugiare oltre, le sollevò il vestito scoprendole il seno bianco. I capezzoli duri ed eretti, polarizzarono la sua attenzione. Si fermò un attimo guardandola, poi le sfilò completamente il vestito. Lei gli agevolò la cosa con movimenti misurati delle spalle per poi abbracciarlo. E quando le sfilò il perizoma, lo aiutò, inarcando le reni. Katia sentiva il bisogno di darsi incondizionatamente, di far tacere la parte razionale della sua mente. Da troppo tempo le aveva permesso di avere il sopravvento sulla componente istintiva della sua psiche.

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Carlo, telepaticamente, fece sue le emozioni di Katia e senza nessuna premeditazione le strinse fra il pollice e l’indice un capezzolo. D’istinto, rovesciando il capo all’indietro, Katia emise un rantolo che esprimeva dolore e piacere. Due sensazioni, per lei, indissolubili. Spronato da quella reazione, aumentò la stretta. Lei inarcò la schiena emettendo un lungo e liberatorio verso gutturale che esprimeva approvazione. Katia stava gratificando il masochismo che da sempre albergava nei meandri della sua mente. Da tanto tempo ne aveva preso coscienza, ma raramente gli dava l’opportunità di esprimersi. Il modo freddo e distaccato di relazionarsi con il compagno, era, per lei, una difesa nei confronti della sua inclinazione segreta. Sapeva di indossare una corazza, ma qualche volta, togliendosela, riusciva a mostrarsi per come era veramente. Con Carlo, quella sera, fu la prima volta. Dal momento che si erano incontrati, pur non manifestandolo, Carlo si era sentito mortificato dagli atteggiamenti di Katia. Le frasi lasciate a metà, i suoi silenzi, quel non spiegarsi, il non rispondere a tono ed il lasciare cadere nel vuoto i progetti per una vita di coppia, spesso gli avevano creato disagio, disorientamento e sofferenza. Ora, con l’approvazione incalzante di lei, aveva la possibilità di rivalersi. Poteva liberare tutta l’aggressività che aveva controllato e rimosso fino a quel momento. Fu così che continuò a possederla con una forza ed una determinazione a lui sconosciute fino a quel momento. Carlo, uscendo dal bagno, la trovò ancora sdraiata nel letto, a pancia in giù, in uno stato di abbandono totale.La sua pelle, bagnata da un sottile strato di sudore, riluceva nella

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luce diffusa della camera ed i suoi bei capelli le si erano, disordinatamente, appiccicati sulle spalle. Katia sembrava non avvertire la sua presenza, continuava a giacere, immobile, con un braccio allungato sul cuscino, mentre l’altro sfiorava la bocca appena socchiusa. Carlo, fermandosi accanto al letto, la osservò, pareva una scultura, così immobile. Si sentiva orgoglioso della sua prestazione amorosa e desiderava averne conferma da Katia. Puerilmente le chiese: <<Ti è piaciuto?>> Katia non rispose; con indolenza, girò il capo dall’altra parte. Carlo ripeté la domanda: <<Ti è piaciuto?>> Con voce roca e spossata, gli rispose. <<Che domande mi fai…, sì, mi è piaciuto .>> Era quello che voleva sentirsi dire. Ora poteva pavoneggiarsi a ragione. Katia, sollecitata dalle domande di Carlo, stava riflettendo, stancamente, sul fatto che i maschi, generalmente non si rendono conto di come realmente stanno le cose. Era convinta che loro, solitamente, non avessero la consapevolezza di essere usati durante gli amplessi. Qualche gridolino o frase di approvazione erano sufficienti ad irretirli, a farli sentire dei portenti e ad illuderli di gestire la situazione. Con la convinzione, erronea, di sedurre, accecati dalla loro presunzione, sono intrappolati nella rete dorata della seduzione come i fiori che, sfoggiando i loro colori, attraggono gli insetti nella corolla, e se ne servono per essere impollinati. Concluse, pensando fra sé e sé: <<Che sempliciotti i maschi!>>

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Katia, sotto lo sguardo di Carlo, si stirò con indolenza, come una gatta dopo un lungo sonno. <<Posso fare la doccia?>> << Certamente, fai con comodo.>> Nuda, con indifferenza, andò nel bagno. Quando ebbe terminato, tornando in soggiorno, trovò Carlo che stava sfogliando distrattamente una rivista d’arredo; senza fermarsi, quasi correndo, andò in camera e si rivestì. Camminando, prima di uscire dalla stanza, con un’occhiata sfuggente si guardò allo specchio per poi raggiungerlo in soggiorno. <<Scusami, è molto tardi, devo rincasare.>> Chinandosi su di lui, gli dette un bacetto sulla guancia. Lui rispose, a quel gesto, con un sorriso. <<Sì, capisco.>> Si alzò e l’accompagnò alla porta, aprendola. Katia, girandosi, lo guardò sorridendo, poi lo salutò. <<Grazie per la bella serata. Buona notte.>> <<Buona notte anche a te. Ti chiamo…>> <<Ok.>> Si girò e senza indugiare oltre, uscì. Entrambi erano soddisfatti di come si era svolta la serata, ma per motivi molto diversi. In strada, interrompendo il suo camminare veloce, Katia sollevò il capo e guardò il cielo stellato. Inspirò a lungo l’aria frizzante della notte, riempiendo i polmoni ed assaporando le fragranze trasportate dalla brezza notturna. L’aria tersa, in quella tarda ora, le permetteva di ammirare un grande numero di stelle. Per lei era un’emozione che si rinnovava tutte le volte che alzava lo sguardo al cielo per osservare quello spettacolo.

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Nel farlo, percepiva il suo essere un infinitesimo, rapportato all’immensità dell’universo. Si sentì paga ed in armonia con il tutto, pur non avendo coscienza di ciò che lei amava chiamare così. Le era sufficiente assaporare l’intuizione! Riprendendo a camminare, senza darsene una ragione, le balenò nella mente un ricordo. Era estate e lei si trovava in vacanza sulla riviera romagnola, a Rimini. Fra una nuotata e l’altra, spesso andava a fare quattro chiacchiere sotto la tettoia del bar con la compagnia dei ragazzi, conosciuti durante il soggiorno. Ricordava, ancora, il nome di quella struttura: Bagno Sole. Pensò: << Che fantasia!>> Del tutto casualmente, quel pomeriggio, la sua attenzione fu attratta da una locandina appesa sulla vetrata del bar. Vi erano pubblicizzati dei voli turistici ed erano promesse forti emozioni. Il costo era ragionevole. Realizzò che si poteva fare, se non altro per interrompere il tran tran quotidiano. Lei era sempre stata attratta dal volo, pur non avendo mai avuto l’occasione di praticarlo. Il giorno seguente salì sulla corriera che l’avrebbe portata nei pressi dell’aeroclub pubblicizzato nella locandina. Fu così che si trovò, dopo circa mezz’ora, all’interno dell’aeroporto. All’ombra di un edificio vide un gruppo di persone che stavano chiacchierando tranquillamente. Si avvicinò timidamente a loro, per chiedere delucidazioni circa i voli turistici, di cui aveva letto il giorno precedente. Le indicarono una persona. L’istruttore pilota del club. Lui le avrebbe fornito tutte le informazioni del caso.

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Era poco distante da lei, accanto ad un aeroplano, sembrava armeggiare, con calma, con degli attrezzi a lei sconosciuti. Katia si diresse verso quel signore. Era una persona alta, distinta, che ispirava sicurezza. Con una sola occhiata registrò le fattezze di quell’uomo. Moro, occhi scuri, carnagione olivastra, longilineo, mani con lunghe dita: si muoveva in modo dinoccolato. A lei piacque subito. Raggiuntolo, si presentò e nel farlo gli tese la mano. Di rimando, lui gliela strinse, trasmettendole forza e vigore. Quasi le fece male. Piacere, Guido. La sua voce era calda e profonda. Per un attimo, lui le trattenne la mano. Alla sua intenzione di fare un volo, Guido si mostrò immediatamente entusiasta, ma prima di farla salire sull’aeroplano, le fornì alcune informazioni sul come comportarsi a bordo. Insistette molto sul fatto che gli aeroplani sono macchine delicate e che bisogna rispettarle. Lei non capì l’intimo significato di quelle parole! Il volo si protrasse per circa una trentina di minuti. Guido pilotava con sicurezza e prima di eseguire qualche manovra le descriveva con gentilezza, quello che avrebbe fatto. La portò a sorvolare le colline, spiegandole, durante il volo, cosa stavano vedendo sotto di loro. Lei ammirò il paesaggio che, dall’alto, poteva essere osservato da una prospettiva totalmente diversa dal solito. In particolare, fu piacevolmente sorpresa dal numero di rocche e castelli che impreziosivano i paesi dell’entroterra. Poi, come tutte le cose belle, quel volo finì troppo presto. Ad un certo punto, si rese conto che Guido stava conducendo l’aereo all’atterraggio. Ascoltò, in religioso silenzio, le frasi che il pilota scambiava con il controllore del traffico ed attese che l’aereo toccasse terra. Il contatto delle ruote fu

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lieve, dissipando la leggera apprensione che Katia aveva avvertito durante la fase di atterraggio. Quando furono nuovamente a terra, sorridendole, Guido le chiese: <<Cosa ne pensi di questo battesimo?>> <<Mi è piaciuto tantissimo.>> << Sei fortunato a fare questo lavoro.>> Lui le sorrise, ma non fece commenti. Lei non poteva sapere cosa comportasse volare! <<Festeggiamo il tuo primo volo? >> <<Volentieri.>> Guido la condusse al bar del club, dove consumarono una bibita. Katia si era sentita attratta da Guido fin dal primo momento ed ora che era lì con lui, conversando amabilmente, avvertiva di trovarsi in compagnia di una persona particolare. Senza ragionarci sopra, d’impulso, arrossendo un poco, con lo sguardo rivolto altrove, ma con la voce ferma e suadente, gli disse: <<Potremmo continuare la conversazione dopo cena. Magari in un bar della riviera.>> Guido, senza scomporsi, educatamente, sorridendo le rispose: <<Mi lusinghi, ma non è il caso.>> << Che fesso! >> Pensò. Si salutarono con una stretta di mano vigorosa. Lui riprese il lavoro. Lei ritornò all’albergo, sulla riviera. Non si rividero più, sebbene lei fosse tornata in quei luoghi altre volte.

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Katia camminando, aveva indugiato su quei ricordi, assaporando le sensazioni sgorgate dalle immagini che la sua memoria le aveva restituito. Fu come se avesse rivisitato una vecchia proiezione, cogliendone aspetti ed emozioni sopite nel tempo, ma con nuove implicazioni, elaborate a sua insaputa, in qualche recesso della sua mente. Con la stessa repentinità con cui quelle associazioni si erano materializzate, così si dileguarono. Katia, quasi con sorpresa, si rese conto di essere arrivata nei pressi di casa. Rapita dai ricordi, aveva perso la percezione dello scorrere del tempo. Tornando alla realtà, mise a fuoco due problematiche; quella del lavoro e la relazione con Carlo. Entrambe, riguardavano la sua vita, ma lei non sapeva ancora cosa volesse farne, della sua vita. Da sempre era il suo cruccio. Fino a quel momento aveva vissuto alla giornata, alternando momenti di serenità a momenti di insoddisfazione. Salendo le scale di casa, realizzò che non era il momento giusto per porsi tali problematiche; troppo tardi, troppo stanca. Decise che lo avrebbe fatto l’indomani, con la mente fresca, con calma e ponderazione. Guido, in quelle ore, dopo aver hangarato l’aereo nell’aeroporto nei pressi di Ajaccio, si trovava in albergo. Aveva scelto, per il suo breve soggiorno, un hotel a tre stelle che si trovava sul golfo, molto vicino al mare. A lui non piaceva concedersi eccessive comodità, sarebbe stato sufficiente che la struttura fosse dignitosa e che offrisse un buon servizio ristorante. La stanza che gli era stata assegnata era spaziosa, luminosa e ciò che a lui interessava maggiormente, fresca e ben areata.

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Un terrazzo, di dimensioni discrete, gli avrebbe permesso di godere della vista mare, standosene comodamente seduto sulla sedia sdraio di cui era corredato. Mentre Katia rincasava, Guido, nel terrazzo della sua camera d’albergo, rilassato, osservava il mare, allungato sullo sdraio, con le mani incrociate dietro la nuca. La sua mente era sgombra da pensieri, lo sguardo perso nell’infinito. Improvvisamente, senza nessun motivo palese, una immagine si materializzò nella sua mente. Era una ragazza dalla carnagione molto chiara, di media statura, magra, capelli ricci che le coprivano le spalle; si muoveva con fare volitivo e gli sorrideva. Ora ricordava. Tanti anni addietro aveva dato il battesimo dell’aria a quella turista! Sorrise. <<Ma…che strani scherzi può giocare la memoria!>> Disse, parlando a se stesso.

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3 La verità per crescita di buio Più a volarle vicino s’alza l’uomo, si va facendo la frattura fonda Giuseppe Ungaretti

La madre di Katia iniziò la giornata di primo mattino, come sempre. La famiglia aveva bisogno di lei per mettersi in moto. C’erano le colazioni da preparare, in seguito tutti i lavori domestici. Nessuno avvertiva il dovere di aiutarla. L’impostazione, da anni, era quella, perché cambiarla? Lei avrebbe voluto dare una svolta al ripetersi, monotono, della routine quotidiana, ma non aveva mai avuto la forza di imporsi. Carlo, come tutte le mattine, si recò allo studio. Stava lavorando ad un progetto impegnativo. Gli avevano commissionato la realizzazione di un intero complesso residenziale. Non poteva permettersi di trastullarsi con distrazioni. Le emozioni vissute durante la serata trascorsa con Katia, lo accompagnarono per tutto il tragitto che fece per giungere nel luogo dove lavorava. A breve, decise, avrebbe chiamato Katia. Angela, l’amica di Katia, raggiunse i genitori che conducevano un’azienda a gestione familiare. L’attendeva una giornata identica a tutte le altre, dedicata alla contabilità.

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Era un lavoro non gratificante, ma il suo senso del dovere prevaleva su tutto. Fra un calcolo e l’altro pensò cosa potesse aver combinato l’amica con Carlo, la sera precedente. Guido si svegliò che albeggiava. Voleva raggiungere il sud della Sardegna, volando sottocosta. La rotta che aveva deciso di mantenere sarebbe stata per 180°. Durante il volo avrebbe potuto ammirare le bellezze delle coste occidentali della Corsica e della Sardegna. Destinazione Cagliari. Lì, aveva deciso di trascorrere la notte. Non ripensò alla serata trascorsa sul terrazzo della sua stanza d’albergo, tanto meno a quello strano ricordo. Katia quando si svegliò era mattina inoltrata, ritemprata da un sonno profondo, senza sogni. Si crogiolò un poco nel letto, poi si alzò decisa ad affrontare e risolvere le problematiche che le stavano a cuore. La storia con Carlo ed il dilemma del lavoro. Aveva tutta la giornata per dedicarsi ai suoi problemi. Avrebbe fatto colazione per prima cosa, in seguito accudito la sua persona, infine ordinato i pensieri. Sapeva che, per realizzare i suoi propositi, avrebbe dovuto faticare, ma doveva farlo per uscire dallo stallo psicologico in cui si trovava. Per un attimo aveva pensato di consigliarsi con la madre, abbandonando l’idea all’istante. Maria aveva una mentalità e una concezione della vita troppo lontana dalla sua! <<Meglio tacere.>> Forse né avrebbe parlato con Angela. A monosillabi, imbronciata, rispose alla madre che avrebbe voluto sapere della sera precedente e, quando le chiese:

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<<Come mai sei rientrata tanto tardi?>> Si innervosì e, rispondendole con arroganza: <<Non ti devo rendere conto della mia vita.>> Le girò le spalle e tornò in camera sua, dando un giro di chiave. Seduta alla scrivania, con il capo fra le mani, era più che mai sicura di doversi allontanare dalla casa natale. Per lei, partecipare alla vita familiare, stava diventando sempre più faticoso. La permanenza in quell’appartamento era diventata una tortura. Si sentiva una carcerata in quella casa, le dinamiche affettive che vi si manifestavano, la intossicavano giorno dopo giorno, sempre di più, come se le venissero somministrate dosi di veleno, progressivamente crescenti. Decisamente aveva bisogno di evadere! Pensò, per prima cosa, di scrivere a Carlo. Prese alcuni fogli di carta dallo scaffale davanti a sé. Con la penna fra le dita si soffermò a guardarli. Per qualche minuto le parve di avere la testa vuota come quei fogli. Ma poi decise come iniziare iniziare la lettera. Il rimanente, confidava, le sarebbe venuto alla mente durante la scrittura, come l’appetito quando ci si siede a tavola senza averne. Ciao Carlo, Tu mi conosci e sai che ho molte difficoltà ad esprimermi. Ti sono grata per tutte le volte che, accorgendotene, hai sorvolato, evitando di mettermi con le spalle al muro. Non hai mai insistito facendomi domande, dimostrando di capire le mie problematiche. Tante volte avrei voluto parlarti per spiegarti come la penso a proposito della nostra storia. Sempre mi sono bloccata. Ieri sera mi è capitato nuovamente quando, prendendomi la mano, mi hai chiesto cosa volessimo fare della nostra vita;

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avrei voluto parlarti, dirti tante cose, ma non ci sono riuscita. Un nodo alla gola mi ha impedito d’aprirmi. In quei momenti mi sono sentita impotente, disarmata e, nello stesso tempo, sconcertata, irritata con me stessa non riuscendo a gestire una situazione così semplice. Ci provo ora. Tu sei una persona rispettabile, con buoni principi, psicologicamente stabile, affermato sul lavoro, proteso a formarti una famiglia. Sei quello che si definisce un buon partito! Io, Carlo, sono una persona emotivamente instabile, ad oggi non so ancora cosa voglio fare della mia esistenza, ma ho una certezza: ritengo di non essere adatta per condurre una vita di coppia tradizionale. Sicuramente mi sentirei in prigione, prigioniera della routine quotidiana. Mi rovinerei sicuramente la vita e la rovinerei al mio compagno. Forse ti chiederai come abbia potuto fare all’amore con te pur avendo queste convinzioni. La risposta è semplice: io sono fatta così. Per me farlo non è vincolante né, tanto meno, una promessa di matrimonio o di convivenza. So di farti soffrire scrivendoti queste parole, ma sono arrivata alla conclusione che è necessario farlo. Non avrebbe senso continuare nell’equivoco. Inoltre non ritengo giusto, per me, frequentarti senza esserne convinta, provando disagio e, soprattutto, sapendo che non potrei mai iniziare una vita di coppia con te. Al più, concepisco una frequentazione all’interno della quale ognuno può condurre la propria esistenza ed avere una casa propria. Tu, contrariamente, vuoi crearti una famiglia; io no. A me è sufficiente un riferimento affettivo, a prescindere… Lo so: sono egoista, ma non ci posso fare nulla.

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Le tue aspirazioni con me non potrebbero, in nessun modo, essere realizzate! Ti confido, inoltre, che non ho la vocazione alla fedeltà! Per ultimo, ti voglio dire che non sono innamorata di te. Per te provo affetto e stima, ma non amore. Quello che provo è simile ai sentimenti che ho nei confronti dei miei familiari. Caro Carlo non volermene. Meglio non vederci più. Ti chiedo di rispettare la mia decisione e di non cercarmi; renderai tutto più facile. Scusami per il dolore che ti sto procurando. Con affetto Katia Rilesse la lettera con attenzione. Non aveva riscontrato errori ed aveva scritto tutto ciò che riteneva necessario e sufficiente a spiegare… Si sentiva soddisfatta ed alleggerita da un peso. Pensò: << Se lo avessi fatto prima!>> Le dette un ultimo sguardo soppesandola, piegò accuratamente il foglio in tre parti e lo inserì nella busta. Con la lingua inumidì il bordo e, distrattamente, la chiuse. La rigirò, ancora per un poco, fra le mani e, con bella calligrafia scrisse l’indirizzo. Uscendo l’avrebbe spedita! Scesa in strada, si diresse direttamente dove sapeva che avrebbe trovato un raccoglitore per la posta. Non ebbe alcuna esitazione quando vi introdusse la lettera diretta a Carlo. Attese un attimo per sentire il rumore sordo che fece toccando il fondo del contenitore. Aveva chiuso una parentesi!

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Decisa, con passo sostenuto si diresse verso il negozio del fornaio. Vi arrivò in breve tempo. A pochi metri dall’ingresso si fermò ad osservare la vetrina dove, in bella mostra, erano esposte le specialità della produzione. Sapeva che avrebbe varcato la porta di quel negozio per l’ultima volta nelle vesti di dipendente, e desiderava sintetizzare in pochi istanti il periodo della sua vita in cui aveva svolto quella attività, cercando di condensare la somma degli stati d’animo che aveva vissuto in tanti anni di lavoro. Una sorta di malinconico stupore la prese nel costatare che, delle energie e dell’impegno profuso nello svolgere quel compito, non le rimaneva che un vago sentore del tempo trascorso; nulla più. Senza indugiare oltre, entrò. All’interno del negozio non c’erano clienti in quel momento. Dietro il bancone, come al solito, vide Giovanni che, sorpreso di vederla entrare, la salutò dicendole: <<Ciao Katia.>> <<Cosa ci fai qui, nel tuo giorno di riposo?>> <<Sono venuta a parlarti. Devo comunicarti delle cose…>> Giovanni fu sorpreso ed allarmato dalle parole di Katia. << Né avremo per molto?…. Sai, sto lavorando.>> <<…Insomma…dipende…, ma non credo.>> << Dai, vieni nel retro. Così parliamo con comodo.>> Giovanni la invitò a sedersi ad un tavolo accanto all’impastatrice. A quell’ora del mattino le macchine erano ferme, il laboratorio silenzioso, l’atmosfera quasi intima. Katia con lo sguardo abbassato non sapeva come cominciare il discorso. Aveva la consapevolezza che, licenziandosi, avrebbe creato dei problemi a Giovanni. Ancora una volta antepose la sua persona agli altri. Creandosi una giustificazione, si disse:

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<< Ed a me chi ci pensa? E’ la mia vita ad essere in gioco.>> <<Su dimmi, cosa c’è? Niente di grave, spero.>> Senza smentirsi, in modo telegrafico, a bassa voce: <<Scusami Giovanni, ma non ho più intenzione di continuare a lavorare per te.>> Incredulo e sorpreso: <<Cosa vuoi dire?>> << Voglio dire che sono venuta a licenziarmi.>> Entrambi rimasero in silenzio. Lei, con il capo abbassato, le mani impegnate a giocherellare con la piccola borsa che portava appesa alla spalla, cercava di gestire il suo imbarazzo come meglio poteva. Lui la guardava fissamente in volto, sforzandosi di smaltire l’irritazione che quelle parole gli avevano provocato. Certamente non era preparato ad una notizia del genere. Chi avrebbe sostituito Katia? Non sarebbe stato facile trovare personale esperto ed affidabile. <<Non ci vuoi ripensare?>> <<No. Lo sai che non ritorno sulle mie decisioni.>> Katia, prima di prendere una decisione definitiva, meditava a lungo, sforzandosi di individuare e considerare tutte le implicazioni possibili, per poi decidere. Ritornare sulle decisioni prese non era contemplato nel suo codice comportamentale. <<Quand’è così ti auguro tutto il bene possibile.>> Giovanni si alzò lentamente, poggiando le mani sul tavolo per aiutarsi. Katia lo imitò prontamente. Si trovarono uno di fronte all’altra, in silenzio. Il primo a prendere l’iniziativa fu Giovanni abbracciandola; lei rispose all’abbraccio con insolita partecipazione. Entrambi commossi, indugiarono in quell’atteggiamento, stringendosi fortemente.

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<<Ora vado. Auguri anche a te.>> Lui la lasciò scivolare via dalle sue braccia, incredulo che dovesse finire in quel modo un rapporto, andato avanti tanti anni. Katia, sulla porta, girandosi, lo salutò nuovamente con un gesto della mano; poi uscì. La sua famiglia, a quell’ora, si stava preparando per pranzare. Doveva ritornare a casa il prima possibile; non voleva mettersi nella condizione di prendersi una romanzina dal padre! Guido, dopo il decollo, aveva deciso di sorvolare Ajaccio ed i dintorni. A lui piaceva osservare dall’alto i luoghi che incontrava durante i trasferimenti, gioendo del senso di libertà che il volo gli trasmetteva. Il giorno precedente aveva pensato di non recarsi, come un banale turista, nella cittadina, riservandosi di osservarla durante il volo di trasferimento, dall’alto. Un buon punto di riferimento, facilmente identificabile, sarebbe stato la piazza Marèchel-Foch. Infatti non ebbe nessuna difficoltà a distinguerla fra l’agglomerato di case della città; delimitata, com’era, ad una estremità, da una corona di case con la statua di Napoleone prospiciente ad esse, e dall’altra dal porticciolo turistico. Fece qualche 360 e, quando ritenne di aver visto tutto, si diresse sulla città vecchia con le sue stradine brulicanti di turisti. Poco distante vide la sagoma del castello della Punta, e decise di fare una rapida deviazione verso quella zona. Quando ci fu sopra fu soddisfatto di esserci andato. Ciò che stava vedendo meritava il piccolo cambiamento di direzione. Non gli rimaneva che orientare l’aereo verso Sud costeggiando la costa per tutta la lunghezza dell’isola; poi

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sarebbe sconfinato in Sardegna superando le Bocche di Bonifacio, con destinazione Cagliari. Prima di abbandonare definitivamente la zona di Ajaccio, sorvolò le isole Sanguinarie. Dall’alto si presentavano come un piccolo agglomerato di isolotti di granito bruno, molto pittoreschi. Sapeva che l’ora migliore, per osservarle, sarebbe stata quella del tramonto; i raggi del sole, filtrati dall’atmosfera terrestre, le avrebbero fatte apparire, agli occhi dell’osservatore, color ocra e lo spettacolo sarebbe stato assicurato! Guido aveva calcolato circa tre ore di volo per raggiungere Cagliari; lì aveva deciso di pernottare, una, al massimo due notti. In quell’aeroporto voleva organizzare la prima tappa veramente importante del viaggio. Tappa che gli avrebbe permesso di lasciare l’Italia; destinazione Tunisi. Sotto di lui la Corsica gli appariva come una montagna immensa, sorta dal mare, con pareti a strapiombo sull’acqua e guglie che si protendevano verso il cielo. L’atmosfera era tersa, i movimenti convettivi dell’aria quasi assenti. La visibilità, di cui Guido poteva disporre, era veramente buona, circa 40 chilometri. In quelle condizioni atmosferiche volare era molto piacevole e gratificante. Non dovendosi concentrare nella conduzione dell’aereo, Guido poté compiacersi del bellissimo panorama sottostante. Il mare, piatto come un tavolo da bigliardo, offriva al suo sguardo una gran quantità di sfumature; dal delicato celeste al blu cupo, secondo la profondità del fondale. Tantissime insenature naturali, orlate da sabbia dorata, si alternavano le une alle altre; poche le persone che le occupavano. Le barche ormeggiate, proiettando la loro ombra sul fondale, parevano sospese nell’aria.

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Guido, dopo circa un’ora di volo, vide poco più avanti, in equilibrio precario su uno strapiombo da vertigine, stagliarsi nel blu del cielo, Bonifacio. Alla base della rupe erosa dalle acque del mare, una corona di rocce calcaree, bianchissime, scendendo ripida sul mare, delimita il piccolo porto; all’interno tantissime imbarcazioni ormeggiate ordinatamente. Sulla banchina gli parve di vedere dei pescatori intenti ad armeggiare con le reti. Fuori dal porto notò molti barchini colmi di turisti diretti alle grotte che punteggiano la parete rocciosa, come tante bocche spalancate. Prima di lasciare la zona, volle sorvolare la fortezza che domina la città per poi dirigersi verso le vicine isole di Cavallo e Lavezzi. Gli amici gli avevano parlato con entusiasmo di quelle isole, magnificandole. Quando le vide, si rese conto che le descrizioni ricevute, impallidivano, messe a confronto con la realtà. Sotto di lui spiagge incontaminate ed un mare dai colori caraibici; con rammarico le lasciò alle sue spalle. Durante la preparazione del volo aveva previsto di sorvolare le vicine isole di Razzoli e Budelli, entrambe appartenenti all’arcipelago della Maddalena, in Sardegna. Negli appunti di viaggio, per non dimenticare nulla, aveva annotato le informazioni concernenti le località da non lasciarsi sfuggire. Trascorsi pochi minuti da quando aveva lasciato Lavezzi, Guido, in lontananza, scorse l’arcipelago della Maddalena e dopo poco non ebbe difficoltà a riconoscere Razzoli. Sapeva, infatti, che è la più accidentata e dirupata dell’arcipelago; tutta martoriata da rocce granitiche dalle forme bizzarre, quasi artistiche.

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Nei suoi appunti era menzionata Cala Lunga, con alcuni punti di riferimento. Spostò la barra in avanti per picchiare l’aeroplano che rispose al comando perdendo rapidamente quota. Si abbassò quasi a sfiorare l’acqua. La percezione dell’aumento della velocità fu immediata. Sotto di lui tutto si muoveva molto più velocemente! Improvvisamente la riconobbe! La descrizione della cala, che aveva memorizzato, si sovrapponeva perfettamente a ciò che stava vedendo: una minuscola insenatura in cui il mare, stupendamente colorato, penetrava all’interno di sculture di granito. Fece una virata a sinistra molto stretta, mettendo l’aereo quasi a coltello con lo scopo di porsi alle spalle Cala Lunga. Quando stimò di essersi allontanato a sufficienza, virò di 180 gradi; ultimata la virata vide, davanti a sé, la caletta; dette tutto motore e si tuffò nel suo interno per penetrarla, imitando il mare. Doveva risalire! Tirò la barra di comando verso la pancia. L’aereo puntò, immediatamente, il muso verso il cielo. La manovra gli permise di scorgere, inaspettatamente, il faro, altro punto caratteristico che aveva memorizzato e da non perdere. Senza indugiare diresse l’aereo sulla bianca torre e, raggiuntala, la scelse come centro di una virata di 360 gradi che gli permise di osservare il faro da ogni lato. Da quella posizione poteva distinguere, molto vicine, le fattezze della Corsica, delle isole Lavezzi e Cavallo che aveva appena lasciato dietro di sé. Poco più a sud, l’isola di Budelli lo stava attendendo con le sue spiagge di sabbia finissima color rosa. Nuovamente si abbassò a pelo dell’acqua per ammirare il singolare colore delle spiagge, ben intonato alle rocce granitiche circostanti ed alle sfumature celesti del mare.

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Il passaggio su quella meraviglia fu troppo veloce. Quell’ angolo di paradiso meritava di più. Facendo quota, ritornò sulle zone appena sorvolate per ammirare con calma il paesaggio. Guido dette un’occhiata alla carta topografica, che aveva fissato sulla coscia destra, per individuare Cala del Cavaliere. Desiderava fare un passaggio anche lì per osservare i colori del mare che sapeva essere d’ineguagliabile trasparenza. Le sue aspettative non furono deluse! La realtà superò l’immaginazione. A malincuore si allontanò da quella zona, dirigendosi verso S. Teresa Gallura e Capo Testa dove la natura si era sostituita alla mano di uno scultore, modellando le rocce di granito. E di lì verso la Costa Paradiso costeggiando la costa nord della Sardegna. Per tutto il tempo, in cui sorvolò quella zona, l’aeroplano fu scosso da forti turbolenze che lo fecero sobbalzare. Gli scossoni arrivavano improvvisi e violenti! Guido, sebbene saldamente ancorato al seggiolino, urtò più volte con il capo il tettuccio. Sotto di lui vide sfilare Castelsardo e poco più avanti Porto Torres. Quest’ultimo, con i suoi impianti industriali, stonava rispetto al contesto in cui era inserito. Ma ecco la piccola e particolare penisola di Stintino che si protende verso l’isola dell’l’Asinara. Tra la punta più settentrionale e l’Asinara, la piccola isola Piana. Da un lato si poteva osservare una distesa di sabbia bianchissima bagnata da acqua limpida e bassa, dalle innumerevoli sfumature di celeste. Dalla parte opposta una costa impervia e rocciosa con alte pareti che si gettano nel blu profondo del mare.

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Guido, passando accanto al faro di Capo Falcone, cambiò rotta, dirigendosi verso sud. Il nuovo punto di riporto sarebbe stato Capo Caccia, a pochi chilometri dall’aeroporto di Alghero. Aveva scelto quella località perché sapeva essere, paesaggisticamente parlando, molto interessante per la sua bellezza selvaggia. Malgrado le turbolenze, si portò a sfiorare le pareti rocciose che raggiungono strapiombanti il mare. L’altimetro indicava 300 metri. Quel luogo gli apparve come uno dei posti più incontaminati e selvaggi della Sardegna. Riuscì a distinguere, per puro caso, la scalinata Cabirol; un’ardita costruzione scavata nel fianco della parete rocciosa che permette di accedere alla famosa grotta di Nettuno. Sperò, anche, di riuscire a vedere il grifone che, sapeva nidificare su quelle scogliere. Aveva letto essere una specie particolare di avvoltoio con una apertura alare di 3 metri. Gli sarebbe piaciuto moltissimo riuscire scorgerli, seguirli con lo sguardo mentre si librano nell’aria, sfruttando le correnti termiche ascensionali, dimenticare i propri limiti ed uscire dalla piccolezza della vita di tutti i giorni, volare con loro. Almeno per qualche minuto. Ma non li vide! L’aeroporto di Cagliari distava circa un’ora di volo. Decise che avrebbe deviato verso est con l’intento di intercettare l’autostrada che passa per Macomer. In seguito avrebbe scelto quella striscia grigia, che si sarebbe presentata ai suoi occhi come una ferita nel paesaggio circostante, a guisa di riferimento per giungere a Cagliari. Un poco fu contrariato da quella scelta che gli impediva di continuare a volare costeggiando la costa occidentale, ma voleva arrivare a destinazione in tempo utile per adempiere a tutti i preparativi che lo attendevano. Si consolò pensando ai bellissimi scenari che aveva visto fino a quel momento.

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Quando ebbe in vista l’autostrada, fece una leggera virata per avvicinarsi e quando fu a debita distanza, cominciò a volare parallelamente ad essa. Durate il percorso, sulla sua destra, vide l’agglomerato di Macomer e dopo una decina di minuti, Oristano. Gli rimaneva il tratto finale per raggiungere Cagliari! Solo ora avvertiva un leggero torpore alle gambe: non le muoveva da più di due ore. Nel frattempo la temperatura, in cabina, si era alzata. Il termometro stava indicando 37 gradi. Il disagio era notevole! L’aver potuto osservare paesaggi tanto spettacolari, in totale libertà e, goduto di tanta bellezza, lo aveva distolto dai segnali di stanchezza, che il corpo gli aveva inviato, ma ora che il volo stava terminando, gli anestetici psicologici avevano esaurito la loro azione. Doveva concentrarsi sulle procedure di avvicinamento ed atterraggio. Ancora poco e si sarebbe messo in contatto con la torre di Cagliari. Quando lo fece, il controllore di volo gli assegnò la priorità per entrare in circuito. Dovette attendere l’atterraggio di due grossi aerei di linea che lo precedevano, prima di ricevere l’autorizzazione ad entrare in circuito; ricevutala, poté iniziare la fase di avvicinamento finale. Un forte vento al traverso, proveniente dalla sua destra, lo impegnò non poco. Per mantenere l’aereo in asse pista dovette scendere con i comandi incrociati ed appena sentì le ruote toccare terra, barra al vento e piede contrario. Lentamente condusse, seguendo le linee gialle disegnate sulla pista, l’aereo nell’area di parcheggio. Raggiuntala, spense il motore, controllò che tutto fosse a posto ed uscì dall’abitacolo.

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Aveva le gambe legnose e doloranti; la schiena non stava meglio. Facendo ironia su se stesso, borbottò: <<Eh eh, gli anni…>> Ma non voleva farsi condizionare da quei disturbi. A breve sarebbe stato meglio ed i dolori se ne sarebbero andati. Meglio non pensarci! Leggermente incurvato, con la mano destra appoggiata sulla zona lombare e con passo un poco incerto, si diresse verso l’uscita dell’aeroporto, dove pensava di prendere un taxi per andare in albergo. Si sarebbe fatto portare in centro città. Ad ogni passo che faceva, i muscoli si slegavano progressivamente, permettendogli di riacquistare l’elasticità momentaneamente perduta. Katia durante il pranzo aveva comunicato ai genitori, con poche parole, di essersi licenziata dal lavoro. Poi tacque, riprendendo a mangiare come se niente fosse! Ci fu un silenzio impacciato; per alcuni minuti tutti, a testa bassa, continuarono il pranzo. Nella saletta si udiva il respiro cadenzato delle persone ed il ticchettio delle posate sui piatti. Maria interruppe quel silenzio, rivolgendosi direttamente alla figlia. <<Lo sappiamo tutti che non sei affidabile.>> Silenzio << Con questa tua mattata hai superato ogni limite.>> <<La vita è mia e ne faccio ciò che voglio.>> Arrossì! <<E tu che sei il padre te ne stai zitto?>> Lui avrebbe voluto esprimersi, sviluppare un discorso articolato, ma non fu capace di dare parole alla rabbia ed al

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disappunto che stava provando in quel momento. Fu pervaso da uno stordimento, molto simile al torpore, che gli impedì di esprimersi, come avrebbe voluto. A lui capitava sempre quando doveva prendere una posizione. In quelle occasioni si sentiva perso. Gli era più facile e connaturato dare ordini privi di qualsivoglia giustificazione. Dal disappunto dei familiari traeva le energie per difendere le proprie posizioni; senza porsi domande, cocciutamente, rimaneva fermo nelle sue convinzioni. Lui sapeva che sarebbe stato più facile e conveniente esprimersi con mezze frasi e, così facendo, far nascere sensi di colpa nei suoi familiari! Avrebbe considerato un atto di debolezza cedere, cambiare opinione. Non si era mai reso conto che, debole è chi non si mette in discussione. Non aveva ancora capito che quel comportamento esprimeva tutta la sua fragilità ed insicurezza di uomo! O forse sì! Ma non era stato capace di superarsi. <<Renato vuoi parlare sì o no?>> Incalzato da Maria riuscì a dire: <<Chi pensi ti mantenga, ora?>> <<C’è già tuo fratello…>> Poi fece pesare il fatto di essere pensionato e che la moglie non lavorava. Non pensò minimamente alle problematiche che avevano indotto la figlia a prendere quella decisione. Lui le avrebbe, in tutti i modi, considerate frivolezze, neppure da prendere in considerazione. Ciò che contava, per lui, era il lavoro in funzione dello stipendio a fine mese.

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Se il lavoro avesse comportato alienazione, disagio e quant’altro, non lo avrebbe interessato; era al di fuori dai suoi schemi mentali. In quel momento a lui importava una cosa sola: c’era una bocca in più da sfamare. Katia conosceva quelle argomentazioni molto bene. Troppe volte ed in troppe occasioni, le aveva sentite, ma non si era ancora abituata ad esse. Inevitabilmente, disagio e ribellione le gonfiarono il petto. Nella sua mente ci fu spazio solamente per il disprezzo! Rossa in volto, per non essere stata capace di palesare tutta la rabbia che aveva in corpo, allontanò la sedia dal tavolo e si alzò senza aver terminato il pranzo. Li guardò dall’alto al basso, uno ad uno. Per il fratello provò commiserazione, per la madre compassione benevola, per il padre odio e disprezzo. Lui, vedendola alzarsi, accennò una reazione. Non accettava di essere scaricato in quel modo; ne andava della sua dignità, o meglio, ciò che lui riteneva essere tale. <<Non vorrai ritirarti senza aver dato una spiegazione?>> Lei, con sguardo glaciale, lo guardò fissamente negli occhi senza pronunciare parola, ritenendo il silenzio, essere la punizione migliore per lui. Girandosi lentamente, andò in camera sua e chiuse a chiave la porta. Di là, i suoi terminarono il pranzo senza parlarsi. Ognuno di loro soffriva per motivazioni diverse; blindati nell’incapacità di esprimere, l’uno agli altri, il proprio dramma, come tante isole prive di qualsivoglia via di comunicazione. Katia si era lasciata cadere sul letto, sfinita. Giaceva a pancia in giù. La bocca schiacciata sul cuscino per soffocare i singulti che le uscivano ritmicamente ed inarrestabili. Le dita chiuse ad artiglio sul cuscino.

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Urlando in silenzio, con le mani fra i capelli, si chiedeva: <<Perché suo padre non era mai stato capace di manifestarle affetto? Perché mai una carezza? Perché mai un sorriso? Perché non l’aveva mai invitata a sedersi sulle sue ginocchia? Perché?>> <<E perché, lei che non aveva nessuna colpa, si sentiva in difetto per il comportamento del padre? Perché avvertiva, visceralmente, di dover espiare una colpa?>> Pianse a lungo. Non ci sarebbe potuta essere consolazione alcuna per lei. Con il trascorrere delle ore la disperazione si mutò in spossatezza e quest’ultima cedette il posto al sonno riparatore. Quando si svegliò era pomeriggio inoltrato e tempo di fuggire da quella casa. Uscì per andare in un’agenzia di viaggi. Stava maturando la decisione di fare un lungo viaggio. Voleva allontanarsi dal suo piccolo mondo per molto tempo, mesi. Era vissuta fino a quel momento senza sperperare ed ora poteva permettersi di vivere di rendita anche per un lungo periodo! Quando Katia uscì dall’agenzia, non aveva preso nessuna decisione riguardo le proposte ricevute. Si era limitata a visionare tutte le offerte che le erano state sottoposte dall’operatore con cui aveva parlato. Una prima opinione, comunque, se l’era fatta: la soluzione che l’avrebbe potuta soddisfare appieno, non le era stata fornita! Aveva notato che operatori turistici in grado di gestire un viaggio articolato e per la durata che desiderava lei, non c’erano! Guido, dopo una doccia rigenerante, si stava rilassando in albergo, nella saletta riservata alla lettura; sfogliava

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distrattamente una rivista, sorseggiando di tanto in tanto, una birra, in attesa dell’ora di cena. Katia non era stata in grado di rincasare e di cenare con la famiglia! L’aborto di discussione di qualche ora prima l’aveva svuotata. Il pensiero di rivedere i suoi, di sedere a tavola con loro, le faceva ribrezzo. Telefonò all’amica Angela. <<Angela sono Katia.>> << Ciao Katia.>> <<Disturbo ?>> <<No, dimmi.>> Katia spiegò, sinteticamente, all’amica la situazione che si era creata in casa sua e, senza preamboli, le chiese se poteva ospitarla per qualche giorno. Katia invidiava la condizione di single dell’amica, soprattutto il fatto che possedesse una casa tutta per sé. Angela, conoscendola molto bene, capì immediatamente la gravità della situazione e non esitò a dirle di sì. Non le chiese nessuna spiegazione. <<Faccio un salto a casa per prendere le mie cose e sono da te .>> << Ok, ti aspetto.>> L’indomani Carlo, rincasando dal lavoro, controllò se, all’interno del contenitore della posta, ci fosse stata qualche lettera. Sì, ce n’era una! Quando lesse l’indirizzo, riconobbe immediatamente la calligrafia di Katia. <<Chissà perché gli aveva scritto! >> Si chiese. Non aprì la lettera. Desiderava leggerla con calma, in casa, seduto comodamente sul divano, in soggiorno. Si preparò un

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aperitivo e si sedette. Con la mano destra reggeva il bicchiere e con la sinistra rigirava la lettera di Katia. Bevve qualche sorso, pensieroso, poi adagio, chinandosi in avanti, posò il bicchiere sul tavolo basso del salotto. Che gli stava davanti. Carlo aprì la busta facendo attenzione di non strappare il foglio che conteneva; lo estrasse e lo lesse con grande attenzione. Durante la lettura, avverti il cuore battere sempre più forte. Lo percepiva, sordo, in gola. Aveva la bocca impastata ed uno stordimento lo sorprese. Si lasciò sprofondare nel divano, la testa abbandonata all’indietro, il viso bianco come un lenzuolo. Goccioline di sudore gli imperlavano la fronte. Dopo qualche minuto, ripresosi, rilesse la lettera. Pianse! Qualche lacrima cadde sul foglio, sciogliendo l’inchiostro con il quale venne a contatto. Carlo lasciò cadere la lettera a terra e pensò che Katia, considerando quello che gli aveva scritto e come glielo aveva scritto, non meritava il suo dolore. Si era sbagliato sul suo conto! Doveva reagire. Pensò: <<Chi non mi desidera non mi merita .>> Alzando le spalle con rassegnazione, andò in cucina per preparare il pranzo. Di lì a poco, impegni di lavoro importanti lo attendevano. Un ultimo pensiero sintetizzabile in una sola parola, fra un rimescolare e l’altro, lo sfiorò: <<Puttana!>>

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Un righello di dodici centimetri è corto rispetto a uno di sedici. Una riga di sedici centimetri è corta rispetto a una di venti Proverbio tibetano

Pioveva! percepiva, opprimente, il buio bagnato e avvolgente della notte, mutilata del chiarore tremolante e puntiforme delle stelle. Con le pupille dilatate cercava, inutilmente, di penetrare con lo sguardo l’oscurità che lo avvolgeva; tutto. Buio…, buio…,ancora buio! L’angoscia che emergeva dai meandri più reconditi della sua psiche, lo soffocava, come avrebbe fatto un mantello di ruvido cotone nero, gettatogli addosso da una presenza misteriosa. Doveva fuggire, correre, trovare un rifugio; al più presto! Non vedeva la creatura, ma la sua presenza, per lui, era palpabile. La sentiva lì…accanto a lui, minacciosa. Ecco…!

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Ora..., d’incanto, poteva vedere dove si trovava: un giardino a lui noto. Si…! Conosceva le aiuole dalla forma regolarmente geometrica; i contorni erano marcati da pietre accostate le une alle altre con meticolosa precisione. Riconobbe i sentieri ricoperti di muschio che, serpeggiando fra le aiuole, le separavano. Cominciò a correre, zigzagando, seguendo il percorso impostogli dal labirinto dei viottoli. Correva…correva, ma la sua corsa non era tale da permettergli di sottrarsi a quella presenza minacciosa; disperatamente, con tutte le sue energie, cercava di scappare, ma non ci riusciva! Una forza misteriosa, assurda, glielo impediva, rallentandolo. Era come se dovesse lottare contro tanti elastici che lo trattenevano! L’angoscia si trasformò in disperazione; terrorizzato, con movimenti convulsi del capo, per aumentare la visuale degli occhi, cercava di scoprire dove rifugiarsi. Come poteva non averla vista? Ma sì, era la sua casa natale! Il portone d’ingresso era lì, poco distante da lui, invitante, accogliente; quella grande apertura nera era lì per riceverlo, per offrigli la protezione di cui aveva bisogno! Con l’angoscia che lo attanagliava, che cresceva parimenti all’affanno, procuratogli dalla corsa, si diresse verso l’ingresso, salvifico, di casa. La porta, socchiusa, lo accolse amorevolmente. All’interno, la luce fioca di una lampadina, non adatta alle dimensioni dell’ambiente, lo illuminava tristemente. Alle sue spalle la grande scalinata, che portava al piano superiore, pareva dirgli:

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<<Dai vieni…Sali…>> Ma doveva chiudere la porta, doveva impedire che “Lui” entrasse! Doveva farlo assolutamente! Con movimenti frenetici accostò il battente del portone. Lo fece, spingendo con entrambe le mani, ma fu in quell’istante che “Lui”, dall’esterno, si oppose. Spingeva, contrastando la chiusura; voleva entrare, voleva continuare a minacciarlo. Madido di sudore, continuò a spingere con tutte le sue energie, opponendo una resistenza spasmodica, disperata, alla bestia che era là fuori. Dopo una lunga lotta, con il cuore che gli batteva forte nel petto, sentì la serratura chiudersi, producendo un sordo clock. <<Ci sono riuscito!>> Pensò. Ma non era finita! La porta, sollecitata da quell’essere, sembrò cedere sotto le spinte applicate dall’esterno. Con grande fatica, riuscì ad inserire i due catenacci, che erano stati montati a difesa del portone, nelle loro sedi, uno dopo l’altro. Volgendo le spalle alla porta, si diresse verso le scale; l’angoscia non lo aveva abbandonato! Girando il capo, vide la porta ondeggiare, deformarsi, a causa della pressione cui era sottoposta. Salì le scale correndo. Sapeva che avrebbe trovato i suoi familiari, su! Raggiunto il piano superiore, si guardò intorno con sguardo implorante; non vide nessuno. Voleva chiedere aiuto, ma la voce non gli usciva dalla gola. Provò e riprovò…,finalmente riuscì ad emettere un grido roco, liberatorio: <<Aiutooooo…!>> Guido, con la gola riarsa, il corpo completamente bagnato dal sudore, si svegliò! Il terrore, che aveva provato durante

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l’incubo appena vissuto, persisteva ancora in lui; continuava ad avvertire quella presenza! Con le membra irrigidite, rimase immobile, quasi non volesse attirare l’attenzione su di sé. Il buio della camera lo opprimeva. Nel cuore, ancora, il disorientamento prodotto dal sogno, dal quale si era appena svegliato. Gli sembrava di essere tornato bambino, quando temeva la solitudine nera della sua cameretta. Attese lunghi istanti, prima di capire, completamente, cosa gli fosse accaduto. Poi, lentamente, iniziò a cambiare posizione nel letto. Accese la luce, si mise in posizione seduta e, con il palmo della mano, si asciugò la fronte; rimase immobile per qualche istante e, sbilanciandosi in avanti, appoggiando le mani sul letto, si alzò. Una doccia calda lo avrebbe rimesso in sesto, ripulendolo dal sudore e dai residui del sogno! Le tre e diciassette del mattino; era tempo di tornate a letto, sperando in un sonno tranquillo. Durante le ore che seguirono, Guido dormì serenamente fino a mattino inoltrato. Quando si svegliò, con indolenza, si rigirò più volte fra le lenzuola, con lo scopo di trovare posizioni, progressivamente, più avvolgenti. Non aveva un programma già definito per la giornata. Indugiare a letto, non gli dispiaceva affatto! Fu così che si crogiolò in uno stato di piacevole, lucido torpore, per più di un’ora, senza avere la percezione dello scorrere del tempo. Ma ad un certo punto sì disse che era venuto il momento di smettere di poltrire. Senza aspettare oltre, sì alzò con decisione; aveva fame e si sentiva in forma.

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Del sogno, uno sgradevole ed offuscato ricordo! Era quasi ora di pranzo! Tanto valeva, saltare la colazione. Magari anticipare un poco il pasto principale, questo sì. Di pranzare in albergo non gli andava; meglio cercare un ristorantino caratteristico, nella città vecchia. Si fece chiamare un taxi dall’addetto alla reception che, ossequiosamente, si affrettò a fare. Guido ringraziò il solerte impiegato, ed uscì. Si sedette, ad aspettare l’arrivo del taxi, su di una poltroncina di vimini, sotto la loggia antistante l’albergo, leggendo un quotidiano, che qualcuno, distrattamente, aveva dimenticato. Non dovette attendere molto, infatti, non riuscì neppure a terminare l’articolo che aveva iniziato. Ne fu indispettito! Il tassista, sceso dalla vettura, ad alta voce, pronunciò il suo nome. Gli rispose con un cenno del capo, incrociando il suo sguardo con quello del conducente che, velocemente, aggirando la vettura, gli aprì la portiera posteriore. <<Prego signore…>> <<Grazie.>> Entrò, e si sedette comodamente. <<Dove la porto? >> <<Mi sa indicare un ristorante, nella città vecchia, dove si mangi bene?>> << Sì, certo signore, andiamo immediatamente.>> Quando non sapeva dove andare, in quanto privo d’informazioni, o di esperienza diretta, si affidava ai consigli dei locali; raramente né era rimasto scontento! Dopo circa una ventina di minuti: <<Arrivati, signore…>> Pagò, e scese dall’auto. La prima cosa che colpì i suoi sensi fu un forte odore di cibo, poi la piccola vetrina che fungeva da ingresso.

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Prima di entrare, consultò i menù, che facevano bella mostra di loro, appesi lateralmente all’ingresso. La varietà delle pietanze era discreta, come, del resto, il prezzo affiancato ad ogni voce. Entrò e chiese al cameriere, che gli era venuto incontro, dove poteva sedersi. Gli fu indicato un tavolino per due, in disparte. A lui andò bene così. Mentre attendeva che gli fosse servito il pranzo, pensò al lungo volo, che avrebbe fatto nei giorni a seguire, a ciò che avrebbe visto ed ai possibili imprevisti. Voleva raggiungere Capo di Buona speranza, in Sudafrica, volando sulla parte orientale dell’Africa; raggiuntolo, avrebbe risalito il continente africano, costeggiando il versante occidentale. Insomma: una vera e propria circumnavigazione del’Africa. Tanti gli stati che avrebbe visitato nelle soste, durante la discesa verso Capo di Buona Speranza: Tunisia, Libia, Etiopia, Somalia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Sud Africa. Durante la preparazione di questa avventura, aveva calcolato la distanza che avrebbe percorso: 15.000 chilometri per la sola andata; altrettanti per rientrare. Le ore di volo sarebbero state circa 150; escludendo quelle che avrebbe fatto, durante le esplorazioni dei territori sorvolati. Il pensiero di quello che lo aspettava lo entusiasmò, ed una specie di frenesia, lo prese. Le sue aspettative erano, davvero, tante! Ma ora non doveva distrarsi, fare voli pindarici; anticipare gli eventi, seppur virtualmente. Non sarebbe stato un buon procedere! Avrebbe sottratto concentrazione al presente. Il suo metodo era molto semplice: un passo per volta! Possibilmente piccolo.

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Il passo che stava per compiere, prevedeva il volo, che gli avrebbe permesso di raggiungere Tunisi. Guido aveva rilevato, durante la preparazione del piano di volo, che il braccio di mare che separa Cagliari dalla città africana, è di circa 320 chilometri. Il tempo, che aveva stimato, per percorrere quella distanza, sarebbe stato di circa un’ora e quarantacinque minuti. Terminato il pranzo, decise di fare un giretto per le vie del quartiere dove si trovava attualmente. A lui piaceva molto camminare, ed in questo caso, avrebbe unito l’utile al dilettevole: una buona sgambata, dopo un pasto abbondante, sarebbe servita alla digestione ed a smaltire calorie in eccesso; nel contempo gli avrebbe permesso di curiosare nelle viuzze i ritmi di vita degli abitanti. Mentre camminava, pigramente, con le mani in tasca, continuava a pensare al volo che avrebbe fatto il giorno dopo. Sicuramente sarebbe stato un tratto da non sottovalutare, sviluppandosi tutto sul mare. Volare sul mare implica sempre delle possibili insidie; la più importante: un’avaria che comporti l’ammaraggio. In un’ evenienza del genere, il problema consiste nell’essere ritrovati in tempi brevi. La sopravvivenza, a bordo di un piccolo canotto di salvataggio, con a disposizione poca acqua e poco cibo, è limitata ad alcuni giorni! Ed individuare un puntino rosso nell’immensità del mare, è impresa disperata. Una seconda problematica, da considerare, consiste nel mantenere la rotta in assenza di punti di riferimento. Non potendo volare a vista, è d’obbligo affidarsi agli strumenti di navigazione, ma con la consapevolezza che

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potrebbero subire anch’essi, un’avaria, con le conseguenze del caso. Guido, dopo aver girovagato, curiosando in qua e là, per i vicoli della città vecchia, decise di andare in aeroporto per preparare l’aereo in previsione dell’attraversata dell’indomani; era sua abitudine anticipare i tempi, quando fosse stato possibile farlo. Senza l’incombere del poco tempo a disposizione, riusciva a procedere con calma e lucidità. In questo modo riduceva al minimo la probabilità di dimenticare qualche particolare. Poco distante da dove si trovava, vide un taxi giallo, fermo sul ciglio della strada; pareva parcheggiato lì, per lui. All’interno, il conducente stava leggendo, tranquillamente, un quotidiano; Il volante gli faceva da leggio. Era seduto con il busto leggermente inclinato sulla destra, le maniche della camicia arrotolate fin sopra i gomiti; la indossava sbottonata per buona parte della sua lunghezza, lasciando affiorare il folto pelo nero, che gli ricopriva il petto. Il tassista, del tutto assorbito dalla lettura, non si curava di ciò che stava accadendo nei pressi della sua vettura. Guido avvicinandosi, cercò di farsi notare, fischiettando, ma inutilmente. Accostatosi alla portiera sinistra, chiese: <<Mi scusi,…è libero?>> Il tassista lo guardo dal basso all’alto, poi: <<Si, certo. Dove desidera andare?>> <<Aeroporto, grazie.>> <<Andiamo subito.>> Non scese per aprirgli la portiera! Ma erano particolari privi di significato per Guido. A volte, il troppo servilismo lo disturbava.

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Giunto in aeroporto, andò nell’hangar dove aveva parcheggiato il suo aereo. Per potervi accedere dovette espletare alcune pratiche d’ordinaria burocrazia, essendo l’area aeroportuale, zona franca. Conclusa la parentesi burocratica, ricevette un pass di riconoscimento che gli avrebbe permesso di muoversi liberamente all’interno dell’aeroporto. Nell’hangar l’illuminazione era piuttosto scarsa. Forti odori di carburante saturavano l’ambiente e le lamiere, con cui era costruito, rese roventi dai raggi del sole, trasferivano all’interno il calore assorbito, contribuendo ad innalzare notevolmente la temperatura. Per prima cosa, fece i controlli con grande attenzione. All’interno della cabina di pilotaggio verificò la presenza del giubbotto salvagente. Lo tolse dalla sede in cui lo aveva collocato e lo appoggiò sul seggiolino del passeggero. Domani, per sicurezza, lo avrebbe indossato prima di decollare. Era un giubbotto, rosso, che si sarebbe gonfiato automaticamente, al contatto con l’acqua. Collocò, in una posizione facilmente accessibile, il cannotto autogonfiante e le riserve di cibo ed acqua. In un contenitore, impermeabile e stagno, inserì il telefono satellitare, la radio, il GPS portatile, il cellulare, la pistola lanciarazzi, i razzi per questa, una torcia elettrica, dei farmaci, tutti i documenti ( Personali e dell’aereo ) e per ultimo il denaro con le carte di credito. A questo punto gli rimaneva di richiamare dalla memoria del GPS, fissato sulla plancia strumenti, le coordinate dell’aeroporto di Tunisi. Inserì la chiave, la ruotò in senso orario, facendo attenzione a non oltrepassare il primo punto di resistenza; dopodichè tutti gli strumenti si accesero!

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Guido, pazientemente seduto sul sedile di pilotaggio, attese che il GPS agganciasse i satelliti. Quando lo strumento fu attivo, richiamò dalla memoria di questi, le coordinate dell’aeroporto di Tunisi. Per scrupolo, confrontò i dati, che comparvero sullo schermo, con quelli che aveva annotato durante la preparazione del volo: coincidevano! Guardando, con attenzione all’intorno, non vide nulla fuori posto. Tutto era pronto per il volo dell’indomani. Poteva andarsene. Scendendo dall’aereo, chiuse la portiera con la chiave ed, allontanandosi, si girò per dare un’occhiata. Stentava a separarsi dal suo aeroplano! Guido, da tempo, si era identificato con quella macchina. Di fatto, aveva compiuto un investimento affettivo nei suoi confronti. Per lui era come se avesse lasciato, in quel momento, una persona. Voleva fare un’ultima cosa, prima di rientrare in albergo: informarsi sulle condizioni meteorologiche. Per realizzare il suo proposito andò nell’ufficio meteo. Qui prese visione delle carte relative alla distribuzione della pressione atmosferica, dei venti, delle temperature e dell’umidità. Il quadro d’insieme era ottimo; sul bacino del Mediterraneo c’era alta pressione ed i venti, deboli, soffiavano da Sud Est. Pensò: <<Con queste condizioni, sarà come volare sul velluto!>> Si diresse verso l’uscita; doveva restituire all’addetto della sorveglianza, il pass che gli era stato consegnato all’ingresso. Per lui la giornata finiva qui. Non aveva altre aspettative. Era sereno ed in pace con se stesso. Sapeva di aver fatto tutto il necessario per affrontare, in sicurezza il volo che aveva programmato. Se eventuali

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problematiche fossero insorte durante la traversata, sarebbero state da imputare all’imponderabile! Aveva deciso di recarsi in aeroporto, la mattina seguente, prima del sorgere del sole e decollare precedendo l’alba; quella se la sarebbe goduta volando. E l’indomani arrivò dopo una nottata tranquilla, corroborata da un sonno pesante. Sonno, interrotto troppo presto! Guido, quasi due ore prima del sorgere del sole, dovette fare uno sforzo di volontà per alzarsi. In situazioni del genere, si chiedeva il perché lo facesse, ma poi si concentrava sul da farsi, senza pensare ad altro. Quando giunse in aeroporto, incontrò persone con il volto segnato da una nottata insonne; svogliatamente risposero al suo saluto. Il torpore che aveva dovuto contrastare, ora era svanito. l’aereo, perfettamente controllato dal giorno precedente, lo stava attendendo. Non gli rimaneva che spingerlo fuori dall’hangar. Nel farlo prestò molta attenzione a non urtare gli aerei parcheggiati vicino al suo. Non era proprio il caso d’incorrere in una svista del genere! Ok, ora poteva sistemarsi a bordo; fattolo, si mise in contatto radio con la torre per chiedere l’autorizzazione all’accensione del motore. La risposta non si fece attendere, e Guido azionò prontamente la messa in moto. Essendo ancora buio, avrebbe compiuto una piccola parte del volo in condizioni IFR, per poi passare al VFR, quando il sole sarebbe sorto. Con il faro acceso, contattò nuovamente la torre di controllo: << Cagliari torre da I-VCSM per rullaggio, da parcheggio a punto attesa.>> << I-VCSM a discrezione. Riporterete punto attesa per pista 14.>> <<Cagliari, I-VCSM riporterà punto attesa 14.>>

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A passo d’uomo condusse l’aeroplano, seguendo la linea gialla che gli indicava la direzione da seguire, al punto attesa. Raggiuntolo, azionò il freno di parcheggio e, diligentemente, eseguì tutti i controlli pre decollo. Tutto era ok, un attimo di incertezza, ma poi: <<Cagliari torre, I-VCSM chiede l’autorizzazione al decollo per pista 14. >> <<I-VCSM a discrezione .>> <<Cagliari torre, I-VCSM si allinea su 14 per decollo immediato.>> Con l’aereo perfettamente allineato, Guido fece un ultimo controllo degli strumenti, poi spinse in avanti, con decisione, la manetta. Questo è un momento liberatorio per tutti i piloti; stanno per diventare creature volanti! L’aereo, per l’ennesima volta, nella sua vita, si avventò sulla pista, accelerando progressivamente, scosso dalle vibrazioni del motore al cento per cento della potenza che è in grado di erogare. Rispettando i parametri di salita, fece quota e con una dolce virata verso Sud, si mise in rotta. Ancora una volta, raggiunti i tremila piedi, ripeté il rituale per configurare l’aeroplano con i parametri di crociera. Quando le luci della costa sparirono, capì che si trovava sul mare. Gli appariva come una macchia di inchiostro nera, senza confini. Quella notte la luna non illuminava il cielo, impedendogli di vedere l’orizzonte. Guido, con uno sguardo sfuggente, guardò l’orologio di bordo, illuminato debolmente da una luce giallognola, che spandeva il suo chiarore, diffusamente, sul quadrante; in quel momento erano le due e cinquantatre minuti del

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mattino. Pensò, andando con il pensiero alla tabella delle effemeridi: <<Ancora, circa, venti minuti all’alba.>> Da quel momento, le stelle di sesta magnitudo scompaiono dalla volta celeste. Progressivamente il nero della notte è sospinto via dal chiarore che da Est si fa spazio, come il vento che dirada la nebbia da un paesaggio pronto a brillare, se illuminato dai raggi del sole. Ma il sorgere vero e proprio della nostra stella sarebbe avvenuto più di due ore dopo, rispetto al primo bagliore. Solamente allora sarebbe apparso, a cavallo dell’orizzonte, il disco rossastro. Sempre, osservando il nascere del sole, provava sentimenti di stupore e di languida ammirazione, come un bambino al cospetto di un evento che non sa spiegarsi. Ma lui non era di certo un bambino; anzi, da tempo aveva perso l’innocenza per quanto riguardava gli aspetti naturalistici del nostro universo. Si era, infatti, laureato in fisica; l’individuazione della facoltà, quando dovette scegliere l’indirizzo da dare ai suoi studi, fu dettata dal grande desiderio, che aveva sempre avuto, di trovare risposte alla sua curiosità scientifica. Ricordava che, fin dalla tenera età, era attratto ed affascinato dai fenomeni naturali. Per lui era del tutto normale chiedersi il perché dei fenomeni fisici ed a modo suo si dava delle risposte! Sorrise, fra sé e sé, pensando agli anni dell’innocenza. Alla sua sinistra, il mare color nero fumo e il cielo debolmente rischiarato da una pennellata cerulea, d’acquerello, iniziavano ad essere distinguibili l’uno dall’altro. Ancora una volta avrebbe assistito allo spettacolo, offertogli dalla natura, della nascita di un nuovo giorno e, ancora una

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volta, si sarebbe emozionato. Ora si trovava in condizioni ideali; stava volando! Essere a diecimila piedi sul mare, gli avrebbe permesso di vedere il sole qualche minuto prima rispetto a chi fosse stato a quota zero. Lentamente, ma in progressione costante, il chiarore che vedeva alla sua sinistra sottraeva spazio all’oscurità della notte, mentre la luce del giorno occultava allo sguardo il brillare delle stelle, come avrebbe fatto un immenso velo bianco adagiato sulla volta celeste da mani invisibili. Guido ricordò il piacere, tutto mentale, che sperimentò quando, per la prima volta, venne a conoscenza del perché il sole, mentre sorge o tramonta, è di colore rossastro, a differenza delle altre ore della giornata. Infatti: la luce che i nostri occhi vedono candidamente bianca è, in realtà, un’illusione ottica. Ciò che percepiamo come un’entità omogeneamente unica ed indivisibile è costituita dalla convivenza di una moltitudine d’onde elettromagnetiche, ognuna delle quali caratterizzata da parametri del tutto univoci. Quando la comunità che noi chiamiamo luce bianca interagisce con spessori dell’atmosfera terrestre superiori a quelli che si hanno quando il sole è allo zenit (Condizione che accade all’alba ed al tramonto), allora una parte di essa è assorbita da questa ultima. Agli occhi dell’osservatore ne giunge solo una parte: appunto il colore rosso. Il chiarore, che lentamente stava sostituendosi alla notte, permetteva a Guido di distinguere gli strumenti di bordo senza l’ausilio dell’illuminazione artificiale. Protendendo la mano, spostò verso il basso la levetta dell’interruttore che abilita l’accensione o lo spegnimento dei quadranti.

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Quel movimento lo distolse dalle considerazioni che stava facendo. Per qualche istante osservò gli strumenti, spostando lo sguardo da sinistra a destra; nella stessa maniera di quando si legge. Tutti gli indicatori erano distinguibili! Nel cielo si potevano vedere ancora le stelle più luminose che a breve sarebbero scomparse. A tenergli compagnia il borbottare regolare e monotono del motore. E come accade spesso, quando la mente non è assorbita da problematiche contingenti, una serie di immagini fecero capolino nella coscienza di Guido, come le bolle di vapore salgono verso la superficie dell’acqua in ebollizione, per poi dileguarsi. Una, in particolare, non volle dissolversi nel nulla. Era inverno; la stufa economica (Cosi era chiamato quell’elemento collocato nelle cucine, alimentato con legna, con lo scopo di riscaldare, cucinare, produrre acqua calda) emanando calore, glielo faceva capire. All’interno della stanza, che ai suoi occhi appariva molto grande, penetrava dalla porta finestra, che si affacciava sul giardino, una luce grigiastra come il cielo, uniformemente ricoperto da nuvole basse. Sulla destra della finestra, nell’angolo (quella era la parte della cucina meno illuminata ), c’era una grande vasca di sasso bruno, reso ancora più scuro per la scarsa illuminazione che riceveva: il lavabo della cucina. Sotto, due ante di legno color avorio permettevano l’accesso al vano nel quale si trovavano gli oggetti per la pulizia delle stoviglie. Nella parete, alla sinistra della finestra, poteva osservare una porta che immetteva in un piccolo bagno; entrarci, ricordava,

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gli procurava fastidio. Ricordava la sensazione ma non le motivazioni. Al centro della camera una grande tavola di legno; le tavole con le quali era stato costruito il piano, inscurite dal tempo e dall’uso, erano fessurate. La matita, con la quale si dilettava a scarabocchiare, spesso forando il foglio, penetrava in quegli intagli. Quattro sedie impagliate vi facevano da corollario; sopra, appeso con una treccia di filo elettrico, pendeva un lampadario di ceramica bianca orlato da una strisciolina blu. La lampadina di bassa potenza, collocata nel suo interno, spandeva una luce fioca che si propagava all’intorno. Sulle altre pareti, un tagliere a muro, che poteva essere ribaltato all’occorrenza, ed una credenza, anch’essa di color avorio. Le mattonelle del pavimento riproducevano un disegno geometrico bicolore. Sedute, nei pressi del tavolo, la nonna, la zia e la madre chiacchieravano tranquillamente fra di loro. Apparentemente non interessato alle parole che arrivavano alle sue orecchie, Guido giocava con una automobilina di latta, gialla. Riproduceva un camion con la gru. In realtà, lui assorbiva tutte le parole che ascoltava, filtrandole con la sua mente di bambino e attribuendo loro significati estranei agli adulti. Pensava anche: <<Che sciocchi i grandi! Credono che non li ascolti, che non capisca…>> A lui piaceva, disordinatamente sdraiato sul freddo pavimento, condurre, con le mani, le sue automobili fra le gambe del tavolo e delle sedie, imitando con le labbra il rombo del motore.

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Poi, improvvisamente, le dirigeva, imprimendogli una forte spinta, verso spazi liberi. Quasi volesse liberarsi da una rappresentazione che intuiva essere un surrogato della realtà. Quel giorno avvertiva il bisogno di fare qualche cosa di diverso, ma non sapeva cosa. Era un desiderio indefinito che sfociava nell’inquietudine. Fu così che, esplorando con lo sguardo l’ambiente circostante, vide, abbandonato sul pavimento, lo scaldino che la nonna adoperava per mantenere calde le mani. Si sollevò da terra spostandosi verso quell’oggetto. Pochi passi e già lo stringeva fra le mani. Era un contenitore metallico, scuro, di forma cilindrica, leggermente bombato sui lati; nel suo interno era stata introdotta della brace di legna, tolta dalla cucina economica. Nella parte superiore si trovava una grata che fungeva da coperchio. Lo toccò sui fianchi, facendo attenzione a non scottarsi; era tiepido. Dalle fessure della grata poteva vedere la brace ancora incandescente; qua e là chiazze di cenere grigia la ricoprivano, in parte. Guido ora sapeva cosa avrebbe voluto fare: desiderava distruggere il suo giocattolo. Furtivamente, osservò i suoi familiari che stavano conversando, calati nei loro pettegolezzi. A lui non prestavano attenzione. Era indeciso! Riteneva di essere sul punto di compiere un’azione scorretta. Distruggere con il fuoco un giocattolo che aveva desiderato! Cosa gli avrebbero detto? E poi…,perché farlo? Ma le mani ubbidirono al suo bisogno irrazionale, istintivo. Sollevò la grata dello scaldino che cigolò. Nessuno gli disse niente. Il calore prodotto dalla brace salì fino al suo viso facendolo arretrare un poco.

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Con la mano sollevata, manteneva sospeso il piccolo camion giallo sopra l’imboccatura dello scaldino. Allargando le dita, lo fece cadere al suo interno; una nuvola di cenere grigia fuoriuscì con uno sbruffo sordo, sottraendo alla vista di Guido il suo giocattolo. Quando, al diradarsi della cenere, poté rivederlo, si sentì colpevole, compiacendosene con stupore; stava portando a termine un rito sacrificale! La vernice gialla, con la quale quel giocattolo era stato verniciato, iniziò a raggrinzirsi. Con il trascorrere dei secondi le pieghe diventarono dei rigonfiamenti ed infine bolle che scoppiarono. Il bel colore giallo brillante aveva lasciato il posto al nero pece. Il processo di carbonizzazione si era così compiuto integralmente. Guido, con soddisfazione, aveva assistito all’agonia ed alla morte del suo giocattolo! Una sottile colonna di fumo azzurrognolo, testimone del piccolo scempio, salendo verso il suo viso trasportava un odore acre di resina bruciata. Guido non aveva previsto il generarsi dell’odore acre e pungente che stava fuoriuscendo dallo scaldino. Sconcertato ed intimorito per essere stato l’artefice di quella malefatta, si stava rendendo conto che di lì a poco anche i suoi familiari avrebbero avvertito quell’odore fastidioso. Sicuramente il rimprovero non sarebbe tardato, almeno per due motivi: la distruzione del giocattolo e per il puzzo che stava saturando l’ambiente. Per rendere nuovamente respirabile l’aria della cucina, avrebbero dovuto spalancare la porta finestra, raffreddando la camera. In pieno inverno non sarebbe stato piacevole! Li guardò di sottecchi; nel volto aveva un’espressione che esprimeva colpevolezza e timore. Ma, con sua sorpresa, non accadde nulla. Poi:

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<<Ma…cos’è questo odore?>> <<Ho bruciato il mio camioncino…>> disse piagnucolando, quasi per anticipare la richiesta di perdono. A quel punto si sarebbe aspettato una romanzina; al contrario non successe nulla di tutto questo. <<Ma guarda un po’ cosa ha combinato! >> dissero fra loro, per poi riderci sopra. Guido si senti sollevato dalla reazione dei suoi, ma nello stesso tempo ne fu deluso. <<Che razza di genitori erano quelli, che lo lasciavano fare quello che voleva?>> <<Era così poco importante per loro?>> Si sentì solo! Solo con la cattiveria non punita ed appena esercitata su di un feticcio. Allora agiva per istinto. Non sapeva che per concretizzare un qualsiasi progetto, è necessario modificare, distruggere tutto ciò che serve per la sua realizzazione. Non aveva ancora imparato a discernere fra creatività e cattiveria. Ma…chissà per quale recondito motivo, proprio in quel momento, era affiorato nella sua mente quel ricordo! Lontanissimo nel tempo, ma tanto ricco di dettagli. Rivolse lo sguardo alla sua sinistra; sul prolungamento dell’ala, dove il cielo incontra il mare, vide una sottile falce rossa che faceva capolino. Stava nascendo, finalmente, il sole Noncurante di mantenere l’aereo perfettamente livellato, distolse lo sguardo dal muso, interrompendo di stimarne la sua posizione rispetto all’orizzonte. Il suo sguardo si rivolse ad Est, rimanendone polarizzato. Il disco rosso del sole, deformato dagli strati caldi dell’atmosfera, si stava inerpicando nel cielo, con una

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lentezza che non ammetteva interruzioni. A malincuore lo vide distaccarsi dal mare e diventare abitante del cielo. In quel momento avvertì la limitatezza degli esseri umani e la precarietà della loro esistenza: era palese! Una fenditura di luce argentea sciabolò il mare, fin sotto la pancia dell’aereo di Guido, per poi perdersi alla sua destra, verso Ovest. La magia di quegli istanti lo stava abbandonando, lasciandogli un dolce languore nel cuore. Pensò: <<fino a quando mi emozionerò al cospetto dei fenomeni che la natura ci regala…, beh…sarò orgoglioso di me stesso! >> Riprendendo a guardare davanti a sé, vide, con sollievo, la costa tunisina. Di lì a poco sarebbe atterrato a Tunisi.

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Il deserto riesce a darci una visione nuova della vita e del mondo. Anonimo

Il sole era sorto da poco quando Guido atterrava nell’aeroporto Cartagine, di Tunisi. A quell’ora del mattino, nel piazzale adibito a parcheggio, c’erano pochi aeroplani in attesa d’imbarcare il loro carico umano. Diligentemente, seguendo la linea gialla che gli indicava il percorso da seguire, arrestò il suo aeroplano nei pressi di un grande aereo passeggeri. Quando scese dall’abitacolo, allontanandosi, si girò per controllare la corretta posizione dell’aereo rispetto agli altri. Confrontando le dimensioni del piccolo monomotore, al cospetto di quei giganti dell’aria, non poté fare a meno di constatarne la fragilità. Non ne fu turbato e, al contrario, si sentì orgoglioso di volare con un mezzo di quel tipo. Guido, emotivamente, sapeva d’essere vicino ai pionieri dell’aviazione ed alla grande epopea che ne aveva permesso l’enorme progresso.

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Se oggi la tecnologia, applicata alle macchine volanti, ha raggiunto livelli altissimi, lo deve anche a loro. Guido, ora, voleva riempire, nuovamente, i serbatoi del carburante ed espletare le formalità burocratiche. Era atterrato prevenuto, ma dovette ricredersi. Le procedure doganali e di controllo dei documenti erano state, tutto sommato, abbastanza snelle. Pensò: <<Forse è per via dell’ora!>> Aveva, dunque, tutta la giornata davanti a sé. Considerò di modificare il programma, messo a punto, durante la preparazione del viaggio fatta a tavolino. A volte, gli capitava di cambiare qualche dettaglio in virtù delle situazioni contingenti. Durante le lunghe giornate invernali, progettando la tappa che era sul punto di realizzare, aveva stabilito di volare fino a Tozeur, procedendo da Nord verso Sud-Ovest, dove sapeva esserci un aeroporto internazionale; sorvolando obliquamente buona parte della Tunisia. Ma ora stava pensando di compiere una deviazione per esplorare l’oasi di Douz, che si trova ad Est di Tozour, ed i suoi dintorni. Sapeva che in quella zona avrebbe potuto visitare, oltre Douz, altre oasi: quella di Zaofrane, Mimoun, Sabria ed El Faouart. Tutte raggiungibili abbastanza facilmente con un fuoristrada. Durante il trasferimento avrebbe, inoltre, avuto l’opportunità di sorvolare il complesso archeologico di El Djem. A Tozeur ci sarebbe andato in un secondo momento; il tempo non gli mancava! Il problema era un altro: a Douz non avrebbe trovato un aeroporto! Più di una volta, affascinato dai luoghi che stava sorvolando, aveva deciso di compiere atterraggi fuori campo.

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In quella zona contava di riuscire ad individuare un terreno adatto allo scopo; a lui sarebbero stati sufficienti, considerando le caratteristiche del suo aereo, circa trecento metri di terreno pianeggiante. Se, nella peggiore delle ipotesi, non avesse scoperto un’area idonea all’atterraggio, gli sarebbe rimasta, comunque, la possibilità di dirigersi all’aeroporto di Tozeur. L’autonomia del suo aereo glielo avrebbe permesso. Bene! La decisione era presa. A bordo preparò la carta topografica. Lo attendeva un trasferimento di 450 chilometri. Dopo circa un’ora di volo, aveva stimato, si sarebbe trovato nei pressi del piccolo paese di El Djem. E così fu. Al centro dell’agglomerato di case bianche, piuttosto anonimo, vide immediatamente, troneggiare, maestoso ed incombente, l’anfiteatro romano. Il più grande del Nord Africa. Non poté fare a meno di constatare la sua grande somiglianza con il Colosseo, rimanendone stupefatto. A Guido era apparso, quasi, come un miraggio. Una costruzione gigantesca saldamente inserita nella pianura circostante, costruita lì, non si sa per quale motivo. Sorvolandolo a bassa quota, la prima impressione che aveva avuto, durante l’avvicinamento, si rafforzò: El Gjem era il fulcro del paese, composto da casupole basse, ad un piano, disposte a cerchio attorno all’antico monumento. Guido, dalla sua posizione privilegiata, poté godere di una vista affascinante e, nello stesso tempo, inquietante; soprattutto per il contrasto fra le dimensioni del gigante e quella delle casette, accentuato dal color mattone di quello e dal bianco delle abitazioni. Ancora qualche giro con al centro El Gjem, poi puntò a Sud, direzione Douz.

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Gli rimaneva circa un’ora e trenta di volo. Ed ecco apparire davanti al muso dell’aereo, nell’atmosfera tersa delle prime ore del mattino, inserita in una cornice di colori caldi e in un’esplosione di verde, l’oasi di Douz. Guido salì a tremila piedi con lo scopo d’avere una visione d’insieme del luogo. Douz gli apparve incuneata fra la parte orientale della grande estensione salata del Chott el Djerid e le prime grandi distese di dune del Sahara che stavano proiettando le loro ombre allungate sul terreno, aumentando la plasticità delle forme. Si rese conto che il nome, “Porta del deserto”, con il quale era stata ribattezzata l’oasi, era del tutto appropriato. Il deserto, che tanto aveva sollecitato la sua fantasia, era lì, davanti e sotto di lui. Non ci pensò due volte e puntò verso il suo cuore. Poteva osservare l’immensità del Sahara, davanti a lui, che gli appariva come lo aveva sempre immaginato: spazi immensi, sole implacabile, galoppata di dune che si perdono verso l’orizzonte con la robusta eleganza delle loro sinuose geometrie. Il senso di libertà che volare gli trasmetteva, ora, era amplificato dalle sensazioni che il deserto gli stava sussurrando. La natura si presentava con un aspetto forte: tutto gli appariva netto, perentorio, senza mezze misure. Così i colori e le forme. Ma, si disse: <<Non devo distrarmi! Devo cercare uno spiazzo dove poter atterrare; poi avrò tempo per il resto.>> Invertì la rotta e si portò, nuovamente, sul palmeto. Nel farlo, si abbassò per meglio valutare la conformazione del suolo.

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Il terreno che scorreva sotto di lui gli appariva piuttosto irregolare. Si vedevano, di tanto in tanto, dei piccoli spazi pianeggianti, ma quando abbassandosi ulteriormente, per valutarne la struttura con maggiore precisione, notava minuscole irregolarità che spuntavano dal nulla. E Guido scartava la possibilità di appoggiare le ruote in quei campi, improvvisati, d’atterraggio. Sarebbe stato veramente un guaio se avesse danneggiato l’aeroplano in un contesto del genere. La riparazione sarebbe risultata veramente problematica! Il desiderio di atterrare, in quei momenti, si contrapponeva alla valutazione oggettiva della situazione contingente che si presentava. Doveva, comunque, prendere una decisione! Indugiare troppo sul da farsi, non era opportuno. In momenti del genere si imponeva di mettere in pratica un consiglio che soleva dare ai suoi allievi. Diceva loro: <<Quando vi troverete in situazioni nelle quali desiderio e razionalità sono in conflitto l’uno con l’altra, comportatevi come se doveste consigliare vostro figlio sul da farsi ed agite di conseguenza.>> Fu così che decise di compiere ancora un paio di passaggi a bassa quota. Se non avesse individuato uno spazio adatto all’atterraggio, si sarebbe diretto a Tozeur. La prima ricognizione dette esito negativo. Scoraggiato e rassegnato, si predispose, mentalmente, al cambio di programma. Ma, prima di abbandonare il suo proposito, si spostò verso Est, rispetto al palmeto che stava sorvolando. Le case, quasi non si notavano, immerse com’erano nel rigoglio della vegetazione. Improvvisamente, non più nascosta dal palmeto alla vista di Guido, apparve una spianata, a prima vista totalmente libera da ostacoli.

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Avrebbe appreso, in seguito, trattarsi del luogo dove ogni anno si svolge il festival del Sahara. Si abbassò ulteriormente, rallentando l’aeroplano. Il terreno gli sembrò buono. Dette motore per salire. Doveva portarsi alla quota di circuito che valutò settecento piedi. Gli rimaneva di stabilire un ultimo dettaglio: la direzione del vento. Ovviamente non c’era una manica a vento che gliela potesse indicare! Girovagò ancora un poco e…provvidenziale, vide il fumo di un fuoco acceso sul limitare della vegetazione. L’inclinazione del pennacchio che saliva, bianco, verso il cielo, gli indicò la provenienza del vento. Ora sapeva in quale direzione atterrare! Decise, per sicurezza, di impostare una velocità di avvicinamento finale al limite dello stallo con flaps completamente abbassati. La spianata era larga, non aveva, quindi, problemi per rimanervi allineato. Si concentrò sulla velocità, non doveva farla scadere oltre. Era già al limite. L’aereo scivolò, verso quella pista improvvisata, come se si muovesse su di un ripido piano inclinato. Quando fece la richiamata, a pochi metri da terra, l’aereo dolcemente sollevò il muso verso il cielo, ridusse la velocità che diminuì progressivamente e velocemente. Guido lo sostenne permettendogli di adagiarsi delicatamente sul terreno. Una breve corsa, priva di sussulti e, fu fermo. Sulla sua sinistra vide una rientranza nella vegetazione; sembrava il posto adatto per parcheggiare. Spostandosi, circondato da una nuvola di polvere bianca, sollevata dal flusso d’aria mossa dal movimento dell’elica, Guido diresse l’aereo verso la rientranza che aveva notato. Quando fu nelle sue vicinanze, valutandone le dimensioni,

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decise di introdurvi l’aereo. Con grande attenzione, per evitare di urtare con le ali qualche albero, entrò in quel riparo naturale. All’interno, poté notare, c’era una discreta zona d’ombra. Non era ancora del tutto sceso dall’abitacolo, quando un nugolo di bambini chiassosi, comparsi dal nulla, lo circondò. Ne fu stupito e sorpreso. Erano allegri. Il loro sorriso ingenuo. Nei grandi occhi scuri la luce di chi non conosce alienazione. Tutti protendevano le mani verso di lui, spingendosi, urtandosi gli uni con gli altri, per guadagnare il primo posto. In breve gli furono addosso, imprigionandolo fra loro e l’aereo. I vestiti dei bambini erano laceri, rattoppati alla meglio; alcuni indossavano magliette con grandi buchi sul torace. I piedi scalzi. Il colore delle mani, di un nero fumo, rivelava tutta la sporcizia che vi era spalmata. Da quel vociare urlante, chiassoso ed indistinto, una parola prevaleva su tutto il rumoreggiare: bon, bon. Ma Guido non aveva caramelle con sé! Ne fu sinceramente dispiaciuto e confuso. Per un momento si sentì in difficoltà, non sapeva come liberarsi da quella moltitudine urlante e devastante. Temette anche per l’incolumità dell’aereo. Improvvisamente, tutti si ammutolirono scostandosi dalla sua persona. Sul momento non si rese conto del perché. Ma poi vide, sulla sua destra, avanzare con portamento fiero, un uomo. Alto, slanciato, indossava una lunga tunica azzurra. Un turbante bianco gli copriva la testa. Il suo incedere era fiero e deciso. In mano teneva un lungo bastone con il quale scandiva i passi. Rughe profonde gli incidevano il viso

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bruciato dal sole, lo sguardo fisso sul gruppo dei bambini, illuminava il volto senza nome di quello sconosciuto. Quando li raggiunse, rivolgendosi al gruppo, pronunciò alcune parole, incomprensibili a Guido, alzando il bastone, per poi calarlo, senza esitare, sulle schiene di quei marmocchi che, come tanti animaletti spaventati, si dileguarono disperdendosi fra le palme. Quando furono soli, parlando in francese, si scusò per l’accoglienza che i bambini gli avevano riservato. Guido sdrammatizzò. Disse di chiamarsi Wadja, volle sapere il nome di Guido e da dove veniva. Gli spiegò che non aveva mai visto, prima d’ora, un aeroplano così da vicino. E, chiedendogli il permesso di toccarlo, gli si avvicinò. Stupore e curiosità trapelavano dal suo sguardo e dai suoi movimenti. Quando la sua curiosità fu soddisfatta, gli chiese il perché fosse atterrato proprio lì. Guido cercò di spiegargli, con poche parole, il motivo. Wadja ascoltò in silenzio. Dopo qualche istante, con un gesto misurato della mano gliela pose sulla spalla e, guardandolo negli occhi, disse: <<Tu sia il benvenuto; la mia casa è la tua casa.>> Confuso ed imbarazzato, si sentì, in quel momento, fuori posto; non sapeva cosa dire, come rispondergli. Si limitò ad un grazie, confidando che il suo sguardo potesse esprimere ciò che non era riuscito a dire con le parole. Fissandolo negli occhi, ebbe la sensazione che un flusso empatico li stesse unendo! Guido fu tentato di offrigli un volo, ma concluse che non era il caso. Il luogo, l’abbigliamento di Wadja, la non conoscenza della persona, erano tutti elementi che gli

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suggerivano di soprassedere. Comunque gli sarebbe piaciuto farlo. C’erano, però, altre cose più importanti che voleva sistemare: rifornirsi di carburante, assicurarsi che l’aereo potesse rimanere in quel luogo e procurarsi un alloggio. Spiegò le sue problematiche a quello sconosciuto confidando nella sua onestà. Una sensazione istintiva, comunque, gli diceva che si sarebbe potuto fidare e così fece. Wadja lo rassicurò: l’aereo poteva rimanere dove si trovava. Non avrebbe corso nessun pericolo. Lui se ne sarebbe preso cura personalmente. Anche per il carburante non ci sarebbero stati problemi. Per quanto riguardava l’alloggio, gli menzionò un paio di alberghi che si trovavano nel villaggio. Se a Guido fosse stato di gradimento, da quel momento poteva considerarlo la sua guida. Rifletté un poco, abbassando lo sguardo. Gli sembrava tutto troppo veloce. Non aveva previsto un’evoluzione del genere. Ma poi, confidando nel senso di fiducia che gli aveva ispirato, gli disse di sì, che gli avrebbe fatto piacere averlo come guida. Ora, però, desiderava visitare l’oasi da solo. Guido non sapeva rinunciare alle emozioni dell’esplorazione in solitaria! Per lui era come il formaggio sulla pasta. Wadja non ebbe nulla da eccepire; semplicemente gli disse: << Mi troverai nella piazza principale del paese.>> Porse la sua mano ruvida e callosa a Guido che contraccambiò quel gesto, stringendogliela. Quando unì la sua a quella di Wadja, la sentì, provando un leggero disagio, umida, fredda e nello stesso tempo avvertì una presa salda e vigorosa che gli comunicò la fermezza onesta del carattere di quell’uomo.

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Guido rimase solo, mentre lo guardava allontanarsi: era soddisfatto di come stavano andando le cose! Iniziò una tranquilla passeggiata all’interno dell’oasi di Douz, seguendo le strade in terra battuta che si tuffano in autentiche gallerie di verde. Proseguendo nella sua esplorazione, si rese conto che le arterie principali segnano l’oasi a guisa di una maglia di rete, suddividendola in tanti riquadri, mentre sentieri secondari si snodano lungo i perimetri delle varie proprietà, seguendo i canali d’irrigazione. Guido, camminando in quel dedalo di sentieri, si perse più volte, trovando la cosa, tutto sommato, piacevole. Continuando a camminare, riuscì a trovare sempre una via principale. Con discrezione, durante il suo girovagare, fece conoscenza con qualche contadino incuriosito dalla sua presenza; altri li osservò durante il loro lavoro. Seduto all’ombra delle palme, con le gambe incrociate e la schiena appoggiata ad un tronco, si soffermò ad osservare insolite scene di vita, come il ritorno dai campi di uomini a dorso di mulo o il ritorno dai pozzi di donne cariche di anfore. Dalla sua posizione ebbe anche l’opportunità, di assistere alla raccolta dei datteri. Uomini con i piedi nudi salivano in cima alle palme recidendo i grappoli che, legati ad una corda, facevano scendere a terra lentamente. Qui, uomini più vecchi seduti a semicerchio, staccavano i frutti, per poi deporli in cassette: i migliori da una parte, quelli non perfetti dall’altra. Guido non ebbe difficoltà a trovare il piccolo albergo che Wadja gli aveva consigliato.

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Dietro il modesto banco della reception, un impiegato di colore lo attendeva; evidentemente era stato avvisato del suo arrivo! L’accoglienza calorosa, ma essenziale, lo mise immediatamente a suo agio. Espletate le brevi formalità d’ingresso, gli fu mostrata la cameretta dove avrebbe pernottato. Per raggiungerla doveva attraversare un grazioso patio adorno di fiori, per poi salire al piano superiore della costruzione dove si trovavano le camere che circondavano il quadrilatero sottostante. Nell’insieme, la struttura gli ricordava quella di un monastero: equilibrata ed in questo caso accogliente. Sistemate le poche cose che si era portato con sé, decise di recarsi nel villaggio, lì avrebbe incontrato sicuramente Wadja. Durante il percorso notò che le case, erano state tirate su con malta grezza e solo alcune con cemento. Bianche, alte un solo piano, con all’interno un cortile su cui si affacciano tutte le stanze. << In sostanza, la stessa struttura del mio albergo.>> Pensò. Sbirciando dagli usci sempre aperti, notò che erano il regno delle donne che entravano ed escivano sempre con qualche peso: soprattutto grosse anfore piene d’acqua, raccolta nei pozzi. Gli uomini, invece, li aveva visti nell’oasi, impegnati nella coltivazione delle colture. Aveva notato, durante la sua breve permanenza nel palmeto, che il terreno era disposto su tre livelli: nella parte più bassa gli ortaggi, a mezza altezza gli alberi da frutto (melograni, fichi, meli) e infine, al di sopra di tutto, le palme da dattero che, con la loro ombra, proteggono la vegetazione sottostante.

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A quell’ora del pomeriggio, l’abitato gli si presentava quieto e sonnacchioso. Giunto nella piazza, si rese conto che era il luogo di maggior rilievo; ampia e circondata da portici, sotto ai quali c’era una moltitudine di piccoli negozi. Vide che vi si poteva trovare un poco di tutto. Le merci erano state disposte disordinatamente, con noncuranza, sopra banconi fatti con assi di legno grezzo; una spessa coltre di polvere le ricopriva, mascherandone i colori vivaci. Guido immaginò, sedendosi al tavolo di un bar, quella piazza nel giorno del mercato, affollata dalle persone, impegnate a contrattare il prezzo delle merci. Nel locale, dove si era fermato, l’essenziale. La sua attenzione fu attratta dal colore dei muri. Erano verde vivo nella parte inferiore, sopra, di un colore chiaro, non ben definibile. Troppo sporco per poterlo dire! All’interno, alcuni uomini stavano sorseggiando il tè alla menta; apparivano distratti dai loro affari, ma in realtà attenti a ciò che accadeva intorno a loro. Di certo, la presenza di Guido non passò inosservata! Non aveva ancora terminato di bere il tè alla menta ordinato poco prima, quando vide entrare Wadja. Si salutarono quasi con fare confidenziale, sorridendosi vicendevolmente. Wadja, lo si capiva dall’atteggiamento, si considerava già la guida di Guido; gli chiese se l’albergo fosse stato di suo gradimento e se in paese avesse, per caso, avuto contrattempi. La sua risposta fu telegrafica: << Tutto bene, grazie.>> Non erano sufficientemente intimi per avere una conversazione fluente e culture profondamente diverse, li separavano. Inoltre, Guido aveva una conoscenza limitata

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del francese; inevitabili i silenzi, non privi d’imbarazzo, fra un discorso e l’altro. Fu così che, per riprendere la conversazione, Wadja gli parlò del coucher du soleil ( il tramonto del sole ). Gli spiegò trattarsi di una tradizione tipica di Douz, facendogli capire che la calata del sole dà luogo ad uno spettacolo grandioso. Il racconto lo incuriosì ed accettò di buon grado la proposta. In silenzio si incamminarono verso il luogo da dove si sarebbe potuto osservarlo. Si trattava di una duna molto alta alla cui base si trova un piccolo e grazioso boschetto di palme, molto vicino al luogo dove Guido aveva parcheggiato il suo aereo. Per salire sulla sommità della duna, dovettero fare una certa fatica: la sabbia, in forte pendenza, impediva loro di procedere speditamente. Spesso, cedendo sotto i loro piedi. Entrambi, scivolando, erano costretti a retrocedere di qualche metro, per poi riprendere la salita. Quel salire e scendere li impegnò più del previsto e, quando guadagnarono la cresta, mancava poco al tramonto. Intorno a loro una sconfinata distesa, punteggiata da dune di sabbia color porpora e un cielo azzurro, macchiato dal rosso della palla infuocata che sarebbe scomparsa lentamente all’orizzonte. Guido si sedette nel punto più alto della duna, estasiato dallo spettacolo che poteva ammirare. Lo fece incrociando le gambe e affondando le mani nella sabbia, dietro di lui, per sostenere il busto. Le dune, progressivamente, si coloravano di ocra, avvampavano, per poi spegnersi lentamente, mentre le ombre si allungavano sulla sabbia, creando giochi fantastici di luce. Il cielo, a occidente, si tingeva di rosso cupo, mai

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visto prima, infine, quando già le stelle brillavano in cielo, l’orizzonte aveva ancora bagliori d’azzurro vivo. Raramente, Guido si era sentito così sereno, così in pace con se stesso. Prima di quel momento non aveva mai provato una sensazione così forte di limitatezza di fronte all’immensità del deserto e al tempo stesso quel delirio di potenza nel sentirsi parte, e persino dominatore, di una natura che gli era tutt’altro che ostile. Il deserto lo stava invitando alla riflessione grazie al suo silenzio e alla sua immobilità. Per qualche istante, Guido dimenticò di avere una vita, un passato, magari un futuro e, abbandonando la posizione seduta, lentamente si adagiò, supino, sulla sabbia tiepida, che lo accolse, cedendo sotto di lui, come avrebbe potuto fare una madre amorevole. Il vento tiepido del deserto lo abbracciò, accarezzandogli il viso e lui chiuse gli occhi, lasciando piangere il suo cuore. Wadja, in disparte, aveva capito! Con rispettosa partecipazione era rimasto in silenzio per tutta la durata del tramonto. Ed in silenzio, nel crepuscolo di quella magica serata illuminata, soltanto, dalla fioca luce lontana di un accampamento Tuareg, ritornarono sui loro passi. L’indomani sarebbe stato giorno di mercato. Così gli aveva detto Wadja. Guido pensò che non voleva perderselo e così fece. A lui piaceva molto immergersi fra la folla, osservare le persone nel loro ambiente naturale, cogliere gli aspetti caratteristici dei luoghi che visitava. Di buon mattino si recò nella piazza principale dove sapeva esserci il mercato. Nello spiazzo centrale c’erano i mercanti di frutta, verdura, altri generi alimentari, prodotti di bellezza “naturali”. Wadja, che lo stava accompagnando, a proposito di questi ultimi, gli spiegò il significato di alcune parole: henna: il prodotto per

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colorare di rosso mani e capelli, tfal: per lavare i capelli, mardouma: per tingerli di nero, ecc. I portici ospitavano i venditori e le venditrici di manufatti in terracotta, gioielli dei berberi e dei nomadi (sempre più rari!), gli confidò Wadja, di rame e di ottone, incisi a sbalzo, di povero, ma caratteristico artigianato del cuoio (molto belle le babbucce ricamate). Dietro la piazza un vasto recinto ospitava il mercato del bestiame. Vivaci le scenette delle contrattazioni tra i pastori. Guido si sedette sopra un muretto di cinta per godersi l’intensa vita di quel luogo. Quella posizione, fra l’altro, era un ottimo punto per scattare fotografie! Rimase in quella posizione per qualche tempo, godendosi l’animazione e il caleidoscopio di colori che il contesto in cui si trovava gli offriva. L’ebbrezza di trovarsi immerso in una situazione così particolare gli aveva tolto ogni interesse per le necessità quotidiane. Decise di cibarsi con il pane arabo e i datteri, acquistati in una bancarella. A Wadja disse, salutandolo, che si sarebbero visti nel pomeriggio. Guido, in quel momento, desiderava tornare al suo aereo. L’intenzione era quella di sorvolare le oasi che sapeva trovarsi nelle vicinanze di Douz. Farlo gli sarebbe servito per farsi un’idea d’insieme di quei luoghi e valutare le difficoltà relative alla loro visita con un quattro per quattro. Wadja gli aveva detto che l’esplorazione non avrebbe presentato difficoltà, che lo avrebbe accompagnato lui, ma Guido voleva sincerarsene di persona. Inoltre, avrebbe avuto l’opportunità di saggiare il terreno su cui era atterrato. Era impaziente di farlo! Da quando era lì, l’idea di decollare da quel terreno, non ancora testato, non lo aveva abbandonato, era presente in lui

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come il fuoco sotto la cenere, creandogli una leggera inquietudine. Quando giunse nel luogo dove aveva lasciato l’aereo, trovò tutto a posto. Soddisfatto, lo posizionò, tenendo conto della provenienza del vento, con il muso rivolto nella direzione più appropriata per il decollo. La corsa, per raggiungere la velocità di rotazione, fu del tutto regolare e Guido si sentì libero. La sensazione di libertà, che provava, era amplificata dal contesto in cui era immerso. Il sorvolo delle zone, che avrebbe visitato in compagnia di Wadja, gli confermò quello che lui gli aveva detto. A quel punto era impaziente di recarvisi, ma pensò che sarebbe stato opportuno realizzare l’escursione il giorno seguente. Avrebbe avuto, così, tutta la giornata per farla! Sceso dall’aereo, trovò Wadja che lo stava attendendo. Era seduto tranquillamente sotto l’ombra di una palma, le gambe rannicchiate al petto, lo sguardo perso nel nulla. Si salutarono, questa volta, con calore. Guido gli comunicò i suoi propositi per il giorno dopo. La risposta di Wadja fu di approvazione. Lo avrebbe prelevato dall’albergo un’ora dopo l’alba. L’auto ed il resto lo avrebbe procurato lui. A Guido non rimaneva che pensare solamente alla propria persona. Si salutarono con una stretta di mano; Wadja scomparve nel palmeto, mentre Guido tornò in albergo. La mattina seguente, all’ora stabilita, Guido si affacciò all’ingresso dell’albergo. Era impaziente di partire. Wadja stava aspettandolo sul fuoristrada che aveva parcheggiano dalla parte opposta della strada. Vedendolo, non aspettò di essere invitato a bordo; attraversò la viuzza e salì in auto. Sulle spalle portava uno zainetto con

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l’occorrente per la giornata. Quello zaino, da anni, lo accompagnava nei viaggi. <<Dove si va?>> Chiese a Wadja. <<Per prima cosa ti porto a Ghilissia, sai di cosa si tratta? >> <<No, Wadja.>> Rispose. <<E’ un antico paesino, a quattro chilometri da qui.>> <<Cos’ ha di particolare?>> <<Lo vedrai: comunque, anni fa il borgo fu invaso dalle dune che lo hanno quasi interamente sommerso; lo chiamano il villaggio fantasma.>> Dopo pochi minuti arrivarono sul posto. Guido rimase stupefatto da ciò che stava vedendo. Poté constatare che dell’abitato rimanevano alcuni resti spettrali, affioranti dalla sabbia. Ai suoi occhi apparve come uno spettacolo insolito e scioccante che dava la misura della potenza del deserto. Guido si aggirò fra le dune per carpire l’insolita bellezza che quel posto gli stava regalando. Sarebbe rimasto lì a lungo; gli sarebbe piaciuto perdersi nel silenzio, abbandonarsi nel nulla, ma desiderava, anche, completare l’itinerario che si era prefisso di compiere. Quello lo considerò un assaggio, una anticipazione di ciò che lo aspettava! Ripartiti, imboccarono una pista. Il fondo era, per lunghi tratti, compatto come il cemento e gli permise di mantenere una buona media. Si stavano dirigendo a Zaafrane. Quando arrivarono nel piccolo villaggio, l’impressione che ne ricevette fu di grande povertà. Le case erano costruite con argilla rappresa, tutte ad un piano. Nei viottoli non c’erano persone.

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Wadja gli spiegò che il villaggio era nato come luogo di sosta della tribù nomade degli Adhara e che c’è molta vita attorno ad un canale d’irrigazione poco distante da lì. Le donne vi si recano a sciacquare panni o a prendere l’acqua. Gli uomini erano nel palmeto. Wadja, rivolgendosi a Guido, gli disse: <<Te la senti di camminare?>> La risposta fu: “ Non aspetto altro.>> <<Bene, seguimi.>> Attraversarono tutto il villaggio, dirigendosi verso una grande duna. Wadja gli fece capire che dovevano salire sulla cima. <<Bene!>> Pensò Guido, rallegrandosene. Raggiunta la cima, rimase senza fiato: non avrebbe mai pensato di vedere un laghetto in un posto simile. Perfettamente circolare (pareva disegnato con un compasso), di una bellezza inaspettata, sembrava lo aspettasse per farsi ammirare. Era circondato da una corona di palme, che formavano un sottile boschetto lungo le sue sponde e da una corona di dune che lo contornavano. Solamente dalla posizione in cui si trovava, avrebbe potuto avere quella visione d’insieme! In cuor suo ringraziò Wadja per avergli dato l’opportunità di osservare il luogo da quel punto. Poi, ebbro di tanto equilibrio, si lasciò cadere sul fianco opposto a quello che aveva risalito, iniziando a scivolare verso la base della duna. La forte inclinazione del versante, sul quale si era abbandonato, favorì la discesa che si era proposto di fare e mentre slittava giù, urlò dalla gioia, sollevando le braccia al cielo! Guido, in quel momento, liberò tutta la gioia infantile che stava gorgogliando nel suo petto, sperimentando un piacere indefinibile.

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Wadja, dall’alto, lo guardava in silenzio; le braccia incrociate sul petto, sulle labbra un tenue sorriso di compiacimento. Era contento di avergli regalato alcuni momenti di autentica felicità. Era soddisfatto nel constatare che uno straniero stava apprezzando, a tal punto, la sua terra. Con lunghe falcate raggiunse Guido ed insieme percorsero il periplo del laghetto. Non si scambiarono parole durante il percorso, ma fu come se lo avessero fatto. Mimoun era un’oasi simile alla precedente, solamente più piccola. Il laghetto in mezzo alle dune di una bellezza idilliaca! Sostarono a lungo, distesi sulla sabbia, ascoltando il fruscio prodotto dai granelli di sabbia, mossi dal vento. Niente e nessuno avrebbe potuto scalfire lo stato di beatitudine in cui si trovava in quel magico momento. Li attendeva l’ultima tappa: Sabria. Per raggiungerla ,percorsero una pista abbastanza impegnativa. In molti tratti era solo timidamente segnata, sulla sabbia, con alcuni sassi disposti gli uni sugli altri. Wadja guidava con sicurezza, zigzagando fra le asperità della pista, cercando di condurre la vettura nei punti dove il terreno era più consistente. Ma, senza alcun preavviso, il quattro per quattro su cui viaggiavano si inclinò sulla destra. Percorse ancora pochi metri per poi arrestarsi. Le ruote giravano a vuoto: si erano insabbiati! Wadja spense il motore e scese dall’auto. Dal suo viso non trapelava alcuna emozione. Fece un giro completo attorno alla macchina, poi si chinò accanto alla ruota anteriore, affondata nella sabbia fin quasi al mozzo. Con le mani tolse una grande quantità di sabbia davanti e dietro la ruota. I suoi gesti esprimevano esperienza e sicurezza.

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Dopo il suo intervento, la ruota era affiorata completamente dalla sabbia ed ora, si trovava libera al centro del canale, che aveva scavato. <<Guido, vai dietro e spingi quando te lo dirò io.>> Gli disse in tono confidenziale. Guido non se lo fece ripetere e, quando fu in posizione: <<Ok, ci sono.>> Wadja accese il motore e: <<Dai spingi.>> << Vai.>> Gli rispose Guido. Ci fu un attimo in cui l’auto rimase ferma, sebbene il motore girasse allegramente, poi iniziò, vibrando, a muoversi, quasi con indolenza. Guido a quel punto capì che erano riusciti a disincagliarsi! Proseguendo lungo la pista, passarono in una sorta di canalone incuneato fra dune spettacolari, per poi arrivare nel villaggio. Ad accoglierli, una cinquantina di casupole in parte sommerse dalla sabbia e disposte a semicerchio attorno a una grande piazza centrale in terra battuta. A quell’ora deserta. Fermarono l’auto ed a piedi proseguirono sulla sabbia che si era fatta rovente. Improvvisamente una visione: un laghetto ellittico con l’acqua color cobalto, contornato da palme altissime e da dune: l’oasi. Molte donne erano intente a lavare i panni che stendevano ad asciugare lungo i pendii delle dune; imbandierandole. Altre venivano a prendere l’acqua e a chiacchierare. Discosti dalle donne, alcuni pastori avevano portato le bestie ad abbeverarsi. Insomma: c’era un via vai continuo!

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Ritornati sui loro passi, intanto, il paese si era animato. La calura delle ore centrali stava diminuendo e la brezza del deserto che inizia a soffiare nel pomeriggio inoltrato, contribuiva a far diminuire la temperatura, invogliando le persone ad uscire. Qui una nota tristemente dolente: gli abitanti di Sabria, apparvero a Guido poverissimi. Un velo di tristezza calò su di lui vedendo molti bambini con la pancia gonfia per la fame e con le palpebre cucite per malattie infantili non curate. Dopo aver dato le poche cose che avevano con loro a quella povera gente, rientrarono a Douz. La mattina seguente Guido sarebbe ripartito di buon’ora. Avrebbe incontrato Wadja in albergo ed insieme si sarebbero occupati del rifornimento dell’aereo.

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...Ma non vivere di lamento come un cardellino accecato. Giuseppe Ungaretti

L’oasi di Douz era deserta. Il silenzio sovrano! Il sole del primo mattino illuminava il palmeto con tonalità dorate, le ombre allungate delle palme serpeggiavano sul terreno, come il pennello del pittore sulla tela. La temperatura dell’aria, che si era abbassata notevolmente durante la notte, permetteva a Guido e Wadja di svolgere le attività che si erano proposti, beneficiando della frescura di quelle ore. Il rifornimento di carburante avvenne senza intoppi e Quando lo terminarono, la calura non era ancora sopraggiunta! Entrambi, durante il lavoro, avevano avuto la consapevolezza che quelli sarebbero stati gli ultimi momenti nei quali la loro amicizia si sarebbe manifestata. Quasi sicuramente non si sarebbero più rivisti nell’arco delle loro esistenze, ma l’uno non avrebbe dimenticato l’altro. Una traccia indelebile dell’intersezione delle vite dei due uomini sarebbe rimasta impressa nelle loro anime per sempre. Né erano certi!

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Ecco: avevano terminato i lavori! La parentesi, che aveva racchiuso la loro breve conoscenza, si stava chiudendo. La fine era lì, incombente su entrambi ed entrambi avvertivano il disagio, impastato di malinconia, del saluto che di lì a poco si sarebbero fatti. Fu Guido a prendere l’iniziativa. Disse: <<Bene; grazie di tutto.>> e guardandolo negli occhi, gli strinse la mano. Wadja fece altrettanto, ma rimase in silenzio. Fra i due ci fu un momento d’incertezza…poi, come se ubbidissero ad un comando, si abbracciarono. Più volte le loro mani batterono sulla schiena dell’altro. Con quel gesto stavano sottolineando l’affettività che non sarebbero riusciti ad esprimere con le parole. Interrompendo l’abbraccio, si strinsero, nuovamente, la mano, poi Guido salì sull’aereo. Wadja rimase nelle vicinanze per tutto il tempo che precedette il decollo, e quando l’aereo cominciò a muoversi, avvolto dalla polvere che l’elica sollevava, alzò un braccio in segno di saluto. Guido rispose con il gesto che i piloti fanno per indicare che tutto è ok (stringendo la mano a pugno con il dito pollice sollevato). Quando, dopo il decollo, ripassò a bassa quota sulla spianata da dove era partito, Wadja era ancora lì: teneva un braccio sollevato verso il cielo in segno di saluto, e con l’altra mano si faceva ombra sugli occhi. Guido fece rollare l’aereo per alcune volte a destra ed a sinistra, rispondendo in quel modo al saluto; poi si mise in rotta per Tozeur. Allontanandosi, la commozione che aveva mascherato fino a quel momento, fece breccia nel suo animo e qualche lacrima bagnò le sue guance. L’antico dolore, con il quale viveva in simbiosi, comunicava con lui usando l’unico linguaggio che conosceva: le lacrime.

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Guido aveva deciso di diventare suo amico, e malgrado tutto, di accettarlo. Respingerlo, rifiutarlo, aveva concluso che non sarebbe servito a nulla. In tutti i modi, avrebbe continuato a vivere di vita propria! Magari, si sarebbe manifestato subdolamente per mezzo di altre modalità meno esplicite. Tanto valeva guardalo in viso. Guido era diventato suo amico, e quando lui gli parlava, soleva considerarlo benevolmente. Gli piaceva materializzarlo nella sua mente, accarezzarlo come avrebbe fatto con un’amata, commuovendosi. Aveva capito che, comunque, si finisce per piangere su se stessi! Gli accadimenti della vita, pensava: <<Sono pretesti che danno la possibilità alle nostre malinconie di emergere.>> Era pure convinto che gli umani, privati dell’esperienza del dolore, non sarebbero stati in grado di esprimere compassione per i loro simili. Sì: era certo della necessità di accettarsi per quello che si è. Pensava: <<Solamente così ci si può amare.>> <<Amare, altro non è che accettare senza condizioni l’oggetto del nostro amore.>> Continuando nella sua riflessione: <<Nella misura in cui saremo in grado di accettarci per quello che siamo, saremo poi in grado di accettare nella sua grande complessità il nostro prossimo!>> Il riverbero accecante del grande Chott El Jerid (Un grande lago salato) distolse Guido dai suoi pensieri, e…rapito da quel paesaggio surreale, condusse il suo aereo a sfiorare il terreno.

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Volò a pochi metri dalla superficie salata per tutta la sua estensione. Poco distante da lui, sulla sua destra, poteva vedere la lunga striscia di asfalto nera, che segna il lago per tutta la sua ampiezza, puntando diritta a Tozeur. Davanti a lui, in lontananza, contornata dall’aria resa tremolante dall’altissima temperatura del suolo, una immagine azzurrina. Non ebbe dubbi nel riconoscere un miraggio! I raggi di luce, originati molto lontano da quel luogo, galoppando fra strati di aria con densità diverse, e da essi rifratti ripetutamente, erano giunti fino a lui. Gli avevano portato l’immagine, sfuocata, di un’oasi! Chi si fosse affacciato alla porta che immette nel soggiorno dell’appartamento di Angela, sarebbe rimasto interdetto. La stanza era immersa nella penombra: netto il contrasto con l’esterno dove il cielo era azzurro e sgombro da nubi. La brezza del mattino invogliava alla spensieratezza. Nel cortiletto condominiale dei ragazzini giocavano con il pallone, vociando allegramente. Un odore acre di fumo di sigaretta saturava la stanza materializzando il percorso di un raggio di sole. Le persiane socchiuse gli avevano permesso di insinuarsi fra loro per poi colpire un tavolinetto posto davanti al divano. Su di esso, un portacenere ripieno di mozziconi di sigarette, nervosamente schiacciati nel suo interno e due tazzine da caffè, vuote. Angela e Katia sedevano una di fronte all’altra, sprofondate sulle poltrone. Le braccia languidamente appoggiate sui braccioli; fra le dita stringevano una sigaretta, in parte fumata. Le gambe accavallate.

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Katia, ancora ospite dell’amica, aveva deciso che non sarebbe più tornata ad abitare con i suoi genitori. Tutto sommato la decisione non le era costata più di tanto. Da tempo desiderava trovare una sistemazione tutta per lei. Una cosa le era dispiaciuta, che il distacco fosse stato provocato da una lite! Sognava un piccolo appartamento nella provincia del suo paese, magari nel centro storico. Lo avrebbe voluto piccolo, una bomboniera. Per lei sarebbe stato il rifugio che avrebbe custodito con cura quasi maniacale. Ma, per ora, sapeva che sarebbe stato solo un sogno! Quel sabato mattina, le due ragazze avevano deciso di indugiare pigramente in salotto. Ancora in pigiama, avevano tacitamente deciso di crogiolarsi pigramente dopo il risveglio. Per questo motivo le persiane erano ancora socchiuse. Angela aveva lavorato duramente per tutta la settimana, non badando ad orari. Era il prezzo da pagare, lavorando nell’azienda di famiglia! A differenza di Katia, Angela sognava di incontrare l’uomo che sarebbe diventato il suo principe azzurro, ma il destino non glielo aveva ancora consentito. A dire il vero, non si trattava solamente di destino, ma di stile di vita. Infatti conduceva un’esistenza molto riservata. Era tutta casa e lavoro; ovviamente le opportunità di fare incontri si riducevano a un lumicino. Katia l’aveva esortata tante volte ad allargare la cerchia di amicizie, a fare viaggi, ma lei non aveva recepito le sue sollecitazioni! Forse per indolenza, forse per mancanza di determinazione, forse perché rinunciataria! Comunque, l’esigenza di avere una propria famiglia non era un’ossessione per lei.

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Differente la condizione di Katia. Per lei evadere era diventata un’idea fissa, una necessità alla quale non voleva rinunciare. Se non avesse concretizzato le sue aspettative, certamente il suo equilibrio psichico sarebbe stato compromesso. Angela e Katia, in quel momento erano in silenzio. In bocca il sapore del caffè, bevuto da poco, non si era ancora fatto sostituire completamente da quello del fumo. Entrambe stavano gustando le sensazioni prodotte dal proprio meditare, fra una boccata di fumo e l’altra. Fu Angela a rompere il silenzio: <<Oggi cosa pensi di fare? Hai progetti?>> <<Sì, certo. Voglio andare in agenzia.>> <<Ah…hai preso una decisione per il tuo viaggio?>> <<Non come pensi tu.>> <<Cioè? Spiegati.>> <<Mi sono resa conto che non esiste un viaggio organizzato a mia misura.>> <<Non capisco se parli quasi a monosillabi; cerca di essere chiara, una buona volta.>> <<Scusa, lo sai è un mio difetto.>> Angela lo sapeva bene, ma questa volta si era leggermente innervosita. Katia riprese a parlare: <<Voglio dire che non è possibile appoggiarsi ad una agenzia di viaggi per farsi gestire un viaggio lungo ed articolato quanto voglio fare io. Tutto qui.>> <<Ora ho capito: ma ci voleva così tanto per dire due parole in più?>> <<Ma allora, cosa ci vai a fare in agenzia?>> Obiettò Angela. Le labbra di Katia si stirarono in un sorriso quasi impercettibile poi portò la sigaretta alle labbra ed aspirò

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facendo fuoriuscire il fumo dalle narici. Mentre lo faceva osservò il ravvivarsi della combustione sulla punta della sigaretta e, spostando il suo sguardo su quello di Angela le disse: <<Vado ad acquistare solamente il biglietto aereo.>> <<Dunque hai deciso dove vuoi andare!>> <<Non precisamente, ho qualche idea. Deciderò in agenzia in base ai costi. Comunque in Africa.>> <<Sai: non ti invidio. Partire così, senza avere le idee del tutto chiare, mi sembra azzardato.>> <<Ma cosa vuoi che mi possa capitare; non sono una persona screanzata. Dovresti saperlo!>> <<Sì lo so, ma la cosa mi preoccupa non poco.>> <<Ma su, non è proprio il caso.>> Cambiando discorso, Katia disse: <<Tu invece, hai pensato a qualche cosa per oggi?>> <<Beh…potremmo fare un giretto da qualche parte io e te, dopo che sei stata in agenzia: Cosa ne pensi?>> <<A me sta bene.>> Le rispose Katia. <<Senti Katia, ti va di aiutarmi a riordinare la casa?>> <<Ma vuoi scherzare? Non devi chiederlo! E’ scontato.>> Si alzarono contemporaneamente dalle poltrone; Katia si diresse alla finestra e spalancò sia i vetri che gli scuroni. Un mare di luce inondò la stanza, portandovi un guizzo di vitalità. Il fumo che vi si era accumulato cominciò a defluire verso l’esterno, lasciando posto all’aria pulita del mattino. <<Angela, io mi occupo della zona notte.>> <<Ok, io del rimanente.>> Le due amiche impiegarono circa due ore per lustrare la casa. Quando ebbero finito il lavoro, si guardarono, sorridendo con soddisfazione. Le faccende, appena terminate, erano state come un catalizzatore nei confronti della loro amicizia. La leggera tensione sorta durante la

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conversazione precedente, era stata in quel modo del tutto scaricata. Ora si sentivano più amiche di prima! <<Ascolta Katia, ci facciamo una doccia?>> <<Con piacere, poi ci prepariamo il pranzo.>> Katia rivolgendosi all’amica con tono scherzoso, le disse: <<Cosa ti preparo per pranzo?>> La risposta non si fece attendere: <<Ho un’idea: cuciniamo a quattro mani?>> <<Buona idea; vada per le quattro mani.>> Per guadagnare tempo, e rafforzare la complicità sorta negli ultimi momenti, decisero di entrare contemporaneamente nel box. Prima di fare la doccia, scherzando, si contesero il getto d’acqua che cadeva sulle loro teste, comportandosi come due adolescenti, fin quando l’ilarità, che le aveva pervase fino a quel momento, si esaurì. La conversazione, i lavori domestici e la doccia poi, avevano fatto perdere la cognizione del trascorrere delle ore alle due ragazze. Quando, sollecitate dalla fame, guardarono l’orologio, si meravigliarono dell’ora ed esclamarono, portandosi una mano alla bocca: <<Quanto è tardi! Spicciamoci.>> <<Dai, io preparo la pasta e tu occupati del secondo.>> Disse Angela. <<Sì d’accordo, ma prima prepariamo la tavola.>> le rispose Katia. Cucinarono delle tagliatelle ai funghi e una cotoletta con contorno d’insalata. Terminato il pranzo, che avevano consumato in religioso silenzio per meglio gustare il cibo, si fecero i complimenti a vicenda. Angela e Katia erano amanti della buona cucina, e avevano collocato i piaceri della tavola ai primi posti della graduatoria.

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Terminarono il pranzo con il caffè, a cui fecero seguire una sigaretta. Ora si sentivano a posto. <<Angela, io inizio a vestirmi per uscire.>> <<Non farti troppo bella! Non voglio sfigurare accanto a te quando saremo fuori.>> <<Non preoccuparti.>> Le rispose Katia. All’uscita dall’agenzia era contenta. Provava la soddisfazione che si avverte dopo aver preso una decisione, a lungo rimandata. Rincasando, percorse le strade del paese quasi correndo. Era impaziente di raccontare ad Angela la scelta fatta. Katia aprì con impeto la porta di casa precipitandosi in soggiorno. Non vedendo Angela, la chiamò ad alta voce: <<Angela dove sei?>> Non ebbe nessuna risposta! <<Uffaaa, poteva aspettarmi.>> Pensò. Si sedette in poltrona ed accese la televisione. Era sicura che Angela sarebbe rientrata poco dopo. Con il telecomando scelse un programma dove stavano trasmettendo un varietà. Come aveva previsto, Angela rientrò dopo pochi minuti. Sentendo la chiave girare nella serratura della porta di casa, scattò in piedi con un guizzo; un gatto non avrebbe fatto meglio! Angela era appena entrata che si trovò di fronte Katia; la guardò con curiosità. Lo sguardo di Katia esprimeva l’impazienza di comunicarle la decisione presa. <<Allora?...>> - <<Allora parto per la Libia.>> Le rispose tutto d’un fiato. Dopo un attimo di silenzio si abbracciarono commosse. Rimasero così per un poco, trasferendo l’una all’altra le

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emozioni di quel momento attraverso il caldo contatto dei loro corpi. Poco dopo, come da programma, uscirono per fare un giro in auto; decisero di andare sui colli che circondano il paese come una corona. L’argomento del pomeriggio fu il viaggio di Katia. Aveva deciso di partire da Milano, il sabato della settimana successiva. Otto giorni, aveva pensato, sarebbero stati più che sufficienti per organizzare la partenza. Fin da ora aveva realizzato che il bagaglio sarebbe stato uno zaino. Odiava le valige! Alì, seduto comodamente sul sedile numero A17, osservava il paesaggio che scorreva sotto di lui. A tratti, banchi di nubi bianche si frapponevano fra l’aereo ed il terreno, sottraendo alla sua vista il suolo sottostante. In aeroporto a Bologna, durante il check-in del volo BZ 6511, diretto in Giordania, si era fatto assegnare un posto accanto al finestrino; la signorina addetta all’imbarco, sentendolo parlare in perfetto italiano, si era stupita. A lui piaceva molto osservare il paesaggio dall’alto, ingannando, in quel modo, la lunga durata del volo. Dopo sei anni di permanenza in Italia, era impaziente di tornare in patria. Seduti accanto a lui c’erano due persone che non gli ispiravano la conversazione, comunque non aveva voglia di parlare. Preferiva crogiolarsi nei ricordi e pregustare il suo ritorno in patria. In Italia era venuto per studiare. Bologna gli era sembrata la città giusta: né troppo grande, né troppo piccola, e l’ateneo, nel suo paese, aveva un buon nome. Scegliendo la facoltà, aveva seguito le sue inclinazioni naturali. Fin da piccolo si era sentito attratto da tutto ciò che,

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in qualche modo, è riconducibile all’elettricità. Iscriversi ad ingegneria elettronica era stata una scelta quasi obbligata per lui. Per tutto il periodo di permanenza a Bologna si era imposto una disciplina ferrea. Per lui doveva esistere solo lo studio. Non poteva permettersi distrazioni. In patria c’era qualcuno che lavorava duramente affinché potesse continuare gli studi. Tutti i mesi, nella sua banca d’appoggio, arrivava un versamento. Quel denaro doveva bastargli per un mese e per tutta la durata degli studi. Non gli sarebbe stato concesso prolungare il suo soggiorno oltre il periodo regolare del corso di laurea. I primi mesi di permanenza in Italia furono particolarmente duri per lui. Sebbene avesse seguito un corso di italiano prima di lasciare la Siria, al suo arrivo in Italia, si trovò in difficoltà. Faceva fatica comunicare con i locali, ma soprattutto capire. Tutti gli parlavano velocemente, senza tener conto delle sue origini. Per sopperire alla sua scarsa conoscenza della lingua, si iscrisse ad un corso di italiano per stranieri. Dividersi fra lezioni universitarie e il corso fu veramente impegnativo. Il tutto aggravato dalla frustrazione di capire solo parzialmente le parole dei professori. Ma la certezza di farcela non lo abbandonò mai. Lui aveva superato difficoltà ben più dure durante la sua breve esistenza. Anzi, la sua vita poteva considerarsi una lotta costante per la sopravvivenza. Molte furono le nottate trascorse sui libri per conciliare le due cose. Spesso i suoi amici siriani lo spronavano ad uscire con loro, ma lui rinunciava quasi sempre. Si concedeva qualche evasione solamente quando aveva la totale certezza di non aver tralasciato nulla.

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Quando partì dalla Siria, gli fornirono un indirizzo ed un paio di numeri di telefono; quelle poche indicazioni sarebbero state gli unici suoi riferimenti. All’arrivo, gli dissero, che avrebbe trovato un connazionale ad attenderlo in aeroporto, e così fu. Sanhi lo condusse in quello che sarebbe diventato il suo alloggio per tutta la durata degli studi. Si trovava nel centro di Bologna, in una delle vie che confluiscono dove sorgono le due torri. Il monumento che caratterizza la città. Il piccolo appartamento faceva parte di un vecchio palazzo del Settecento, mal tenuto. Vi si accedeva dopo aver salito quattro rampe di scale maleodoranti e sempre in penombra. Il palazzo ospitava studenti provenienti da varie parti del mondo, risultando così, un microcosmo multietnico. Ad Alì era stata riservata una piccola stanza che avrebbe condiviso con altri due connazionali. A lui avevano assegnato il posto superiore di un letto a castello. Quello singolo se lo era accaparrato il più anziano. Collocato sotto l’unica finestra, un piccolo tavolo che doveva servire da scrivania. Sulla parete opposta al letto a castello erano state montate alcune mensole metalliche per i libri. Infine, addossate alla parete, dove era stato disposto il letto singolo, c’erano tre sedie. Nell’appartamento, inoltre, si trovava un’altra camera da letto, arredata nello stesso modo della precedente. Un cucinotto ed il bagno completavano i vani a disposizione dei ragazzi. Entrando in casa, durante la stagione invernale, si avvertiva un senso di gelo. L’impianto per il riscaldamento c’era, ma non potevano permettersi di usarlo! Per combattere il freddo usava un paio di pesanti coperte, che avvolgeva attorno al

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corpo, in particolare sulle gambe. I piedi, malgrado le precauzioni che prendeva, erano i primi a raffreddarsi; quando succedeva, li immergeva nell’acqua calda. Solamente in quel modo riusciva a scaldarli. Le mani le proteggeva con guanti di lana, che gli rendevano difficile girare le pagine dei testi su cui studiava. Quando, queste, non volevano proprio saperne di separarsi, era costretto a toglierli: avvicinava le dita alla bocca per poi stringere fra i denti il tessuto, e allontanandole, sfilava la mano dal caldo involucro. Compiva i gesti in modo automatico, con lo scopo di non distogliere lo sguardo dal libro che stava studiando. Così facendo non perdeva la concentrazione. Di tanto in tanto, socchiudendo la bocca, alitava contro la piccola lampada da tavolo. Immediatamente l’aria che espelleva dai polmoni condensava in una nuvoletta bianca, che andava dissolvendosi al calore della lampada. Il giochetto gli serviva per valutare empiricamente la temperatura ed il grado di umidità della stanza: tanto più il suo alito condensava tanto più l’umidità era alta. Il giorno nel quale il suo respiro non sarebbe più stato visibile lo avrebbe accolto con grande sollievo; preannunciava, infatti, l’arrivo della primavera, e con essa il tepore dell’aria. Quando giungeva l’ora di andare a dormire, Alì compiva un rituale tutto suo: dopo essersi tolto i vestiti della giornata, indossava una pesante tuta di lana, color carne, sopra metteva il pigiama. Per questa vestizione era deriso dai compagni di stanza, ma a lui non importava: in quel modo riusciva ad isolarsi dalle fredde ed umide lenzuola del letto! Il dramma sopraggiungeva il mattino seguente quando doveva abbandonare il tepore che si era formato sotto le coperte, e spogliarsi dal pigiama e dalla tuta. I vestiti che

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doveva indossare erano freddi e umidi. Molti minuti sarebbero dovuti trascorrere, prima che il calore del suo corpo li avesse potuti riscaldare! In quei momenti rimpiangeva la sua terra, dove splendeva perennemente il sole. Un sole che infuocava tutto e tutti. La rimpiangeva sebbene fosse nato in un campo profughi palestinese, e lì fosse vissuto fino alla sua venuta in Italia. Il campo si chiamava Shu’fat. Per lui superare le difficoltà ed i patimenti era diventato parte della sua vita. Dal momento in cui era nato, se voleva continuare a vivere, avrebbe dovuto farlo. Per lui, oltre ad essere una necessità era diventata una sfida e una questione d’onore. <<Un buon musulmano.>> si diceva, cocciutamente: <<Deve essere in grado di superare le difficoltà che il vivere gli prospetta.>> Alì, vivendo a stretto contatto con i compagni di corso, aveva potuto osservarne lo stile di vita, la disponibilità economica, e capire quali fossero le loro aspettative per il futuro. Non aveva mai fatto commenti, né preso posizione apertamente nei loro confronti, ma nell’intimo della sua anima, li detestava: i più li considerava degli smidollati e dei parassiti. Per non parlare delle ragazze, che per lui erano puttane con quelle minigonne e con quel loro fare sfrontato e senza alcun ritegno. L’aereo stava volando fra le nuvole, Alì chiuse gli occhi e continuò a ricordare. Ricordava le difficoltà che aveva dovuto superare senza esserne rattristato, né contrariato; non c’era rabbia nel suo cuore. Al contrario, era orgoglioso di avercela fatta, come un atleta che riesce a salire sul podio più alto.

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Era grato ai suoi compatrioti che avevano contribuito a dargli la possibilità di laurearsi. Qualsiasi cosa gli avessero chiesto in cambio, in futuro, lui non si sarebbe tirato indietro! In appartamento avevano creato una cassa comune. Serviva per le spese di ordinaria gestione: i generi alimentari e le bollette. A turno andavano a fare la spesa nel supermercato che sorgeva a poca distanza dalla loro abitazione ed a turno cucinavano per tutti. La colazione, al contrario, ognuno se la preparava per proprio conto a causa dei diversi orari delle lezioni a cui partecipavano e delle diverse abitudini che ognuno di loro aveva. I piatti che cucinavano erano molto semplici. Non avevano né tempo, né voglia, né le capacità di fare diversamente. Per pranzo, generalmente, preparavano gli spaghetti e per cena carne, uova oppure affettati con qualche scatoletta di tonno. Anche le pulizie erano gestite collegialmente. In genere chi cucinava non puliva la cucina; quelle relative alla casa, avevano concordato, le facevano una volta alla settimana, a turno. Un altro problema non indifferente sorgeva quando si trovavano contemporaneamente in camera, ed avevano la necessità di studiare. Il tavolo, di piccole dimensioni, non era sufficientemente grande per permettere a tutti e tre di accedervi nello stesso tempo. Quando capitava, uno di loro andava in biblioteca. Il rendimento era inferiore, causa le distrazioni prodotte dall’ambiente, ma in compenso c’era caldo. Arrivò il giorno del primo esame. Alì aveva deciso di concentrarsi su quelli più difficili. Un paio li avrebbe sostenuti in prima sessione. Scelse fisica ed analisi matematica e fra questi dette per primo analisi matematica.

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Quando si presentò all’appello, era veramente emozionato, aveva la sensazione di non ricordare nulla e quando sentì pronunciare il suo nome dovette superare un momento di incertezza; era tentato di non presentarsi, ma fu solo per un istante. Sedendosi davanti al professore, avvertì le gambe molli, e prendendo la penna fra le dita notò un leggero tremolio della mano. Il professore, prima di iniziare l’interrogazione, lo squadrò con sospetto e superiorità; forse stava pensando: <<Ma che razza di gente sta frequentando i nostri atenei!>> Fu in quel momento che Alì ritrovò tutta la sua determinazione ed orgogliosamente si predispose a sostenere la prova con la ferrea volontà di superarla nel migliore dei modi. Ricordava anche la prima domanda: riguardava gli insiemi e le loro proprietà! Le risposte che fornì ai quesiti che seguirono furono tutte corrette, circostanziate ed esaurienti. Durante il progredire dell’interrogazione notò che l’atteggiamento del professore si stava modificando. L’espressione di superiorità e sufficienza, che aveva avuto fino a poco prima, lentamente era stata sostituita da un atteggiamento che esprimeva stupore ed ammirazione. Fu proprio questa constatazione ad incrementare la sua sicurezza. L’esame si concluse in un crescendo di risposte brillanti a domande tese a verificare la maturità della sua preparazione. Il professore terminò l’interrogazione con un: <<Bene. Lei si è meritato un trenta!>> Così dicendo, si alzò e gli strinse la mano. Mentre gliela stava ancora stringendo, aggiunse: <<Continui così, buona fortuna.>>

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E fu così che Alì, uno dopo l’altro, superò tutti gli esami. Il giorno della laurea fu, per lui, il coronamento del suo impegno: emozione, soddisfazione, orgoglio e senso di rivalsa nei confronti di chi non avrebbe mai pensato arrivasse a tanto e con quei risultati. Per il centodieci, sapeva non dover ringraziare nessuno, se non se stesso e gli amici in patria, che lo avevano sostenuto! Guardò l’orologio; ancora circa tre ore all’arrivo a Damasco. Gli avevano scritto che due persone, a lui sconosciute, sarebbero venute a riceverlo in aeroporto; con loro, in auto, sarebbe andato a Shu’fat. Shu’fat era il campo profughi palestinese dove era nato ventisei anni prima. I suoi genitori, morti da qualche anno, gli avevano descritto i particolari della loro fuga dalla Palestina durante le giornate di ozio trascorse nel campo. Lui aveva assorbito ogni parola, e ogni parola si era trasformata in un seme di rancore nei confronti del popolo israeliano. Negli anni quei semi erano germogliati e il germoglio, crescendo, era diventato una pianta con le radici affondate nella sua psiche. Ed erano quelle radici che gli facevano sanguinare l’anima! Una immagine, in particolare, aveva colpito la sua fantasia: una colonna di persone innocenti, di cui non si vedeva la fine, serpeggiante in una pista sabbiosa, che fuggivano da rastrellamenti, bombardamenti e scontri a fuoco. Molti di loro a piedi scalzi, con le poche cose che erano riusciti a salvare dalle loro case. Povere vite distrutte dalla guerra! Gli avevano detto che erano state circa un milione di persone a scappare o a essere state scacciate dalle loro abitazioni. Malgrado tutto, non voleva che la sua vita fosse condizionata dal passato; ora desiderava guardare avanti,

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essere utile al popolo palestinese, mettendo a frutto la sua laurea. Estrasse dalla tasca un tascabile ed iniziò la lettura. Avrebbe trascorso, leggendo, le ore che lo separavano dal suo arrivo a Damasco. Guido stava vagabondando, mani affondate nelle tasche dei pantaloni, per le vie di Tozeur, gustando le atmosfere che il paese gli offriva. L’agglomerato urbano gli appariva unico e personalissimo nella sua architettura. Gli edifici che si affacciavano sulle vie della città gli comparivano come se fossero trapuntati. Le facciate di tutte le case erano adornate di fregi geometrici, composti da mattoni color marrone o rosso ruggine, cementati a rilievo. Formavano disegni compositi e suggestivi: serie di losanghe, riquadri, profili a punta di freccia; in una fantasmagoria e un gioco di chiaroscuri senza soluzione di continuità. Guido notò che, in pratica, sui muri delle case erano stati riprodotti gli stessi motivi dei tatuaggi che portano i berberi e le composizioni dei celebri tappeti della zona. All’interno della città antica, gli piacque lasciarsi perdere in un intricato dedalo di viuzze, vicoli senza uscita, stretti camminamenti che si snodavano a zig-zag. Insomma: una vera trappola per il visitatore. Passivamente si fece trasportare dal flusso delle persone, che caoticamente si muovevano all’interno di quel microcosmo, come le molecole di un gas surriscaldato. Fu così che nella mente di Guido, per associazione, fece capolino una parola “ENTROPIA”. Durante lo studio della termodinamica e della meccanica statistica Guido era venuto a conoscenza della grandezza fisica che gli addetti ai lavori chiamano Entropia.

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Capì immediatamente che quella funzione sintetizzava due concetti: quello riferito alla interiorità, intesa in senso lato, di un sistema, qualsiasi esso sia, ed il suo evolversi. In particolare, nella meccanica statistica, l’entropia permette di stimare il disordine di un sistema e che il valore di questa cresce continuamente, a meno che non si spenda energia per contenerlo, o per farlo diminuire. Ebbene, Guido era rimasto affascinato dalla sintesi e dal respiro universale che la funzione Entropia è in grado di esprimere. Quando gli capitava di spiegarne il significato a persone non addette ai lavori, ricorreva ad una esemplificazione, che gli sembrava rendesse l’idea in modo molto semplice. (Guido quando comunicava ai propri simili il suo sapere provava una sorta di sottile soddisfazione alla quale non sapeva rinunciare. L’intima ragione del perché gli capitasse questo non lo sapeva; gli era sufficiente prenderne atto!) Diceva: <<Pensa ad una abitazione abbandonata a se stessa.>> Chi lo ascoltava rispondeva generalmente: <<Sì, ok.>> <<Bene, secondo te il disordine al suo interno, aumenterà o diminuirà se non interverranno fattori esterni?>> <<Aumenterà di certo!>> Era la risposta che riceveva. <<Bene. E cosa pensi si dovrà fare affinché ciò non avvenga?>> Risposta: <<Qualcuno dovrà intervenire per evitarne il deterioramento.>> Guido: <<Ma perché ciò avvenga sarà necessario spendere ,impiegare energia?>>

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Risposta: <<Certamente! Il lavoro richiede sempre l’impiego di energia.>> Guido: <<Bravo; hai capito cosa esprime la grandezza che chiamiamo Entropia.>> Risposta: << Si è vero: ho capito che, per impedire al disordine, che naturalmente tende ad aumentare, occorre spendere energia e che l’Entropia esprime l’entità del disordine!>> Quel giorno, immerso nel marasma dei vicoli di Tozeur, pensò che la nozione di Entropia potesse essere estesa anche all’animo umano. Infatti, cosa c’è di più disordinato della psiche umana? E cosa necessita maggiormente di lavoro, per evolversi ordinatamente? Più rifletteva e più si convinceva della giustezza delle riflessioni che aveva prodotto!

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Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Giuseppe Ungaretti

La stanza da bagno di Karima era satura di vapori lattiginosi e densi; tanto densi da impedirle di vedere i dettagli della parete di fronte. Un piacevole aroma, vagamente orientale, si era diffuso tutt’intorno. Appesa al soffitto, la grande plafoniera diffondeva nell’ambiente circostante una piacevole luce azzurrina. All’interno della grande vasca lei, in totale abbandono, si stava godendo quella parentesi di relax, che si regalava tutte le volte che gli impegni glielo permettevano. Da tempo aveva deciso di volersi bene! <<E chi se non lei poteva farlo?>> Non si fidava, di certo, dei suoi simili! L’acqua, che aveva regolato ad una temperatura piacevolmente calda, la ricopriva totalmente: solamente il capo emergeva dalla superficie liquida.

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A tratti sollevava un braccio, giocherellando con la schiuma che i sali da bagno, disciolti nell’acqua, avevano prodotto. Altre volte si lasciava scivolare, con indolenza sotto il pelo dell’acqua, indugiando in quella posizione per alcuni secondi, trascorsi i quali riemergeva. Contemporaneamente, con i palmi delle mani congiunti, come una conchiglia aperta, allontanava la schiuma che le ricopriva il viso, per poi passarseli sui capelli forzandoli all’indietro, lisciandoli. Terminava l’emersione con uno sbruffo per liberare il naso. Nel farlo produceva simpatiche bollicine di sapone che, con sguardo infantile, compiacendosene, spiava volteggiare leggere sopra di lei. Chi l’avesse osservata in quei momenti, avrebbe visto dipinto sul suo viso un tenue sorriso di pacata soddisfazione. Nella stanza accanto, due casse acustiche diffondevano nell’ambiente una musica ritmicamente frenetica, riprodotta da un CD, che aveva inserito distrattamente nel lettore. Il grande soggiorno illuminato da vetrate, grandi quanto le pareti, era il fulcro dell’appartamento in cui viveva Karima. La stanza si sviluppava su due livelli, collegati fra loro da quattro gradini in legno di mogano. Nella parte superiore, la faceva da padrone un divano con otto sedute di pelle color avorio. Davanti a questo c’era lo schermo di un televisore gigantesco, che lei teneva quasi sempre acceso anche quando non lo guardava. Karima era ossessionata dai notiziari: guerre, sommosse, attentati, colpi di stato, erano le notizie che maggiormente la interessavano. Sprofondata sul divano, accucciata sotto una morbida coperta di lana, con le lunghe gambe rannicchiate, trascorreva diverse ore davanti al televisore; spesso, così accoccolata, si addormentava sognando la sua terra natale.

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Qua e là, disposti apparentemente senza un criterio logico si trovavano mobili di fattura diversa, ma che si armonizzavano l’uno con l’altro, dando all’ambiente un aspetto di piacevole accoglienza. Nel centro della zona inferiore c’era un tavolo di legno massiccio, posto sopra a un grande tappeto quadrato; lo aveva acquistato in India qualche anno prima. La venatura del legno, ad un osservatore attento, avrebbe suggerito trattarsi di rovere. Qualche volta, passandovi accanto, sfiorava il piano del tavolo con una mano; il contatto con le nervature del legno, le procurava un sottile piacere, quasi sensuale. Karima, quando non lavorava, amava godersi il suo nido. Lontana da tutti e da tutto. Sperava, solamente, che la piccola spia rossa posta sul frontale del telefono non si accendesse in concomitanza alle chiamate che riceveva. Quando la musica non arrivò più alle sue orecchie, si rese conto del tempo che aveva trascorso immersa nel tepore dell’acqua. La fine del CD la colse con le braccia languidamente abbandonate lungo i bordi della vasca, il capo reclinato all’indietro e gli occhi chiusi. Si trovava in quello stato indefinito, che si colloca fra la veglia ed il sonno! Le ci vollero alcuni minuti per ritornare, con uno sforzo di volontà, alla condizione vigile. Aprì gli occhi, e facendo leva sulle braccia, si rizzò in piedi. Rimase in quella posizione per alcuni istanti, attendendo che l’acqua scivolasse via dal suo corpo. Cercando di non perdere l’equilibrio, con decisione, fece uscire, una dopo l’altra, le gambe dalla vasca, dirigendosi verso l’accappatoio appeso ad una parete. Si asciugò velocemente, per poi indossare una comoda tuta. In soggiorno il suo divano avvolgente l’attendeva, e lei non indugiò oltre.

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In quella camera, posta al diciassettesimo piano di un imponente grattacielo, eretto sulla quinta strada a New York, poco distante da Central Park, non giungeva il frastuono prodotto dal traffico sottostante. Guardando giù, aveva la sensazione di trovarsi in un ambiente ovattato che, isolandola dalla città, la proteggeva. Più tardi si sarebbe dedicata all’attività fisica, che praticava tutti i giorni. Per rendere la cosa più comoda possibile, in casa aveva allestito una piccola palestra. Terminata la ginnastica sarebbe andata al Central Park per correre. Quando rientrò era già sera; soddisfatta e con le endorfine al massimo si predispose per gestire la serata. Di mettersi ai fornelli non se la sentiva: sarebbe andata in un ristorantino nei pressi dei moli. Dalla quinta ai moli non c’era molta distanza; sarebbe potuta andare anche a piedi. E così fece. Karima era nata a Irbid: un campo profughi giordano nel 1979. I suoi genitori erano fuggiti dalla Palestina nel 1948 per evitare la guerra con gli israeliani, rinunciando a tutti i loro averi ed alla patria. Il campo di Irbid, nella sostanza, non si differenziava dagli altri: vicoli stretti, tanto da impedire al sole di illuminarli, separano gli alti edifici, le fogne sono a cielo aperto, non esistono spazi idonei alla vita dei bambini e le abitazioni sono tutte fatiscenti. Unica femmina di quattro figli era stata cresciuta secondo la cultura palestinese. Più in generale secondo i dettami della religione musulmana. I suoi genitori, integralisti convinti, le avevano imposto le regole del Corano in modo rigido ed inflessibile. Spesso sottoponendola a dure punizioni corporali quando, secondo loro, non li osservava.

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Alla soglia dell’adolescenza, Karima iniziò ad avvertire i primi sintomi di insofferenza nei confronti dell’ambiente in cui viveva. Non capiva perché, per il solo fatto di essere donna, le regole a cui doveva ubbidire dovessero essere diverse da quelle dei maschi. Non solo diverse, ma estremamente più restrittive. I suoi fratelli potevano, in buona sostanza, tutto. A lei non era neppure permesso incrociare lo sguardo di un ragazzo. Se lo avesse fatto, sarebbe stata considerata una poco di buono, avrebbe disonorato la famiglia. E poi…la costrizione degli abiti! Per gran parte dell’anno era costretta a soffrire il caldo, avvolta da vestiti pesanti, che le impedivano di godere della carezza del vento. Per non parlare della discriminazione sessuale. Tutto ciò che poteva, in qualche modo, avere a che fare con il sesso era censurato nella maniera più assoluta. Karima soffocava, ed in lei si rafforzava, ogni giorno di più, la convinzione di essere oggetto di soprusi, di violenze. Lei, all’epoca, non aveva avuto ancora l’opportunità di allontanarsi dal campo profughi, ma in televisione aveva visto cosa c’era oltre i confini del suo piccolissimo orizzonte. Belle città pulite, persone ben vestite, ordine ovunque, paesaggi mozzafiato, il mare e la ricchezza. Ma ciò che la stimolava maggiormente era il senso di libertà che trasudava dalle immagini che le arrivavano attraverso lo schermo. Un giorno le fu proibita la visione della televisione; ricordava ancora quel momento: sicuramente non lo avrebbe mai dimenticato. Da allora in poi il senso di ribellione ed il desiderio di evadere dal campo crebbero sempre più. Sapeva che non avrebbe dovuto fare trapelare nulla del suo stato d’animo e della rabbia che covava in lei. Se i genitori o

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i fratelli avessero sospettato qualche cosa, gliela avrebbero fatta pagare cara. Non osava pensare alla punizione a cui l’avrebbero sottoposta. Nel campo c’erano solamente le scuole primarie; quando manifestò il proposito di continuare gli studi, a lei sarebbe piaciuto inscriversi ad un istituto tecnico, i genitori si opposero violentemente al suo desiderio. Ma l’insistenza di Karima fu tale da superare il veto del padre, che a malincuore concesse il permesso. All’apertura dell’anno scolastico, con orgoglio, poté sedersi nel primo banco della prima superiore. La classe era tutta al femminile: ventinove ragazze della sua età. Un giorno, al termine delle lezioni, mentre attendeva il bus che l’avrebbe riportata al campo, fu avvicinata da due persone che la chiamarono per nome. Non li conosceva ed era sicura di non averli mai visti prima. Il suo codice comportamentale le imponeva di non guardarli in viso, di abbassare lo sguardo. <<Ma chi erano quei due sconosciuti? Come si permettevano di avvicinarla? Di chiamarla con il suo nome, in modo così confidenziale? E poi, cosa volevano da lei?>> Riflessioni che le balenarono nella mente con la velocità della luce. Trasgredendo ai condizionamenti che le erano stati impressi, li guardò negli occhi con orgoglio. Per niente sorpresi dall’atteggiamento di Karima si presentarono: <<Mi chiamo Nadir.>> Disse il più alto. <<Ed io Mohammed.>> Proseguì l’altro. Potevano avere circa trent’anni. Vestiti come tutti e sporchi come tutti.

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Non le dettero il tempo di parlare. Quello che sembrava avere più anni le disse: <<Tranquilla Karima, tuo padre sa che siamo qui.>> Lei sollevò il petto inspirando profondamente e, cercando di non far trapelare lo stupore, disse: <<E cosa volete?>> <<Te lo spiegheremo con calma. Oggi ti accompagniamo a casa in auto.>> <<Non ci penso nemmeno di venire con voi. Andatevene.>> <<Ma tuo padre sa tutto!>> <<Se è come dite voi, me lo confermerà lui stesso.>> I due non avrebbero mai immaginato un tale comportamento da parte di una ragazzina; avrebbero voluto insistere, magari costringerla, ma il bus, nel frattempo, era arrivato salvifico, inghiottendo Karima nel suo interno. Karima giunse al campo alla solita ora, ma a differenza di quello che faceva normalmente, scesa dal bus, iniziò a correre e non interruppe la corsa fino a quando non giunse davanti al portone di casa. I suoi familiari erano seduti a tavola in attesa del pranzo, quando la videro entrare non la salutarono, ma era normale così. Senza fare preamboli, rivolgendosi al padre, gli riferì dell’incontro. La risposta fu secca: <<Hai fatto bene, ma la prossima volta fai quello che ti chiederanno.>> Il suo tono non ammetteva repliche né spiegazioni! Karima non aveva più rivisto Nadir e Mohammed dal giorno in cui si erano presentati all’uscita della scuola. Quasi se li stava dimenticando, sebbene le fosse rimasto un pizzico di curiosità accompagnata da una certa apprensione. Ma sapeva, in cuor suo, che li avrebbe incontrati nuovamente. Il tono usato dal padre non lasciava dubbi a tale proposito.

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Comunque si disse: <<Se capiterà saprò di cosa si tratta!>> Quando ormai non pensava più a quei due, se li trovò che l’aspettavano alla fermata del bus. Il cuore le batté forte nel petto, ma con un sospirone profondo, deglutendo la saliva, si normalizzò velocemente. <<Ciao Karima, tutto bene?> Anche questa volta fu Nadir a parlare per primo. Mohammed si limitò ad un ciao, sorridendole. <<Si tutto bene, grazie.>> Rispose educatamente. <<Bene, oggi ti fidi a venire con noi? Ti accompagniamo a casa.>> <<Va bene, andiamo.>> Sebbene ostentasse sicurezza, sicura non lo era per nulla. Salì nella Mercedes, accomodandosi dietro. Sui sedili anteriori avevano preso posto i due ragazzi. Durante il percorso parlarono di argomenti futili: della scuola, se era interessata agli studi, delle sue amicizie, dei suoi interessi extra scolastici. Solamente di sfuggita accennarono alle condizioni di vita nel campo profughi ed alle responsabilità dello stato d’Israele. Quando lo fecero, Karima si irrigidì lasciando cadere il discorso; loro fecero altrettanto. Giunti alla casa di Karima: <<Veniamo su con te; tuo padre è al corrente.>> <<Se è così…saliamo.>> Suo padre li ricevette calorosamente, invitandoli a pranzare con loro. Nadir e Mohammed non se lo fecero ripetere. Durante il pranzo, nuovamente, parlarono di argomenti impersonali ostentando sicurezza e disinvoltura. Al contrario, il padre di Karima sembrava essere in soggezione nei loro confronti.

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Terminato il pranzo, quando la conversazione si stava smorzando, Mohammed, che era stato prevalentemente in silenzio fino a quel momento, disse: <<Ora potremmo parlare del motivo per cui siamo qui.>> <<Sì d’accordo.>> Rispose il padre di Karima e, rivolgendosi alla famiglia, intimò loro di uscire dalla stanza. L’incontro doveva essere ristretto solo a loro quattro. I suoi ubbidirono in silenzio. Uscirono uno dopo l’altro, chiudendo la porta. Fu Mohammed ad aprire il discorso facendole capire, fra le righe, chi rappresentavano. Karima non impiegò molto ad afferrare cosa non le avevano detto chiaramente: aveva capito trattarsi di due militanti della resistenza palestinese. Le avrebbero, certamente, proposto di entrare a far parte di una organizzazione partigiana. Mohammed concluse la sua breve esposizione dicendole: <<Karima, tu sai in quali condizioni viviamo; le ingiustizie ed i soprusi che gli israeliani compiono nei nostri confronti sono sotto gli occhi di tutti. Dobbiamo reagire!>> <<Si, ma io cosa c’entro in tutto questo? Cosa mai potrei fare?>> <<Tu sei parte in causa per il fatto che sei palestinese. Tu sei intelligente ed hai un carattere forte. A noi servono persone come te.>> <<Ripeto: cosa mai potrei fare?>> Nadir le disse: <<Sul cosa, non devi preoccuparti; questo è affar nostro. Tu devi darci la disponibilità; al resto pensiamo noi.>> <<Ascolta>>, riprese Mohammed: <<Se sarai dei nostri la tua famiglia sarà aiutata economicamente, e lo sarà fino a quando collaborerai.>> Il padre, che era rimasto in silenzio fino a quel momento, intervenne, dicendo:

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<<Tu sai quanto bisogno abbiamo di un sostegno, e questo sarebbe un buon aiuto.>> Vedendola silenziosa, a testa bassa, aggiunse: <<Pensa che solo accettando potrai continuare gli studi!>> Karima non avrebbe mai immaginato di ricevere, dal padre, un ricatto strisciante come quello; rimase sconcertata ed indignata. A quel punto desiderava solamente porre fine a quella conversazione e lo fece dicendo: <<Ho capito tutto; ho bisogno di riflettere e di conoscere altri dettagli; magari ne riparliamo.>> I due sembrarono soddisfatti della risposta di Karima. Sicuramente l’avevano messa in conto. Il padre non fu altrettanto contento ed iniziò a farle delle pressioni, ma fu bloccato da Nadir. <<Lasciala stare, non insistere, è bene che rifletta sulla nostra proposta.>> A quel punto si alzarono, e ringraziando per l’ospitalità ricevuta, se ne andarono. Prima di uscire, uno di loro le accarezzò il viso dicendole che si sarebbero rivisti. In quell’occasione avrebbero voluto una risposta definitiva! Karima, dopo l’incontro con Nadir e Mohammed, continuò a trascorrere le giornate come aveva fatto fino a quel momento. Frequentava regolarmente le lezioni e durante le ore che le rimanevano, studiava con passione. Apparentemente la proposta ricevuta non aveva lasciato traccia in lei. Ma le cose non stavano così! Quando la sua mente non era impegnata nello studio o in altre attività, che in qualche modo la potevano distrarre, le parole di Nadir le tornavano in testa. Ma ancora di più quelle del padre. In un certo qual modo si era sentita una merce di scambio: lei in cambio del denaro. Tutte le volte che rifletteva su

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questo particolare non poteva fare a meno di provare risentimento nei confronti del padre, e la ribellione serpeggiava nel suo animo. Istintivamente fantasticava la fuga dalla famiglia, ma poi ritornava alla realtà, pensando che non aveva nessuna possibilità concreta di farlo. Nei confronti degli israeliani nutriva sentimenti di profonda avversione. Le erano stati indotti dai racconti degli adulti e dalle condizioni di vita all’interno del campo profughi. Ma, non avendo vissuto di persona l’abbandono della Palestina, quei sentimenti non erano così radicati e virulenti come nelle persone adulte. Più che altro, la situazione contingente di profuga fungeva da pretesto per dare corpo e razionalizzare un altro e più confuso disagio: quello adolescenziale. Il bisogno di identificarsi in valori assoluti, quali la giustizia, l’eguaglianza sociale, la libertà, contribuiva a rafforzare in lei la necessità di individuare un target verso il quale dirigere il suo disagio di sedicenne. I vertici dell’organizzazione conoscevano a fondo le fragilità dei ragazzi che vivevano nei campi e, confidando su queste, cercavano di far breccia nelle loro menti. Prima di avvicinare i ragazzi, come prassi si servivano d’informatori che fornivano loro una sorta di dossier. Grande importanza era data al tipo di famiglia a cui appartenevano le potenziali reclute. Il livello d’indigenza era elemento discriminante; nel senso che maggiore fosse stato, maggiore sarebbe stata l’attenzione posta nei riguardi dei ragazzi da contattare. Con il trascorrere dei giorni l’avversione alla proposta di diventare un’attivista partigiana, che Mohamed le aveva fatto, diventava progressivamente più debole. L’incertezza, il senso d’inadeguatezza e la paura lasciarono il posto all’ebbrezza dell’avventura ed al desiderio sognante

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di sentirsi importante e di essere impegnata in una causa per la quale essere orgogliosa. Di tanto in tanto, il padre le chiedeva cosa avesse deciso, ma lei non gli forniva risposte precise. Lasciava, semplicemente e volutamente, aperto il discorso; lui lo avrebbe potuto concludere in un modo o nell’altro! Erano trascorsi circa due mesi da quando Nadir e Mohammed si erano presentati all’uscita della scuola; Karima, a questo punto, aveva elaborato il significato di quell’incontro, tanto da desiderare di rivedere quei due ragazzi. Inaspettatamente, così come se li era trovati davanti due mesi prima, li vide al termine delle lezioni di un giorno qualsiasi. Erano accanto alla loro auto, appoggiati con la schiena ad una fiancata; parlavano fumando tranquillamente. Quando la videro, non si scomposero. L’approccio fu il medesimo di quello avuto la prima volta che li aveva incontrati: sbrigativo. <<Ciao Karima, sali, ti portiamo a casa.>> Lei entrò in auto senza parlare! <<Hai deciso? Cosa ci racconti circa la nostra proposta?>> Assumendo il loro stesso modo di fare, ma con il capo chino, disse: <<Sì, mi sta bene.>> Era soddisfatta, ma la consapevolezza di aver fatto un salto nel buio la rendeva inquieta e nervosa. <<Mi congratulo con te e ben arrivata nella nostra organizzazione.>> Disse Mohammed, girando il capo verso di lei. Le sue parole erano pacate e facevano trapelare un grande senso di responsabilità. Aggiunse:

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<<Non dovrai fare parola con nessuno di questa cosa: lo capisci, vero?>> <<Sì lo capisco.>> Anche questa volta salirono in casa sua e anche questa volta pranzarono tutti insieme. <<Karima, noi e tuo padre vogliamo stare soli: uscite tutti, per cortesia.>> Suo padre annuì in senso di approvazione, ma in cuor suo fu dispiaciuto di essere stato estromesso da quei due: sarebbe spettato a lui pronunciare quelle parole! Dopo una decina di minuti, che a Karima sembrarono un’eternità, furono invitati a rientrare. Suo padre, Nadir e Mohammed apparivano visibilmente soddisfatti. E fu suo padre che le disse: <<Tutto è a posto; da questo momento puoi fidarti di loro ed iniziare a vivere e operare come ti sarà richiesto.>> Con un filo di voce, rispose: <<Va bene.>> In quel momento ebbe la netta percezione di aver intrapreso un’avventura più grande di lei, ma non importava…la decisione era presa! Fu così che la vita di Karima prese una direzione che lei non avrebbe mai ipotizzato prima di quegli incontri! Una sera, Nadir si presentò a casa loro chiedendole di seguirla. Sarebbero andati a casa di persone appartenenti all’organizzazione. Karima lo seguì senza fare domande, Il gioco era cominciato, e lei doveva stare alle regole. Salita in auto, vide, seduto sul sedile posteriore, Mohammed. Quando cominciarono a muoversi, lui la bendò; meravigliata, cercò di evitarlo, ma le spiegarono che era la prassi riservata ai nuovi. Un periodo di rodaggio ci sarebbe voluto, e loro dovevano prendere le dovute precauzioni! Karima, a quel punto, lasciò fare. Tutto sommato, era attratta da quella situazione insolita. Stava sperimentando sensazioni

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contrastanti: una lieve paura e nel contempo attrazione per ciò che viveva. Quando furono all’interno dell’edificio, nel quale l’avevano condotta, tolsero la benda nera che le avevano legato attorno alla nuca. La stanza in cui si trovavano era priva di mobili, fatta eccezione per un tavolo e quattro sedie. Seduto dietro a questi, un uomo con passamontagna e tuta mimetica. Dal soffitto pendeva una lampada priva di paralume, che illuminava debolmente le pareti scrostate; il loro colore ricordava quello dei prati calpestati d’inverno. <<Ciao Karima; conoscerti mi fa piacere.>> Le disse senza fare preamboli. Il suo modo di parlare era autoritario, ma non impositivo. A Karima piacque. Continuò dicendole: <<Chi sono, per il momento, non ha importanza; tanto meno il mio nome. Ti basti sapere che sono il tuo superiore.>> E continuando: <<Mi hanno parlato di te…ho molte aspettative, spero che non ci deluderai.>> <<Farò del mio meglio…Signore.>> <<Brava.>> <<Non mi voglio perdere in chiacchiere inutili.>> Continuò, lui. <<A breve inizierai l’addestramento. Nella prima fase imparerai le tecniche di difesa personale e di offesa per mezzo delle arti marziali.>> Karima rimase perplessa, ascoltando le parole di quell’uomo che si era interrotto, aspettando che lei dicesse qualche cosa. Dopo alcuni attimi di silenzio… <<Ma, io sto frequentando la scuola…>> <<Non preoccuparti, abbiamo pensato anche a questo.>> <<Ah… e come?>>

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<<Non è nostra intenzione sconvolgerti la vita, non temere.>> Karima inspirò profondamente, rassicurata da quelle parole e… <<Ma…in che modo?>> <<Sarai addestrata nei momenti che non dedicherai allo studio. Non è nostra intenzione farti interrompere la scuola.>> E continuando: <<Sarà, comunque, tuo compito organizzarti le giornate.>> <<Sì, così va bene.>> <<Sarà sufficiente che tu ci faccia sapere quando sarai libera dai tuoi impegni scolastici e gli orari. Al resto penseremo noi.>> <<D’accordo.>> <<Hai domande?>> <<No, signore.>> <<Bene, puoi andare.>> Di lì a poco iniziò l’apprendimento delle arti marziali. Il suo impegno e la passione furono tali da farla diventare il numero uno del suo gruppo! E fu così che, passo dopo passo, terminò tutti i livelli d’ addestramento previsti. All’acquisizione delle arti marziali seguì quello dell’uso delle armi da fuoco, degli esplosivi, la costruzione delle bombe e la loro messa in opera. In quegli anni aveva imparato a conoscere e a usare tutti i tipi di armi da fuoco. Per lei le tecniche di guerriglia non avevano più segreti, ora. Con il trascorrere del tempo il suo corpo da adolescente si era modificato in quello di donna. Il continuo esercizio fisico, al quale era stata sottoposta, le aveva permesso di sviluppare un corpo armonioso, dove non c’era traccia di

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tessuto adiposo; al contrario era scolpito da una muscolatura tonica, pronta a qualsiasi reazione. Gli occhi nerissimi, sempre vivacemente vigili, imprimevano al suo volto, di un ovale perfetto, le sembianze di una giovane gazzella. Il taglio a maschietto dei capelli, anch’essi neri come la pece, completava, a mo di cornice, la sua immagine. In buona sostanza era diventata una macchina da guerra, tanto che molti suoi coetanei avevano imparato a temerla! Karima terminò gli studi, diplomandosi brillantemente in statistica. Spesso, dopo tanti anni di duro lavoro, si chiedeva quando sarebbe diventata operativa. L’impegno profuso era stato tanto e tale da impedirle ogni tipo di riflessione morale. Per lei, ora, esisteva solamente il desiderio di mettere in pratica quello che aveva appreso. L’obiettivo sarebbe stato Israele; non si rendeva conto che al di là del confine vivevano dei suoi simili con aspettative di vita, sogni, speranze, dolori simili ai suoi e a qualsiasi essere umano. Karima aveva dato per scontato di aver terminato il suo apprendistato; non poteva immaginare che al vertice dell’ organizzazione, a cui apparteneva, avessero anche altro in serbo per lei. Ma non tardò molto a scoprirlo. Fu durante una riunione della cellula a cui apparteneva, che il suo diretto superiore le chiese di parlarle a quattr’occhi. Pensò: <<E’ arrivato il momento in cui mi manderanno in missione.>> Ma non fu così! <<Ascolta Karima: sei stata molto brava in questi anni…>> <<Quindi?>> <<Quindi, pensiamo tu sia sprecata, se utilizzata a basso livello.>>

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<<Ah, mi lusinga, ma cosa dovrei fare di nuovo?>> <<Dovrai essere preparata alle tecniche di interrogatorio a cui potresti essere sottoposta, se catturata dal nemico…>> Sentendo quelle parole, un brivido le percorse tutto il corpo. Non sapeva con precisione di cosa si trattasse, ma poteva immaginarlo! Sentì che il suo capo, continuando nel discorso, le stava dicendo: <<Potrai ritirarti quando vuoi dal programma: non possiamo costringere nessuno a questo genere di cose; sarebbe controproducente.>> <<Bella filosofia.>> Pensò. <<Inoltre abbiamo un’altra cosa in serbo per te.>> <<E cioè?>> <<A breve inizierai un corso di pilotaggio. Al termine, sarai in grado di condurre piccoli aerei da turismo. Ci serve una persona che abbia questa capacità. Riteniamo tu sia quella giusta.>> <<Bella…la seconda proposta.>> Disse. <<Sì, bella.>> Continuò. <<Per questo sarai trasferita nel deserto, lontana da occhi indiscreti.>> <<Ci sarebbe un’altra cosa ma ne parleremo a tempo debito.>> <<Come vuoi.>> <<Mi sembra di aver capito che, in tutti i modi, dovrò almeno provare, per quanto riguarda il primo discorso.>> <<Hai capito bene.>> <<E da quando?>> <<Da domani. Inutile rimandare.>> <<Mi trovi d’accordo. Inutile tergiversare.>> <<Te ne saremo grati; grazie Karima.>> L’indomani non si fecero attendere. La prelevarono mentre stava camminando per strada, simulando un rapimento.

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Durante la prigionia la sottoposero ai maltrattamenti che le polizie, di entrambe le parti, praticano sui prigionieri. Ogni giorno, prima di iniziare, le chiedevano se avesse voluto continuare. Lei rispondeva sempre sì! Fu obbligata alla nudità totale. La privarono del sonno e del cibo per indebolire la sua resistenza. Insulti e percosse furono il condimento di ogni interrogatorio. Il tormento peggiore fu quello della corrente elettrica; quando le applicarono gli elettrodi ai capezzoli fu sul punto di cedere, ma riuscì a superare anche quella prova. Karima non uscì indenne da quella esperienza. Qualche cosa si era incrinata nella sua mente. Continuava a domandarsi quanto fosse stato veramente necessario il trattamento subito. Inoltre, non riusciva a giustificare il fatto di essere stata costretta a rimanere completamente nuda, per tutto il periodo della sua permanenza in quel luogo. Spesso aveva avuto il sentore che alcuni di quegli uomini provassero compiacimento in quello che stavano facendo. Se veramente fosse stato così, non li avrebbe perdonati. La sua ira si sarebbe abbattuta su di loro con esito letale! Terminato il corso di pilotaggio, la informarono di prendersi un periodo di relax. L’avrebbero contattata loro al momento giusto. Ora doveva pensare a riposarsi. Le sorprese, per lei, non erano ancora terminate! Quando si fecero vivi, le spiegarono che il giorno in cui sarebbe diventata operativa, era vicino, ma che l’addestramento ricevuto era incompleto. Mancava ancora un dettaglio da inserire; poi sarebbe stata pronta in tutto e per tutto. Non ci sarebbero stati altri ostacoli da superare. Il contesto era comunque delicato: sarebbe stata una militante più anziana di lei, a spiegarle di cosa si trattava. La sua missione, in ogni modo, era già stata messa a punto nei dettagli. Mancava solo questo particolare; poi sarebbe diventata operativa.

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Ogni volta che le avevano parlato in questi termini, aveva avuto delle brutte sorprese. L’esperienza ed il suo intuito le dicevano che doveva aspettarsi qualche cosa di spiacevole: <<E poi, perché farle parlare da una donna? Non era mai capitato prima d’allora!>> Karima non sapeva proprio darsi delle risposte convincenti. Si chiamava Samira, la ragazza che la contattò, un giorno qualsiasi, mentre gironzolava nei vicoli del campo profughi. <<Dobbiamo parlare.>> Le disse, presentandosi. Karima aveva imparato ad essere diffidente di tutto e di tutti. Così le avevano insegnato! Quell’atteggiamento mentale era diventato parte di lei, tanto d’avere le caratteristiche di un riflesso condizionato. <<Scusami, non ti conosco.>> <<Complimenti, è così che devi reagire.>> E continuando nella recita: <<Reagire a cosa?>> Samira si rese conto che doveva fare la prima mossa, per farle capire che si poteva fidare. Lo fece comunicandole dei particolari che solo una militante del suo gruppo poteva sapere. A quel punto, Karima si tranquillizzò ed insieme andarono a sedersi sull’orlo di una fontana, poco distante da loro. <<Ascolta Karima, dobbiamo parlare di un argomento delicato.>> <<Sì, dimmi.>> <<Non è il caso farlo qui, in mezzo alla strada. Andiamo da me? Cosa ne pensi?>> <<Non capisco, ma andiamo. Non mi puoi anticipare qualche cosa, strada facendo?>> <<No.>> <<Come vuoi.>>

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L’abitazione di Samira era formata da sole due stanze disadorne. <<Sediamoci qui.>> Le disse, appena entrarono. <<Veniamo al dunque; scusa se ti parlo in modo schietto, ma penso sia la cosa migliore.>> <<Sentiamo…>> <<Sei vergine?>> Karima si sarebbe aspettata di tutto, ma certamente non quella domanda! <<Ma che stai dicendo?>> Senza scomporsi, incrociando le mani sul petto, ripeté: <<Sei vergine?>> Karima capì che doveva affrontare la situazione, sebbene non si rendesse conto dove Samira volesse arrivare e del perché di quella domanda. Ma ora, aveva capito il motivo per cui avevano incaricato una sua coetanea. <<Sì, lo sono… e allora?>> <<Calma: ora ti spiego.>> <<La tua missione prevede che tu diventi la donna di un ufficiale dell’aviazione israeliana.>> E continuando: <<Dovrai conquistare la sua fiducia ed impadronirti di informazioni riguardanti la dislocazione di alcuni elicotteri da combattimento.>> E continuando: <<Al resto penseremo noi…>> <<Come entrare ed uscire da Israele, ti sarà comunicato al momento opportuno.>> <<Beh, allora? Cosa c’entra la mia verginità con tutto questo?>> Karima stava intuendo il motivo di quell’incontro, ma una parte della sua psiche rifiutava di ammetterlo a se stessa. Rifiutava il lampo che le era balenato in testa, mentre Samira le parlava.

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<<C’entra Karima…non possiamo mandare, in una missione di questo tipo, una vergine. Una persona che non ha esperienza…lo vuoi capire? Dovrai andarci a letto!>> Samira le parlò con calma distaccata ed aggiunse: <<Niente di personale, mi capisci vero?>> <<No, non capisco.>> <<Sto cercando di dirti che posso aiutarti io…, se collaborerai sarà tutto più semplice…e piacevole.>> <<Devi capire che non sono io a chiedertelo, ma i nostri capi.>> <<Comunque, che tu lo voglia o no, non uscirai di qui con la tua verginità!>> <<Sai quanto hanno investito per farti diventare quella che sei. Ora non possono permettersi di rinunciare a questa missione per un dettaglio.>> Karima sentì il sangue pulsare nelle tempie; strinse i pugni a tal punto da conficcare le unghie nel palmo delle mani. Tutti i suoi muscoli si tesero come le corde di un violino, pronti a scaricare la rabbia che aveva in corpo. Ma prima voleva darle e darsi un’ultima possibilità. Non per niente era stata addestrata all’autocontrollo! Prese tempo: <<E tu sei vergine?>> <<No, non lo sono: ci sono passata anch’io…>> <<Allora, perché non vai tu?>> <<Io sono bruciata. Gli israeliani sanno chi sono…Questo genere di missioni le fai una sola volta…e se sei fortunata, torni indietro.>> <<Karima, devi accettare la realtà.>> E Karima, senza aggiungere altro, con uno scatto felino, si alzò, per poi colpirla violentemente al viso ed al plesso solare. Samira stramazzò al suolo senza un lamento e fu in quell’istante che dalla stanza accanto entrarono tre uomini.

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Pensò: <<Avevano previsto tutto: bastardi.>> <<Karima non è il caso che tu reagisca così. Cerca di calmarti.>> <<Fottiti.>> <<lo sai…non puoi uscire di qui senza averlo fatto. Tanto vale che collabori.>> <<Lascia fare a Samira; è la soluzione migliore.>> Lei non rispose. <<Quattro a uno; non poteva farcela, ma non sarebbe stata disposta a soccombere passivamente.>> Si battè con tutte le forze, mettendo in pratica le tecniche del combattimento corpo a corpo, ma alla fine, dopo averli messi a dura prova, dovette cedere. I capi della sua cellula avevano commesso un errore gravissimo pensando di gestirla in quel modo. Karima aveva preso coscienza di come la concezione islamica della donna avesse potuto condizionare quegli uomini, autorizzandoli a compiere un oltraggio così vile, nei suoi confronti. Le persone, che lei aveva ritenuto essere, fino a pochi istanti prima, delle illuminate, non poteva e non voleva giustificarle in nessun modo. Aveva deciso all’istante: sarebbe uscita dall’organizzazione e si sarebbe vendicata! Ma doveva agire con astuzia e prudenza; se si fosse tradita, l’avrebbero eliminata senza ombra di dubbio! In questa ottica, continuò a vivere come prima, e quando la convocarono per manifestarle, falsamente, il loro rammarico, sdrammatizzò. <<Faceva parte del gioco, era necessario, ho capito.>> Disse sorridendo, e quando le confermarono la missione, gioì, ma non per il motivo che aveva fatto credere loro!

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8 Non basta che la dottrina sia grande. La persona deve essere grande nell’atteggiamento. Detto tibetano

Israele lo raggiunse con il piccolo aereo che aveva imparato a pilotare. La scelta di oltrepassare il confine volando fu obbligata, attraversare la frontiera via terra, sarebbe stato pressoché impossibile. I controlli, messi in atto dagli israeliani, avrebbero, con ogni probabilità, vanificato il suo tentativo. Atterrò, in piena notte, nel deserto; aveva condiviso il volo con un compagno a cui era stato affidato il compito di riportare in Giordania l’aereo. Le avevano detto che sul luogo stabilito per l’atterraggio, avrebbe trovato un’auto ad attenderla: e così fu. Con due brevi lampeggi dei fari le dettero la possibilità di farsi individuare. Velocemente sgattaiolò nella loro direzione prendendo posto nella vettura. A bordo c’erano due persone che non aveva mai visto prima; si scambiarono le parole d’ordine, dopodiché, a fari spenti procedettero, con grande cautela, verso Tel Aviv. Durante il percorso le dettero i documenti di cui avrebbe avuto bisogno durante il soggiorno in terra nemica.

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Mabrha, sarebbe stato il suo nuovo nome. Le riferirono trattarsi di una giovane della sua età. Non aveva parenti e viveva sola in una casetta isolata di Tel Aviv. <<Ma…non c’era il pericolo che la vera Mabrha potesse interferire con lei?>> <<No, non c’era: l’avevano fatta sparire!>> Quelle parole le gelarono il sangue. <<Come avevano potuto coinvolgere una innocente, in quel modo?>> Dovette farsi violenza per non esprimere il suo pensiero a quei due! Si limitò a chiedere: <<Sparire in che senso?>> <<Non ti deve riguardare.>> Fu la risposta. Poi continuarono a fornirle informazioni circa le abitudini della ragazza, del lavoro che svolgeva e di come vestiva abitualmente; alla fine le misero nelle mani le chiavi di casa della vera Mabrha. Il contatto con il metallo, pensando cosa rappresentava, la fece rabbrividire! L’indirizzo dell’abitazione l’avrebbe trovato sui documenti, e un taxi sarebbe stata la soluzione migliore, per raggiungere la nuova abitazione. Terminato il resoconto relativo a Mabrha, iniziarono a parlarle dell’ufficiale che doveva circuire. Il suo nome era: Adam, un ebreo polacco di trentasette anni, maggiore dell’aeronautica israeliana, pilota di F16. Comandava un gruppo formato da sei aerei. Del maggiore le fornirono i luoghi che frequentava di solito e le sue abitudini di vita. Sarebbe spettato a lei agganciarlo. Al termine dei discorsi le dettero una foto che lo ritraeva per metà: era in divisa. Mentre osservava quel ritratto, pensò: <<Veramente un bell’ uomo. Finalmente una persona con la carnagione chiara!>>

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<<Un’ultima cosa.>> Le dissero. <<Quando avrai terminato la tua missione, vai da questa persona. Lui organizzerà il tuo rientro.>> Quindi le dettero un biglietto su cui avevano scritto il nome e l’indirizzo del contatto. Lei dovette imparare a memoria quei dati, dopodiché bruciarono il foglietto. Karima sorrise beffarda. Nelle vicinanze di Tel Aviv le dissero che l’avrebbero lasciata lì; troppo pericoloso continuare il percorso con l’auto. <<Ah…e come dovrei fare per raggiungere l’abitazione di Mabrha?>> <<Sei addestrata…no?>> <<Comunque, prosegui per qualche chilometro; troverai una stazione di rifornimento con annesso un ristorante. Lì, spesso, ci sono taxisti.>> <<Ok, ho capito…vado.>> <<Buona fortuna Karima.>> Salutandola, pronunciarono il suo nome per la prima volta, da quando si erano conosciuti! Lei li guardò, ma non rispose, rimanendo impassibile. Sarebbero rimasti, per sempre, degli sconosciuti: forse non li avrebbe più rivisti…Si girò ed iniziò il cammino che l’avrebbe condotta verso una nuova vita! La stazione di servizio era come gliela avevano descritta, accanto al ristorante vide due taxi in attesa di clienti. Il conducente del primo le rivolse la parola, chiedendole se avesse bisogno della sua auto per andare in città. <<Sì, mi porti…>> Karima gli comunicò l’indirizzo di Mabrha. Durante il percorso incontrarono due posti di blocco, ma tutto filò liscio. La casetta di Mabrha le parve carina ed accogliente. Seduta sul divano cercò di immaginarsi quella ragazza, di cui aveva

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preso l’identità, aggirarsi nella casa, e con vera complicità del tutto femminile, si augurò e le augurò che un giorno potesse ritornare nella sua abitazione. Pur non conoscendola, non poté fare a meno di provare disgusto e ribellione per la sua sorte ed il disprezzo, per gli uomini a capo dell’organizzazione alla quale era appartenuta fino a pochi giorni prima, le aumentò a dismisura. Il suo rammarico più grande fu quello di non aver aperto gli occhi prima. Alla luce dei fatti, si stava dando della stupida per non averlo fatto a tempo debito! <<Ma ora era inutile piangere sul latte versato. Doveva concentrarsi per agire di conseguenza.>> Con questi propositi in capo, cominciò a gironzolare per casa: desiderava prendere confidenza con l’abitazione e con tutto ciò che conteneva. Fu la camera da letto, a polarizzare maggiormente la sua attenzione; era tanto curiosa di osservare i vestiti usati da Mabrha! Aprendo le ante del grande armadio, non poté trattenere una esclamazione di stupore, rimanendo sbalordita, nel constatare la quantità di vestiti e modelli che vi erano contenuti. <<Quanto doveva essere diverso lo stile di vita di quella ragazza, rispetto al suo!>> Pensò. <<E quanto diversa la cultura di quel popolo.>> Lei, che era stata costretta ad indossare abiti morigerati, assaporò l’ebbrezza della libertà. Finalmente avrebbe potuto compiacersi mostrando la sua femminilità, castigata fino a quel momento. A questo punto, l’impazienza di assumere la nuova identità, la prese. Velocemente si liberò dei vestiti che stava indossando, ed altrettanto velocemente, si diresse in bagno. Dicendosi, metaforicamente:

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<<Una doccia bollente mi potrebbe aiutare a togliermi da dosso i legami con il passato.>> Rimase a lungo sotto il getto dell’acqua, godendo di quella calda carezza! Quando fu il momento di rivestirsi, fu piacevolmente sorpresa nel constatare la forma e la consistenza dell’intimo usato da Mabrha; lo indossò maliziosamente compiaciuta, provando un leggero disagio, ma si sarebbe abituata molto presto a quegli indumenti! Il resto le stava a pennello: quegli abiti sembravano fatti proprio per lei. Con la stessa velocità con cui si era vestita, si tolse gli abiti e decise di coricarsi; al poi avrebbe pensato in un secondo momento. Erano passate, da pochi minuti, le ventidue; sollevò il telefono e chiamò un taxi; facendosi condurre al locale dove molto probabilmente, avrebbe incontrato il maggiore Adam. Entrando, lo vide immediatamente; era seduto ad un tavolo, poco distante dal banco del bar, ascoltava la musica, che un pianista eseguiva, fumando tranquillamente una sigaretta. Lei, senza esitare, ancheggiando, raggiunse il bar, sedendosi su uno sgabello; nel farlo, incrociò con malizia le gambe, non curandosi di averne messe in evidenza buona parte: la gonna copriva, a mala pena la radice delle cosce! <<Una coca, grazie.>> Ordinò all’uomo dietro al banco. Adam notò quasi subito quella ragazza dal corpo scolpito come una statua di Michelangelo. La osservò per un poco: era la prima volta che la vedeva. La sua memoria visiva, sicuramente, non lo ingannava! Qualche cosa gli suggeriva che era il caso di avvicinarla, di presentarsi… Accanto a Karima c’era uno sgabello libero: <<Perché non approfittarne?>> Si disse.

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Adam sedette, con indifferenza, accanto a Karima ordinando un whisky. Lei, senza farsi notare, lo osservava, mentre, con misurata indolenza, faceva ruotare i cubetti di ghiaccio all’interno del bicchiere. <<Che bello! E’ anche interessante.>> Pensò. Aveva mani affusolate e ben curate, un torace ampio che esprimeva virilità, occhi azzurri che comunicavano dolcezza e determinazione, i capelli biondi, alto e magro. La vicinanza le permetteva di percepire il suo odore: molto piacevole, per lei! Adam, dopo i primi sorsi, poggiò il bicchiere sul banco e senza indugiare oltre: <<Buonasera, permette che mi presenti?>> Karima non aspettava altro, ma non lo fece di certo notare! Lo guardò, alzando lo sguardo dal bicchiere, senza parlare, poi, dopo qualche istante: <<Prego.>> <<Adam, piacere.>> Le disse, porgendole la mano, che lei strinse con vigore. <<Mabrha: il piacere è mio.>> Rispose. <<Posso invitarla al mio tavolo?>> <<Sì, Grazie.>> Conversarono amabilmente per il resto della sera, studiandosi vicendevolmente, e quando giunse il momento di salutarsi, lui le propose di accompagnarla con la sua auto. Lei accettò. Sulla porta di casa le chiese il numero di cellulare: accettò anche questa richiesta, facendo altrettanto. Karima era certa che l’avrebbero sorvegliata per accertarsi che tutto andasse come doveva andare. Sapeva che non avrebbero lasciato nulla al caso: neppure la remota possibilità di un suo tradimento.

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Doveva, quindi, muoversi con grande attenzione, rispettando i piani. L’indomani sarebbe andata al lavoro come previsto: Mabrha possedeva una libreria nel centro di Tel Aviv. Adam fece trascorrere alcuni giorni, poi le telefonò, chiedendole di rivederla. Karima rispose che le stava bene, ma che avrebbe preferito incontrarlo a casa sua. Aveva deciso di velocizzare il da farsi: tergiversare lo riteneva rischioso. Meglio concludere al più presto il suo progetto. Quella sera, quando Adam suonò alla porta, Karima era nervosa: avrebbe svelato la sua vera identità, giocando il tutto per tutto. Era cosciente del pericolo che stava correndo, ma se voleva sganciarsi dai suoi e vendicarsi della violenza subita, doveva farlo. <<Ciao Adam.>> … <<Ciao Mabrha, tutto bene?>> <<Sì, grazie, tutto bene e tu?>> <<Tutto bene anche per me.>> Adam le porse una scatola di cioccolatini, dicendole: <<Per rendere dolce la serata…>> Lei sorrise di rimando. <<Adam, accomodati, voglio parlarti.>> Gli disse, rompendo ogni indugio. <<Sì, dimmi…cosa c’è di così importante?>> Le rispose con una certa curiosità. <<Non mi chiamo Mabrha…, Ma Karima.>> La curiosità che aveva manifestato pochi istanti prima si tramutò in stupore e l’espressione cordiale, rilassata, che era dipinta sul suo viso mutò in una smorfia che esprimeva perplessità frammista a preoccupazione. <<Cosa significa tutto questo?...Spiegati.>> Pronunciò queste ultime parole usando un tono duro e perentorio.

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<<Ora ti spiego.>> Karima era calma, ma cosciente di giocare una partita che si sarebbe potuta concludere tragicamente per lei. Conosceva molto bene la diffidenza degli israeliani quando si sconfinava in certi settori! <<Fino a poco tempo fa sono stata un’agente palestinese. Ultimamente ho deciso di uscire dall’organizzazione. Questo in sintesi.>> E continuando: <<Loro non sospettano nulla! Sono stata mandata qui per sedurti e carpirti informazioni circa il dislocamento dei vostri elicotteri da combattimento.>> Adam, che fino a quel momento aveva ascoltato, rimanendo seduto, si alzò, mostrando nervosismo ed inquietudine. <<Perché dovrei credere a questa storia?>> Per poi aggiungere: <<Forniscimi un solo motivo per cui dovrei.>> E iniziò a camminare avanti ed indietro per la camera. <<Tu sei il maggiore Adam; comandi una pattuglia di sei F16 dislocata…>> Karima, continuando, gli fornì tutta una serie di informazioni riservate che convinsero Adam. <<Ma perché fai tutto questo?>> <<Ho aperto gli occhi…non credo più nelle dottrine che mi erano state inculcate, inoltre voglio vendicarmi di un torto subito.>> <<Ah! E come pensi di farlo?>> <<Fornendovi l’esatta ubicazione delle basi dei miei ex ed il mio contatto, qui a Tel Aviv.>> <<Interessante, ma la cosa non mi riguarda direttamente: dovrai vedertela con quelli del Mossaad.>> Così dicendo, togliendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni, fece una telefonata.

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<<Ascolta: fra pochi minuti saranno qui. Se quello che mi hai detto corrisponde a verità non avrai nulla da temere; comunque seguirò il tuo caso.>> <<Sì, certo…>> Sedettero entrambi ed aspettarono l’arrivo degli agenti del Mossaad. Karima sapeva cosa le sarebbe capitato di li a poco, ma era tranquilla. Le argomentazioni che aveva in serbo per i servizi segreti israeliani sarebbero state un lasciapassare ineccepibile! Quando il campanello trillò, entrambi si alzarono: fu Adam ad aprire la porta di casa, mostrando il suo tesserino e qualificandosi. <<Bene maggiore, grazie, ma ora lasci fare a noi.>> Erano in tre: uno si fermò sulla porta di casa con il mitra spianato, gli altri due si avvicinarono a Karima, e senza tergiversare, la fecero girare mettendole le manette. Adam vedendo la scena, azzardò un commento: <<Ma è proprio necessario?>> Uno dei due gli rispose brusco: <<Lasci fare a noi, non s’intrometta, sappiamo cosa fare.>> Gli agenti del Mossaad la trattarono con rispetto, ma non lasciarono nulla al caso. Determinante , per verificare la sua credibilità, fu la cattura del contatto di Karima a Tel Aviv. Lei aveva suggerito loro di catturarlo immediatamente, infatti chi la stava pedinando, non vedendola, si sarebbe insospettito, mettendo in allarme i suoi. Altro elemento a suo favore furono le informazioni circa i luoghi adibiti a campi militari. Karima completò il quadro dando loro gli indirizzi delle persone che formavano la sua cellula. Quest’ultimo dettaglio

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lo comunicò con sarcastica soddisfazione; voleva guardarli negli occhi dopo la loro cattura! Gli israeliani impiegarono un mese per verificare l’esattezza delle informazioni ricevute e per passare all’azione. Le loro teste di cuoio compirono due incursioni fulminee in Giordania; la prima si concluse con un attacco ai campi militari e la seconda con il rapimento dei componenti la cellula di Karima. Nessuno riuscì ad evitare la cattura! Karima trascorse quel mese in cella, isolata da tutti. Saltuariamente un ufficiale del Mossaad si intratteneva con lei, usandole cortesia: voleva rendersi conto se avesse altre informazioni utili per loro, ma in buona sostanza erano già venuti a sapere le notizie più importanti. Da quelle conversazioni, al più, sarebbero emergersi dettagli ininfluenti. Eventualmente, ulteriori dettagli li avrebbero potuti avere dagli uomini catturati durante le incursioni fatte. Un giorno la condussero in un ufficio dove incontrò tre persone. Fra queste l’ufficiale del Mossaad con il quale aveva avuto diversi colloqui. Fu lui a parlare per primo, dopo averla invitata a sedersi. <<Karima, ti presento i miei colleghi.>> Pronunciando i loro nomi, dopo una breve pausa, i due uomini le si avvicinarono tendendole la mano, che lei strinse. Poi riprese a parlare. <<Ti ho fatto chiamare per comunicarti che, per merito tuo, siamo riusciti a concludere un’importantissima missione: tutti noi ti siamo grati per il contributo che hai fornito alla nostra causa.>> La risposta di Karima fu un semplice grazie, per poi aggiungere: <<Ma ora cosa mi aspetta?>> <<E’ proprio questo il punto ed il motivo per cui sei qui.>>

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E continuando: <<Ovviamente, dai tuoi non puoi tornare, e nello stesso tempo, noi non ti possiamo utilizzare. Capisci che ti sei bruciata!>> <<Sì, lo capisco.>> <<Ma noi desideriamo aiutarti, come segno di riconoscenza per quello che hai fatto.>> <<Bene, cosa mi proponete?>> <<Se sei d’accordo, ti proponiamo di espatriare. Di andare negli Stati Uniti. Ad organizzare il viaggio penseremo noi.>> <<Sì, mi può stare bene.>> Karima aveva già considerato, in cuor suo, una soluzione di questo tipo. Ascoltando la proposta del Mossaad, si sentì rallegrata ed aggiunse: <<E una volta negli Stati Uniti cosa farò?>> <<Noi siamo a conoscenza del tuo grado d’addestramento e di quanto vali. Sarebbe veramente uno spreco non utilizzarti.>> L’ufficiale fece una pausa, aspettando che Karima prendesse la parola, ma lei rimase in silenzio, dandogli l’opportunità di continuare. <<Tu saprai, certamente, che siamo direttamente in contatto con la CIA.>> <<Sì, conosco i rapporti che intercorrono fra il Mossaad e la CIA.>> L’ufficiale le raccontò che si erano già messi in comunicazione con loro, che avevano spiegato la situazione e che avevano descritto le sue caratteristiche. A loro sarebbe stato bene assorbirla nell’organico, ma che ci sarebbe stato un periodo d’inserimento ed adattamento all’organizzazione. In seguito l’avrebbero impiegata in missioni antiterrorismo. Al termine del resoconto le chiese:

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<<Cosa ne pensi?>> Dopo una breve pausa, in cui si lisciò i capelli, rispose: <<A me sta bene, a quando la partenza?>> <<Non dipende da noi, ma molto presto.>> <<Ok, prima sarà, meglio sarà.>> Aggiunse: <<E nell’attesa?>> <<Sarai nostra ospite.>> Alì fu riportato alla realtà dalla voce gracchiante del comandante che avvisava i passeggeri dell’imminente atterraggio ad Amman. Sarebbe avvenuto alle ventidue e diciassette, la temperatura al suolo era di 34 gradi. Gli mancava poco alla fine del capitolo che stava leggendo: decise di terminarlo. Mentre riponeva il tascabile avvertì un debole scuotimento: il carrello aveva toccato l’asfalto della pista in quel momento! <<Finalmente a casa.>> Si, disse. Emozione ed impazienza di uscire dall’aereo, lo presero; non riuscendo a controllare l’irrequietezza del momento, si alzò dal suo posto. Fu il primo a farlo. Velocemente, si diresse verso il portellone, seguito dagli altri passeggeri. All’uscita dall’aeroporto c’erano due persone che lo attendevano. Alì era stato avvisato di questo: era tranquillo. Uno dei due uomini, teneva, sollevato al di sopra della testa, un pezzo di cartone, rettangolare, con su scritto il suo nome. Alì non tardò molto ad individuare quei due, e velocemente andò loro incontro. Si abbracciarono, pur non conoscendosi. <<Ciao Alì, ben tornato in patria. Il viaggio è andato bene?>> <<Grazie, sì tutto bene.>>

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Alì, sul momento non si chiese chi fossero, chi li avesse mandati e come facessero a sapere il suo nome. Per il momento erano dettagli che considerava non importanti. Importante, era essere tornato in Giordania. In quei momenti e nelle ore a seguire avrebbe preso coscienza di quanto superficiale e precaria era stata la sua pseudo integrazione in Italia. Gli sarebbero state sufficienti poche ore di permanenza in Giordania per accantonare l’atteggiamento mentale che lentamente aveva acquisito durante il soggiorno a Bologna. In Italia aveva avuto l’illusione che il nuovo tessuto culturale si sarebbe sovrapposto alla cultura d’origine, ma ora stava sperimentando l’inconsistenza di quella convinzione. Gli stava capitando, quello che succede quando si rientra da un viaggio di piacere: sono, sufficienti pochi minuti per reintegrarsi nella propria casa! Quei due sconosciuti si presentarono, ma poco dopo, Alì avva dimenticato i loro nomi. Se li sentiva estranei! <<Vieni Alì, abbiamo l’auto poco distante da qui.>> <<Ok, vi seguo, ma dove stiamo andando?>> <<Ti portiamo in albergo, sarai stanco!>> <<Domani ti verremo a prendere per condurti al campo, non preoccuparti.>> Alì, quella notte stentò ad addormentarsi. Un pensiero prevaleva su tutti gli altri: <<Come si sarebbe inserito nel mondo produttivo del suo paese?>> Lui aveva perso i genitori, e amici non ne aveva. La sua permanenza in Italia, inoltre, aveva contribuito a sradicarlo dalla realtà produttiva della Giordania. Vero era, che lo avevano sostenuto economicamente per tutto il periodo degli studi, ma lui non era a conoscenza di chi c’era stato dietro l’aiuto che aveva ricevuto.

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Tutto quello che sapeva, era che ad alcuni ragazzi meritevoli, veniva proposto di continuare gli studi all’estero. Il costo lo avrebbe sostenuto una generica organizzazione, sorta con questo scopo. Ma da dove e come arrivassero i finanziamenti, gli era sconosciuto. Al tempo della proposta, lui non si pose tanti interrogativi: il fatto di essere stato selezionato lo inorgoglì, ed accettò senza riserve. Inoltre, l’idea di andare a vivere e formarsi professionalmente in un paese occidentale, quale l’Italia, gli avrebbe tolto ogni dubbio, se ce ne fosse stato bisogno. Dormiva profondamente, quando il telefono squillò. Allungando una mano, sollevò il ricevitore, e… <<Sì, pronto… chi è?>> Rispose con la voce impastata di sonno. <<Siamo noi, Alì. Ti siamo venuti a prendere per andare a Shu’fat. Non ricordi?>> <<Sì, ok…datemi il tempo di prepararmi: stavo dormendo!>> <<Ti attendiamo giù.>> Gli risposero accondiscendenti. Il percorso per raggiungere Shu’fat fu lungo e noioso. In quei sei anni la Giordania non era cambiata, perlomeno, da quello che poteva vedere al di là del finestrino. I suoi compagni di viaggio, rispondendo a monosillabi alle sue domande, gli avevano fatto capire che non erano propensi al dialogo. Lui prese atto della cosa, rimanendo in silenzio; tutto sommato non gli dispiaceva! Shu’fat era stato creato nel lontano 1948 per ospitare i profughi provenienti da Hebron. Erano tutte persone nate nella stessa città, si conoscevano tutte ed avevano condiviso le stesse esperienze. Dopo la guerra del 1967 giunsero gli sfollati del quartiere ebraico di Gerusalemme, scacciati

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dall’esercito israeliano. A tutti era stata promessa una casa, ma al loro arrivo trovarono poco più di una stanza ad accoglierli. Fu così che ognuno si organizzò a modo suo, cominciando a costruire una casa sull’altra, senza rispettare alcun criterio di sicurezza. Pur avendo superato di gran lunga la capacità ricettiva del campo, molta gente non si era voluta spostare, perché Shu’fat è l’unico campo sistemato sul vero e proprio suolo israeliano. Gli abitanti possiedono la ID card (Documento che permette di entrare a Gerusalemme) e non vogliono privarsene; inoltre chi vive nel campo ha la possibilità di lavorare sia in Israele che nei Territori Occupati. Prima di partire, Alì conosceva tutti nel campo, sapeva i loro nomi ed individuava con facilità la famiglia d’origine o il luogo di provenienza. Ora non sarebbe più stato così. La popolazione, in sua assenza, era raddoppiata; omicidi e droga avevano preso il sopravvento sull’antico vivere tranquillo. <<Eccoti arrivato…ingegnere!>> <<Già…finalmente a casa.>> Alì ringraziò quelle due persone, e scese dall’auto, ma non aveva fatto ancora un passo che, girandosi, chiese: <<Magari, la prossima volta che ci si vede, mi aggiornerete su tutto…>> I due si guardarono in faccia, poi: <<Non preoccuparti, ci rivedremo sicuramente.>> Detto questo, si allontanarono velocemente. Alì rimase solo, in piedi, di fronte alla sua abitazione. Un nugolo di bambini giocava a poca distanza, non curandosi della sua presenza. Con la valigia in mano, lo sguardo rivolto al terzo piano, rimase per alcuni minuti ad osservare la sua casa. L’aspetto dei muri, che una volta gli era del tutto abituale, gli sembrò tristemente fatiscente. Pensò:

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<<Come ho potuto non rendermene conto prima?>> Il disfacimento disordinato che poteva osservare, percepì non appartenergli più, pur facendo parte di lui, come un parassita che vive in simbiosi con il suo essere. Entrò nell’ingresso senza porta di quella struttura e salì le scale prive di ringhiera, fino al terzo piano. Alì aveva conservato gelosamente le chiavi di casa, e quando le tolse dalla tasca dei pantaloni, si soffermò un attimo a guardarle; da tempo pregustava quel momento, ma ora che era lì, davanti alla porta di ingresso della sua abitazione, si sentiva privo di emozioni: era come svuotato. Per un momento gli parve di non avere un passato. Curvo, con fare dimesso, aprì la porta ed entrò. Non aveva molto da fare in quella casa. La sua valigia conteneva poche cose: in gran parte libri. Si diresse in camera. Sul letto posò la valigia, che aprì. I libri, la cosa a cui teneva di più, li dispose su una scaffalatura. Mentre li collocava uno accanto all’altro, soppesandoli, rifletté su ciò che significavano per lui. Ognuno di loro rappresentava un pezzetto della sua vita, una sfida, una conquista, fatica e soddisfazione. Per lui, tutte le volte che aveva superato un esame, erano stati momenti di pura felicità, di pienezza. In cucina, seduto al tavolo con i gomiti poggiati sul piano e le mani che gli sostenevano il viso, cercò di fare mente locale sul da farsi. Doveva muoversi per cercare un lavoro, ma non sapeva come fare. Comunque, si disse: <<Inutile tormentarsi. Sono appena arrivato!>> <<I prossimi giorni si sarebbe informato, avrebbe preso contatto con la realtà del paese.>> Era stanco, meglio riposare; senza indugiare oltre si lasciò cadere sul letto polveroso. Le narici gli si riempirono di un

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odore acre, ma non importava. Si addormentò quasi all’istante. Un bussare insistente lo svegliò… e: <<Un momento…vengo.>> Quando aprì la porta, fece mezzo passo all’indietro. Un gruppo consistente di persone era lì, appena lo videro gli urlarono frasi di augurio per essere tornato e felicitazioni per i risultati raggiunti. Alcuni gli strinsero la mano dicendogli: <<Complimenti ingegnere.>> Alì, sul momento, non seppe cosa dire: era confuso ed emozionato, ma contento. Una manifestazione del genere non l’avrebbe mai immaginata! Ringraziò tutti, schernendosi un poco, e strinse le mani a quelli che gliele porgevano. Alcuni li aveva riconosciuti, i più no. <<Entrate, vi prego.>> <<Siamo troppi, non vogliamo disturbare.>> Disse uno per tutti, e continuando: <<Questa sera abbiamo organizzato una piccola festa in tuo onore. Ti aspettiamo al circolo; ci divertiremo, a più tardi.>> <<Ma…non era proprio il caso; veramente… grazie di cuore, a più tardi…allora.>> <<A più tardi.>> Uno ad uno discesero le scale lasciandolo solo con la gioia imbarazzata di quel momento. Le ore che lo separavano dalla “festa” trascorsero lentamente. Alì, impaziente di recarsi all’incontro organizzato dai suoi concittadini, non trovò niente di meglio, che occuparle, leggendo. Quando scese in strada era buio, i vicoli, come sempre, scarsamente illuminati, non invogliavano di certo, a

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percorrerli! Lui si affrettò a raggiungere il circolo e quando vi fu davanti, ebbe una leggera esitazione. <<Ma chi era lui, per meritare una simile accoglienza?>> L’antica disistima fece capolino nella sua mente ancora una volta. I traguardi che aveva raggiunto e superato, non erano valsi a seppellire quella deficienza: sicuramente si sarebbe creato, in futuro, altre prove, altri cimenti con i quali misurarsi, e tutto per cercare conferme. Entrò deciso, lasciando fuori dalla porta le considerazioni appena fatte. Lo stupore lo bloccò appena dentro. La grande sala era stata illuminata a giorno, dal soffitto pendevano addobbi variopinti, di carta, al centro una tavolata a forma di “U”, sapientemente apparecchiata. Una voce si levò fra il vociare indistinto, da un punto non ben individuabile: <<Alì vieni qua: il tuo posto è al centro della tavolata!>> Alì arrossì. Lui non era avvezzo a sentirsi al centro dell’attenzione, anzi, quando poteva, evitava di partecipare a situazioni del genere. Fare la parte del primo attore non gli era congeniale; si sentiva imbarazzato, e non riusciva ad esprimere le sue potenzialità. Percepiva il suo cervello, come se fosse stato paralizzato; una leggera ansia si impadroniva di lui, ed il risultato era che ci faceva la figura dello scemo. Di questo ne aveva sofferto ed avrebbe continuato a soffrirne! Cercando di mascherare il suo imbarazzo: <<Ma no, va bene in un posto qualsiasi…in mezzo a voi.>> <<Non se ne parla nemmeno, il tuo posto è là!>> Il tono fu perentorio e non ammetteva repliche.

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Mestamente si diresse dove gli avevano indicato, ma prima di sedersi, colse l’occasione per scambiare qualche parola con le persone che conosceva. Tutti volevano sapere dell’Italia, delle differenze, di come si era trovato, se si era integrato, della politica italiana e se in Italia si parlava dei profughi palestinesi. Fra un abbraccio ed una stretta di mano, cercò di rispondere ad ogni domanda nel modo più completo possibile, suscitando ammirazione, curiosità ed in molti il desiderio di percorrere la sua strada. E così, fra una domanda ed una risposta, si trovò seduto, suo malgrado, al centro della tavolata. Un anziano, quando tutti, oramai, avevano preso posto, si alzò e fece un breve discorso, elogiando a più riprese Alì. In quei momenti a lui sembrò di essere seduto sulla brace, ma poi passò. La cena fu ricca di pietanze, e le ore trascorsero veloci. Al termine qualcuno propose di ballare. Un brusio indistinto accompagnò la proposta, ma presto uno stereo cominciò a suonare e tanti si riversarono al centro della sala. Alì, durante la cena, aveva notato quattro persone, che erano rimaste in disparte facendo gruppo; due li riconobbe: erano quelli che lo erano andati a prendere in aeroporto. Il loro modo di comportarsi, aveva osservato, si differenziava da quello di tutti gli altri: sembravano sospettosi e troppo riservati. Quando i più ebbero abbandonato i loro posti, Alì sentì una mano battergli su una spalla: <<Ciao Alì; anche noi ci vogliamo complimentare con te.>> <<Grazie, ma…non ci conosciamo!>> <<Vero: imparerai a conoscerci, non preoccuparti.>> <<A cosa devo il vostro interessamento?>>

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<<Beh…, siamo noi che ti abbiamo permesso di studiare in Italia…>> <<Comunque, avremo tempo per parlare di questo; ti anticipiamo che ci rivedremo per approfondire la cosa.>> <<Sì, lo desidero pure io.>> Uno di loro gli dette una nuova pacca sulla spalla e, usando un tono amichevole, gli disse: <<A presto; buonanotte.>> Gli altri lo salutarono con un cenno della mano, andandosene. Alì fece altrettanto. Le persone che erano intervenute alla festa, in piccoli gruppi, se ne stavano andando; Alì pensò che era giunto il momento di fare la stessa cosa; alzando la voce ed un braccio salutò tutti, ringraziando ancora una volta. In strada, rincasando, assaporò felice le manifestazioni d’amicizia, che aveva ricevuto: non si sentiva più un estraneo, ora!

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Che , nell’impazienza di vivere, afferrai, incauto, il presente,… Goethe

Tozeur e dintorni non avevano più segreti per Guido, ormai. Durante la permanenza in quella regione non aveva perso occasione per esplorarne ogni angolo, spingendosi fino ai confini con l’Algeria. Aveva compiuto le ricerche, prima in aereo, poi con un fuoristrada. Da tempo applicava questo metodo, ritenendolo molto efficace. Il sorvolo gli serviva per avere una visione d’insieme dei luoghi e cogliere aspetti di rilievo. In seguito definiva l’itinerario, che avrebbe percorso, servendosi di un quattro per quattro. In aeroporto, a Tozeur, consegnò il piano di volo, che avrebbe seguito nei prossimi giorni. La meta finale era Amman, in Giordania. Ma, prima di giungervi pensava di fare tappa in alcuni aeroporti durante i trasferimenti. La lunga tratta, circa tremilacinquecento chilometri, gli imponeva di interrompere il volo per rifornirsi di carburante, inoltre non voleva perdere l’occasione di vedere da vicino alcune zone che riteneva di grande interesse paesaggistico, fra queste il deserto dell’Akakus.

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Anche quel giorno decollò di prima mattina, dirigendosi a Djerba. <<Un poco di mare, dopo tanto deserto, ci stava!>> Pensò. Il trasferimento non sarebbe stato impegnativo: un paio d’ore di volo, e poi si sarebbe potuto godere le spiagge ed il sole dell’isola Tunisina. Era decollato da pochi minuti, quando un anonimo funzionario dell’aeroporto di Tozeur sollevò il telefono posto sulla sua scrivania, mettendosi in comunicazione con Shu’fat. Quando sentì una voce dall’altro capo del filo, rispondere, a sua volta avviò la conversazione: <<Salve – Il piccione è volato via!>> <<Ah – lo cattureremo noi! Ascolto: dimmi.>> I due, pronunciando quelle frasi, si erano scambiate le parole d’ordine! <<Da Tozeur è decollato un pilota italiano con un piccolo aereo da turismo; è diretto ad Amman.>> <<Farà un volo diretto?>> <<No, farà tappa in Libia ed in Egitto. Ad Amman ti sapranno dire le date e gli orari.>> <<Bene, la cosa ci può interessare. Qual’è la prima tappa?>> <<Djerba. Le marche dell’aereo sono: I-VCSM.>> <<Ok, grazie.>> Il funzionario riagganciò, lisciandosi i baffi inumiditi dal sudore, soddisfatto. Quella soffiata, probabilmente, avrebbe fatto aumentare la stima che avevano di lui! Le due ore di volo che separavano Guido da Djerba trascorsero velocemente; l’osservazione del paesaggio che

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poté ammirare sotto di lui, distraendolo, contribuì a dargli questa sensazione. L’isola iniziò ad apparigli, immersa in un’atmosfera azzurrina, quando si trovava a circa una ventina di chilometri di distanza. L’aeroporto sapeva trovarsi sulla costa Nord occidentale, ed a lui non fu difficile individuarlo, anche senza l’aiuto degli strumenti. Guido aveva il vezzo di voler riconoscere le piste d’atterraggio senza ricorrere all’aiuto della tecnologia; così facendo, pensava di mantenere vivo l’istinto primordiale del navigatore. Tutte le volte che ci riusciva provava un’intensa soddisfazione, che rafforzava la sua convinzione. Pensava, inoltre: << Se gli strumenti fossero andati in avaria, avrebbe avuto maggiori opportunità di cavarsela, rispetto a chi si fosse affidato totalmente ad essi.>> A parte un discreto vento al traverso, che lo impegnò più del solito, l’atterraggio si concluse nel migliore dei modi! Ora, alcuni giorni di relax lo attendevano. Per soggiornare, aveva scelto la costa nord: pochissimo frequentata dai turisti e sufficientemente incontaminata. La litoranea correva poco distante dal mare; fra questa e la riva, la spiaggia di sabbia bianchissima, notevolmente profonda, punteggiata qua e là da pozze d’acqua verdastra: residuo dell’alta marea. Indolenti, ripiegate su di un fianco, come chi è stato colto da sonno improvviso, alcune barche variopinte (Il rosso ed il verde erano i colori che si stagliavano sulle bianche fiancate), erano state tirate in secca dai pescatori. Con le loro forme panciute ravvivavano l’immagine di quei luoghi, suggerendo all’osservatore la presenza nascosta dell’uomo. Guido si tolse le scarpe e decise di perdersi, vagabondando fra le dune della spiaggia. Avvicinandosi al bagnasciuga, si

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rese conto che il fondale si manteneva molto basso per alcune centinaia di metri, contribuendo a fornire alla superficie del mare un delicato colore celeste, chiazzato da zone più cupe, là dove l’acqua era più profonda. Spostando lo sguardo, gradualmente, verso il largo, poteva osservare il celeste saturarsi sempre più, fino ad assumere un colore blu scuro. L’insieme infondeva pace e tranquillità agli animi predisposti a farsi avvolgere dalla suggestione che quella zona suggeriva, e lui, fermando il tempo, si arrese al sussurro trasportato dalla brezza marina. Non se n’era reso conto, ma il tiepido contatto con l’acqua, che gli stava lambendo le caviglie, lo avvertì che era entrato in mare! Guido continuò a camminare nella laguna, rapito da tanta bellezza, pacata. Dove l’acqua era più bassa, alcuni uccelli dal becco giallo, simile ad una spatola, erano intenti a procurarsi il cibo; si muovevano pigramente, sostenuti da esili zampette. Di tanto in tanto, con ritmo discontinuo e repentino affondavano il becco nell’acqua, riuscendo, spesso, a catturare un pesce. La vicinanza di Guido non li allarmava affatto, quasi non consideravano la sua presenza, facendolo sentire parte integrante ed in equilibrio con l’ambiente circostante. E lui non volle approfittarne! Con discrezione tornò sui suoi passi, dirigendosi verso la spiaggia dove si sdraiò, assorbendo la tranquillità che vi era diffusa. Il sole gli scaldava le membra, contribuendo ad allentare, fino a farla scomparire, ogni tipo di contrattura psicologica. Ancora una volta, Guido stava permettendo alla sua coscienza di perdere, progressivamente, criticità, consentendo ad un ricordo, d’impossessarsene.

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Quel giorno il cielo era nuvoloso e le nubi basse lo coloravano di grigio fumo. Guido stava giocando ricurvo, da solo, in un vialetto del giardino della sua casa natale. Alle sue spalle si stagliava, immensa, la facciata rosa, dell’edificio. Improvvisamente, senza nessun preavviso, il fabbricato vomitò un rombo veloce, nel cielo. Guido alzò gli occhi sentendosi gelare il sangue. La sagoma nera di un aereo, apparso improvvisamente sopra le tegole color ruggine, quasi lo sfiorò. Così gli parve! Poi quella visione sparì, trascinando con sé il fragore cupo che l’aveva preceduta, lasciando Guido in compagnia di un’inspiegabile apprensione, incapace di muoversi, per qualche istante! Quella percezione paralizzante sarebbe emersa dai meandri della sua psiche, ogniqualvolta si fosse ritrovato in situazioni che gli avrebbero potuto ricordare quel lontano pomeriggio grigio! Guido, con affetto, chiudendo gli occhi, per meglio materializzare il lontano accadimento, si raffigurò nell’atto di accarezzare quel bambino. Nel farlo, le immagini che avevano preso vita nella sua mente, persero consistenza, dissolvendosi a favore di una nuova rappresentazione. Era nella sua cameretta, ancora a letto, sebbene fosse mattino inoltrato. <<Quanto gli piaceva dormire e trastullarsi in un pigro far niente, dopo il risveglio!>> Rammentò. La percezione del trascorrere del tempo, in quei momenti, si dilatava fino a svanire, lasciandolo immerso in un mondo tutto suo, dove qualsiasi particolare poteva essere il pretesto per dar vita a fantasie barocche. La realtà, come il tempo, era distorta, adattata al suo fantasticare privo di barriere.

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Una lama di luce argentea, sciabolando, attraversava obliquamente la sua piccola stanza buia, andando a morire su di un cassettone e dando vita lungo il percorso ad una moltitudine infinita di microscopici puntini luminosi che si muovevano disordinatamente entro i confini virtuali che il raggio delimitava durante il tragitto. Cosa fossero quelle piccole stelle, Guido non poteva sapere, ma poteva fantasticare sulla loro natura. Ciò che maggiormente lo suggestionava, era il loro movimento incessantemente disordinato. Osservandole, nella sua mente prendevano vita storie nelle quali si muovevano personaggi fantastici e lui si compiaceva della propria capacità immaginativa. Solamente tanti anni dopo, studiando la termodinamica statistica, avrebbe capito e dato una spiegazione al moto di quei minuscoli corpuscoli luminescenti: l’entropia, con il suo respiro universale; avrebbe appreso, abbracciava anche quel fenomeno, apparentemente così banale. Durante gli anni dell’innocenza, lui aveva semplicemente intuito la bellezza misteriosa di una possibile spiegazione scientifica e di questa intuizione aveva nutrito la sua anima. Quanto era malinconicamente dolce, per Guido, regredire agli anni della sua fanciullezza! Lì, sapeva essere celate le motivazioni che avevano contribuito a plasmare il suo passato e che continuavano a dare direzionalità al suo presente. Di una cosa era fermamente convinto: l’energia, che le avevano prodotte, non si era dispersa, non era svanita nel nulla durante il suo percorso esistenziale, anzi, quelle pulsioni continuavano a vivere, con discrezione, di vita propria, nella sua anima. Ma il fatto di celarsi alla coscienza non impediva loro di manifestarsi! Il come ed il quando sarebbe stato un altro discorso!

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Per Katia era giunto il giorno della partenza. Durante la settimana che l’aveva preceduta si era dedicata, prevalentemente, all’organizzazione del viaggio. Le pratiche, relative al visto d’ingresso in Libia, le aveva affidate all’agenzia di viaggio presso cui aveva acquistato il biglietto aereo. Lei si sentiva refrattaria all’espletamento di certe questioni burocratiche; non si rendeva conto del perché, limitandosi a prenderne atto con disagio. Avrebbe voluto essere diversa: affrontare con disinvoltura anche quel tipo d’incombenze ed altre simili, ma non ci riusciva; era più forte di lei, e lei sospirando, compassionevole, sorvolava sul problema. L’importante, in ultima analisi, era procedere! Di persona, prenotò l’albergo per i primi giorni di permanenza a Tripoli. Lo fece con una telefonata: con l’inglese se la cavava benino. Al suo arrivo voleva essere sicura di avere un punto di riferimento, un tetto. Consultando una guida turistica, non le era stato difficile individuare la struttura che pensava facesse al caso suo. Scelse un albergo situato nel centro storico, con tariffe adatte alle sue tasche. <<In centro avrebbe trovato, certamente, qualche organizzazione a cui fare riferimento per gestire un’escursione all’interno del deserto dell’Akakus.>> Pensò: <<La durata l’avrebbe decisa in loco.>> Sebbene non fosse particolarmente condizionata dallo spendere, durante i viaggi, prestava attenzione a non fare scelte avventate: soppesava, sempre, i pro ed i contro delle possibili soluzioni che si potevano presentare. Si sarebbe potuto affermare, senza timore di essere smentiti, che Katia era un’attenta e fredda calcolatrice!

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Dopo qualche giorno di permanenza a Djerba, a Guido venne a noia il bighellonare, troppo monotono, per lui; le emozioni che avrebbe potuto trarne si erano esaurite! Fu così che un pomeriggio, tornando in albergo, dopo essere stato a crogiolarsi in spiaggia, decise di telefonare a Tripoli per prenotare un albergo. Lo faceva sempre, prima dei suoi spostamenti: voleva assicurarsi un riferimento nella località in cui arrivava. Mettersi alla ricerca di una sistemazione, sul momento, lo considerava da sprovveduti; senza pensare alla perdita di tempo! L’indagine la fece su internet, con il suo portatile. L’impiegato con il quale parlò, fu gentilissimo, si esprimeva in un buon italiano, tanto che, al termine della breve conversazione, aggiunse: <<…E, se la può interessare: abbiamo altri ospiti italiani, in hotel!>> Guido ringraziò senza fare commenti. Sarebbe decollato il giorno dopo, di primo mattino. In aeroporto, Katia era andata con Angela. Entrambe avvertivano l’emozione del momento che stavano vivendo. Oltre al peso dello zaino rosso che portava sulla schiena, Katia avvertiva la fatica che doveva superare per allontanarsi dalle sue radici. <<Tutto ha un prezzo nella vita!>> Si disse. E, guardando l’amica Angela, per stemperare la tensione del momento, le comunicò ciò che stava pensando. Ripetendo, questa volta, a voce alta: <<Tutto ha un prezzo nella vita!>> Ed aggiunse: <<Il desiderio di staccare con i ritmi di tutti i giorni, la curiosità di confrontarmi con nuove realtà e di vivere emozioni, provocate da ambienti a me estranei, lo pagherò

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con il vivere in solitudine l’esperienza che sto per iniziare …>> Angela le restituì lo sguardo, facendole capire, in silenzio, che aveva compreso, che sapeva. Entrambe, in cuor loro, pensarono che l’empatia fosse ingrediente essenziale dell’amicizia, sperimentandola in quegli istanti! <<Dai vieni, andiamo al banco check–in. E’ al piano di sopra, al numero 24.>> <<Va bene, ti seguo.>> Tenendosi per mano, si diressero verso la scala mobile e velocemente individuarono il banco. Non c’erano molte persone davanti a loro ed in breve, Katia poté imbarcare lo zaino. Facendolo si era liberata, oltre che di un peso, anche della tensione che precede la consegna della carta d’imbarco. Alla signorina aveva chiesto un posto accanto al finestrino. Le aveva assegnato quello contrassegnato A 17. Quando vide il numero 17 pensò: <<Speriamo non mi porti sfortuna!>> Della coincidenza, poi, risero. Katia non andò, subito, al controllo passaporti. Se lo avesse fatto si sarebbe dovuta separare da Angela troppo presto! Entrambe si sedettero ad un tavolo del primo bar che videro, continuando a raccontarsi, e avvertendo l’imminenza ansiosa del distacco, che cercarono di celare l’una all’altra, ostentando indifferenza. Ma, ad un osservatore attento, non sarebbero sfuggiti alcuni segnali rilevatori: un sorridere stonato ed ingiustificato, l’argomentare vuoto, l’osservare frequentemente l’orologio…e così via. Improvvisamente, la voce roca dell’annunciatrice, che a stento riusciva a sovrastare il cicaleggio dei viaggiatori in attesa, annunciò il volo di Katia.

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<<Angela…è arrivato il momento.>> Disse, alzandosi dalla sedia. Aveva pronunciato quelle parole guardando il piano del tavolo: senza averne la consapevolezza, così facendo, stava predisponendosi a vivere in compagnia di se stessa! Distogliendo lo sguardo dal viso di Angela, aveva tranciato il legame che le aveva unite fino a quell’istante. Angela non colse il significato del linguaggio silenzioso dell’amica e, aggirando il tavolo, l’abbracciò lungamente, ma Katia non era più lì! Pensava che doveva superare il controllo del passaporto, raggiungere il gate 32 ed imbarcarsi. Ricambiando nervosamente l’abbraccio, le sussurrò, impaziente, all’orecchio: <<Devo andare.>> Queste parole furono liberatorie, per lei! <<Sì…Vai…Abbi cura di te e tienimi informata.>> Fu a questo punto che Angela non seppe trattenere le lacrime, contagiando Katia. Si strinsero, nuovamente, l’una all’altra per poi scivolare via dall’abbraccio. Non parlarono più. Katia girandosi, si allontanò velocemente, mentre Angela la seguiva con lo sguardo, tristemente. Ora che era sola si sentiva più tranquilla, più serena. Il distacco dal suo ambiente apparteneva al passato, ormai! Da questo momento doveva concentrarsi solo sul presente: l’unica realtà temporale a cui dare un senso. Passato e futuro erano due astrazioni! Sull’aereo, individuò facilmente il suo posto. Accanto a lei due persone anziane. Le frasi che si stavano scambiando le fecero capire trattarsi di nostalgici. In Libia erano andati per crearsi una nuova vita e dalla Libia erano stati scacciati, perché indesiderati. Avevano perso tutto, in quell’occasione,

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come tanti altri italiani! Tornavano per ritrovare, nelle cose, una parte della loro vita. Con lei si era portata un libro, da leggere per ingannare il tempo: un saggio riguardante l’arte d’amare. I romanzi non le piacevano, preferiva i saggi oppure le autobiografie. Quando l’aereo cominciò a muoversi, estraendo dalla tasca la piccola digitale, dalla quale non si separava mai, scattò alcune foto dell’aeroporto: era sua intenzione documentare, cronologicamente, il viaggio! Durante la lettura si rese conto che non riusciva a concentrarsi. Leggeva ma non le rimaneva nulla di ciò che arrivava ai suoi occhi. Tanto valeva distrarsi guardando fuori dal finestrino! Lentamente si rilassò. Il suo cervello, filtrando la conversazione dei suoi vicini, le dava la sensazione di trovarsi in un ambiente ovattato, privo d’interferenze, permettendo alle bolle di pensiero di raggiungere la sua coscienza, indisturbate. Con lo sguardo perduto nel cielo, chiazzato da cumuli bianchi, simili a batuffoli di cotone, Katia si stava chiedendo da dove nasceva la frenesia di viaggiare, il desiderio frenetico di fuga dal quotidiano, l’interesse di conoscere culture diverse dalla sua. Concluse che non era in grado di darsi delle risposte soddisfacenti; per ora prendeva atto del malessere che la spronava a compiere certe scelte, a sognare. Forse un giorno tutto le sarebbe stato chiaro…Forse. E ancora: perché non desiderava crearsi una famiglia, avere un legame stabile con un compagno? Perché escludeva la maternità? Non sapeva rispondersi: energie oscure le impedivano di scrutare i livelli profondi della sua anima!

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Comunque, Katia era massimalista, non era, poi, un cruccio così grande non darsi certe risposte! Se le risposte, ai quesiti che si poneva, non emergevano, allora lasciava perdere. Lei non era predisposta nei confronti del troppo pensare ed all’introspezione. <<Ma…meglio provare a riprendere la lettura!>> Karima era andata al poligono di tiro. Con sé portava una Beretta calibro sette e sessantacinque ed un paio di scatole di munizioni. Al poligono avrebbe trovato sicuramente delle armi, ma a lei piaceva adoperare la sua. Quando apriva l’astuccio, per poi estrarla, si soffermava per qualche istante a guardarla, provando un piacere sensuale nello sfiorarla; poi la prendeva in mano soppesandola e pulendola, se necessario. E finiva sempre per dirsi, con soddisfazione: <<Il mio cannoncino non mi tradirà mai!>> Poi la collocava nella fondina che portava sul fianco sinistro. Spesso, quando stringeva quella pistola fra le mani, pensava, sognante, all’Italia: ad essa associava la cultura, la storia, le bellezze naturali, la cucina, le città, la cordialità degli abitanti e, perché no, la fama proverbiale di amatori dei maschi italiani. <<Un giorno, si era ripromessa, avrebbe fatto un viaggio in Italia!>> Al poligono la conoscevano bene: ci andava, quando era a New York, tutti i giorni, e sparava per circa un’ora. Sulle orecchie metteva una cuffia per proteggersi dal rumore violento degli scoppi e, sugli occhi, occhiali gialli da tiro, per meglio far risaltare i contorni del bersaglio. L’abbigliamento, del tutto maschile, mortificava la sua femminilità, ma a lei non importava.

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<<Ogni cosa nel luogo ed al momento giusto!>> Pensava. Con la mano sinistra strinse il polso della destra, con la quale impugnava la pistola, il braccio, completamente esteso e proteso verso il bersaglio, le gambe divaricate. In quella posizione cominciò a premere il grilletto. Anche quel giorno sparò per circa un’ora, esercitandosi nel tiro a raffica. Lo scopo era quello di scaricare gli otto colpi contenuti nel caricatore, nel minor tempo possibile e con la massima precisione, compatibilmente al tipo di tiro. Come al solito fu molto brava: spesso mise a segno otto colpi su otto! E, come al solito, si compiacque del risultato che aveva ottenuto. Nella casa di Karima c’era un silenzio inusuale: televisione e stereo erano spenti. Stranamente, rientrando, non li aveva messi in funzione. Era, sì soddisfatta per la prestazione al poligono, ma non come sempre. All’appagamento si sovrapponeva inquietudine. Ultimamente, facevano breccia nella sua coscienza domande che prima di allora non si era mai posta. Iniziava a mettere in forse le modalità, con cui conduceva la sua esistenza di donna, le motivazioni con le quali giustificava le missioni di antiterrorismo che la impegnavano e l’aspetto morale con il quale legittimava il suo agire. A Karima cominciava pesare la solitudine affettiva, le carezze di un compagno a cui regalare il suo amore. Si stava rendendo conto che le voci urlate dall’apparecchio televisivo e la musica emessa dallo stereo, altro non erano che surrogati per stemperare la solitudine con la quale conviveva.

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Come folate di vento improvviso, che insinuandosi fra la capigliatura la arruffano, così gli interrogativi che si stava ponendo, scombussolavano il suo equilibrio mentale. <<Ma…non poteva, allo stato attuale delle cose, permettersi di crogiolarsi in riflessioni di questo tipo!>> Pensò, abbandonandosi sul suo grande divano, troppo grande per lei sola! Accese l’apparecchio televisivo, sintonizzandolo su un canale che stava trasmettendo notizie dal mondo. Allungando una mano prese un cuscino, messo lì per decorare il divano, e lo posizionò sotto il capo, rannicchiandosi come una gatta. Il sonno non tardò molto ad avvolgerla! Karima trascorse tutta la notte dormendo sul divano, con la televisione che continuava a trasmettere programmi; mantenendo per tutto il tempo la medesima posizione con la quale si era addormentata. Stava sognando di essere in una stazione ferroviaria, in attesa di salire su di un treno che l’avrebbe portata in un luogo non ben definito, quando le parve di sentire un trillo…Nel sonno si girò e rigirò, spostando il cuscino che le sorreggeva la testa. Non rendendosi conto se fosse sogno o realtà! Poi, continuando il trillo a disturbarla, socchiuse un occhio stirandosi e rendendosi conto che il telefono suonava veramente. Lo raggiunse borbottando fra sé e sé, con la voce impastata dal sonno: <<Ma chi sarà questo scocciatore…A questa ora del mattino.>> La frase le morì in bocca, quando focalizzò il led rosso, lampeggiare!<<Ci siamo.>> Stizzita, sollevò la cornetta: <<Karima…si?>>

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Dall’altra parte le rispose una voce a lei ben nota: <<Sono Barrett, devi venire da noi, a Lengley.>> <<Ma… è veramente necessario? Sono in riposo, lo sai.>> <<Sì è necessario.>> Karima provò a manifestare una tenue resistenza: <<Non puoi incaricare un collega?>> <<Non è possibile, per questa incombenza ci servi tu.>> Lei sapeva che quando il suo capo usava quel tono era inutile insistere; rassegnata, chiese: <<Quando devo essere lì?>> <<Hai quarantotto ore, ciao.>> Barrett riagganciò senza darle il tempo di aggiungere altro; lasciandola lì, indispettita per dover interrompere il suo periodo di riposo. La televisione seguitava ad imbottire la stanza di suoni, intanto! Lengley è la sede centrale della C.I.A. in Virginia, nelle vicinanze del fiume Potmac. Karima ci sarebbe andata con un aereo dell’Agenzia o, nel caso fosse stato disponibile, con un piccolo aereo da turismo, che avrebbe pilotato lei stessa. Decise di sfruttare i due giorni che Barret le aveva concesso continuando a vivere con i ritmi che si concedeva quando era fuori servizio. Una cosa fece subito, dopo la telefonata del suo capo: chiamò l’Agenzia per informarsi circa la disponibilità di un Cesna 172. Fu fortunata: per l’indomani erano disponibili due aerei. Lei né prenotò, immediatamente, uno. Giunta a Langley, in sede (Per lei, quell’edificio era diventato una seconda casa), andò direttamente da Barrett, ma la segretaria le disse che in quel momento era occupato, di attendere.

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<<Mai una volta che fosse libero…: benedetto uomo!>> Trascorsero circa quindici lunghi minuti, poi il cicalino, sulla scrivania della segretaria, suonò, e: <<Puoi entrare, ti aspetta.>> <<Ciao Barrett.>> <<Ciao Karima, tutto bene?>> <<Sì, tutto bene; a parte l’interruzione del mio periodo di riposo…, ma veniamo al dunque.>> <<Mi spiace…, sinceramente, ma credimi, non potevo fare diversamente.>> <<Sentiamo.>> <<Un nostro informatore, ti sto parlando di Siria, Giordania, di campi profughi, ci ha riferito che, molto probabilmente, un gruppo eversivo sta preparando un grosso attentato.>> <<Ah, comincio a capire.>> <<Già…, capirai che quella è la tua zona; che non è facile, per noi, disporre di agenti madrelingua ed ex componenti delle loro file.>> <<Sì, capisco perfettamente, ma tu non dimenticare che, se i miei ex mi dovessero catturare, mi farebbero pentire di essere nata, per poi uccidermi.>> <<Lo so, ma questo è il lavoro che hai scelto liberamente di fare.>> <<Già…, ma hai considerato il fatto che ci si può anche pentire delle proprie scelte e pensare di cambiare attività?>> <<Certamente, ma tu hai un contratto con noi ed un impegno morale, che vanno rispettati.>> <<Non c’è bisogno che me lo rammenti: bastardo sei e bastardo rimani.>> <<Eh Eh,…qui siamo tutti bastardi, chi più e chi meno…>> <<Comunque, non temere: non ho nessuna intenzione di

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venir meno agli impegni presi.>> <<Brava, è così che ti voglio sentire parlare!>> <<Già…ma i dettagli della missione quando li conoscerò?>> <<Appena i nostri contatti, in zona, ce li comunicheranno.>> <<Ah…Ma cosa ci faccio qui, allora?>> <<Beh, lo sai: dovrai acquisire le informazioni che riguardano la morfologia dei luoghi in cui sarai chiamata a muoverti, la struttura dell’organizzazione terroristica, visionare le foto segnaletiche dei terroristi, osservare i loro movimenti per mezzo delle riprese satellitari e rimanere in contatto con i nostri informatori. Inutile e dispersivo, che lo faccia io per te.>> <<Sì, d’accordo.>> <<Quando possederai tutti gli elementi e ti sentirai pronta, sarai tu a decidere il momento in cui entrerai in azione.>> Barrett e Karima si erano detti tutto! A lei non rimaneva che prendere possesso del nuovo alloggio presso l’Agenzia. Alì, nei giorni seguenti la festa di ben tornato, che i suoi concittadini gli avevano fatto, era stato avvicinato dalle persone che lo avevano prelevato in aeroporto. In quell’occasione, uno di loro gli aveva regalato un telefono cellulare, dicendogli: <<Prendi, ti potrà essere utile.>> Lui ringraziò, ma non capì il perché di quell’attenzione. Da quando lo possedeva non era ancora squillato. Ma non se ne stupiva: il suo numero lo conoscevano pochissime persone! E fu con stupore che lo sentì, prima vibrare, poi suonare, mentre camminava nelle viuzze del campo. <<Sì, pronto?>>

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<<Ciao Alì, sono Abed.>> Alì dovette fare uno sforzo notevole per associare un volto a quel nome, ma poi pensò che doveva trattarsi di una delle due persone che aveva conosciuto in aeroporto, al suo rientro in Giordania. <<Scusa, quale dei due?>> <<Sono il più alto, ricordi? L’altro è Faisal.>> <<Scusami ancora, ma dopo la presentazione non ho più sentito i vostri nomi e, sinceramente, li avevo dimenticati.>> <<Sì, capisco. Ho chiamato per proporti un incontro. Dobbiamo parlare di certe cose…>> <<D’accordo, ma quando?>> <<Se sei libero anche questa sera.>> <<A me sta bene.>> <<Bene, ti veniamo a prendere alle ventuno.>> <<Alle ventuno, ciao.>> Alì non si stupì di quella telefonata; in cuor suo sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo e che poi li avrebbe sentiti o rivisti. Fin dal momento in cui li aveva conosciuti aveva percepito che nascondevano qualche cosa. Alle ventuno, Alì sentì il campanello suonare; calzò, frettolosamente, le scarpe e scese in strada. Abed e Faisal lo stavano attendendo, appoggiati con la schiena alla Mercedes, fumando. Quando lo videro uscire dal portone, lo salutarono calorosamente, aggiungendo alla voce il movimento del braccio. <<Cosa si fa ragazzi?>> <<Ti portiamo da nostri conoscenti per una chiacchierata.>> <<Chiacchierata? A proposito di che?>>

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<<Pazienta ancora un poco, Alì. Poi capirai la nostra reticenza.>> <<Come volete: andiamo.>> Rimasero in auto per circa una mezz’ora. Abed e Faisal non parlarono durante tutto il percorso procurando imbarazzo ad Alì, ma lui aveva capito che non sarebbe stato il caso di forzare la conversazione. Giunti davanti ad un grande caseggiato, costruito in cemento armato, privo di finiture e dalla forma anonima, Abed arrestò l’auto e rivolgendosi ad Alì: <<Siamo arrivati: puoi scendere.>> Insieme si diressero verso l’ingresso dell’edificio; entrati, scesero una rampa di scale in cemento grezzo, sporca. Al termine di un corridoio semibuio, una porta metallica in parte arrugginita. Faisal bussò tre colpi; dall’interno, dopo qualche istante di silenzio, una voce disse: <<Avanti.>> Quella fu la conferma che erano attesi! Quando Faisal chiuse la porta dietro di loro, Abed disse: <<Alì, ti presento Afeef e Jihad.>> A quelle parole, Alì avanzò di qualche passo e strinse le loro mani, pronunciando una frase di convenienza. <<Siediti Alì.>> <<Grazie.>> Disse, sedendosi su di una sedia impolverata. Abed e Faisal erano rimasti dietro ad Alì, in disparte, entro un cono d’ombra. Afeef prese la parola dopo le presentazioni: <<Alì, ti abbiamo convocato per farti alcune comunicazioni…pensiamo sia venuto il momento che tu sappia.>> <<Ascolto.>>

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<<Per prima cosa devi sapere chi siamo e chi rappresentiamo.>> A questo punto prese la parola Jihad: <<Noi apparteniamo al Fronte combattente per la Liberazione della Palestina. La nostra organizzazione, fra le altre cose, seleziona giovani meritevoli e permette loro di studiare ed anche laurearsi all’estero.>> Alì aveva sospettato una cosa del genere quando gli venne proposto di studiare in Italia, ma aveva, ostinatamente, rimosso questo dubbio. Sentirsi confermare l’ipotesi che aveva fatto gli provocò un turbamento profondo. Cercando di non fare trapelare nessuna emozione, disse semplicemente: <<Immaginavo una cosa del genere.>> <<Bene, è già tanto. Tu capirai che per noi sei stato un investimento e che ora pensiamo di raccogliere i frutti.>> Jihad si interruppe con l’intenzione di cogliere le reazioni che le sue parole avrebbero potuto produrre su Alì e per dargli la possibilità di ribattere. Ma lui non fece trapelare il subbuglio che stava vivendo; limitandosi a dire: <<Le vostre aspettative sono comprensibili.>> Jihad incalzandolo: <<Quindi, cosa ci dici: sei dei nostri?>> <<Dipende da cosa prevede il vostro investimento…>> <<Hai ragione, ti spiego: dovrai fornirci delle informazioni, per ora.>> <<E come?>> <<Capirai che, allo stato attuale della cosa, non possiamo scendere nei particolari.>> <<Sì, capisco.>> <<Per ora sappi che ti abbiamo trovato un lavoro a Gerusalemme.>>

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<<Che tipo di lavoro?>> <<Ricoprirai un posto di analista informatico e di progettista di sistemi automatici.>> <<Molto bene, è il mio lavoro.>> <<Tu sai che noi di Shu’fat abbiamo libero accesso a Gerusalemme, quindi potrai raggiungere la sede di lavoro senza problemi.>> <<Lo so.>> Gli chiesero nuovamente se fosse dei loro; lui rispose di sì, rassicurandoli. In fondo era in debito e quello che gli stavano chiedendo, lo riteneva accettabile. Gli fecero capire che, a quel punto, non si sarebbe più potuto tirare indietro e una eventualità del genere l’avrebbe pagata con la vita. L’incontro si concluse con strette di mano calorose e con la promessa che lo avrebbero contattato prossimamente, comunicandogli ulteriori dettagli.

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Gran parte del nostro far progetti è come attendere Di nuotare in un fiume in secca. Nel delirio della febbre non si riconosce la febbre. Patrul Rinpoche

Entrare in Libia, non fu del tutto indolore per Katia. In aeroporto, i meticolosi controlli, gestiti da personale tanto indolente quanto svogliato, insensibile alla lunga fila formatasi di fronte allo sportello, si protrassero per quasi due ore. A nulla valsero le proteste dei passeggeri appena sbarcati! E forse perché donna occidentale, con zaino sulle spalle, fu invitata ad accomodarsi in una stanza adiacente alla zona in cui venivano eseguiti i controlli doganali. Katia, accompagnata da un poliziotto femmina, non se lo fece ripetere due volte, e alquanto imbarazzata, ma diligentemente, si diresse dove le avevano indicato. Lì la sottoposero ad una accurata ispezione, mentre un secondo agente controllò il contenuto dello zaino. Tutto risultò in regola e senza scusarsi le dissero che era la benvenuta in Libia e che poteva andare. Prima di partire, Katia aveva scritto su di un biglietto l’indirizzo dell’albergo che si era premunita di prenotare dall’Italia.

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Salita sul primo taxi libero, che aveva individuato all’uscita dell’aeroporto, mostrò all’autista il bigliettino; lui lesse, ed apprezzando la cosa, partì immediatamente alla volta dell’albergo. Durante il tragitto, notò che il traffico era piuttosto limitato, e pregustò le atmosfere dei prossimi giorni. Il taxista le rivolse alcune domande, usando un inglese stentato. Era palese la sua curiosità nei confronti di Katia e volle sapere da dove veniva e lo scopo della sua permanenza in Libia. Apprendendo che era italiana, non riuscì a nascondere una smorfia di disappunto, al contrario si complimentò con lei, quando seppe che sarebbe andata a visitare l’Akakus, suggerendole di interpellare un’agenzia specializzata in quel genere di viaggi. In albergo, comunque, le avrebbero dato tutte le indicazioni del caso. Katia pensò, considerando il comportamento di quell’uomo, che la propaganda aveva ottenuto gli scopi per la quale era stata concepita. Durante il resto del tragitto a Katia, avendo risposto a monosillabi al taxista, non le fu rivolta più la parola e, giunti a destinazione, fu salutata con distacco. In albergo, l’impiegato che la ricevette, costatando la sua provenienza, le parlò in italiano e, esattamente come aveva fatto con Guido, le disse che sarebbe arrivato un ospite italiano come lei. Al che, non seppe se rallegrarsene o no; pensando: <<Di solito gli italiani, all’estero, combinano guai.>> Inoltre aveva il desiderio di immergersi nella nuova realtà senza che niente e nessuno le potessero ricordare le sue radici. Guido sarebbe partito il giorno seguente, di primo mattino. Il volo che lo attendeva non era impegnativo: poco più di

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un’ora! Gli sarebbe rimasta parte della giornata per fare piccoli acquisti nel capoluogo di Djerba, poi si sarebbe ritirato in albergo per leggere un poco e consultare le carte. Alì era impaziente di incontrare, nuovamente, le persone con le quali aveva parlato qualche sera prima. Pensava soprattutto al lavoro, non rendendosi del tutto conto, della situazione in cui si era trovato. Bighellonando per le viuzze del campo, non riusciva a pensare ad altro, facendo congetture! Karima, al momento, non possedeva sufficienti informazioni per poter entrare in azione. Si limitava ad osservare, per mezzo dei satelliti, i luoghi in cui, molto probabilmente, si sarebbe dovuta muovere e mentre osservava, riviveva le tappe salienti della propria esistenza. Nella camera, la numero 17, le narici di Katia furono inondate da un fastidioso odore di stantio e lei, che aveva un olfatto molto sensibile, ne fu infastidita. Senza esitare si diresse alla finestra che spalancò noncurante della vampata di calore che, entrando, prese il sopravvento sul flusso di aria fresca generato dal condizionatore. Lentamente l’ambiente si purificò e il senso di claustrofobia che aveva avvertito, entrando in camera, iniziò a scemare. Ora si sentiva pronta a disfare lo zaino. Aveva pensato di fermarsi a Tripoli alcuni giorni, dovendo organizzare l’esplorazione dell’Akakus! L’eccitazione ed il senso di disorientamento che l’avevano accompagnata fino a quel momento, tipici di chi cambia ambiente repentinamente, iniziarono ad attenuarsi, consentendole di avvertire l’alta temperatura di quel luogo.

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Sicuramente più di quaranta gradi, ma lei sopportava molto bene il caldo. Cominciò ad ispezionare la stanza, scoprendo particolari che le erano sfuggiti durante il primo contatto. Il gironzolare fra gli arredi, come un cagnolino introdotto in un luogo a lui estraneo, l’aprire e chiudere i cassetti, lo sbirciare il livello igienico della stanza da bagno, le dettero l’opportunità di sentirsi meno estranea a quella camera che, nei giorni a venire, le sarebbe diventata intima. Ora poteva richiudere la finestra e riporre gli indumenti, tolti dallo zaino, nell’armadio. Poi avrebbe fatto il bagno per togliersi dalle membra la fatica del viaggio. Katia, non praticando nessun tipo di sport, traeva dal fare la doccia il massimo benessere fisico e quando ebbe terminato, si sentì rinnovata: pronta ad affrontare il da farsi. Ma non voleva correre, tempo ne aveva in abbondanza. Il suo non era un viaggio a durata limitata! Visitare Tripoli, e cercare l’agenzia turistica per organizzare l’escursione all’interno dell’Akakus, lo avrebbe fatto il giorno seguente. <<Meglio riposare, ora.>> Si disse. Con una mano sollevò un lembo del lenzuolo e, con attenzione, controllò che la biancheria fosse stata lavata. Lo era! Soddisfatta si insinuò sotto il lenzuolo, assaporando la fragranza di pulito che emanava da esso. Dopo pochi minuti dormiva. Katia ebbe un sonno agitato, la prima notte di permanenza a Tripoli, e Solamente nelle prime ore del mattino riuscì ad addormentarsi profondamente. Guido in quelle stesse ore era in aeroporto, a Djerba, intento a compilare il piano di volo e controllare che tutto fosse in

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regola. Non era il trasferimento in sé, che lo preoccupava, ma l’aspetto burocratico: voleva avere la certezza di non trovare beghe in Libia, a Tripoli. Conosceva la pesantezza dei controlli libici e l’avversione dei funzionari nei confronti degli italiani. Quando non ebbe più dubbi, si diresse verso il suo aeroplano ed avuto l’ok dalla torre per decollare, puntò verso la nuova meta. Il volo, come previsto, fu breve e tranquillo. Non altrettanto brevi le procedure per sbarcare. Ma, era preparato a questo genere di cose e si armò di pazienza, facendo buon viso a cattiva sorte. Viaggiare, come stava facendo lui, implicava anche questo genere d’inconvenienti! L’albergo era come se lo immaginava e dopo aver fatto una doccia veloce, si sentì pronto per un giretto esplorativo della città. Il ragazzo alla reception, premurosamente, gli aveva fornito alcuni nominativi di agenzie esperte nella organizzazione di escursioni nell’Akakus, integrando le informazioni con una cartina stradale della città. A Shu’fat, mentre Guido si stava accingendo ad uscire in strada, stava squillando il telefono in uno scantinato, all’interno di un palazzone anonimo: lo stesso in cui Alì era stato convocato da Afeef e Jihad, alcuni giorni prima. <<Salve – Il piccione è volato via!>> <<Ah – lo cattureremo noi! Ascolto: dimmi.>> <<L’italiano è atterrato a Tripoli.>> <<Grazie.>>, e riagganciò. Nei pressi dell’albergo di Guido si trova l’Arco di Marco Aurelio, appena fuori le mura che circondano la Medina,

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nelle vicinanze della “porta del mare”: una delle sette che vi permettono l’accesso. Accanto al monumento romano, una grande moschea. Guido decise di dirigersi in quella direzione, pensando di razionalizzare il percorso, infatti da quella zona, sarebbe potuto accedere alla città vecchia. In prossimità dell’ingresso, notò una persona, altro non poteva essere che il muezzin. Superando una certa incertezza, gli si avvicinò e gli chiese: <<E’ possibile entrare? Gradirei visitare la moschea.>> Si era preparato ad un rifiuto, conoscendo la rigidità dei musulmani in fatto di religione, ma… Il Muezzin lo guardò dall’alto al basso e dopo un attimo di silenzio, gli rispose di sì, che poteva; lasciandolo, piacevolmente sorpreso. Ma che si sarebbe dovuto togliere le scarpe prima di entrare. Così dicendo, gli indicò un angolo dove lasciarle. In quel posto ce n’erano altre. Prima di entrare, Guido si soffermò ad ammirare i bellissimi mosaici che adornano l’esterno della moschea, poi si tolse le scarpe ed entrò nell’edificio. L’interno gli apparve molto ampio: l’intero pavimento era ricoperto con tappeti ravvivati da disegni geometrici multicolori e tante cupole decorate da motivi arabeschati, componevano il soffitto. Dal centro delle cupole pendevano caratteristici lampadari, in parte accesi, così da creare un’atmosfera magica, fatta di colori caldi ed avvolgenti, di ombre e mistico silenzio. Alle pareti, piastrelle decorate a mano raffiguranti dei fiori. Guido rimase all’interno della moschea per un tempo indefinito, rapito dall’atmosfera surreale in cui si trovava, privo di pensieri, avvolto dal nulla.

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In strada, abbandonata la fresca penombra della moschea, si ritrovò immerso in un mondo di luci e suoni e per ritornare in sintonia con la realtà gli ci vollero alcuni lunghi istanti, durante i quali fu tentato di rientrare. Ma aveva deciso diversamente! Attraversata la porta d’accesso alla Medina, si trovò a camminare in un intrico di strette stradine in leggera salita, costeggiate da casette bianche, con porte dipinte d’azzurro, verde o marrone. Sollevando lo sguardo, notò che molte di esse sono unite da ponticelli: veri e propri ponti, fra le case, che danno la possibilità a chi vi abita, di passare da un’abitazione all’altra, senza dover scendere in strada. Continuando il percorso, con curiosità ed interesse, si trovò circondato da botteghe e negozi che esponevano stoffe coloratissime, spezie profumate, ciabatte, teiere, tappeti ed altro ciarpame. Tutti volevano vendergli qualche cosa, al suo passaggio! Con il pretesto dell’ospitalità araba, lo invitavano all’interno delle botteghe offrendogli il tè, ma poi gli avrebbero proposto l’acquisto delle loro mercanzie. Ma Guido conosceva bene quella tecnica ingenua e sempre evitava l’invito, sorridendo amabilmente. Viaggiando, aveva capito che un sorriso può tanto! Terminata la visita della Medina, si diresse alla piazza Verde, la principale di Tripoli. Lì sapeva che avrebbe potuto trovare i contatti che lo interessavano; ed infatti fu così. L’agenzia che reclamizzava escursioni nel deserto dell’Akakus aveva sede in un piccolo locale, arredato con pessimo gusto: vecchi e malandati gli arredi, ma due computer, stonando con il resto, facevano bella mostra di sé. Due gli impiegati all’interno: un uomo di mezza età ed una

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ragazza molto più giovane. Entrambi vestivano secondo le usanze arabe musulmane. A salutarlo ed invitarlo a sedersi fu l’uomo: sicuramente il titolare. Con il solito modo mieloso, tipico delle popolazioni arabe, gli chiese in cosa poteva essergli utile. Al ché, Guido gli espose le sue intenzioni: <<Vorrei fare una escursione nel deserto dell’Akakus, cosa mi propone?>> <<Noi possiamo offrirle escursioni di sette o nove giorni, da effettuarsi a piedi con guida e supporto logistico. Gli spostamenti che implicano lunghe percorrenze, con quattro per quattro.>> E continuando nell’esposizione: <<Oppure piccoli spostamenti, camminando ed il resto in auto. I pernottamenti avverranno sempre in tenda; al vitto, ovviamente, provvederemo noi.>> <<Il luogo di partenza quale sarà?>> <<Sebha, signore.>> <<Con quale mezzo raggiungeremo Sebha?>> <<In aereo, signore: circa due ore e mezza di volo.>> <<Nella quota di partecipazione è compreso anche il volo?>> <<Sì.>> Guido rifletté qualche minuto, concludendo che sette giorni di deserto sarebbero stati sufficienti, e rivolgendosi all’uomo dell’agenzia: <<Mi può andare bene il pacchetto di sette giorni…,ma vorrei farle una proposta.>> <<Mi dica signore.>> <<Considerando che a Sebha c’è un aeroporto, potrei raggiungere quella località con il mio aeroplano.>> <<Lei possiede un aereo?>>

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<<Sì.>> <<Si può fare, signore.>> <<In questo caso, immagino, sia possibile scorporare il costo del volo da quello relativo all’intero pacchetto.>> <<Sì, certamente.>> <<Bene, possiamo fare i conteggi…un’ultima cosa: a quando la partenza?>> <<Appena avremo raggiunto il numero di sei partecipanti: al momento siete in cinque.>> L’informazione che aveva ricevuto, riguardante la partenza, a Guido non era piaciuta. Non gli stava bene che la data fosse indeterminata! Ma non aveva altra scelta. Insoddisfatto di come erano andate le cose, decise di rientrare in albergo. Avrebbe messo mano alla documentazione riguardante la zona di deserto che si apprestava a visitare. Inoltre: <<Che peccato non poter partire immediatamente…>> Ma non si può avere tutto, pensò. Mentre Guido stava organizzando il tour, Katia si riposava e, con calma, era scesa nella saletta riservata alla lettura ed alla televisione. Pensando di non trovarvi nulla, che potesse interessarle, estrasse dallo zaino la guida di quei luoghi, con l’intenzione di rinfrescare ciò che aveva appreso nei giorni precedenti la partenza. Non si era sbagliata: sui tavoli della saletta, solo giornali e riviste arabe. La televisione stava trasmettendo brani di musica araba. Nessuno tranne lei, si trovava in quella stanza! Entrando, Guido vide immediatamente Katia ed all’istante riconobbe in lei una ragazza che anni prima gli si era presentata, in aeroclub, per fare un volo turistico.

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Guido aveva una memoria fotografica eccezionale! I pensieri e le immagini, nella sua mente, si accavallarono disordinatamente, ma una in particolare gli generò perplessità: la sera in cui pernottò ad Ajaccio, all’inizio del viaggio. Si vide mentre era… “…sul terrazzo della sua camera d’albergo, rilassato, osservava il mare, allungato nella sedia sdraio, con le mani incrociate dietro la nuca. La sua mente era sgombra da pensieri, lo sguardo perso all’infinito. Improvvisamente, senza nessun motivo palese, una immagine si materializzò nella sua mente. Era una ragazza dalla carnagione molto chiara, alta, magra, capelli ricci che le coprivano le spalle; si muoveva con fare volitivo e gli sorrideva. Ora ricordava. Tanti anni addietro aveva dato il battesimo dell’aria a quella turista! Sorrise. <<Ma…che strani scherzi può giocare la memoria!>>...” Ricordò di essersi detto! Katia gli stava voltando le spalle. Leggeva un libro. A Guido, in quel momento, vennero alla mente le parole dell’impiegato con il quale aveva parlato al telefono, da Gjerba: in albergo ci saranno altri italiani… e ciò che pensò in quel momento! Di certo non avrebbe mai immaginato di fare un incontro simile, per di più in Libia! <<Mi faccio riconoscere? Mi presento?>> Si chiese. Non aveva ancora terminato di articolare quei propositi…che Katia, come se avesse avvertito la sua presenza, si girò, senza una ragione.

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Lo osservò per una frazione di secondo, riconoscendolo all’istante, per poi abbassare lo sguardo sul libro che stava leggendo, confusa e sorpresa. E, parimenti a Guido, rivisse alcuni momenti di quella sera…mentre rincasava, dopo aver fatto all’amore con Carlo. Ricordò quando, anni prima, si recò in un aeroclub della riviera romagnola e… “…si diresse verso quel signore. Che gli apparve una persona alta, distinta, che ispirava sicurezza.” E quando: “Con un sola occhiata registrò le fattezze di quell’uomo: moro, occhi scuri, carnagione olivastra, longilineo, mani con lunghe dita, …” Ed anche la considerazione che fece: “Questa persona mi piace” A Guido sembrò fuori posto fingere di non averla riconosciuta, inoltre aveva avuto la netta sensazione che fosse capitata la stessa cosa anche alla ragazza. Magari, pensò: <<Ha abbassato lo sguardo per timidezza, per la sorpresa o per entrambe le cose.>> Avvicinandosi a Katia, le si pose davanti e, dopo un attimo di silenzio, rivolgendole la parola, disse: <<Buongiorno, ritengo ci si conosca…>> Lei, alzando gli occhi verso di lui, con finta sorpresa, mentendo, rispose con civetteria: << Dice? Mi aiuti a ricordare.>> Katia, istintivamente, in quel momento, aveva ceduto al bisogno viscerale di porsi paradigma dell’incontro! Guido si rese conto dell’atteggiamento di Katia, ma le volle fare credere di non essersi accorto di nulla e, stando al gioco, rispose:

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<<Sì, certo, l’aiuterò.>> Lei, con lo sguardo che esprimeva interesse e curiosità, si predispose ad ascoltarlo, incrociando le braccia sul seno ed accavallando le gambe; pensando: <<Sono curiosa di ascoltare come imbastirà il discorso.>> Guido, come al solito andò al sodo e, sinteticamente, le disse: << Ricorda? Le ho dato il battesimo del volo. Era estate e lei stava facendo le vacanze al mare.>> A quelle parole, Katia non rispose immediatamente, fingendo, con malizia tutta femminile, di tentare di far riaffiorare il ricordo. Poi…alzandosi in piedi: <<Sì, ricordo. Gran bella esperienza; peccato non abbia avuto seguito!>> <<Capita.>> Le rispose Guido, aggiungendo: << Forse è il caso di ripetere le presentazioni!>> <<Già.>> <<Mi chiamo Guido.>> Porgendole la mano che lei, facendo altrettanto, strinse, aggiungendo: <<Ed io Katia.>> Lei aveva pronunciato il suo nome guardandolo negli occhi, inclinando il capo e sorridendogli, mentre lui aveva risposto a quel sorriso senza convinzione. E banalmente: <<Il mondo è piccolo!>> <<Vero…il mondo è piccolo.>> Poi, quasi ubbidendo ad un comando, si sedettero entrambi l’uno di fronte all’altra. <<Non avrei mai pensato di fare un incontro del genere in un luogo come questo.>> <<La stessa cosa vale anche per me.>> Aggiunse Katia, e continuando: <<Chissà se tutto questo ha un significato?>>

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<<Ma…io penso che nulla avvenga per caso: che ci sia un disegno che ci trascende.>> <<Già…>> <<Ma, piuttosto: lei è qui per turismo?>> <<Dammi liberamente del tu…Guido.>> <<Sì, meglio.>> <<Per turismo, Guido, e tu?>> <<Sì e no; nel senso che sto facendo un lungo viaggio con il mio aereo. Questa è solo una tappa.>> <<Ah…e dove sei diretto?>> <<In Sudafrica.>> <<Che bello…! Ti invidio.>> <<Mentre tu, che programmi hai?>> <<Mi sono presa un periodo di pausa dal lavoro: qualche mese. Ho deciso di muovermi nel continente Africano, con calma e con un programma flessibile. Mi voglio fare trasportare dagli eventi.>> <<Anche tu non stai scherzando! Ma nell’immediato, se non sono indiscreto, quali sono i tuoi programmi?>> <<Voglio visitare l’Akakus: oggi andrò ad informarmi presso una qualche agenzia.>> Guido sorrise fra sé e sé pensando alle coincidenze, poi: <<Le coincidenze continuano…pure io ho questo programma.>> Tutto sommato, Katia non si stupì più di tanto: chissà perché, lo aveva intuito! Guido aggiunse: <<Se ti può interessare mi sono già prenotato presso l’agenzia che si trova nella piazza principale.>> <<Certo che mi interessa. A questo punto, andrò lì anche io.>> <<Ti dirò di più: manca il sesto partecipante per completare il gruppo; dopodiché si parte. Dimenticavo: il tour è di sette giorni.>>

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<<Perfetto. Vado subito.>> <<Comunque, informati sulla modalità di svolgimento, poi deciderai. Non farti influenzare dal fatto che ci sarò anch’io.>> Ed aggiunse, paternalisticamente: <<Quello che sta bene a me non è detto che debba essere anche di tuo gradimento.>> <<Non preoccuparti, tranquillo…>> Guido non poteva sapere che Katia non era certo il tipo da farsi influenzare da circostanze del genere! Prima di uscire, lei gli disse: <<Magari questa sera, se ti sta bene, potremmo cenare insieme.>> <<D’accordo. Quando rientri, fammi chiamare. Ora vado in camera.>> Katia ricordò che anni prima, al termine del suo primo volo, gli aveva fatto la stessa proposta e che lui aveva lasciato cadere il discorso. Ed ora… : <<Strana la vita!>> Concluse, uscendo. In agenzia trovò le stesse persone con le quali Guido aveva parlato poco prima. Stesso modo di fare, stesse proposte. Lei non ebbe incertezze nello scegliere la tipologia del tour fra quelli che le furono proposti. Era una buona camminatrice e l’idea di vivere sette giorni nel deserto era quello che desiderava. Anche l’esperienza del pernottamento in tenda l’intrigava molto! Soddisfatta rientrò in albergo. Al termine del colloquio, il titolare dell’agenzia disse che le avrebbe fatto sapere la data e l’ora della partenza. Nel campo profughi di Shu’fat, Afeef e Jihad stavano discutendo fra loro. Si trovavano nello stesso scantinato

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dove avevano ricevuto Alì. Dovevano decidere se e quando inserire, attivamente, il nuovo arrivato nell’organizzazione. Era vero che Alì aveva un debito morale nei confronti dell’organizzazione, ma era anche vero che non era sufficiente per garantirsi la sua collaborazione attiva ed incondizionata. Sapevano per esperienza che, in casi analoghi, non tutti gli interessati si erano dimostrati all’altezza delle aspettative e che, dopo tanti tentennamenti, avevano tradito la loro fiducia, abbandonando l’organizzazione. In quei casi, con immenso travaglio interiore e amarezza, erano stati costretti ad eliminare quelle persone, sebbene loro fratelli. L’interesse della causa doveva essere posto sopra tutto. Ma accantonare non era la stessa cosa che dimenticare. I volti, le storie di quelle persone tormentavano Afeef. Tutte le volte che un proiettile metteva fine ad un suo fratello, per lui era come se scomparisse un universo. Quante volte si era chiesto, con la testa stretta fra le mani tremanti: ma cosa stiamo facendo? Ma, poi aveva continuato la sua militanza. Jihad era meno problematico: la causa giustificava tutto e le vite umane erano il prezzo ed il mezzo per portare a termine il disegno: Israele doveva riconoscere i loro diritti, indipendentemente dal sangue che si sarebbe dovuto versare da ambo le parti. Quando un componente del gruppo destava sospetti, il consiglio della cellula alla quale apparteneva era convocato. Erano sette persone. In quella occasione venivano esaminati i comportamenti del sospettato e se, dopo attenta valutazione ed analisi dei fatti, gli indizi risultavano confermati, la persona interessata era convocata al cospetto del consiglio.

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Durante la riunione venivano spiegati i motivi per cui si trovava lì, ed in genere le era data un’altra possibilità, ma da quel momento era messa sotto stretta sorveglianza, ovviamente a sua insaputa. Il telefonino era il primo ad essere messo sotto controllo ed i suoi movimenti, seguiti passo dopo passo. Per completare il quadro, di solito, interveniva una persona che, fingendo interesse, cercava di entrare in amicizia con il sospettato. E dopo aver guadagnato la fiducia del poveretto, riferiva ogni cosa a chi di dovere. Il materiale raccolto: registrazioni delle telefonate, pedinamenti e le confidenze ricevute dal finto amico o amica, erano scrupolosamente vagliati e, nel caso avesse confermato i sospetti, sarebbe stata emessa la sentenza di morte. A compiere l’esecuzione, uno dei sette componenti il consiglio. Il suo nome lo avrebbe deciso la sorte. Ma mai due volte consecutive. Se fosse capitato, ci sarebbe stato un nuovo, macabro sorteggio: quelle erano le regole! Ultimamente era toccato ad Afeef, e per la prima volta, da quando eseguiva quella sentenza, nel momento in cui premette il grilletto, gli tremò la mano. Quando rientrò nella sua casa, vomitò ripetutamente e per molte notti non dormì! All’interno dell’organizzazione, a proposito di giustizialismo, c’era una eccezione: tutti erano d’accordo e tutti erano stati mobilitati per la cattura di un ex agente passato al Mossad dopo aver fatto catturare un numero cospicuo di fratelli. Il suo nome era Karima!

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Nessuno avrebbe avuto ripensamenti o scrupoli di coscienza nei suoi confronti, al contrario tutti si auspicavano che la cattura avvenisse il prima possibile, ma sapevano che operava in altre parti del mondo e che era molto brava! Jihad conversando con Afeef non palesava incertezze, al contrario dell’amico, ma il confronto fra i due sembrava essere arrivato ad un punto morto…e: <<Ascolta Jihad…,ma ti senti così sicuro? Non ti peserebbe sulla coscienza un eventuale ripensamento del ragazzo? E’ vissuto molti anni all’estero…>> <<No, non mi peserebbe; la causa richiede questo tipo di sacrifici e noi non possiamo permetterci di rischiare nulla.>> <<Stiamo ripetendo le stesse cose…, da soli non siamo in grado di arrivare ad un accordo. Ti propongo di estendere la discussione a tutto il consiglio.>> <<Forse è la cosa migliore.>> Dopo queste ultime parole, i due si sentirono sollevati: avevano aggirato lo scontro diretto! Afeef voleva, comunque, essere certo che non si fosse creata nessuna incomprensione fra loro e proseguendo nel discorso, disse: <<Magari, possiamo mettere a punto particolari di contorno, io e te.>> <<E quali?>> <<Il tipo di lavoro, i tempi di inserimento, la missione.>> <<Per quanto riguarda il lavoro, ne abbiamo parlato: lo vedo bene presso la ditta produttrice di software, di cui sei a conoscenza.>> <<Mi trovi d’accordo.>> <<Per quanto riguarda i tempi…per quello che si è detto, penso convenga demandare la decisione al consiglio: le cose sono collegate.>>

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<<Vero.>> <<La missione…; all’interno della ditta informatica avrà la possibilità di manipolare le centraline degli F16. Lo scopo è fare perdere il controllo del velivolo al pilota, che sarà costretto a catapultarsi fuori dall’abitacolo.>> <<Molto bene.>> Afeef era riuscito a ristabilire serenità fra loro e nel contempo si sentiva alleggerito dalla responsabilità circa l’introduzione di Alì nell’organizzazione. Il piano che pensavano di realizzare era piuttosto ambizioso, infatti in un sol colpo avrebbe procurato ad Israele una duplice perdita: un aereo costosissimo ed un pilota. Quasi sicuramente questi sarebbe stato costretto a lanciarsi in territorio ostile e molto probabilmente catturato. Il pilota fatto prigioniero, inoltre, avrebbe dato loro ulteriori possibilità. Per prima cosa, l’occasione di entrare in possesso di informazioni segrete ed utilissime alla causa. I mezzi per estorcerle li avevano e sapevano usarli! Secondariamente, il militare israeliano sarebbe diventato merce di scambio. Gli israeliani avrebbero fatto di tutto pur di riavere un uomo così prezioso per loro! La cattura di un pilota militare, considerando quanto era costato ad Israele formarlo e il fatto che non sarebbe stato facilmente rimpiazzabile, avrebbe dato loro un forte vantaggio, per quanto riguardava un ipotetico scambio di prigionieri. Sulla carta il piano sembrava piuttosto semplice e di relativa facilità. Alì, in quanto ingegnere elettronico con una buona preparazione informatica, non avrebbe avuto grosse difficoltà nel portare a termine il progetto. Ma i problemi

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non erano tanto quelli tecnici, bensì quelli derivanti dalle reazioni psicologiche di lui. A livello tecnico, la difficoltà maggiore sarebbe stata quella di fare arrivare ad Alì le schede elettroniche dell’F16, deputate alla gestione del software. Il passo successivo, quello di duplicarle e programmarle con il nuovo programma progettato da Alì. In seguito, un loro agente, infiltrato nelle file dell’esercito israeliano ed addetto alla manutenzione degli F16, avrebbe provveduto allo scambio delle schede. L’aereo, con a bordo l’elettronica manomessa, qualora fosse decollato per andare in azione, dopo l’esecuzione di un certo numero di comandi, impartiti dal pilota, sarebbe risultato ingovernabile. E come già detto: al pilota non sarebbe rimasta altra alternativa che lanciarsi. Sicuramente, il pilota avrebbe comunicato alla base da dove era decollato la presenza di un’avaria ai sistemi di bordo e la cosa non avrebbe destato alcun sospetto, permettendo all’infiltrato di continuare ad agire.

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Ogni colore si espande e si adagia negli altri colori Per essere più solo se lo guardi Giuseppe Ungaretti

Guido e Katia cenarono tranquillamente nel ristorante dell’albergo, ricordando l’incontro in aeroclub di tanti anni prima. Lei non aveva dimenticato le sensazioni che quel primo volo le avevano dato, e con enfasi le riferì a Guido. Lui mentre ascoltava, sorrise benevolo fra sé e sé, pensando che aveva sentito altre volte racconti del genere, e che le persone in grado di tramutare l’entusiasmo del momento nella decisione di imparare a volare, sono poche! Poi, cambiando argomento, iniziarono a parlare dell’escursione che avrebbero fatto: entrambi erano impazienti ed entusiasti di partire. A Katia disturbava l’idea di dover fare un volo interno per raggiungere il luogo da dove sarebbe partito il tour; non si

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fidava dei libici per quanto riguarda la loro capacità di mantenere efficienti gli aeroplani, e a proposito di questo argomento, chiese un parere a Guido, che cercò di tranquillizzarla, riuscendoci in parte. <<Ma tu non sei preoccupato?>> Aggiunse, con lo scopo di essere ulteriormente rassicurata. Guido titubante e schernendosi, le spiegò che lui sarebbe andato a Sebha con il proprio aereo, ma che la scelta fatta era stata dettata dal desiderio di sorvolare il territorio, e che nulla aveva a che fare con questioni di sicurezza. Ed aggiunse: <<Stai tranquilla, non devi preoccuparti di nulla.>> Al che, sembrò tranquillizzarsi! << Se si fossero incontrati prima, magari, avrebbero potuto fare il volo insieme, ma il caso non lo aveva voluto.>> Aggiunse, lui. <<Già…se non hai nulla in contrario, considerando che ci conosciamo, potremmo condividere la tenda, durante l’escursione nel deserto.>> Guido non aveva né considerato né desiderato una eventualità del genere, ma piuttosto che dividerla con uno sconosciuto preferiva farlo con quella ragazza. <<Se a te sta bene, sta bene pure a me.>> Katia parve contenta della risposta di Guido e si sentì, inoltre, rassicurata. Aveva scelto di viaggiare da sola, ma stava prendendo coscienza che non era così immune, come aveva ritenuto prima di partire, dalla solitudine. Magari, se in albergo ci fosse stata la possibilità di collegarsi ad internet, si sarebbe potuta mettere in contatto con la sua amica Angela. Sfruttando le potenzialità di Messenger, oltre

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che con la scrittura, avrebbe potuto comunicare, parlando e vedendo il volto dell’amica sul monitor. Per la prima volta, da quando era partita, pensò alla famiglia ed in particolare alla madre, che aveva, da sempre, considerata l’ago della bilancia; nutrendo nei suoi confronti sentimenti contrastanti: tenerezza per il modo in cui si rapportava con i figli, ammirazione per come gestiva l’economia della casa, disprezzo per come si confrontava con il marito, pacata compassione per aver limitato la sua esistenza all’interno delle quattro mura domestiche. Del fratello, pensò che doveva crescere, che bisognava dargli il tempo per farlo; augurandosi che fosse sufficientemente forte da non farsi condizionare dagli influssi negativi provenienti dal padre. Guido e Katia continuarono a conversare ancora per qualche tempo, poi lui le fece capire che sarebbe stato il caso di coricarsi. La mattina seguente, il titolare dell’agenzia telefonò in albergo chiedendo di parlare con Guido. <<Sì? Pronto…>> <<Signore, tutto è pronto per la partenza.>> <<Ah…mi fa piacere, e quando si parte?>> <<Nel primo pomeriggio, ma lei è autonomo…fino a Sebha. Le chiedo di organizzarsi in modo da essere in aeroporto, a Sebha, entro le diciotto.>> <<Non dubiti, ci sarò.>> <<Bene; così compatteremo il gruppo sul posto.>> Ed aggiunse: <<Avviseremo noi la Signora che si trova nel suo stesso albergo.>> <<D’accordo, grazie…a questa sera.>>

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Guido non doveva perdere tempo, conoscendo la lentezza con la quale il personale aeroportuale espletava le pratiche inerenti i piani di volo. In tutta fretta preparò le poche cose che aveva con sé e, senza neppure farsi la barba, scese per la colazione, poi chiamò un taxi, con il quale andò in aeroporto. Di salutare Katia, non ne ebbe l’opportunità. Durante il tragitto pensò che le avrebbero spiegato tutto, che sapeva del suo programma e che avrebbe capito. Poi si concentrò sul da farsi. Katia era, languidamente, fra il dormi veglia, quando sentì trillare il telefono che era sul comodino. Allungò, svogliatamente un braccio, portando, lentamente, la cornetta all’orecchio, e: <<Sì?>> Dall’altro capo, percependo la voce assonnata di Katia, le risposero: <<Mi scusi Signora se disturbo…le ho telefonato per avvertirla che fra circa due ore passeremo in albergo per il trasferimento in aeroporto. Siamo pronti per iniziare il tour.>> <<Grazie, mi farò trovare pronta. A dopo.>> Quando scese, non vedendo Guido, provò disagio, come se fosse stata abbandonata. <<Che strano!>> Pensò. In fondo, Katia stava investendo su quello sconosciuto affettività. Ma ciò che la sconcertava maggiormente era il constatare che non era così indipendente, emozionalmente parlando, come avrebbe pensato di essere. Lei che aveva intrapreso quel viaggio anche in funzione di quest’ultima certezza!

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Che il suo ostentare, in primis a se stessa e secondariamente alle persone con le quali interagiva, sicurezza ed indipendenza non fosse una reazione ad una insicurezza di fondo? Un’insicurezza le cui radici affondavano e si nutrivano del suo passato? Si sentì fragile e, per la prima volta in vita sua, si mise in discussione, pur provando una forte resistenza nel farlo. La ragazza dell’agenzia, approfittando di un momento in cui il suo capo si era assentato, telefonò a Shu’fat e, dopo essersi presentata con la parola d’ordine: <<Gli italiani che partono per l’Akakus sono due: un uomo ed una donna. L’uomo viaggia fino a Sebha con il suo aereo, poi si congiungerà con gli altri. Il tour è quello che conoscete. Partono oggi.>> La risposta fu secca: <<Grazie. Terremo conto.>> Il volo di trasferimento di Guido avvenne senza alcun inconveniente ed a Sebha i controlli doganali furono più veloci del previsto; molto probabilmente per le piccole dimensioni dell’aeroporto. Più complicato, fu ottenere il permesso di hangaraggio per l’aereo. Di lasciarlo sotto il sole cocente, non se la sentiva veramente! Ancora qualche ora e si sarebbe congiunto con il gruppo. Una certa curiosità lo aveva preso: si chiedeva quale connotazione avrebbero potuto avere le persone, che di lì a poco, avrebbe conosciuto. Comunque, tutto sommato, <<la cosa non era importante… >>, si era detto. La persona con la quale condividere la tenda l’aveva già trovata, ed a lui stava più che bene. Con gli altri sarebbe

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vissuto per soli sette giorni, ed essendo il tour organizzato, non ci sarebbero stati problemi dovuti a diversità di vedute, in quanto già tutto definito dall’agenzia. Un ragazzino di quindici anni, a Shu’fat, stava aggirandosi per le stradine del campo profughi. Aveva un’incombenza da portare a termine: riferire un messaggio a sei persone. Il compito gli era stato affidato da uno dei componenti il direttivo del gruppo a cui appartenevano Afeef e Jihad. Doveva riferire che l’incontro era stato fissato per le ventuno di quella sera, nel solito luogo. I componenti la cellula avevano adottato il metodo della comunicazione orale per evitare di essere intercettati dai sistemi elettronici messi in opera dalla CIA. Il ragazzo in circa un’ora aveva avvisato le sei persone del direttivo, le quali si erano organizzate in funzione della chiamata, e alle ventuno, alla spicciolata, si ritrovarono nello scantinato dove era stato convocato Alì in precedenza. I sette uomini si sedettero intorno all’unico tavolo che si trovava nella stanza poi, dopo essersi scambiati i saluti ed aver fatto quattro chiacchiere, come se si trovassero al caffè, il numero Uno prese la parola con autorità; tutti tacquero: <<Fratelli…ci siamo riuniti per prendere alcune decisioni. Afeef e Jihad hanno bisogno del nostro supporto: non se la sentono di assumersi la responsabilità di introdurre definitivamente Alì nella nostra organizzazione.>> Uno dei presenti, rivolgendosi a Jihad: <<Come mai questa incertezza?>> <<Perché, se Alì dovesse avere dei ripensamenti, non vorrei trovarmi nella situazione che voi tutti conoscete…>> Tutti tacquero: il silenzio diventò pesante, come l’aria saturata dal fumo delle sigarette che gli uomini stavano fumando nervosamente.

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A parlare fu nuovamente Jihad: <<Propongo di mettere ai voti la decisione di procedere come in precedenza, oppure di soprassedere.>> Una voce chiese: <<Soprassedere in che senso?>> <<Non ucciderlo.>> Sentendo quella parola: si formò nuovamente il silenzio imbarazzato di pochi minuti prima. Il numero Uno decise di intervenire per troncare l’amara incertezza, dicendo: <<Mettiamo la cosa ai voti.>> Ed aggiunse: <<Un sì, per non modificare le cose, un no per non uccidere.>> Jihad si alzò ed andò verso una scaffalatura, da dove prese un foglio bianco che divise in sette parti. Quando distribuì i foglietti ai sei, le mani gli tremavano leggermente. Si disse: <<Sto invecchiando…>> I sette, uno ad uno, passandosi l’unica penna che era sul tavolo, votarono e piegarono in quattro parti il foglietto, passandolo al numero Uno. Dopo aver dispiegato tutti i foglietti: <<Cinque sì due no.>> Afeef e Jihad evitarono di incrociare gli sguardi! Il numero Uno riprese a parlare come se niente fosse…e, tamburellando le dita sul tavolo: <<Bene… Affef e Jihad terminerete di illustrare ad Alì il piano e lo introdurrete nel lavoro. Il tutto deve essere fatto nel più breve tempo possibile. Il tempo ci gioca contro.>> I due, tacendo, risposero con un cenno del capo. <<Rimane il secondo punto: abbiamo la possibilità di rapire due italiani. Un uomo ed una donna. L’uomo è un pilota e viaggia con il suo aeroplano. Un monomotore

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quadriposto. Trattasi di una persona matura. La donna è una giovane turista.>> Il numero Uno si interruppe aspettando le domande dei presenti, che non si fecero attendere. <<Dove si trovano in questo momento?>> <<In Libia; sono sul punto di iniziare un tour nel deserto dell’Akakus.>> <<Ma precisamente…dove?>> <<A Sebha. Oggi si è formato il gruppo.>> <<Di quante persone?>> <<Sei. Due coppie e gli italiani.>> Continuando: <<Voi capite che il luogo è particolarmente idoneo ad una azione di questo tipo.>> <<Sì, certo, ma per farli arrivare fin qua?>> <<C’è l’aereo dell’italiano!>> <<Bella coincidenza.>> <<Se non ci sono domande metterei ai voti, per alzata di mano, la proposta che vi ho illustrato.>> Tutti alzarono la mano! Guido era sul terrazzo dell’aeroporto di Sebha, quando vide un bimotore color sabbia entrare in circuito per poi predisporsi all’atterraggio. Era in orario e non poteva che essere quello che stava trasportando il gruppo con il quale avrebbe condiviso l’escursione nel deserto. Non gli rimaneva che andare all’uscita per incontrarlo. Katia quando lo vide, sorridendo, alzò un braccio chiamandolo ad alta voce, per nome. Lui le rispose con un gesto della mano, ricambiando il sorriso. Entrambi erano sinceramente contenti di essersi ritrovati! Immediatamente dietro Katia due coppie, entrambe molto giovani.

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I ragazzi, con gli zaini sulle spalle, avanzavano manifestando tutta la giovane energia che i loro corpi erano in grado di produrre. Le ragazze, con due piccole valigie, sembravano più tranquille, ma determinate. Guido non aveva notato fino a quel momento, poco distante da lui, un giovane che reggeva un cartello con il nome del tour e dell’agenzia a cui si era rivolto a Tripoli. Sicuramente era la loro guida! Né ebbe conferma quando vide i cinque dirigersi verso di lui. Katia sembrò essere incerta: non sapeva se andare verso Guido o direttamente dalla guida. Lui, rendendosi conto della cosa, la tolse dall’imbarazzo andandole incontro, per poi unirsi agli altri. Con un sorriso smagliante ed occhi esperti, il ragazzo identificò facilmente il gruppetto ed andò verso di loro. Abbassando il cartello, che fino a quel momento aveva tenuto sollevato al disopra della testa, si presentò: <<Mi chiamo Omar.>> E tendendo loro la mano, strinse, una ad uno, quelle dei partecipanti. Come accade, sovente, in occasioni analoghe, nessuno riuscì a memorizzare i nomi dei compagni di viaggio. Fu Guido che, prendendo l’iniziativa, si presentò alle due coppie. Una francese, l’altra irlandese. Nel farlo, questa volta, memorizzò i loro nomi: Diane e Fabian – Elis e Pòl. Katia, imitando Guido, ripeté il rito della presentazione. Omar, con tempismo professionale, a quel punto intervenne: <<Bene Signori…a pochi passi abbiamo l’auto che ci sta aspettando. Per prima cosa vi porterò in albergo.>>Tutti dimostrarono di gradire la proposta. Una buona doccia

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rinfrescante li avrebbe ben predisposti per la cena! Nessuno lo espresse, ma certamente tutti lo pensarono! Giunti in albergo, Omar chiese loro pochi minuti di pazienza. Voleva fare alcune comunicazioni al gruppo. Li invitò a sedersi e loro lo fecero, disponendosi in cerchio per ascoltarlo: <<Per prima cosa le stanze: sono tre doppie. Tutte al primo piano, con aria condizionata e bagno.>> Nel riferire queste informazioni, consegnò a ciascun maschio del gruppo la chiave della camera. A Guido toccò la numero 117. Ci avrebbe giurato! Ultimamente il diciassette era entrato nella sua vita (molto spesso, quando consultava l’orologio, vedeva quel numero comparire nel quadrante!). Katia sul momento non gradì il fatto di dover dividere la stanza con Guido, ma poi pensò che era stata lei a proporgli di pernottare nella stessa tenda e che nella sostanza era la stessa cosa che condividere la camera dell’albergo. Omar continuando: <<Siete d’accordo se ci vediamo qua fra un’ora, per la cena?>> Tutti annuirono. <<Bene…a dopo Signori!>> Le tre coppie salutandosi, si allontanarono ritirandosi ognuna nelle proprie camere. In camera, Guido e Katia presero possesso, senza dirselo, di alcune zone, facendo capire all’altro che sarebbero state di loro esclusiva pertinenza. In particolare, Guido scelse, ponendovi sopra lo zainetto che aveva con sè, la parte sinistra del letto. Era una sua abitudine a cui non sapeva rinunciare! <<Katia…se ti va, fai tu la doccia per prima.>>

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Lei non aspettava altro, e con un poco d’imbarazzo entrò in bagno. Quando anche Guido ebbe terminato, era oramai giunta l’ora di cena. Rigenerati, scesero al ristorante. Diane, Fabian, Eilis, Pòl e Omar avevano già preso posto nella saletta. Quando li videro salutarono calorosamente, invitandoli a sedersi con loro. La tavolata era così, al completo. Non rimaneva che ordinare la cena ed approfittare di quel lasso di tempo per fare conoscenza. Comunque, al momento una cosa risultava palese: le coppie erano piuttosto chiuse in loro stesse! Sembrava traessero reciproca sicurezza, dai compagni. Per Guido era la prima volta che si trovava in una situazione del genere. Fino ad allora aveva gestito in prima persona i suoi viaggi. Il desiderio di sperimentare l’avventura, contando solo sulle sue forze, gli aveva impedito di condividere con altre persone le esperienze di viaggio che avevano costellato la sua vita fino a quel momento. Ma ora era pronto anche a quel tipo di esperienza. Tutto sommato: <<Non ho conti in sospeso con me stesso.>> Si era detto. Terminata la cena, fra una chiacchiera e l’altra, Omar li riunì nuovamente: <<Due informazioni sulla giornata di domani.>> Le parole di Omar suscitarono immediatamente interesse, tanto che la coppia irlandese lo sollecitò a parlare. <<Bene; domani partiremo alle sei. Dobbiamo percorrere circa seicento chilometri. Siamo diretti a Ghat, in pieno Sahara.>> Diane chiese: <<Quanto impiegheremo per giungere a Ghat?>> <<Circa otto ore. Durante il percorso ci fermeremo per pranzare al sacco.>>

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<<Ghat, per vostra informazione, è l’ultimo posto in cui incontreremo un insediamento umano, poi…il nulla del deserto. Gli abitanti sono Tuareg.>> Omar si interruppe aspettando che qualcuno del gruppo prendesse la parola, ma nessuno lo fece. <<Tutto chiaro…vedo. Allora vi consiglio di andare a nanna. A domani e buona notte.>> Così dicendo, si alzò e lasciò il gruppo. I sei si guardarono in silenzio. Fu Guido a dire: <<Potremmo imitarlo>> Al che tutti annuirono scambiandosi la buona notte. In camera ci furono alcuni momenti di imbarazzo quando, Katia e Guido dovettero spogliarsi per coricarsi. In fondo erano due estranei! Forse la meno impacciata fu Katia. Con gesti veloci, girando le spalle a Guido, si tolse i pochi abiti leggeri che indossava, rimanendo con le sole mutandine. Velocemente sollevò il lenzuolo sgusciando sotto quel velo di cotone. La stessa cosa fece anche lui, con la sola differenza che tolse tutto: aveva come abitudine, quando la temperatura lo permetteva, di dormire senza niente addosso. Il contatto del lenzuolo sulla pelle nuda gli dava una sensazione di libertà e benessere a cui non sapeva rinunciare! Fino a quel momento non si erano parlati, impegnati a svestirsi, ma ora a cose fatte, avvertivano l’imbarazzo creato dalla situazione. Non potevano continuare a tacere! Katia che gli stava volgendo le spalle, mentre Guido era supino si girò verso di lui e, senza parlare, gli sorrise. Poi: <<Ricordi quando, dopo il volo, ci fermammo a bere nel bar del tuo club?>> Guido rimase in silenzio per qualche secondo, poi girandosi verso di lei: <<Sì, ricordo.>>

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l’allusione era esplicita…e Guido la colse al volo! Da molto tempo non faceva all’amore: non lo faceva da quando una storia tormentata, protrattasi per lunghi anni, era finita. La rottura l’aveva voluta la compagna di quel periodo. Da allora respingeva l’idea di mettersi in gioco nuovamente. Voleva tenersi lontano dalle occasioni che gli avrebbero potuto far rivivere una storia simile alla precedente. Aveva evitato e rifiutato le molte opportunità che gli erano capitate, con ostinazione e determinazione, indossando una corazza per proteggersi dalla sofferenza che una esperienza, simile alla passata, gli avrebbe potuto procurare. Ma l’invito di Katia non avrebbe significato nulla: estranei erano ed estranei sarebbero rimasti. La fragranza, che quel giovane corpo emanava, lo coinvolgeva, ed i primi segni di un’eccitazione incipiente stavano facendo capolino, prepotentemente, nella sua mente, diffondendosi in tutto il corpo. Katia pensò a Carlo, alla notte in cui fecero all’amore: ricordava quella sera, lontana nel tempo. Le sembrò non appartenerle più! Ora, l’odore del corpo di Guido, leggermente sudato, le piaceva: era come un catalizzatore per l’eccitazione che albergava in lei. Quell’uomo, che le giaceva accanto, le piaceva. L’intrigava la situazione ed il fatto che fosse un estraneo, la coinvolgeva ulteriormente. Guido le accarezzò i capelli e lei chiuse gli occhi, socchiudendo le labbra. La baciò a lungo, assaporando la sua arrendevolezza, e mentre lo faceva, le sue mani sfiorarono ogni parte del corpo di Katia, assorbendo le vibrazioni che emanava e il crescendo del desiderio di lei. Quando avvertì il desiderio trasformarsi in bramosia bagnata, la prese… a lungo. Nel

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farlo le riversò tutta la triste dolcezza che da lungo tempo albergava in lui. Alla fine si addormentarono l’una nelle braccia dell’altro. Negli stessi istanti in cui il gruppo di Guido era atterrato a Sebha, Alì ricevette una telefonata sul cellulare regalatogli da Abed e Faisal. Afeef gli aveva fissato un incontro per la sera: alle ventuno. Sarebbe andato lui da Alì, che pensò: <<Finalmente, chissà che non mi porti notizie del lavoro!>> Mentre Guido e Katia erano in camera, a letto, si stava compiendo il destino di Alì. Alle ventuno e qualche minuto il campanello della casa di Alì trillò ripetutamente; lui, che sapeva chi era alla porta, aprì senza chiedere chi fosse, infatti vide davanti a sè Afeef. <<Ciao Alì.>> Ed entrando, abbracciandolo, lo baciò. <<Ciao, entra… ci sediamo di qua.>> <<Ti posso offrire qualche cosa?>> <<No, grazie.>> Si sedettero, tranquillamente nel soggiorno, su due poltroncine ricoperte con finta pelle, color marrone. Davanti a loro un tavolinetto rotondo. Vuoto. <<A cosa devo la tua visita?>> <<Sono qua per comunicarti che potrai iniziare a lavorare.>> Senza neppure informarsi di cosa si trattasse, chiese con impazienza: <<E quando?>> <<Da domani: a Gerusalemme, presso una ditta che sviluppa software e si occupa, inoltre, di progettazioni riguardanti i controlli numerici.>>

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<<Che bello…è il mio lavoro!>> Afeef tolse dalla tasca dei pantaloni la ID card, un documento di riconoscimento per Alì e il contratto di lavoro, aggiungendo: <<Con questa documentazione potrai entrare senza problemi nel territorio di Gerusalemme. Domani mattina ti verrò a prendere per presentarti al tuo datore di lavoro. Fatti trovare pronto per le sette.>> <<Perfetto…sono impaziente di cominciare: mi stavo veramente stancando di questa vita senza un impegno lavorativo.>> Afeef ora doveva affrontare il secondo argomento per cui era andato da Alì. Fece una pausa, guardandosi le mani che stava strofinando una contro l’altra ed infine si decise a parlare, consapevole che non poteva manifestare titubanze. Contrariamente cosa avrebbe pensato di lui? <<Ricordi i discorsi inerenti la tua utilizzazione nella nostra organizzazione?>> <<Certamente.>> <<Ti rendi conto che sei entrato a farne parte a tutti gli effetti, con gli obblighi ed i doveri che ne derivano?>> <<Certamente.>> <<Scusami se ho insistito su questo punto, ma è di vitale importanza, letteralmente parlando, che tu abbia le idee chiare. Ribadisco: presa la decisione, non ti sarà concesso retrocedere, come tu sai…>> <<Sì, me ne rendo conto, ma ho deciso.>> Afeef si sentì in parte sollevato dalle parole di Alì e pronto ad illustrargli la missione che avrebbe dovuto intraprendere in tutta fretta. Comunque, qualche cosa di indefinito lo rendeva titubante. Fin dalla prima volta che aveva visto il ragazzo, lo aveva valutato come una persona mite: certamente non un fanatico.

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La sua permanenza in Italia, sicuramente, aveva lasciato un segno! Inoltre, non avendo sperimentato di persona, negli ultimi anni, la condizione di profugo, con tutte le implicazioni del caso, gli erano venute a mancare le motivazioni necessarie ad alimentare il senso di ingiustizia e di conseguente rivolta che, al contrario, tutti loro covavano. In altre parole: non era sufficientemente incazzato! Incrociando le dita, proseguì nel discorso, iniziando ad illustragli il piano: <<Ti anticipo, poi entreremo nei dettagli: si tratta di manomettere certi sistemi di controllo degli F16.>> <<Il caccia israeliano?>> <<Sì, quello.>> <<E cosa comporterà la manomissione? Intendo riferirmi al pilota.>> <<Il pilota perderà il controllo dell’aereo e sarà costretto a saltare fuori dall’abitacolo, salvandosi con il paracadute, e noi speriamo di poterlo fare prigioniero.>> <<Fammi capire meglio il discorso della manomissione dei sistemi elettronici.>> <<Premetto che non sono un tecnico, ti darò alcune indicazioni di massima. I dettagli li apprenderai sul lavoro.>> <<Ok, dimmi.>> <<In buona sostanza, il caccia F16 è un aeroplano il cui equilibrio è costantemente controllato da un computer, se questo smette di funzionare correttamente, l’aereo risulterà ingovernabile.>> <<Ho capito: quindi dovrei manomettere il software di gestione del volo.>> <<Una cosa del genere, ma, come ti ripeto, sarai informato da persona competente.>>

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<<E come farò ad accedere agli apparati di bordo?>> <<Non preoccuparti, a questo penseremo noi. Tu li riceverai dove lavori; ripeto: il resto non ti riguarda.>> <<Ma se l’aereo sarà ingovernabile, come farà a decollare?>> <<Dovrai fare in modo che l’anomalia si verifichi dopo un numero prestabilito di comandi oppure dopo un certo lasso di tempo.>> Le ultime parole di Afeef sembrarono convincere Alì che non ebbe altre domande da fargli: <<Hai altro da chiedermi?>> <<Non mi sembra.>> I due rimasero seduti ancora un poco, chiacchierando e fumando tranquillamente, poi si salutarono dandosi appuntamento per la mattina seguente. Alì, tutto sommato, era soddisfatto di come erano andate le cose! Alle cinque il sole non era ancora sorto. Guido già sveglio, con Katia rannicchiata addosso, decise di alzarsi, facendo attenzione a non svegliarla. Lentamente scivolò fuori dal letto, dirigendosi, a tentoni, verso il bagno. Era sua intenzione prepararsi per la giornata, mentre Katia dormiva. Avrebbe fatto tutto con calma senza la preoccupazione di ostacolarla! Rientrando in camera, aveva lasciato la porta del bagno socchiusa, per permettere alla luce che non aveva spento, di illuminarla debolmente. Lei, nel frattempo, aveva cambiato posizione: giaceva, seminuda, a pancia in giù con un braccio allungato sul cuscino di Guido.

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Lui si fermò qualche istante ad osservarla nella penombra. Il sentimento che quella visione gli procurò fu di malinconica tenerezza. La vedeva, tutto sommato, un essere indifeso, malgrado l’atteggiamento spavaldo che ostentava. Si avvicinò sedendosi, adagio, sul letto. Attese ancora alcuni secondi, aspettando una qualche reazione di lei, ma nulla. Il suo respiro continuava ad essere pesante! Doveva decidersi a svegliarla, i minuti trascorrevano veloci e loro dovevano essere pronti per le sei. Posò, delicatamente la mano sui capelli di Katia, accarezzandoli. Compì quel gesto alcune volte, fino a quando, con un mugolio indistinto, lei si girò, scoprendosi del tutto. <<Buongiorno Katia. Non abbiamo molto tempo…>> Lei socchiuse gli occhi, lo guardò per qualche istante in silenzio, girando il capo da ambo le parti, quasi non riconoscesse il luogo in cui si trovava. Stirandosi, portò una mano alla bocca per coprire uno sbadiglio e, rendendosi conto della sua nudità, istintivamente si coprì con il lenzuolo. <<Buongiorno Guido…che dormita ho fatto!>> Lui non le rispose, si limitò ad alzarsi. Scostatosi dal letto, le disse, ripetendosi: <<Non abbiamo molto tempo…>> Guardando l’orologio che portava al polso: <<Vero…corro a prepararmi!>> E senza indugiare oltre, non preoccupandosi della sua nudità, corse in bagno. Guido pensando di lasciarla libera, le disse attraverso la porta: <<Ti aspetto giù. Ricorda di non lasciare nulla in camera.>>

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Non aveva ancora terminato quella frase che già si era pentito d’averla pronunciata! Doveva fare attenzione: nessuna concessione all’intimità! Estranei erano ed estranei dovevano rimanere. <<Sì papi, non temere…>> Gli rispose Katia, dall’altra parte della porta; pensando: <<Che premuroso!>> Nella saletta riservata alle colazioni i compagni d’avventura avevano già terminato di farla e quando videro Guido lo salutarono amichevolmente, invitandolo a sedersi al loro tavolo. La conversazione si concentrò sul trasferimento che avrebbero dovuto affrontare in giornata. Le ragazze, a tale proposito, manifestarono alcune perplessità sulla lunghezza del percorso: considerando il territorio in cui sarebbe avvenuto, a loro sembrava eccessivo. Guido spiegò che, dovendo concentrare la spedizione in sette giorni, non sarebbe stato possibile fare diversamente, a meno di non rinunciare ad una parte del programma. Certamente i ragazzi si rendevano conto della cosa, ma parlarne serviva loro per scaricare la tensione del momento. Fu in quegli istanti che Katia comparve con il suo grande zaino, salutando tutti con allegria disinvolta, per poi consumare la colazione, velocemente. Omar vestito con gli abiti tipici dei Tuareg, alle sei in punto, comparve alle loro spalle, e: <<Buongiorno a tutti…si parte.>> In strada l’aria fresca del mattino li avvolse, infondendo una sferzata d’energia al gruppo. Non rimaneva che prendere posto all’interno della quattro per quattro, passo lungo e nel

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farlo, Katia si sedette, casualmente accanto a Guido, dalla parte del finestrino. Durante il percorso, lasciata alle spalle Sebha, Omar si prodigò nella descrizione dei paesaggi che scorrevano ai loro fianchi: superbi nella loro bellezza essenziale. Guido per la prima volta aveva l’occasione di osservare l’accostamento al deserto di piccole alture rocciose, color ocra, rimanendone suggestionato!

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Morire come le allodole assetate sul miraggio… Giuseppe Ungaretti

Ore otto e diciassette minuti. Alì e Abed hanno superato da poco i controlli posti all’ingresso di Gerusalemme e si stanno dirigendo alla Software House dove Alì inizierà la sua prima giornata lavorativa. A quell’ora le strade di Gerusalemme sono brulicanti di persone: è l’orario di apertura dei grandi magazzini, degli uffici, delle scuole; le donne invadono i negozi di generi alimentari ed i mercatini all’aperto. Insomma: la vita di tutti i giorni riprende frenetica e chiassosa. I due si diressero, districandosi fra il traffico caotico, in direzione della città vecchia: il cuore di Gerusalemme; circondata da un muro e divisa in quattro quartieri (Ebraico, Armeno, Cristiano e Musulmano).

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La ditta dove stavano andando si trovava nel quartiere musulmano e lì arrivarono abbastanza velocemente. Uno specialista, in una base dell’aeronautica militare israeliana, addetto alla manutenzione degli F16, aveva appena trafugato, dal deposito della componentistica elettronica, l’apparato preposto al controllo della stabilità in volo del caccia. Il tutto era racchiuso in un contenitore metallico a forma di parallelepipedo color grigio. Qualche ora dopo, quell’apparato sarebbe stato fatto pervenire nelle mani di Alì! Un militare, appartenente alla cellula di Abed, terminato il turno di guardia, aveva preso in consegna il pacco che avrebbe recapitato alla Software House dove si trovava Alì, senza destare alcun sospetto. Abed presentò il nuovo arrivato al proprietario della piccola azienda senza fare convenevoli ed il responsabile si comportò di conseguenza, essendo al corrente della situazione; contrariamente, sarebbe stato ipocrita, da parte sua, assumere comportamenti di convenienza! Quindi: <<Alì seguimi, ti faccio vedere la tua postazione di lavoro e ti presenterò i tuoi colleghi.>> Abbassando la voce e strizzando un occhio, aggiunse: <<Ovviamente, loro non sanno nulla. Capito, vero?>> <<Sì,… capito.>> Ad Alì, in quel momento, sembrava di essere un personaggio di una pellicola cinematografica: Pensare che, proprio, non ci si vedeva in quei panni… La sala dove lavoravano i suoi colleghi era stata suddivisa in tanti piccoli settori delimitati da sottili pareti in materiale composito. Tutti erano privi di porte, al posto di queste

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un’apertura che immetteva in un lungo corridoio che li rendeva comunicanti. Alì, mentre prendeva contatto con la struttura, si chiese, perplesso: <<Ma come sarà possibile lavorare con riservatezza in un ambiente del genere?>> Sbagliava, il titolare, quasi leggendogli nel pensiero, intervenne dicendogli: <<Naturalmente ti abbiamo riservato una stanza tutta per te…>> <<Così va meglio.>> Si disse! <<Vieni, te la mostro.>> All’interno un ampio tavolo sul quale si trovavano degli strumenti che riconobbe all’istante: un oscilloscopio, un generatore di segnali, un alimentatore, un sistema di sviluppo, un programmatore di memorie EPROM, un computer, più tante minuterie. <<Pensi ti sarà sufficiente questa strumentazione?>> <<Penso di sì, ma ti potrò rispondere, a ragion veduta, dopo che avrò ricevuto il materiale su cui dovrò lavorare.>> A Shu’fat, nel solito scantinato, sei componenti del direttivo (Abed non era presente essendo con Alì) si erano riuniti per decidere quando e come effettuare il rapimento dei due turisti italiani che si stavano dirigendo nel deserto dell’Akakus. La scelta era caduta su di loro fondamentalmente per due motivi: consideravano l’Italia, politicamente parlando, il ventre molle dell’Europa; inoltre uno dei due possedeva un aeroplano. Questo ultimo dettaglio lo consideravano di importanza fondamentale. Ritenevano che potesse dare loro

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maggiori probabilità di riuscita per quanto riguardava l’allontanamento dalla Libia. Avevano, in ogni modo un problema: il rapimento doveva essere fatto entro sei giorni. Tanto sarebbe durata la permanenza di quelle persone nel deserto! Abed ed il titolare dell’azienda, dopo aver terminato di illustrare la struttura della Software House, si congedarono da lui augurandogli buona giornata e lasciandolo nella sua postazione di lavoro. Alì rimasto solo, e senza nessuna incombenza da gestire, iniziò a mettere in funzione, uno dopo l’altro, gli strumenti che si trovavano sul banco di lavoro. Nel farlo, notò che erano modelli non recentissimi, ma che avrebbero potuto essere ugualmente adatti all’attività che aveva pensato di svolgere. Non erano trascorse neppure due ore, da quando lo schermo dell’oscilloscopio si era illuminato, mostrando una sinusoide, quando Alì sentì bussare alla porta. Sorpreso: <<Avanti.>> Era il titolare. Entrò sorridendogli ed avvicinatosi al banco con un atteggiamento trionfante, posò sul piano di lavoro un pacco avvolto nella carta di un quotidiano. Alì immaginò cosa potesse contenere, ma rimase in silenzio, mentre l’altro lo spronò ad aprirlo. Tolta la carta di giornale, vide ciò che si aspettava: era l’apparato preposto al controllo della stabilità dell’F16! <<Non pensavo arrivasse così presto.>> <<Abbiamo fretta.>> Fu la risposta. <<Sì, ho capito, ma dovrai spiegarmi cosa devo fare.>> <<Non preoccuparti, ti darò tutte le indicazioni del caso.>>

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Alì ricevette le informazioni tecniche che gli mancavano per poter iniziare il lavoro ed in breve fu in grado di operare sull’elettronica che aveva a disposizione. Mentre studiava il funzionamento del controllore d’assetto, la riunione dei sette continuava: Abed nel frattempo aveva raggiunto i fratelli del direttivo! Al suo arrivo lo avevano aggiornato velocemente sui contenuti dell’incontro e lui aveva riferito della prima giornata di lavoro di Alì. Tutti, dopo una breve discussione, concordarono di compiere il rapimento nei giorni in cui il gruppo dei turisti si sarebbe trovato nel deserto dell’Akakus. Il momento sarebbe stato determinato dal tempo necessario per mettere a punto il piano, individuare le persone che lo avrebbero portato a termine e reperire i mezzi di trasporto in loco. I sette erano coscienti di avere poco tempo a disposizione ma contemporaneamente consapevoli che un’occasione del genere sarebbe stata più unica che rara! Circa le tredici. Omar rivolgendosi ai partecipanti propose di fare una sosta per interrompere il trasferimento e pranzare. Le ragazze, in particolare, accolsero il suggerimento con eccitazione: l’idea di sostare nel deserto consumando il cibo, sedute nella sabbia, le intrigava notevolmente! Guido fino a quel momento era stato piuttosto taciturno; gli era piaciuto osservare le persone con le quali stava condividendo il viaggio. Al momento era arrivato alla conclusione che si trattava di brave persone: l’unico neo la differenza d’età, ma per questo non poteva, di certo, incolpare nessuno! Ascoltando le argomentazioni, cogliendo l’entusiasmo e le aspettative impazienti dei ragazzi, pensò ai

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cambiamenti che la sua psicologia aveva subito negli anni, e di come le esperienze che aveva vissuto, potessero modificare l’approccio a questa avventura: anche lui si sentiva coinvolto nell’esperienza che stava facendo, ma a questa dava valenze diverse da quelle che coglieva nei suoi compagni di viaggio. L’interesse prendeva il posto dell’entusiasmo, una pacata attesa sostituiva l’aspettativa impaziente. Se in quei momenti si fosse dovuto definire, avrebbe detto di sentirsi: <<Un giovane attempato…>> Omar arrestò l’auto quando vide, in lontananza, sulla loro destra, a circa un centinaio di metri, qualche acacia. Abbandonando il nastro d’asfalto, dopo aver studiato attentamente la consistenza della sabbia, diresse il quattro per quattro nella direzione di quegli alberi: il più vicino a loro. Ore sei e trenta minuti, a Langley, Karima sprofondata nel lettino della sua cameretta, arredata in modo francescano, dorme tranquillamente, ignara di ciò che i terroristi, con i quali dovrà competere, hanno appena deciso. Non sa che sono sul punto di mettere in atto due azioni in contemporanea! Molto probabilmente l’aspetta una giornata come tutte le altre: allenamenti e la ricerca di qualche novità proveniente dalla sua terra. Seduti, a formare un cerchio sotto l’ombra, macchiata da chiazze di sole, di un’acacia, i sette consumano il pranzo fatto di panini e frutta. In patria, sicuramente avrebbero disdegnato una situazione del genere: seduti a terra, impolverati, con i granelli di sabbia sollevati dal vento, penetrati all’interno dei panini, un

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affettato scadente, dal sapore ed odore sospetti. Ma lì era il condimento dell’avventura, ciò che dava vivacità a quella esperienza. Katia e Guido, del tutto ignari di cosa era stato tramato alle loro spalle, conversano amabilmente con i componenti del gruppo: lei con le ragazze, lui con i due ragazzi. Gli argomenti erano quelli che di solito venivano affrontati quando si è in viaggio: la propria provenienza, i viaggi già fatti, l’attività lavorativa svolta in patria, progetti futuri ed altro di questo genere. Quando Fabian e Pòl vennero a conoscenza dell’attività di Guido, si mostrarono molto interessati, tempestandolo di domande, alle quali pazientemente rispose, dando tutte le informazioni che gli erano state richieste. Fabian, in particolare, cercò di approfondire il discorso, confidando a Guido che da tempo covava il sogno di imparare a pilotare un aeroplano. Fra una chiacchiera e l’altra trascorse circa un’ora, da quando si erano fermati; Omar che ben conosceva i tempi per raggiungere Ghat, con gentilezza, propose di riprendere il viaggio, al che fu investito dalle proteste del gruppo. Loro stavano troppo bene in quella situazione, così immersi nella natura! Fabian, scherzando gli si avvicinò, e con un gesto repentino lo fece ruzzolare a terra. Quella mossa funzionò da innesco per gli altri che, senza neppure ammiccare, si gettarono su Omar, cospargendolo totalmente di sabbia. Lui dovette sopportare quelle pseudo effusioni, ma dopo essersi liberato dell’assalto dei ragazzi, ricambiò la gentilezza ad alcuni di loro! Poi…ripresero il viaggio con la sabbia che gli era penetrata ovunque.

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Alle sette e trentacinque minuti Karima fu svegliata dal trillo del telefono: era Barrett. <<Corri il prima possibile da me.>> <<Cosa c’è di nuovo?>> <<Ti spiegherò quando sarai qui.>> <<Arrivo.>> Alì aveva deciso di saltare il pranzo per dedicarsi allo studio dell’apparato che aveva avuto in consegna. Dalle prime misure che aveva fatto si era reso conto che il compito affidatogli non presentava grosse difficoltà. La parte più complicata, aveva capito, era quella relativa alla comprensione del linguaggio di programmazione, ma tutto sommato, anche in questo caso, se la sarebbe cavata. Dopo aver individuato i microprocessori impiegati, sarebbe, poi, risalito alle modalità di programmazione usate. Con cautela, tolse le schede dal contenitore in alluminio. L’operazione non fu difficile: dopo aver svitato il coperchio della scatola, poté estrarre, una ad una le cinque schede che conteneva. Quando le ebbe in mano, individuò immediatamente i chip dei microprocessori e, con sua grande sorpresa, vide stampate su di essi le sigle che li identificavano. Li conosceva tutti per averli studiati durante l’università e di conseguenza conosceva anche il linguaggio usato per programmarli. Il medesimo per tutti! <<Ciao Barrett, sono impaziente di sapere…>> <<Cose grosse: un rapimento e la manomissione degli F16 Israeliani>> A Karima battè forte il cuore in gola. Non aveva dimenticato il Maggiore Adam. Sapeva che volava su quei caccia! <<Quando hai saputo?>>

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<<Poco prima di telefonarti. Là è pomeriggio!>> <<Ma i dettagli?>> <<Purtroppo quelli non li conosciamo. Ciò che sappiamo è che le loro azioni potrebbero essere messe in atto da un momento all’altro. Devi partire immediatamente.>> <<Ma per andare dove?>> <<In Israele. Loro sanno tutto. Ti aspettano a Tel Aviv. Andrai con un nostro aereo appena ti sarai organizzata. Questa volta hai anche l’occasione di vedere i tuoi amici!>> Karima sapeva che non poteva tergiversare; salutò Barrett dicendogli che gli avrebbe fatto sapere appena pronta. Corse in camera per preparare la piccola valigia che portava con sé ogni volta che andava in missione. Nel suo interno mise gli abiti che indossava quando era in servizio e soprattutto le armi. Alla beretta riservò un trattamento diverso, infilandola nella fondina che teneva sotto il braccio sinistro, ma prima di farlo, introdusse i proiettili nel caricatore e questi nell’alloggiamento all’interno del calcio, poi controllò che la sicura fosse inserita. Dopo quella sequenza di gesti, si sentì piacevolmente sicura, e chiamò Barret. Alì, dopo aver scaricato tutto il software nel sistema di sviluppo che aveva a disposizione nel piccolo laboratorio, si concentrò nella individuazione delle variabili d’ingresso e d’uscita del controllore che stava analizzando. Non era un compito facile! Chi aveva scritto il programma aveva usato una logica del tutto personale: capirla sarebbe stato come entrare nella mente del lontano collega ed impadronirsi dei suoi processi mentali! Quasi entrare in confidenza con lui!

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Durante lo studio del programma, che stava esaminando, ebbe modo di apprezzare l’eleganza con la quale lo sconosciuto progettista informatico aveva risolto le problematiche della programmazione. In quella occasione se lo sentì ulteriormente vicino e solidale! Tanta era la concentrazione e l’impegno profuso, che non avvertiva né la fame né la sete: paonazzo in volto, con lo sguardo incollato allo schermo del sistema di sviluppo, mordicchiandosi le labbra, cercava di decifrare, riga dopo riga, il flusso del programma. Poi si poté udire: sììì… Alì era riuscito a capire la trama del software che lo aveva impegnato fino a quel momento! Lui stirandosi, incurvò la schiena all’indietro, come fosse stata un arco, sollevando contemporaneamente le braccia al cielo. In quel momento si sentì ebbro di felicità. Era consapevole di aver compiuto un lavoro degno di nota, importante! Ma la spiegazione della felicità appena sperimentata doveva essere cercata nei livelli profondi della sua psiche: era felice perché aveva avuto delle conferme! Conferme che si sarebbero contrapposte alla sua scarsa autostima. Disistima che albergava, silente, in lui da sempre. Alì interruppe il lavoro, beandosi del risultato che aveva ottenuto, dimenticandosi il vero scopo per cui stava in quel laboratorio: avendo vissuto quelle ore come una sfida, animato da puro sentimento sportivo. Furono due colpi alla porta che lo riportarono alla realtà: era il suo capo. <<Come procede il lavoro?>> Con un sorriso raggiante, che esprimeva tutto l’orgoglio germogliatogli nel petto, rispose: <<Non ci crederai, ma sono venuto a capo della cosa…>>

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<<Ma no? Non ci posso credere…>> <<Non so cosa dirti, ma è vero… ora mi è rimasto da inserire il programma che genererà i disturbi al sistema di pilotaggio dell’aereo.>> <<Sei stato bravissimo…veramente bravo, complimenti.>> Ed avvicinatosi ad Alì, gli dette un paio di pacche sulla spalla. E lui schernendosi: <<Ma no…non esagerare; ho fatto solamente il mio lavoro.>> Ma in realtà era fiero di se stesso e sapeva di essersi meritato quei complimenti! <<Quando pensi di terminare il lavoro?>> <<Entro sera, al più per domani mattina. Piuttosto, in base a quali parametri devo introdurre i disturbi?>> <<Per questa volta, attivali dopo quarantacinque minuti di volo.>> <<Bene, ora riprendo il lavoro.>> Alì pensò di costruire, con il software, un contatore che sarebbe entrato in funzione durante il decollo dell’F16. Da quel momento sarebbe partito il conteggio dei quarantacinque minuti. Allo scadere del conto alla rovescia avrebbe fatto in modo che un sottoprogramma entrasse in funzione, alterando il funzionamento dell’intero sistema di controllo. Per realizzare i suoi propositi impiegò quasi tre ore, terminando il lavoro in sincronia con il sole che stava tramontando. Mentre Alì viveva la sua sfida, i sette del direttivo decidevano che il rapimento dei due italiani, si sarebbe fatto. Abed e Faisal sarebbero stati gli uomini che dovevano condurre l’azione. In Libia, a Tripoli, si sarebbero avvalsi

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della collaborazione di due fratelli, già messi al corrente del progetto. Nelle prime ore di quella stessa sera, Abed e Faisal avevano deciso di partire da Amman con un aereo di linea diretto a Tripoli. Lì pensavano di congiungersi con le due persone, appena informate. La mattina seguente si sarebbero messi sulle tracce del gruppo di turisti, aiutati dall’impiegata dell’agenzia turistica che gestiva il tour nel deserto. Ore nove, a Langley: le sedici a Gerusalemme. Karima stava parlando con Barrett, al telefono, dalla sua camera: <<Io sono pronta…>> <<Bene, sei stata veloce!>> <<Puoi andare in pista; abbiamo fatto preparare un Falcon con il quale raggiungerai Tel Aviv. Gli agenti del Mossad sono al corrente di tutto e ti verranno a prelevare in aeroporto.>> <<Ok, raggiungo il Falcon.>> <<Karima…voglio che riporti il culo a casa…intesi?>> Barrett pronunciò l’ultima frase con la voce tremolante, vergognandosene un poco! Se Karima fosse stata nel suo ufficio gli avrebbe visto gli occhi inumidirsi e magari accendersi un sigaro per darsi un contegno, per poi incolpare il fumo del suo cedimento! Inevitabilmente si sarebbe detta, fingendo di non vedere: <<Ma…che peccato che i maschi si vergognino di esprimere la loro emotività, se lo facessero ci guadagnerebbero per più di un motivo!>> <<Farò del mio meglio…ciao Barrett.>> E riattaccò senza dargli il tempo di aggiungere altro.

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Omar si rese conto che non sarebbero riusciti a giungere a Ghat con la luce, il sole stava tramontando! Viaggiare di notte nel deserto non sarebbe stato prudente! Decise di fermarsi poco più avanti, per allestire il campo. Lentamente il sole stava abbassandosi all’orizzonte, mentre il gruppo si fermava all’ennesimo posto di blocco. Due giovani militari annoiati, vedendoli, si alzarono da terra per andare loro incontro e scambiare quattro chiacchiere, contenti di vedere qualcuno. Ripartiti, il gruppo proseguì ancora un poco fino ad uno spiazzo sabbioso dove avrebbero trascorso la notte. Scesi dall’auto, i sei si diressero, due a due, in direzioni diverse. Avvertivano la necessità di conoscere le peculiarità ed i particolari del luogo in cui si trovavano, per sentirselo, poi, familiare, imitando il comportamento di ogni essere vivente collocato in un ambiente a lui sconosciuto. Katia seguì Guido come un cucciolo senza padrone, prendendolo per mano. Lui, stupito ed infastidito, lasciò fare pur mal sopportando quel comportamento! Non si oppose al gesto di Katia solamente per non essere scortese nei suoi confronti: avvertiva il malinconico disagio della ragazza; tutto sommato, le altre due coppie erano un piccolo universo chiuso in se stesso! La voce di Omar li avvertì di non allontanarsi troppo: il deserto, specie di sera, può riservare brutte sorprese agli incauti! Si riferiva ai serpenti. A quelle parole seguirono gridolini incontrollati di paura delle ragazze che, sganciatesi dai loro compagni, corsero scomposte nella direzione di Omar. I ragazzi, al contrario, manifestarono una stupida noncuranza, ma lentamente ritornarono sui loro passi.

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Guido, osservando la scena con pacato distacco, non poté fare a meno di pensare che Omar stava esagerando, ma che si comportava correttamente. Meglio essere prudenti con chi è senza esperienza di deserto! Le ombre delle persone e di tutto ciò che si innalzava al disopra della superficie sabbiosa si allungavano sul terreno, modellate dalle irregolarità di questo, mentre la luce del sole morente, colorava di rosso il paesaggio circostante. I sei, uno accanto all’altro, in religioso silenzio, osservavano incantati quella meraviglia e in particolare una spettacolare formazione rocciosa chiamata dai Tuareg “la montagna maledetta”, poiché la leggenda la vuole abitata da spiriti maligni. Omar richiamandoli alla realtà: <<Ragazzi dobbiamo montare le tende per la notte. Cerchiamo di farlo quando c’è ancora luce…>> Aveva ragione, di tramonti ne avrebbero visti ancora! Le tende, a forma di igloo erano di concezione moderna, facilmente montabili, con l’intelaiatura formata da due stecche elastiche, in materiale plastico, che dovevano essere inserite in apposite asole praticate nel tessuto. La coppia francese fu la prima a terminare il lavoro, dimostrando di avere esperienza in questo genere di cose; poi fu la volta di Guido e Katia, che trovarono divertente farlo. Ultimi gli irlandesi: alquanto impacciati! Sempre in seguito al suggerimento di Omar, i sette si sparpagliarono alla ricerca di arbusti secchi e qualche residuo roccioso. Il loro scopo era quello di trovare l’occorrente per accendere un fuoco, essendo di prassi, nel deserto, farlo. Il fuoco, oltre che scaldarli, avrebbe tenuto lontani gli animali e gli insetti: in particolare serpenti e scorpioni.

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La ricerca non fu impegnativa: tutti trovarono rametti e pietre con i quali accesero un bel fuoco crepitante. Seduti sulla sabbia, con le gambe incrociate, a formare un cerchio con al centro il fuoco, iniziarono la cena. Il chiarore rossastro e tremolante della fiamma illuminava debolmente i visi contribuendo a far loro assumere fisionomie distorte, ma coinvolgenti. Sopra di essi il cielo punteggiato da numerosissime stelle di dimensioni e brillantezza incredibili, completava il quadro! Al termine della cena gli irlandesi intonarono un canto che tutti conoscevano, catalizzando l’atmosfera, e fu in quei momenti che Katia appoggiò il capo sulla spalla di Guido. Nuovamente, lui non si sentì a suo agio e pensò che quella ragazza si stava prendendo delle libertà fuori posto. Poco oltre le ventidue, i sei, stanchi, ma paghi delle emozioni vissute durante la giornata, si augurarono la buonanotte per poi entrare a gattoni nelle loro tende. Abed e Faisal, dopo essere stati incaricati di gestire il rapimento di Guido e Katia, si erano trasferiti immediatamente ad Amman per imbarcarsi sul primo aereo che li avrebbe portati a Tripoli, dove giunsero quando il gruppo aveva terminato di cenare e si apprestava a trascorrere la prima notte nel deserto. Avevano viaggiato separatamente, come fossero due estranei, curando l’abbigliamento in modo da non creare sospetti. Erano, comunque “puliti”! Armi e tutto ciò che poteva essere necessario alla realizzazione del rapimento, li avrebbero reperiti in Libia. A fornirglieli sarebbero stati i contatti che avevano in loco. Al loro arrivo ad attenderli, discretamente confuso fra le persone, nella zona riservata agli arrivi internazionali, c’era

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un appartenente alla loro organizzazione. Lo avrebbero riconosciuto perché sapevano come si sarebbe vestito! Individuatolo, lo avvicinarono, presentandosi e, con discrezione, si allontanarono insieme a lui dall’area aeroportuale. Il Falcon su cui si trovava Karima stava volando a trentamila piedi in rotta per Tel Aviv: Vi sarebbe atterrato nelle prime ore del mattino dopo circa dieci ore di volo. Ad attenderla, due agenti del Mossad, che l’avrebbero condotta nella loro base operativa. Lo stesso luogo dove Karima aveva trascorso il periodo necessario alla cattura dei suoi ex compagni, prima di essere ingaggiata dalla CIA. Rientrare in quella città, in quel complesso e rivedere certe persone le stava procurando una leggera emozione: Non ava messo in conto di ritornarci così presto! In particolare, ricordò il maggiore Adam e l’interesse che aveva provato nei confronti di quell’uomo. <<Chissà se lo avrebbe rivisto? Se fosse capitato le avrebbe fatto molto piacere! Il loro era stato un incontro interrotto! E Mabrha, chissà se era viva?>> Con quei pensieri che le affollavano la mente cercò di addormentarsi: non voleva arrivare a Tel Aviv come uno straccio! Chi avesse osservato, da una certa distanza, l’accampamento di Guido e Katia, avrebbe visto, nel buio della notte, il bagliore tremulo di un fuocherello in via d’estinzione ed intorno a questi, disposte a semicerchio, quattro tende debolmente illuminate dall’interno. Il primo a spegnere la lampada elettrica fu Omar: era solo nella sua tenda, e non avendo nessuno con cui parlare, stanco della giornata, si addormentò di botto.

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Guido e Katia, chiusi nei loro sacchi termici, ascoltavano i brusii provenienti dalle altre tende, in silenzio, senza capire di cosa parlassero le altre coppie. Katia, che era girata verso Guido, non sentiva, per il momento, l’esigenza di dormire ed osservandolo le parve di capire che anche lui fosse nella sua stessa condizione. Per scrupolo, rivolgendogli la parola: <<Anche tu non hai sonno?>> <<Per ora no, ma a me viene all’improvviso, senza preavviso>> <<Ma guarda: capita la stessa cosa anche a me.>> E fece un sorriso. Quell’uomo, incline al silenzio, con un atteggiamento riservato, che ostentava autosufficienza, la incuriosiva! <<Guido, sei sposato?>> <<No…, ma lo sono stato parecchi anni fa.>> <<Vivi solo?>> <<Sì…vivo solo.>> <<Hai avuto figli dal tuo matrimonio?>> Guido si sentiva sotto interrogatorio e ne era disturbato, ma nel contesto in cui si trovavano, non più di tanto. Stava rendendosi conto di provare un leggero compiacimento rispondendo alle domande di Katia. Facendolo, pur forzatamente, avvertiva che il muro di anonimato, che fino a quel momento li rendeva due estranei, confidenza dopo confidenza, si sarebbe sgretolato. Anche lui, come tutti, aveva l’esigenza vitale di comunicare con i suoi simili, ma non di aria fritta. Negandoselo, si rendeva conto che sarebbe andato contro natura, che sarebbe stata una forzatura, ma nello stesso tempo aveva la consapevolezza che, in funzione del proprio vissuto, in certi periodi della propria vita, per sopravvivere era stato necessario

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vestire delle corazze. Ora intuiva che, mantenerla incollata alla pelle, sarebbe stata una vigliaccheria. Riflessioni che durarono la durata di un lampo, e: <<Sì… una figlia.>> Non aspettando la domanda successiva e manifestando disponibilità al dialogo: <<Ha trent’ anni e vive con il proprio ragazzo in Francia a Parigi.>> Katia tacque per alcuni istanti e Guido, non violando il silenzio che si era instaurato, fece altrettanto. Poi: <<Ti pesa vivere solo?>> <<Non più di tanto, ma tu non hai un ragazzo?>> <<No…e per ora non ne voglio.>> <<Sei stata delusa da qualche esperienza precedente?>> <<Ma no…la mia è una scelta: non me la sento di impegnarmi, preferisco essere libera e vivere senza dover fare compromessi con un ipotetico compagno.>> <<Ti capisco…cosa ne pensi se spegnessimo la lampada e provassimo a dormire? Domani mattina la sveglia sarà molto presto!>> <<Sì, hai ragione: buonanotte.>> <<Buonanotte Katia.>> Ancora qualche ora, circa alle tre di mattino e Karima sarebbe atterrata a Tel Aviv. In quel momento, raggomitolata su un seggiolino del Falcon, stava dormendo profondamente! Alì, preso dall’agitazione della prima giornata di lavoro, nel letto, stentava a prendere sonno. Nella sua mente vagavano ancora le problematiche risolte durante la giornata. Pensava e ripensava alle soluzioni che aveva adottato per portare a

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termine il compito affidatogli, assaporando la soddisfazione derivante dal successo ottenuto. Ma, tutto preso dalle considerazioni tecniche non considerava lo scopo per il quale aveva lavorato. Nella sua mente aveva separato le due cose, quasi l’implicazione politica non esistesse, rimuovendo la sua appartenenza ad una cellula terroristica. Abed e Faisal furono condotti in una località nei pressi della periferia di Tripoli dove incontrarono altre due persone che avrebbero condiviso l’azione con loro. Parte della nottata, i quattro la trascorsero per coordinare il piano d’attacco, poi, stanchi, decisero di riposare un poco: all’alba si sarebbero attivati nuovamente! Il Falcon su cui stava volando Karima atterrò a Tel Aviv secondo l’orario previsto. Due funzionari a bordo di una Ford nera si affiancarono all’aereo fermo nel piazzale dei parcheggi e, quando la scaletta venne abbassata, salirono a bordo dove trovarono l’agente della CIA pronta a seguirli. Insieme, in auto, evitando le normali procedure di sbarco, andarono direttamente alla sede del Mossad. Ad attenderla avrebbe trovato la persona con cui si era dovuta confrontare durante il periodo di verifica. Quando furono l’uno di fronte all’altra, si abbracciarono, scambiandosi il reciproco rispetto. Intanto si stava facendo giorno: a Karima erano rimaste poche ore per recuperare la stanchezza del viaggio e in quelle a seguire l’avrebbe attesa una giornata impegnativa! Il fuoco che, fino a poco prima, aveva illuminato le tende silenziose dei sei escursionisti, si era spento. Ad illuminare l’accampamento era rimasta solo la luna, con il suo chiarore

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freddo. Nell’intorno, ad interrompere il silenzio, solamente il respiro pesante di quelle persone! Ancora poche ore e sarebbe sorto il sole!

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13 Cerca di scoprire il disegno che sei chiamato ad essere, poi mettiti con passione a realizzarlo. Martin Luther King

All’interno delle tende il chiarore rossastro del sole, che sta facendo capolino fra le dune del deserto, è percepito con fastidio dai loro occupanti, ancora nello stato di dormiveglia. Durante la notte la temperatura era scesa notevolmente, raggiungendo il minimo nei momenti che precedono l’alba, suscitando il desiderio, nei partecipanti la spedizione, di crogiolarsi dentro i caldi e soffici sacchi a pelo. Omar, come gli altri, avrebbe preferito posticipare l’alzata, ma è consapevole che non può farlo! Deve rispettare la tabella di marcia e dare l’esempio. Al più, potrà concedere loro ancora qualche tempo, mentre preparerà l’occorrente per la colazione.

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Alì sta dormendo profondamente, ancora un’ora e l’orologio sveglia, che si trova accanto al letto, lo avvertirà che è giunto il momento di predisporsi alla sua seconda giornata di lavoro. A Karima è stato concesso di recuperare la fatica del lungo trasferimento ed adattarsi al nuovo fuso orario. Prenderà contatto con la realtà che l’aspetta nella tarda mattinata! Abed e Faisal non potevano permettersi di perdere tempo! Il gruppo, che dovevano intercettare, aveva un vantaggio di due giorni su di loro e per raggiungerlo non avrebbero potuto servirsi dell’aereo fino a Sebha, avendo con loro le armi ed il resto. In compenso la ragazza dell’agenzia aveva procurato ai quattro un fuoristrada con le insegne della ditta nella quale lavorava (in questo modo sarebbe stato molto più facile superare i posti di blocco lungo il percorso) ed aveva dato loro tutte le indicazioni relative al percorso che i sei avevano iniziato a seguire, fornendo loro anche una mappa dettagliata dei luoghi in cui si sarebbe svolta la spedizione, con i punti di sosta e di pernottamento. Non rimaneva che caricare le provviste e le armi, poi si sarebbero messi in moto alla volta di Sebha, prima e di Ghat, poi. Omar, che nel frattempo aveva acceso il fuoco e messo a scaldare l’acqua per il tè, avvicinatosi alle tende, dette la sveglia al gruppetto, che gli fece eco dall’interno, svogliatamente. I primi a sgattaiolare fuori dalla loro tenda furono i francesi, gli ultimi: Guido e Katia.

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Tutti mostravano di essere assonnati, accompagnando con suoni rauchi lo stiramento delle membra, ma alla vista del sole nascente, una sferzata d’energia li prese, come fossero stati investiti da un getto d’acqua fresca. L’alba su quella sabbia rossa era splendente! Così, con rinnovate energie ed entusiasmo, si sedettero sulla sabbia per bere il tè bollente, che li avrebbe scaldati, unitamente ai raggi del sole. Terminata la colazione, Omar iniziò a ripiegare la sua tenda, invitandoli a fare la stessa cosa. L’accampamento fu smontato velocemente e tutto il materiale caricato nell’auto. Uno sguardo intorno e poi nuovamente in viaggio. Dopo circa un’ora, ecco delinearsi il piccolo villaggio di Ghat. Ultimo posto civilizzato prima del grande nulla. La località si presenta molto suggestiva: è un minuscolo paese abitato da Tuareg che, quando videro il gruppo in lontananza, si avvicinarono silenziosi, per poi mostrare, stendendoli a terra sopra coperte grezze, splendidi monili realizzati con le loro mani. Le ragazze, non resistendo a quella tentazione, accovacciate davanti alla mostra rudimentale, osservavano quei manufatti in silenzio. Poi, timidamente, iniziarono a toccarli, soppesarli e, prendendo confidenza, ad indossarli, aiutandosi l’una con l’altra: scambiandosi pareri. Katia rivolgendosi ad Omar: <<Ti va di farci da interprete?>> <<Va bene, ma non possiamo permetterci di rimanere qui a lungo…: abbiamo un programma da rispettare!>> <<Cercheremo di sbrigarci…>> Terminato il mercanteggiare, Tuareg e ragazze sembrarono soddisfatti: entrambi pensavano di aver fatto un buon affare.

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L’acquisto dei monili, tutto sommato, si era svolto piuttosto velocemente, dando la possibilità al gruppo di visitare Ghat. Il paese si presentò come un labirinto di case basse, costruite con un materiale simile al tufo che, essendo costituito dalla terra dei dintorni, si confonde in modo impressionante con il paesaggio circostante. L’aspetto che maggiormente colpisce il visitatore è che il fondo delle stradine risulta sempre e solo costituito da sabbia rossa e morbidissima. Ma non potrebbe essere diversamente in un paese circondato dal deserto! Il militare che aveva recapitato, ventiquattro ore prima, il pacco contenente la centralina di controllo dell’F16, presso la Software House dove lavora Alì, oggi, precedendolo, si era presentato poco prima dell’orario di apertura per riprendersi l’apparato, sapendo che il proprietario della ditta era lì ad attenderlo. Riportare all’interno della base quell’oggetto, il prima possibile, era estremamente importante! Un controllo avrebbe compromesso l’intera operazione ed avviato un’indagine, con le conseguenze facilmente immaginabili. Quando, circa un’ora dopo, lo specialista addetto alla manutenzione dell’F16, riebbe in mano il controllore di assetto, poté rilassarsi e riprendere le sue mansioni. Lui era amico del pilota di quell’aeroplano: stimava il maggiore Adam come uomo e come pilota! Pensare che sarebbe toccata proprio a lui l’emergenza, lo disturbava notevolmente, ma il pensiero che si sarebbe, in tutti i modi, salvato, catapultandosi fuori dall’abitacolo, lo rincuorava notevolmente! Ora doveva aspettare che gli fosse comunicato il momento in cui avrebbe dovuto agire.

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Guido, Katia e gli altri, terminato il girovagare nelle viuzze di Ghat, risalirono sul quattro per quattro, inserendosi in una pista che puntava verso Est. A loro si aggiunse anche un Tuareg: al nuovo venuto spettava il compito di compiere gli spostamenti della vettura, durante i trasferimenti del gruppo in marcia, e di provvedere al cibo. Davanti a loro, in lontananza, il profilo di un altopiano roccioso che si innalzava sempre più con l’avvicinarsi. Tutti sono in silenzio e mantengono gli occhi costantemente rivolti nella direzione del promontorio, consapevoli che da quella zona inizierà l’attraversata dell’Akakus e che questi sarà la loro casa nei prossimi giorni. Omar, sebbene impegnato nella guida, racconta che la zona dove si svolgerà l’escursione è formata da un massiccio altopiano di arenaria, attraversato da fiumi fossili, risalenti alla preistoria, che hanno scavato profondi e spettacolari canyon. Sulle loro pareti sono ancora visibili i disegni fatti dagli abitanti di quei luoghi! Omar spiega, inoltre, che il tragitto a piedi si svilupperà lungo le pendici dell’altopiano per un centinaio di chilometri, in direzione Nord, per poi ridiscendere a valle nelle belle dune dell’erg Murzuk. Ancora poco ed Omar ferma l’auto: <<Signori…da questo momento inizia la camminata.>> I sei, impazienti di iniziare l’avventura, non si fanno ripetere l’invito e, indossati gli zaini, si mettono in cammino, seguendo le tracce di Omar, in fila indiana. Il Tuareg, nel frattempo, messosi alla guida, si allontana velocemente. Abed, Faisal e due libici hanno appena superato un posto di blocco lungo la strada per Sebha.

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Karima seduta sul letto, dove fino a poco prima dormiva pesantemente, smaltendo la fatica del viaggio concluso da poche ore, era intenta a rovistare nella borsa: cercava la sua agenda elettronica, dove aveva annotato i numeri telefonici di tutte le persone a lei non indifferenti. Trovatala, selezionò la lettera (A) e, scorrendo l’elenco dei nomi, arrestò la ricerca in corrispondenza di: Adam. Con uno sguardo rapido memorizzò il numero che vi era scritto di fianco, per poi digitarlo sul portatile. Dovette attendere solo pochi trilli, poi la risposta: <<Sì…? Chi parla?>> Dopo un attimo d’incertezza, che contraddiceva la determinazione con la quale aveva cercato quel numero…: <<Una vecchia conoscenza..., riconosci la mia voce?>> Karima forse, senza rendersene conto, voleva verificare, se Adam era stato interessato a lei, se ricordava! Dall’altra parte ci fu un momento di silenzio, poi: <<Aiutami, hai pronunciato poche parole! Non credi di pretendere troppo?>> <<Sì, hai ragione. Ti aiuto: ci siamo conosciuti qualche tempo fa; nel bar che frequenti abitualmente.>> Pronunciando quella frase, avrebbe anche appurato se lui avesse del giro, qualora le avesse attribuito un nome diverso dal suo! Ancora una parentesi di silenzio, questa volta superiore alla precedente, poi: <<Mi sembra impossibile…, ma sei veramente Karima?>> A lei batté il cuore per l’emozione e per la lusinga: dunque non si era dimenticato di lei! <<Sì, sono io…come stai?>> <<Io bene, ma tu, piuttosto, come te la passi? Ma da dove mi stai telefonando?>>

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<<Bene pure io. Sono a Tel Aviv.>> Adam rifletté un attimo, per poi realizzare che Karima non era lì per caso o per diporto e: <<Se posso: cosa ci fai qua?>> <<Sono in missione. Di più non posso dirti.>> <<Immaginavo.>> <<Ti ho telefonato per salutarti e per proporti, impegni permettendo, di vederci. Naturalmente se a te interessa la cosa.>> Pronunciò questa ultima frase con falso distacco: tanto per darsi un contegno. In cuor suo sapeva che Adam non avrebbe fatto cadere il discorso! Infatti: <<Certo che mi interessa. Rivederti mi farà molto piacere. Ma quando?>> <<Quando non posso saperlo. Sono appena arrivata e devo ancora prendere conoscenza di come si svolgerà la missione. Quando avrò delle certezze ti farò sapere.>> <<Va bene…attendo tue notizie, ciao ed abbi cura di te.>> <<A presto, ciao.>> Ora le ci voleva una buona doccia, poi sarebbe andata a rapporto per togliersi una leggera inquietudine, derivante dal fatto che, ancora, non conosceva i dettagli della missione. Le tre coppie stanno seguendo Omar che fa da apripista con passo veloce e costante: indossa un turbante bianco, una casacca gialla lunga fino alle ginocchia, sopra una giubba color sabbia, che tiene aperta sul torace. Pantaloni molto larghi di cotone marrone, completano l’abbigliamento. Ai piedi sandali usurati. Katia ha notato che predilige muoversi prevalentemente in prossimità dei pochi cespugli che ricoprono la pietraia sulla quale stanno camminando e si sta chiedendo il perché. Certamente il suo comportamento non è casuale!

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Di raggiungere Omar per chiedergli la spiegazione non le sembra il caso; in alternativa decide di rivolgersi a Guido che la precede ed affiancatolo: <<Hai notato che Omar cammina prevalentemente vicino ai pochi arbusti che ci sono? Hai idea del motivo?>> <<Sì Katia: la vegetazione nasce dove c’è acqua, e se hai notato stiamo camminando lungo il letto di un fiume in secca. Sicuramente sono rimaste tracce d’umidità nel terreno sottostante!>> <<Ah…,ma perché seguire proprio un percorso di questo tipo?>> <<Perché quando l’acqua scorre leviga i sassi e le pietre facendole cozzare gli uni contro le altre; camminarci sopra risulta meno stancante!>> <<Che bravo!>> <<Grazie, ma è solo esperienza.>> Passo dopo passo, il gruppetto si era avvicinato notevolmente all’alta parete rocciosa, tanto da distinguerne i particolari più minuti. Fu in quel luogo che Omar decise di fare una sosta con lo scopo di consumare uno spuntino a base di frutta. Poco oltre si sarebbe incominciato a salire lungo la parete dove spettacolari cenge si inerpicano lentamente fino alla cima, da lì sarebbe stato possibile spaziare con lo sguardo sulla vastità della vallata sottostante e distinguere chiaramente le tracce lasciate dai corsi d’acqua, ora asciutti. Sebbene lo scenario che si può osservare dalla parte più alta dell’altopiano sia stupendo, Omar è costretto ad incitare il gruppo a proseguire. Lo fa, senza parlare, con un cenno della mano. Lui sa che per ultimare la tappa c’è ancora molto cammino e che devono giungere nella località dove allestiranno il campo serale con la luce. Davanti a loro una seconda, ma più bassa parete da risalire!

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Karima in quel momento si trovava nell’ufficio dell’ufficiale del Mossad che aveva conosciuto durante il periodo di transizione: prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Quell’uomo, di fatto a lei estraneo, le stava riferendo le informazioni in suo possesso fino a quel momento. Dai suoi informatori aveva appreso che una cellula palestinese sarebbe stata in grado di compiere uno o più attentati all’interno dei loro aeroporti militari, con lo scopo di danneggiare gli aerei, ma come spesso in questi casi, gli mancavano i dettagli. Loro avevano, inoltre, ipotizzato l’eventualità che l’attentato potesse avvenire anche mentre l’aereo o gli aerei si trovavano in volo. Se veramente le cose fossero andate così, avrebbero avuto la necessità di impiegare una persona che conoscesse molto bene i luoghi dove presumibilmente il pilota si sarebbe lanciato. Nel caso, ovviamente, ne avesse avuta la possibilità. Questo il motivo per cui avevano pensato a lei! Il gruppo, dopo qualche ora di marcia, era giunto sull’altura sommitale dell’altopiano dove poterono osservare l’enorme distesa piatta e scura che li avvolgeva a trecentosessanta gradi. Con meraviglia videro che da quella distesa si innalzavano bizzarre formazioni rocciose color ocra. Omar, dopo avere concesso alla comitiva un meritato riposo, li spronò a rimettersi in marcia, dirigendosi verso un fungo roccioso che si poteva osservare in lontananza. Le ragazze, che durante la sosta si erano sbizzarrite a fare fotografie, avrebbero voluto rimanere ancora a bighellonare in quel luogo, senza tener conto delle ore che trascorrevano veloci. Timidamente provarono a manifestare il loro desiderio a Omar, ma lui,

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ripetendosi, le riportò alla realtà alla quale dovettero arrendersi sbuffando un poco. Quando arrivarono ai piedi del grande fungo, tutti se ne uscirono in esclamazioni che esprimevano stupore: sulle pareti rocciose facevano bella mostra di sé molte pitture rupestri! E fu in quel momento che Omar spiegò loro che il trekking che stavano facendo è chiamato “museo sotto le stelle” per sottolineare la presenza delle belle pitture, che è possibile ammirare durante il percorso. Guido iniziò a fotografare i particolari dei dipinti che apparivano conservati in modo incredibile, considerando che risalivano a circa sei / settemila anni prima. Altro particolare degno di nota, il senso della prospettiva e la vivacità dei colori! Ascoltando le esternazioni che facevano e si scambiavano, Omar si sentì in dovere di fornire loro alcune informazioni tecniche, raccontando che gli antichi abitanti di quelle terre usavano impastare i colori bianco e rosso con l’albume d’uovo od in alternativa con il latte, avendo come scopo la loro conservazione nel tempo. Impossibile, per il gruppo, continuare a camminare senza mantenere costantemente il naso rivolto verso l’alto: mucche pezzate, bellissimi struzzi e singolari figure umane li stavano accompagnando nella loro marcia! Katia e Guido, ritornati sulla distesa di rocce scure, senza manifestarsi l’intenzione di farlo, si erano staccati lentamente dagli altri: empaticamente, decidendo di respirare un’aria più solitaria e silenziosa. Lui rifletteva sulla sua vita, in particolare sulle energie che aveva dedicato ai viaggi, al volo, agli sport praticati, agli studi, agli amori ed all’attività lavorativa; insomma, senza che lo avesse preventivato, stava abbozzando il bilancio

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della sua vita. Una sensazione di spiacevole rammarico lo prese, accompagnandolo nel suo andare solitario! E, come la sabbia sfugge inesorabilmente dal pugno di chi la stringe, senza lasciare traccia, così a lui erano sfuggiti gli attimi di sublime pienezza che aveva assaporato durante la realizzazione delle sue passioni. Ora gli pareva che, quasi, non fosse stato lui a viverle! Si sentì vuoto ed il suo passo diventò più lento! Lei, parimenti, rifletteva sui motivi che l’avevano indotta ad allontanarsi dalle sue radici, provando un leggero disagio, ma si diceva che tutto ha un prezzo e che quello che stava facendo era l’obolo da pagare per sentirsi libera. Comunque, doveva interrogarsi sul significato da dare alla parola libertà! Solo così avrebbe posto le fondamenta per risolvere il suo disagio di fondo. Contrariamente avrebbe corso il rischio di girare a vuoto, come il pedalare su di una bicicletta priva della catena. <<Ehii…voi due. Per di qua.>> Era Omar che li richiamava alla realtà! <<Sì, veniamo.>> Rispose Guido. In distanza iniziava a vedersi una lingua di sabbia chiarissima alla base di una grande roccia e lì sotto il quattro per quattro con il Tuareg d’appoggio che li stava attendendo, paziente. L’auto era giunta in quel luogo facendo un percorso alternativo, adatto al mezzo meccanico. Per loro non avrebbe avuto senso raggiungere il punto di sosta a bordo del fuoristrada. Se lo avessero fatto, sarebbe stato stravolto lo spirito del viaggio e non avrebbero potuto ammirare i paesaggi che avevano incontrato durante il percorso. Poco dopo aver raggiunto il punto, le ombre iniziarono ad allungarsi sul terreno: era il segno che la giornata stava per terminare e che il mondo si sarebbe tinto, ancora una volta,

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di rosso brillante, predisponendo i loro animi ad una dolce, romantica tranquillità. Gli istanti, più belli ed intensi della giornata nel deserto, si stavano avvicinando velocemente! Ancora una volta stupefatti dalla bellezza del luogo i sei pensavano la stessa cosa; Omar aveva scelto un posto estremamente suggestivo dove allestire il campo per trascorrere la notte: un piccolo circolo roccioso che nasce come d’incanto sulla distesa piatta attraversata durante la giornata, interamente costituito da arenaria rossa. Inoltre, compare al cospetto del gruppo uno spettacolare arco naturale alto una cinquantina di metri, che sembra disegnato sul viola cangiante al rosso, del cielo. La magia di quei luoghi prosegue con la cena: tutti seduti a terra sulla sabbia ancora calda, con le gambe incrociate che fungono da supporto ai minuscoli piatti di metallo ed alla sola luce del fuoco. Quella notte trascorrerà splendidamente tranquilla, cosa che solo il deserto sa regalare! Le emozioni vissute durante la prima giornata di marcia, imbevute della sana fatica del camminare, hanno indotto nei sei il raccoglimento ed il compiacimento del proprio stare soli con se stessi. Guido e Katia, del tutto ignari di ciò che è stato tramato ai loro danni, nel frattempo, riposano inconsapevoli di quello che, a breve, capiterà loro! Abed, Faisal e compagni, superata Sebha, avevano deciso di continuare a viaggiare per tutta la notte, dandosi il cambio alla guida della vettura. La scelta appena fatta farà guadagnare loro una giornata! Karima, mentre Guido e compagni stavano facendo il loro trekking, si era intrattenuta con l’ufficiale del Mossad per studiare le zone che normalmente gli F 16 sorvolano durante

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le loro missioni, e mettere a punto alcune questioni riguardanti il coordinamento della operazione. Missione che sarebbe potuta iniziare da un momento all’altro. Durante le ore che aveva trascorso in quell’ufficio non aveva mai smesso di pensare alla ragazza alla quale si era sostituita e, quando fu il momento di congedarsi, non riuscì a trattenersi dal chiedere: <<…La ragazza, Mabrha, di cui presi l’identità, ce l’ha fatta?>> <<Mi spiace…no.>> Mestamente, abbassando il capo, uscì dall’ufficio dirigendosi nel suo alloggio. La notizia appena ricevuta l’aveva rattristata, sebbene non avesse conosciuto Mabrha. In lei aveva preso corpo un processo d’identificazione di cui non si era ancora completamente liberata. Ma non poteva permettersi di continuare a rimanere in uno stato mentale negativo, vincolato al passato; doveva concentrarsi sul presente. Unica realtà temporale ad avere un senso per lei. Mentre camminava, tolse dalla tasca dei pantaloni mimetici il cellulare e, senza riflettere, richiamò dalla rubrica il numero di Adam. Qualche Tuu, poi la voce di lui <<Sì…? >> <<Sono Karima…>> <<Che sorpresa…non aspettavo così presto una tua telefonata!>> <<Neppure io credevo di poterti chiamare, ma meglio cogliere al volo le opportunità.>> E continuando nel discorso: <<Se non hai impegni potremmo vederci questa sera.>> <<Sono libero: ti può andare bene se sarò da te fra un paio d’ore?>> <<Sì, ti aspetto. Sai dove trovarmi, ciao.>>

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La serata dei due trascorse serenamente in un ristorante, che Adam aveva scelto accuratamente per l’occasione, nel centro di Tel Aviv. Adam, durante la cena ebbe modo di apprezzare il carattere aperto e la predisposizione alla sincerità di Karima. Caratteristiche che aveva intuito fin dal loro primo incontro, e pensando a come andarono le cose, all’epoca, se ne rammaricò. Ma ora intuiva che avrebbe avuto una nuova opportunità. Decise, di conseguenza, che non se la sarebbe lasciata sfuggire, anche perché l’interesse che Karima mostrava nei suoi confronti era fuori dubbio. Per convincersene ulteriormente si disse che non lo avrebbe cercato appena giunta a Tel Aviv e che, diversamente, non avrebbe accettato l’invito a cena. Dopo essersi trattenuti a tavola lungamente, fu Karima a fargli capire che era giunto il momento di rientrare. Adam, alzandosi prontamente, le si avvicinò invitandola ad imitarlo e nel farlo la agevolò spostandole la sedia su cui era seduta. Lei, non più abituata a galanterie del genere, ne rimase lusingata e pensò che gesti simili non sono più praticati dai suoi coetanei! <<Permetti che ti dia un passaggio?>> <<Certamente,…ti ringrazio.>> Giunti dove Karima alloggiava, dopo aver arrestato l’auto, Adam, mettendole un braccio sulle spalle, le disse molto semplicemente che avrebbe desiderato rivederla, approfondire la reciproca conoscenza e che si augurava che fosse la stessa cosa anche per lei. Lei sorrise senza rispondere, ma allungando una mano, gli sfiorò una guancia e sporgendosi verso di lui, gliela baciò. Senza aggiungere altro, gli augurò la buona notte, ringraziandolo per la cena e richiudendo la portiera dietro di sé, rincasò.

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La nuova giornata, alle prime luci dell’alba, vede già indaffarati nell’accampamento i nostri escursionisti. Dopo aver consumato la colazione, dovranno mettersi in marcia, poiché la tappa prevista è molto lunga. Non hanno ancora terminato il pasto del mattino che l’auto d’appoggio è già partita: la ritroveranno al termine del tragitto giornaliero. Guido rimirando l’arco naturale che li sovrasta, avendo anticipato il lavoro di smontaggio della tenda, non sa resistere alla tentazione di scalarlo, fin sul culmine. Lui, in passato, aveva dedicato circa trent’anni della sua vita alle montagne ed ora il richiamo dell’arrampicata, nel contesto meraviglioso in cui si trova, ha fatto capolino ed egli vi si abbandona con rinnovata energia. I suoi movimenti sono ancora eleganti e coordinati ed in poco tempo, sotto lo sguardo stupito dei compagni è sulla cima dell’arco. Qualche minuto di sosta, come sempre quando si giunge in cima, poi la mente deve rivolgersi alle difficoltà della discesa. Ritornato alla base dell’arco, i compagni gli si accalcano intorno, facendogli i complimenti per la sua piccola impresa; Katia si limita a stringergli la mano, ma in cuor suo ha provato ammirazione per quell’uomo non più giovane, ma che ha dimostrato tanta vitalità. Per quanto lo riguarda: lui è convinto che il suo anelito alla salita altro non sia che la sublimazione dell’ aspirazione inconscia ad un’ascesa spirituale! Abed e Faisal si sono concessi poche ore di sonno: è loro intenzione raggiungere al più presto il gruppo degli escursionisti ed iniziare ad osservare, a debita distanza, i

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loro movimenti. Con loro i due libici, a supporto dell’azione che stanno per realizzare. Giungere nei pressi del gruppo non richiederà molto tempo. Diversamente non sarà facile avvicinarsi ad una distanza utile all’osservazione, senza essere visti. Il territorio dove dovranno muoversi è quasi del tutto privo di protezioni! Alì dopo aver portato a termine il lavoro che gli era stato commissionato, al momento, sta lavorando sulla programmazione di un sistema di controllo che non lo impegna più di tanto. Abed, con l’auto si è avvicinato notevolmente agli escursionisti ed al riparo di un roccione che si innalza provvidenzialmente dal terreno, li sta osservando con l’aiuto di un binocolo, riuscendo a scorgerli mentre stanno avanzando lentamente. Due di loro sono leggermente distanziati dagli altri: si fermano spesso per fare fotografie, sono un maschio ed una femmina! A Guido non è sfuggita la polvere, in lontananza, sollevata dal movimento dell’auto su cui sta viaggiando Abed, ma la distanza gli ha impedito di capire il tipo di vettura di cui si tratta. Il fatto che si sia fermata al riparo di una roccia non gli ha creato alcun sospetto ed ha pensato trattarsi di turisti che stanno visitando l’Akakus prediligendo spostamenti su auto. Katia, che ultimamente segue i movimenti di Guido con una sorta di dipendenza psicologica, non si è accorta di nulla. Lei è completamente presa ad osservare la bellezza del paesaggio circostante, compiacendosi del rapimento che le procura.

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Abed e Faisal hanno deciso! Rapiranno i due italiani nel cuore della notte, confidando nell’oscurità e nella stanchezza dei partecipanti al trekking. Il rimanente della giornata lo trascorreranno seguendoli a distanza, con discrezione, cercando di non farsi scorgere. Il loro problema, per ora, sarà quello di individuare Guido e Katia. Di lui sanno che non è un giovane, a differenza degli altri partecipanti e di Katia hanno ricevuto una descrizione dalla ragazza dell’agenzia. Comunque, sanno che, quasi sicuramente, stanno facendo coppia. La telefonata di Adam non tardò molto ad arrivare. Karima immaginava che sarebbe successo, ma quando la ricevette reagì come se fosse stata una sorpresa. Lui avrebbe avuto alcuni giorni di riposo: gli aerei dovevano essere sottoposti alla manutenzione ordinaria e lei, essendo la sua missione subordinata alle attività degli F 16, sarebbe stata discretamente libera. L’orizzonte, che Katia sta osservando, sembrava arrotolarsi su se stesso, dandole l’illusione di camminare su di una enorme sfera nera. Così che il suo procedere si era trasformato in una sorta di allucinazione: le pareva di muoversi pur non avendo la sensazione di progredire nella marcia. Il panorama circostante sempre identico a se stesso! I sette stavano muovendosi su di un terreno disseminato di piccole pietre, tutte delle stesse dimensioni e colore, appoggiate ad un suolo più chiaro, quasi alla stessa distanza le une dalle altre, che inducevano in loro uno stato di placida ed estatica ipnosi.Lo stress, legato ai ritmi quotidiani, si era dileguato! La vita ridotta al solo camminare, al non pensare a nulla, se non alla bellezza dei luoghi!

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Il parlare era diventato più calmo e riflessivo, i gesti denotavano grande serenità e nessuno di loro aveva fretta di arrivare da qualche parte. In altre parole le anime di quelle persone stavano vibrando in sintonia con l’energia emanata dal deserto! Improvvisamente, Omar fece segno di cambiare direzione: spiegherà che nei pressi sarà possibile ammirare una nuova configurazione del terreno. Inaspettatamente, di lì a poco, il suolo s’interrompe di netto e sprofonda in un precipizio profondissimo. Una spaccatura enorme si apre sotto di loro! E’ un canyon spettacolare solcato da altri minori, in un susseguirsi di morbide anse e depressioni vertiginose. Il cambiamento improvviso del paesaggio aveva contribuito ad infondere una sferzata di vitalità al gruppo che, nuovamente corroborato da quanto aveva appena osservato, si predispose a compiere l’ultimo tratto della tappa con rinnovata determinazione; poi l’arrivo al punto dove avrebbero allestito, nuovamente, il campo per trascorrervi la notte. Giuntivi, montano, frettolosamente, l’accampamento su di una vasta distesa di sabbia soffice e tiepida, disseminata da cespugli che, impareranno, possono essere anche usati per ricavare un infuso digestivo dalle foglioline. E qui, al profumo forte della legna che sta bruciando, al canto silenzioso delle stelle, ha inizio un’altra notte nel deserto! Abed e Faisal, coperti da una duna, stanno osservando attraverso le lenti di un visore notturno i movimenti degli escursionisti. Individuare Guido e Katia non è stato difficile: le informazioni che avevano ricevute calzavano

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perfettamente con la realtà, tanto da non lasciare alcun dubbio. Ora dovranno attendere che tutti si ritirino nelle tende, che si addormentino e che il fuoco si spenga. A quel punto entreranno in azione. Adam, dopo essersi accordato con Karima, era passato a prenderla presso la sede del Mossad. Erano d’accordo di trascorrere la serata a casa di lui. Per l’occasione si era organizzato in modo da proporle una cenetta interamente preparata da lui. Nel farlo aveva cercato di curare tutti i particolari. Ci teneva molto a fare una buona impressione e, perché no, ad essere gratificato dall’ apprezzamento di lei! Adam viveva in un piccolo appartamento nelle vicinanze della base dove prestava servizio. Per lui era di dimensioni giuste. Lo aveva scelto così, prediligendo la praticità a dimensioni maggiori. Di tempo a disposizione per mantenerlo in ordine, non ne aveva tanto ed a lui non piaceva impiegarlo nei lavori domestici. Per l’occasione si era sforzato di ordinare al meglio e ripulire la casa, ma agli occhi di una persona esperta sarebbe stata evidente la sua imperizia nei lavori di casa! Aveva, in sostanza, cambiato di posto alle cose, ma non era riuscito a fare ordine e la polvere, che si era depositata su mobili ed oggetti vari, era stata asportata malamente. Karima, entrando, si rese immediatamente conto della cosa, ma non le dette importanza. Anche lei non era, di certo, una donna di casa! In compenso, Adam aveva preparato con cura il tavolo dove avrebbero cenato, non dimenticando di collocarvi, nel centro, una vistosa candela rossa.

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Sul tavolinetto, posto nelle vicinanze di un grande divano, aveva preparato l’occorrente per l’aperitivo e fu lì che invitò Karima a sedersi insieme a lui. Nell’accampamento regnava il silenzio, il fuoco stava spegnendosi ed il momento in cui i quattro sarebbero entrati in azione era imminente.

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Soffrire è sempre colpa nostra. Cesare Pavese

Abed, Faisal ed i due libici stavano fumando in attesa di avvicinarsi all’accampamento. Il fuoco non ardeva più da circa un’ora e dalle tende non proveniva alcuna luce. Faisal puntando il fascio della torcia elettrica in direzione dell’orologio, che portava al polso, vide che erano le due passate da qualche minuto. <<Abed…penso si possa tentare l’avvicinamento al campo. Sei d’accordo?>> A quelle parole, Abed, imitando l’amico, si accertò dell’ora, ed oramai impaziente: <<Va bene…andiamo.>>

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Ad un libico fu chiesto di attenderli in quel punto, in auto. Doveva tenersi pronto a partire al loro rientro! Dopo aver indossato i passamontagna ed imbracciato le armi, iniziarono l’avvicinamento. Il loro camminare era lento e leggero, quasi impercettibile. Prima di muoversi, avevano stabilito che avrebbero comunicato con il linguaggio dei segni, contando sul fattore sorpresa: era loro intenzione non svegliare nessuno, se fosse capitato, avrebbe potuto compromettere la buona riuscita dell’operazione! Durante l’osservazione a distanza, avevano individuato con chiarezza l’igloo di Guido e Katia ed ora che si trovavano nelle vicinanze del campo, aiutati dal chiarore della luna, vi si stavano dirigendo con sicurezza. A circa venti metri dalla tenda, si fermarono cercando di captare rumori sospetti: nulla! Guido e Katia dormivano profondamente: la stanchezza dovuta alla lunga camminata e il rilassamento indotto dal deserto, erano tali da procurare loro un sonno pesante. Abed si fermò davanti alla tenda, Faisal si posizionò al suo fianco ed il libico a qualche metro da loro: tutti imbracciavano un mitra! Con grande attenzione e lentamente, Abed iniziò ad abbassare la cerniera che chiudeva la tenda, sapendo che quello sarebbe stato un momento delicato: il rumore della zip non doveva assolutamente svegliare i due! In ginocchio, con il mitra appoggiato sulla sabbia, trattenendo il respiro, abbassò, centimetro dopo centimetro, il fermaglio della cerniera. Il leggero fruscio, che le parti metalliche emettevano, strusciando le une con le altre, gli parve squarciasse il silenzio che incombeva sull’accampamento, ma non era così: i suoi sensi, attenti a percepire ogni più piccolo segnale, lo amplificavano!

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Abed, dopo aver aperto la cerniera, spostò lateralmente i due lembi di tessuto; girando il capo, fece cenno a Faisal di avvicinarsi e quando anche lui gli fu accanto in ginocchio, sollevò il mitra mettendoselo a tracolla. Nel frattempo il libico si era posto dietro di loro, alla distanza di qualche metro, a gambe divaricate, imbracciando il mitra. Faisal e Abed si scambiarono uno sguardo d’intesa: il momento di entrare, contemporaneamente, ed immobilizzare i due, era arrivato! Dovevano farlo nel minor tempo possibile! Guido e Katia, ignari di tutto, forse stavano sognando, beatamente le dune del deserto! Con l’agilità e la velocità di un felino, i due balzarono all’interno della tenda, mettendosi cavalcioni su Guido e compagna; contemporaneamente appoggiarono una mano sulla loro bocca, impugnando con l’altra un pugnale. In sincronismo con l’irruzione, il libico aveva acceso la torcia elettrica, puntandola sull’ingresso della tenda. L’azione si era svolta in pochi secondi: istintivamente Guido e Katia avevano cercato di sollevare il busto, ma le mani dei due li avevano trattenuti saldamente schiacciandoli al suolo. Quando cercarono di liberarsene, non poterono fare a meno di vedere, a pochi centimetri dai loro visi, il pugnale, che, prontamente, Abed e Faisal avevano avvicinato. <<Una parola, un lamento e siete morti.>> <<Se hai capito chiudi gli occhi due volte.>> Avevano parlato in inglese, scandendo le parole. Guido e Katia, riavutisi dallo spavento, stavano facendo mente locale ed entrambi erano arrivati alla conclusione che non avevano alternative e, uno dopo latro, fecero quello che era stato richiesto.

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Fu in quei momenti che si udì chiaramente un borbottio provenire da una delle tende, lì accanto. Prontamente, il libico spense la torcia, mentre le mani dei palestinesi aumentarono la pressione sulle labbra dei due e, contemporaneamente, appoggiarono le lame dei pugnali sui loro visi, facendoli rabbrividire al contatto del freddo metallo. Trascorsero attimi di grande tensione, ma poi non si udirono altri rumori o suoni che potessero destare sospetti. Fu Abed, che si trovava su Guido, a parlare, sussurrandogli: <<Ascoltami con attenzione: ora usciamo. Tu mi segui senza fare scherzi; se ci provi la ragazza muore. Se hai capito rispondimi chiudendo gli occhi due volte.>> Guido aveva capito perfettamente e si era reso conto, inoltre, che tentare una reazione sarebbe stato da irresponsabili. Non gli rimaneva che ubbidire, sperando che Katia facesse la stessa cosa! Chiuse gli occhi come gli era stato comandato ed attese! <<Bravo. Continua così, e non vi capiterà nulla di spiacevole! Ora ti tolgo la mano dalla bocca; ripeto: non fare scherzi.>> Abed alleggerì progressivamente la pressione che stava esercitando sulla bocca di Guido, saggiando sue possibili reazioni, pronto ad intervenire se non si fosse comportato come gli aveva ordinato, ma non ce ne fu bisogno: Guido non tentò nessuna reazione! Aveva deciso che, assecondarli, sarebbe stata la mossa vincente, per ora. Che stessero vivendo un sequestro era indubbio! Costatando la passività di Guido, Abed tolse la mano dalla sua bocca dandogli un leggero schiaffetto sulla guancia, per esprimergli compiacimento, per poi sussurrargli:

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<<Ora esco. Tu mi segui facendo attenzione a non fare rumore; Ricorda quello che ti ho detto a proposito della ragazza.>> Per essere più convincente, rivolgendosi a Faisal, gli disse: <<Tu sai cosa fare se questo fa degli scherzi.>> L’altro gli rispose con un cenno del capo, senza pronunciare parole e, contemporaneamente, aumentò la pressione sulla bocca di Katia, che insofferente, emise un borbottio soffocato, facendo raggelare Guido. Abed uscì dalla tenda arretrando carponi ed inginocchiatosi davanti all’apertura, intimò, muovendo la canna del mitra, a Guido di uscire. Cosa che lui non si fece ripetere! Faisal, chinandosi sul viso di Katia, le ripeté le frasi che Abed aveva detto a Guido poco prima, aggiungendo: <<Se fai la furba il tuo amichetto è morto!>> Lei dette il suo assenso chiudendo gli occhi due volte. Anche Katia aveva capito trattarsi di un sequestro e che bisognava collaborare. Di una cosa non si rendeva conto: perché fosse toccato proprio a loro! All’interno della tenda si ripeté la sequenza di gesti che poco prima avevano fatto Guido ed Abed e poco dopo anche lei era fuori. Mentre Katia usciva, il libico aveva legato le mani di Guido dietro alla schiena, sotto il tiro di Abed. A questo punto, con Guido immobilizzato, i tre poterono rilassarsi un poco, mentre, con attenzione, bloccavano i polsi di Katia, nello stesso modo che avevano usato con Guido. Bruscamente, il libico, che fino a quel momento aveva fatto da copertura, con un nastro adesivo sigillò le bocche dei malcapitati, per poi calare sulle loro teste un cappuccio di stoffa nera.

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Tutto si era svolto in pochi minuti e solamente al loro risveglio, i cinque del gruppo si sarebbero accorti dell’accaduto! Guido e Katia sentirono le canne dei mitra premere sulle loro schiene: era il segnale che li avvertiva d’iniziare a camminare. La loro reazione fu quella di rimanere fermi: senza poter vedere dove mettere i piedi, non sapevano come muoversi. Abed, intuendo la difficoltà in cui si trovavano, si avvicinò ai loro visi, ed a bassa voce li tranquillizzò, facendo capire loro che sarebbero stati guidati e che in presenza di ostacoli, avvertiti ed aiutati. Rincuorati, ma titubanti, iniziarono a muoversi nella direzione suggerita. Uscendo dalla tenda, non avevano avuto l’opportunità di portare con se nessun tipo d’indumento: neppure le scarpe! La distanza, che li divideva dall’auto in attesa, non era molta e dopo poco, con sorpresa, si abituarono a camminare nella condizione in cui si trovavano. Comunque, il percorso che fecero fu sufficiente a procurare ai piedi leggere abrasioni! Improvvisamente, dopo essere stati fermati, il libico tolse ad entrambi i cappucci per poi rimuovere i legacci che avevano ai polsi. Per ultimo, con gesto repentino, strappò il nastro che avevano sulla bocca. Katia emise un gemito e non poté fare a meno di pensare, per analogia, alla ceretta! Abed, che era entrato in auto, ne uscì con dei vestiti e due paia di scarpe. <<Su svelti, indossate questa roba.>> E, così dicendo, porse loro i kaftani che stava sorreggendo; al posto delle scarpe, diede loro dei sandali. <<Ora ti metto il turbante>> e rivolto a Guido gli fece cenno di abbassarsi.

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Terminato di avvolgere sul suo capo la lunga striscia di stoffa bianca, rivolgendosi a Katia, la esortò ad indossare il velo. Così conciati, i due sarebbero sembrati arabi! Abed e Faisal, dopo essersi consultati, decisero che sarebbe stato inutile bendarli e legarli nuovamente. Dall’interno dell’auto, di certo, non potevano fuggire e il loro eventuale gridare sarebbe stato del tutto ininfluente. Faisal si mise alla guida con accanto Abed. Dietro, Guido e Katia, mentre nei sedili posteriori presero posto i due libici. Raggiunta Ghat, abbandonarono la pista nel deserto ed imboccarono la strada per Sebha: le prime luci del giorno si stavano sostituendo alla notte e di lì a poco sarebbe sorto il sole! Karima, dopo aver cenato con Adam, aveva deciso di rimanere nella sua casa, ed ora stava dormendo fra le sue braccia. Omar, dopo essersi stiracchiato all’interno della tenda, decise di vestirsi e di uscire per allestire il campo. Li attendeva una nuova giornata di cammino e lui voleva sfruttare le ore fresche della mattinata. Fuori dalla tenda, notò immediatamente, che quella dei due italiani era aperta: che strano, pensò. Poi avvicinatosi, la sorpresa: era vuota! Abiti, scarpe e ogni altra cosa erano lì. Proprio non riusciva a capire. Osservando meglio, notò sulla sabbia tracce di piedi nudi e di scarponi, valutando la presenza di almeno altre tre persone!

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Fino a quel momento, storditi dagli eventi, Guido e Katia non avevano parlato fra loro: entrambi stavano riflettendo sull’accaduto cercando di immaginare come si sarebbe potuta evolvere la situazione in cui si trovavano. Guido, che dell’indipendenza aveva fatto la sua ragione di vita, era insofferente per averla, improvvisamente, persa. A lui, per ora, non importavano le implicazioni che si sarebbero potute innescare con il trascorrere del tempo; si sentiva ferito ed offeso nella sua dignità di uomo e in nome di questa sarebbe stato in grado e disposto a lottare. Sapeva poter disporre di energie e determinazione che in condizioni normali erano latenti. Katia, più concreta, si stava preoccupando delle conseguenze che il rapimento avrebbe potuto avere. Lei, alla sua vita teneva molto! Si chiedeva a chi mai potesse interessare la sua sorte. E per la prima volta in vita sua, pensando ai suoi familiari, lo fece mettendosi nei loro panni; rammaricandosi del dolore che avrebbero provato nell’apprendere la notizia. Soprattutto si preoccupava per la madre: proprio non se lo meritava! E si sentì in colpa. Poi ebbe la consapevolezza che le scelte fatte fino a quel momento erano frutto del suo egoismo. Quasi senza rendersene conto, scaricando parte della tensione accumulata, rivolgendosi ad Abed: <<Dove ci state portando?>> Abed, sorpreso di sentirsi rivolgere la parola da una donna, si girò verso di lei, la guardò in silenzio per qualche istante…poi: <<Dove, non ti deve interessare…ora taci.>> Guido, che aveva dato per scontata una risposta del genere e del tutto inopportuna la domanda, le dette una leggera gomitata. Lei capi!

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Omar, ripresosi dallo stupore e dall’indignazione, si impose la calma e di valutare la situazione in cui si trovava con freddo distacco. In questa ottica, decise di seguire le orme che aveva notato sulla sabbia. Non ebbe difficoltà a farlo. Il vento non si era ancora alzato e le impronte, lasciate dai sequestratori, erano ben evidenti sulla sabbia. Passo dopo passo, con lo sguardo costantemente rivolto al terreno, raggiunse una duna più alta delle altre; lì, le impronte non erano più ordinate: indicavano che le persone si erano sparpagliate entro un breve raggio, muovendosi disordinatamente. Salito sulla cresta della duna, vide quello che si aspettava: i segni dei pneumatici di un fuoristrada! Notò, inoltre, essere dello stesso tipo di quelli usati dalle vetture dell’agenzia per la quale lavorava! Se fino a quel momento aveva sperato di essersi sbagliato, ora aveva la conferma che si trattava di un sequestro. Quasi correndo tornò al campo. Voleva svegliare quello che rimaneva del gruppo e prendere delle decisioni con loro. Le ragazze, messe al corrente dell’accaduto, si lasciarono andare al pianto; mentre i ragazzi, increduli, rimasero in silenzio, attoniti. <<Ragazzi…sediamoci. Voglio fare il punto della situazione.>> Quando si rese conto che tutti sarebbero stati in grado di ascoltarlo, iniziò a delucidarli sugli aspetti oggettivi del momento. - Lui non possedeva un telefono satellitare e nel luogo in cui si trovavano non c’era segnale; quindi non si sarebbero potuti mettere in contatto con nessuno.

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- L’auto d’appoggio li avrebbe raggiunti nel punto stabilito a fine giornata: al termine della marcia che era stata programmata per quel giorno. Dopo aver ascoltato le parole di Omar, tutti furono d’accordo di rispettare il programma. Chiarito questo aspetto, Omar fece capire che il trekking doveva essere interrotto e che sarebbero tornati a Tripoli. Lì, sicuramente, la polizia avrebbe voluto ascoltare le loro testimonianze. L’auto, su cui viaggiavano Guido e Katia, non fu fermata durante l’attraversamento dei posti di blocco predisposti fra Ghat e Sebha. Militari svogliati, mentre l’auto procedeva a passo d’uomo davanti a loro, si limitarono a dare una sbirciata all’interno, per poi invitarli a proseguire con un cenno della mano. Abed sapeva che il gruppo degli escursionisti non si sarebbe potuto mettere in contatto con Tripoli prima di sera. Solamente al termine della giornata sarebbero riusciti a raggiungere Ghat. E lì avrebbero potuto telefonare! Era, quindi, di fondamentale importanza decollare da Sebha, con l’aereo di Guido, al più presto. Lui contava di poterlo fare in tarda mattinata! Quando furono a pochi chilometri dall’aeroporto di Sebha, Abed arrestò l’auto e rivolgendosi a Guido: <<Tu scendi con me e ti cambi d’abito.>> Guido non rispose: era sempre più insofferente e un sentimento di rabbia cresceva progressivamente in lui. Il rendersi conto di non poter fare nulla per contrastare la situazione in cui si trovavano, amplificava il suo senso di ribellione. Guido si rivestì, frettolosamente, con i nuovi indumenti: erano vestiti occidentali! Abed riprendendo a parlare:

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<<Ascoltami attentamente: entrambi andremo in aeroporto dove farai un piano di volo per Alessandria e specificherai la presenza di tre persone a bordo oltre te. La ragazza rimane in auto e se farai trapelare qualche cosa…muore.>> Anche questa volta, Guido si rese conto che non poteva opporsi, e suo malgrado dovette ubbidire. Ma una cosa disse: <<Alessandria? E’ fuori dalla mia autonomia!>> <<Non preoccuparti…capirai. Piuttosto: hai il GPS a bordo?>> <<Sì.>> Guido rimase stupefatto dalle parole di Abed: <<Come faceva a sapere del suo aeroplano? Come faceva ad essere a conoscenza che lo aveva hangarato a Sebha? E la domanda sul GPS?>> Agli interrogativi che si stava ponendo poteva esserci una sola spiegazione: i suoi movimenti erano stati seguiti! Ed il riferimento al GPS, unitamente all’impossibilità di raggiungere Alessandria, lasciava supporre l’eventualità di un atterraggio in un punto imprecisato dell’Egitto. Rientrati in auto, Abed chiese a Katia i documenti e la stessa cosa fece con Guido. Entrambi avevano l’abitudine di non separarsi mai dai loro passaporti e, sebbene avessero dovuto abbandonare la tenda in tutta fretta, li avevano con loro, chiusi in un contenitore che portavano in vita. In aeroporto Guido sbrigò velocemente le pratiche che gli avrebbero permesso di decollare con a bordo Katia, Abed e Faisal. Alle dodici e quarantasette minuti erano in volo, e dopo aver fatto quota mise la prua verso est. <<Stai basso!>> Gli disse Abed, che si era seduto dalla parte del copilota: alla destra di Guido.

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Lui lo guardò sornione, sapendo che gli altri dipendevano da lui per tutto il tempo che sarebbero rimasti in volo, e: <<Quanto basso?>> Gli rispose. <<Cento piedi.>> A quella quota avrebbero eluso la sorveglianza radar, caso mai ce ne fosse stato bisogno! Dopo una mezz’ora di volo Abed tornò a parlare dandogli le coordinate da inserire nel GPS. Cosa che Guido fece immediatamente. Voleva, infatti, scoprire dove sarebbero stati diretti: di loro non si fidava! La sua preoccupazione era rivolta all’autonomia dell’aereo e voleva verificare al più presto se il luogo identificato dalle coordinate, che gli erano state appena fornite, fosse stato raggiungibile con il carburante che aveva imbarcato prima del decollo. Sì lo era! La località si trovava in Egitto, poco oltre il confine con la Libia, in pieno deserto: a circa duecento chilometri dalla costa. Capì che avrebbe dovuto effettuare un atterraggio fuori pista, nel deserto, con tutti i rischi che ne sarebbero potuti conseguire, ma non se ne curò più di tanto. <<Katia…come stai là dietro? Ti piace il deserto dall’alto?>> <<Mi sto riprendendo, ma non riesco ad apprezzare il volo.>> <<Silenzio voi due!>> Faisal pronunciò quelle parole ad alta voce, con determinazione, puntando la canna della pistola alla nuca di Guido, che sorrise compiaciuto. Si sentiva sempre più padrone della situazione anche se doveva abbozzare! I due libici si sarebbero allontanati dall’aeroporto di Sebha di qualche centinaio di chilometri, abbandonando la vettura

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ai bordi della strada; per poi rientrare a Tripoli con mezzi di fortuna. In mattinata, all’oscuro di tutto, il titolare dell’agenzia turistica, che aveva organizzato il trekking nell’Akakus, aveva denunciato il furto della vettura ad un funzionario di polizia annoiato, che lo invitò a compilare un modulo, rassicurandolo che avrebbero fatto il possibile… e di attendere fiducioso. Il gruppo, con a capo Omar, procedeva nella marcia senza più alcun interesse per il paesaggio che stava attraversando: desideravano solamente arrivare al punto d’incontro con l’auto e ritornare a Ghat per dare l’allarme e mettersi al sicuro. In quell’immensità, considerando quello che era capitato ai due italiani, non escludevano potesse succedere anche a loro una cosa simile! I lavori di manutenzione sugli F 16, nella base dove prestava servizio il maggiore Adam, erano terminati. I piloti avrebbero dovuto fare un volo di allenamento, con lo scopo di verificare che tutto fosse a posto, dopodiché l’attività della base sarebbe tornata alla normalità. Lo specialista che, qualche giorno prima, aveva permesso, trafugando l’apparato preposto alla stabilità dell’F 16, ad Alì di manometterlo, aveva avuto l’ordine di montarlo nell’aereo di Adam. Il lavoro doveva essere fatto dopo i voli di prova che i piloti stavano effettuando in quella giornata. L’intenzione era, quindi, di provocare l’incidente nella giornata successiva! Karima aveva appreso, durante la permanenza a casa di Adam, che le prossime missioni, lui le avrebbe svolte in

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territorio ostile: doveva volare sul suolo giordano e fare delle foto con le macchine montate sul suo aereo. Le aveva spiegato che sarebbero stati voli a bassa quota, delle puntate veloci su certi obiettivi per poi rientrare, cercando di eludere la sorveglianza giordana. La zona dei sorvoli sarebbe stata nelle vicinanze di un campo profughi: quello di Irbid. Quando sentì pronunciare quel nome si incupì: era il campo dove era nata e dove si era delineato il suo destino: la sua storia partiva da lì! Ora, negli uffici del Mossad, stava studiando la cartografia dell’area che Adam avrebbe sorvolato nei prossimi giorni e nel farlo era come se fosse con lui. Erano luoghi a lei ben noti. Poteva vantarsi di conoscere ogni dettaglio del terreno, riconoscere, dalle carte e dalle foto satellitari, i luoghi in cui era avvenuta la sua formazione, dove si era allenata lungamente ed aveva imparato a volare, ma anche luoghi nei quali aveva sognato, fantasticando un futuro migliore per la sua gente. Luoghi in cui i suoi sogni erano stati manipolati, strumentalizzati da persone senza scrupoli. Non avrebbe mai perdonato i fautori di un piano così subdolo e vigliaccamente portato a termine! Si trattava, in definitiva, delle aspettative sognanti e pulite di un’adolescente e loro, con fredda determinazione, ne avevano abusato. Karima, per questo, si sarebbe sentita violentata per tutta la vita! Il destino, forse, l’avrebbe riportata in quei territori. Forse si sarebbe chiuso il cerchio o forse no. Certo era, che stava avvertendo l’ineluttabile scorrere degli eventi. Eventi che lei non avrebbe potuto modificare in alcun modo. Lei, in quei giorni, si percepiva come un pezzetto di un puzzle, di cui non riusciva a distinguere il disegno nella sua interezza, ma l’esistenza palpabile della trama, sì!

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Adam, a dodicimila piedi, avvolto dal blu cupo del cielo, manovrava l’F 16 con voluttuosa maestria, beandosi di come quell’aereo stesse rispondendo ai suoi comandi. Era qualche giorno che non pilotava ed ora stava dando libero sfogo al bisogno di librarsi nell’aria, senza essere soggetto a nessun tipo di vincolo. Spostando all’indietro la piccola barra che aveva sulla destra, fece compiere un looping all’aereo e quando lo ebbe livellato, spostandola completamente a destra, fece una serie di rolls. Era felice ed il suo pensiero corse a Karima! Fu in quel momento che il controllore di volo invitò i piloti a rientrare alla base. Cosa che fecero in sequenza. Quando i piloti allinearono gli F 16 nell’area di parcheggio era già pomeriggio inoltrato. Adam, dopo essersi cambiato ed aver espletato le incombenze che gli competevano, uscito dalla base, mentre si stava dirigendo verso casa, telefonò a Karima per farle un saluto ed invitarla a cena. Lei, senza pensarci due volte, accettò l’invito: si sarebbero visti nuovamente da lui, per cenare. Ancora un’ora di luce, poi la notte! Guido consultando il GPS, si rese conto che sarebbe giunto sulla verticale della zona, individuata dalle coordinate che Adam gli aveva fornito, volando ancora per circa venti minuti. Il constatarlo lo rincuorò moltissimo e mentre ragionava sulle caratteristiche del terreno circostante e sulle difficoltà che l’atterraggio avrebbe potuto avere, gli parve di vedere in lontananza, davanti a sé, una macchiolina scura sulla sabbia chiara. La grande trasparenza dell’aria, infatti, gli permetteva di distinguere particolari anche a grande distanza!

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In quei momenti, gli escursionisti, con alla guida Omar, giungevano nel luogo prestabilito: ad attenderli il 4X4 con il tuareg. Nel vedere che due di loro mancavano all’appello capì immediatamente la gravità della situazione e correndo incontro al gruppo, gesticolando con le braccia al cielo, rivolto ad Omar, cominciò ad interrogarlo ancor prima di essersi congiunto a loro. A pochi minuti dal luogo in cui avrebbe dovuto atterrare, Guido distingueva chiaramente un grosso mezzo, fermo sulla sabbia. << Vedi quel camion…vero?>> Gli chiese Abed. Guido non rispose, ma annuì con il capo. <<Bene…devi atterrare lì…e non fare scherzi.>> Nel pronunciare quelle parole, estrasse la pistola che teneva in una tasca dei pantaloni e la diresse verso un fianco di Guido. <<Tutta scena!>> Pensò Guido, ma, comunque, decise di informarlo delle manovre che avrebbe eseguito. <<Farò alcuni giri attorno alla zona d’atterraggio per verificare la morfologia del terreno.>> <<Sei tu il pilota…>> Dopo aver avvertito Abed, inclinò le ali dell’aereo ed iniziò a descrivere alcuni cerchi nell’aria, attorno al camion che li stava attendendo. Gli furono sufficienti due giri per rendersi conto del tipo di terreno sul quale avrebbe dovuto posarsi e decidere da quale parte effettuare l’avvicinamento finale: non era l’ideale per metterci le ruote sopra, ma sarebbe stato sufficiente per l’atterraggio!

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<<Ora inizio la procedura d’atterraggio…tranquilli, non ci saranno problemi.>> Rallentò l’aereo fino a raggiungere la minima velocità di sostentamento, per poi iniziare la discesa. Notò che i tre che aveva a bordo, si erano irrigiditi e, di questo, se ne rallegrò: sapeva che in quei momenti era lui ad avere il dominio della situazione! Il contatto del carrello con la sabbia fu morbido e la corsa di decelerazione breve. Avvolto da una nube di sabbia, sollevata dall’elica, l’aereo di Guido si fermò nei pressi del camion e dopo qualche istante l’elica cessò di girare. Uno dopo l’altro, tutti, scesero dall’aereo, stiracchiandosi a causa del lungo volo. A bordo del camion c’erano due persone che, vedendo l’aereo fermarsi nelle loro vicinanze, scesero ed avvicinatesi al gruppetto abbracciarono Abed e Faisal. Fra di loro parlottarono in arabo, impedendo a Katia e Guido di capire il senso di quello che stavano dicendo, poi Abed, rivolgendosi a Guido, lo invitò a predisporre l’aereo per il rifornimento. La cosa non fu semplicissima, ma alla fine i due serbatoi furono pieni di carburante. Intanto, alla luce dei fari del camion, montarono due tende che i nuovi arrivati avevano portato con loro: una per Guido e Katia, l’altra per Abed e Faisal. Questa volta fu quest’ultimo a parlare: <<Io e lui faremo la guardia, per tutta la notte, a turno, della vostra tenda…quindi niente scherzi! Uno di noi sarà costantemente qui. Mangiate queste cose, poi dentro. All’alba si parte.>> Poco dopo, dall’interno della loro tenda, Guido e Katia sentirono il camion partire ed allontanarsi velocemente. Sussurrando ed avvicinandosi a Guido, Katia iniziò a parlargli:

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<<Ho paura…cosa ne pensi di tutto questo?>> <<Ma…lo vedi pure tu: ci hanno rapito e la cosa sembra organizzata molto bene.>> <<Tu hai paura?>> <<No.>> <<Dove pensi ci porteranno?>> <<Considerando l’autonomia dell’aereo e la probabile provenienza di quei due, là fuori…>> Katia lo interruppe: <<Da dove pensi provengano?>> <<Penso siano palestinesi.>> <<Ah…quindi?>> <<Quindi, potremmo essere diretti in Libano, in Giordania oppure in Siria.>> <<Tu pensi che una di queste destinazioni sia più probabile delle altre?>> <<Non ne ho la più pallida idea, ma domani, quando mi forniranno le nuove coordinate, lo saprò.>> <<Pensi che ci potrà capitare qualche cosa di brutto?>> <<Ne so quanto te; comunque, penso che l’esito dipenderà da come il nostro governo imposterà la trattativa per la nostra liberazione e da come reagirà l’opinione pubblica.>> Ed aggiunse: <<Purtroppo né io né te siamo conosciuti! Meglio che dormiamo, domani dovrò pilotare per parecchio.>> <<Hai ragione, notte.>> Fuori dalla tenda Faisal, seduto a terra con le gambe incrociate sulle quali teneva il mitra, fumava tranquillo: per lui erano iniziate le prime due ore di guardia! Omar era giunto a Ghat, senza perdere tempo, si era recato nella piccola stazione di polizia, dove aveva informato

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dell’accaduto il funzionario di turno, che a sua volta si era messo in contatto con Sebha. Da Sebha la notizia era, poi, stata fatta giungere a Tripoli. Qui avevano deciso di attendere l’arrivo del gruppo. Le autorità locali volevano raccogliere le testimonianze delle singole persone, solo in un secondo momento, avrebbero avvertito dell’accaduto l’ambasciata Italiana. Ad Alessandria d’Egitto, dove sarebbe dovuto atterrare l’aereo di Guido, non avendo ricevuto alcuna comunicazione da parte del pilota, era scattato l’allarme. Infatti, a quell’ora, l’aereo aveva esaurito il carburante già da parecchio. Gli addetti alle emergenze, conoscendo la velocità del velivolo, la rotta presunta e l’autonomia, avevano individuato un probabile settore circolare, dove compiere le ricerche che avrebbero fatto iniziare all’alba del giorno seguente: causa l’oscurità. Katia ed Adam, dopo aver cenato, stavano conversando amabilmente: in quelle ore lui le descriveva le modalità con le quali si sarebbero svolte le missioni che avrebbe compiuto nei giorni successivi, polarizzando la sua attenzione. Ad un certo punto, lei lo interruppe: <<Se ti dovesse capitare qualche cosa mentre sei in volo?>> <<Spiegati, sei vaga.>> <<Non so…un’avaria o peggio se fossi colpito!>> <<Beh… c’è sempre la possibilità di saltare fuori e scendere con il paracadute.>> <<Ed a terra…cosa succede?>> <<Dovresti saperlo…>> <<Già…scusa.>>

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Ad entrambi quelle argomentazioni stavano strette e per scaramanzia, cambiarono argomento. Adam le accarezzò dolcemente i capelli per poi baciarla. Lei ricambiò stringendosi a lui, mentre lacrime silenziose le solcavano le guance. Lui, tacendo, con le labbra gliele asciugò e annegando il suo sguardo in quello di Karima assorbì il dramma che da anni teneva gelosamente nascosto! Quella sera la coccolò senza nulla chiedere. Per sapere, per capire avrebbero avuto tempo!

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Vivi come se dovessi morire domani Impara come se dovessi vivere per sempre M. Gandhi

Il sole non era ancora sorto quando Faisal, in malo modo, puntandogli il mitra sul viso, svegliò Guido e con la stessa modalità Katia. Guido, che fino a quel momento era stato calmo, si innervosì ed a stento trattenne l’impulso di reagire. In altre circostanze avrebbe aggredito quell’uomo, ma ora sapeva che non poteva farlo: era in minoranza e, inoltre, c’era Katia. Le tende, dopo essere state smontate, furono sepolte sotto la sabbia per evitare che qualcuno potesse scorgerle: le ricerche sarebbero iniziate a breve! Il tempo di scaldare il motore ed i quattro erano nuovamente in volo.

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Guido non attese che Abed gli rivolgesse la parola e: <<Dove mi devo dirigere?>> Senza rispondergli, Abed gli porse un foglietto di carta spiegazzato, che fino a quel momento aveva tenuto in una tasca dei pantaloni. Guido lesse le coordinate e le memorizzò nel GPS: la rotta che avrebbe dovuto seguire puntava verso la Giordania e, conseguentemente, volare per quasi cinque ore. Senza aspettare che glielo dicessero, si portò a cento piedi di quota per poi concentrarsi sulla rotta. <<Bravo…vedo che hai capito come ti devi comportare!>> <<Perché, ho alternative?>> <<No.>> Ricordandosi di quello che aveva promesso a Katia la sera precedente, girando leggermente il capo verso di lei, le disse: <<Siamo diretti in Giordania, ma troppo lontani per poter stabilire in quale zona. Quando lo saprò te lo comunicherò.>> <<Grazie Guido.>> Questa volta i due palestinesi non intervennero! Omar ed i suoi sarebbero giunti a Tripoli in serata: dovevano raggiungere Sebha e di lì, con l’aereo, Tripoli. L’intelligence libica, nel frattempo aveva scoperto che da Sebha era decollato Guido con il suo aereo e che a bordo c’erano Katia ed altre due persone. Sapevano, inoltre, che non erano giunti ad Alessandria! La conclusione a cui arrivarono era ovvia: i due italiani erano stati sequestrati, ma non potevano sapere dove sarebbero stati nascosti. Comunque in giornata si sarebbero messi in contatto con il Cairo e l’ambasciata italiana di Tripoli.

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Due elicotteri, per non perdere tempo, furono fatti decollare da Sebha, con l’ordine di perlustrare la zona fino al confine con L’Egitto. Nella base dove prestava servizio il maggiore Adam, gli specialisti addetti ai servizi di terra stavano preparando due F 16: quello di Adam e del suo gregario. Karima e Adam si erano svegliati l’una nelle braccia dell’altro; lei rannicchiata in posizione fetale e lui che l’avvolgeva da dietro, accogliendo quel corpo caldo fra le braccia. Entrambi, desiderando mantenere quella posizione, rimasero a lungo immobili. Lei beandosi del senso di protezione che ne riceveva, lui sentendosi teneramente importante, dandogliela. Ma la simbiosi, che si era stabilita fra i due, non poteva protrarsi a lungo: Adam doveva presentarsi alla base ad un’ora stabilita! Dolcemente, sussurrandole tenere parole, le fece capire, riportandola alla realtà, che era giunto il momento di pensare ad alzarsi. <<Hai ragione, ma si sta troppo bene, così…>> Gli disse, stirandosi come una gatta e sgusciando via dall’abbraccio di Adam. Lui sospirando e imitandola negli atteggiamenti, saltò giù dal letto e cominciò a prepararsi per la giornata che lo attendeva. Uscendo, si salutarono sull’uscio di casa. Lo fecero nel modo che si addice a due innamorati: con un abbraccio. Karima, quasi presentisse qualche cosa di funesto, si strinse lungamente a lui, tanto che Adam, avvolgendo con le sue mani i polsi di lei, dovette porre fine a quell’abraccio.

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<<Sii prudente, quando rientri fammi aspetto.>> <<Tranquilla…al mio rientro ti chiamo.>>

sapere,…ti

Guido aveva le membra che iniziavano a dolergli. Più di tre ore erano trascorse dal decollo: sotto di lui il mar Rosso, poi avrebbero sorvolato la Giordania. Ancora non lo poteva affermare con sicurezza, ma considerando il punto d’arrivo che vedeva sullo schermo del navigatore satellitare, gli sembrava poter affermare che la loro destinazione avrebbe potuto essere una zona dello Wadi Run (Il deserto rosso). Lui aveva esplorato anni prima quei luoghi e ne era rimasto affascinato. Li ricordava come magici! Ora, con molta probabilità, vi era nuovamente diretto, ma con tutt’altre aspettative. Durante il volo non aveva rivolto la parola a Katia, per evitare di sentirsi rimproverato da uno dei due palestinesi, ma ora che era quasi sicuro della destinazione: <<Ti confermo che stiamo andando in Giordania: in particolare nello Wadi Run.>> Katia non rispose e fece bene a non farlo, perché Abed, sentendo pronunciare quel nome, urlando, gli intimò di tacere. Il comportamento del terrorista fu per Guido la conferma di ciò che aveva pensato: erano veramente diretti nel deserto rosso! In Libia, gli elicotteri che si erano levati in volo, dopo aver perlustrato il settore loro assegnato, stavano rientrando. Su quegli stessi mezzi, di li a poco, equipaggi freschi, avrebbero sostituito i colleghi continuando la ricerca.

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In Egitto, a differenza dei libici, stavano impiegando aviogetti. La scelta era stata fatta considerando la notevole velocità di quei mezzi, che si sarebbe tradotta in una maggiore probabilità di intercettare l’aereo di Guido, nel caso stesse ancora volando nei cieli egiziani. Ma anche per loro, le ricerche non avevano dato risultati positivi, fino a quel momento. Adam, con a fianco l’aereo del gregario, stava allineandosi sulla pista. Un ultimo controllo degli strumenti, poi spostò, con decisione, la manetta in avanti: a fondo corsa. Il motore ruggì violentemente e l’aereo, dopo un attimo di inerte indecisione, si avventò sulla pista. Il nastro bianco, che ne segna la mezzaria, iniziò a scorrere davanti a lui, sempre più velocemente, suggerendo ad Adam di dirigere lo sguardo verso un punto lontano, dinanzi a lui. L’accelerazione fu progressivamente violenta, tanto da schiacciarlo sullo schienale del seggiolino; poi spostò, delicatamente la piccola barra, all’indietro. Pochi secondi e l’F 16 puntava, con decisione, il muso verso il blu del cielo: sembrava volesse penetrarlo. La rotta era verso Est, la quota molto bassa: quasi a sfiorare il terreno, per evitare di essere avvistati dai radar giordani. Adam sapeva che quella sarebbe stata una missione a rischio, se non altro perché dovevano entrare in territorio giordano, ma non era preoccupato più di tanto. Di voli simili né aveva compiuti altri: facevano parte del suo lavoro! Considerando la distanza da percorrere ed il tempo che doveva rimanere sull’obiettivo, aveva stimato che il volo

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sarebbe durato circa quarantacinque minuti. Si rilassò ulteriormente, concentrandosi sui comandi. Superate le alture del Sinai, a Guido rimaneva poco più di un’ora di volo per giungere nel punto indicato sullo schermo del GPS. Ora non aveva più dubbi: si dirigevano nello Wadi Run! In quel momento stavano sorvolando l’Arabia Saudita e lo avrebbero fatto ancora per poco: la Giordania era lì davanti a loro! Faisal e Abed sembrò che gli avessero letto nel pensiero. Iniziarono a parlottare fra di loro, ed a un certo punto, Guido sentì nominare, chiaramente, la Giordania. I due si erano rilassati, evidentemente cominciavano a sentire aria di casa e stavano dando per scontata la buona riuscita dell’operazione che avevano intrapreso. Katia continuava a tacere, di essere rimproverata dai suoi sequestratori non le andava proprio. Preferiva ignorarli, assumendo un atteggiamento di altezzoso disprezzo. Nei loro confronti covava un odio smisurato, tanto da desiderarne la morte. Durante le lunghe ore di volo aveva impegnato la mente con fantasie cruente, nelle quali immaginava morti atroci per i due palestinesi. Più volte si era detta: <<Ma come hanno osato privarmi della mia libertà?>> Katia si sentiva violentata nell’animo e nel corpo da quei due sconosciuti. Per lei, quello che stava subendo, era un’onta smisurata. Tale che sarebbe stata disposta anche a pagare con la vita, se la situazione fosse precipitata. Per ora scaricava tutta la sua rabbia serrando con forza le mani e conficcandosi le unghie nei palmi.

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Guido non si era reso conto del dramma che la sua compagna di sventura viveva: aveva scambiato il suo mutismo per un silenzio di circostanza, di rassegnazione. Al contrario, lei si stava caricando sempre più con il trascorrere del tempo, come una molla. Prima o poi sarebbe esplosa! Adam, quasi sull’obiettivo, avvertì una leggera vibrazione che si propagò su tutta la cellula. Istintivamente fece salire l’F 16, pensando di aumentare il margine di manovra se qualche cosa non fosse andato bene. Spostando il capo a sinistra ed a destra, controllò la superficie delle ali, notando un leggero tremolio sugli alettoni. Interrompendo il silenzio radio, avvertì il suo gregario della cosa, ordinandogli di aumentare la distanza che li separava. Cosa che eseguì all’istante. Con cautela provò a saggiare il comportamento dell’aereo, muovendo la barra, e fu in quel momento che l’F 16 iniziò a comportarsi come un cavallo pazzo. La quota che aveva raggiunto gli permetteva di continuare ad insistere sui comandi, con l’intento di normalizzare il volo, ma fu tutto inutile. Gli sforzi che fece, per stabilizzare l’aereo, peggiorarono le cose e lui, perso il controllo del velivolo, decise di saltare. Il compagno, che aveva assistito a quanto era appena accaduto, continuò a sorvolare la zona, fino a quando vide Adam toccare terra, appeso al paracadute. Era sceso in pieno deserto: nello Wadi Run. A quel punto trasmise alla base le coordinate del punto dove era caduto il compagno di volo ed abbassandosi, fino a sfiorare il terreno, invertì la rotta, dirigendosi verso l’aeroporto da cui era decollato.

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I capi dell’organizzazione palestinese, che sapevano approssimativamente dove Adam sarebbe stato costretto ad abbandonare l’F 16, allertarono un gruppo di quattro uomini affinché si mettessero alla ricerca del pilota israeliano. Questi non persero tempo, e dopo aver allestito un 4X4, partirono alla ricerca di Adam. Nella base da cui erano decollati i due F 16 era stata indetta una riunione per discutere, con il pilota superstite, dell’accaduto. In prima istanza, tutto lasciava supporre che si fosse trattato di un’avaria alla catena dei comandi, magari dovuta alla recente manutenzione a cui erano stati sottoposti gli aerei. Ma ora, dovevano dare la priorità al recupero del pilota. Il problema apparve subito molto difficile da affrontare, per il fatto che il salvataggio era da farsi in territorio nemico. In tutti i modi sarebbe stata un’azione di guerra, da condurre segretamente in stretta collaborazione con il Mossad. Gli israeliani non avrebbero, in alcun modo, potuto giustificare la presenza dei loro aerei sul territorio giordano! Guido, osservando gli indicatori del livello di carburante, si rese conto che ne avrebbe avuto ancora per poco e, comparando l’informazione appena rilevata con i dati del GPS, concluse che sarebbero giunti sul punto convenuto appena in tempo. Comunque mancava veramente poco alla destinazione: circa quindici primi! Finalmente la piccola croce sullo schermo del navigatore iniziò a lampeggiare e Guido notò sulla sabbia rossa una macchia scura. Non aveva ancora terminato di realizzare che si trattava di una tenda di beduini, che Abed gli disse: <<Vedi quella tenda? Dobbiamo scendere lì.>>

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compiuti alcuni giri, per averne conferma, decise di configurare l’aereo per l’atterraggio, che avvenne senza alcun problema. A terra, dopo essere scesi dall’aereo, a Guido ed a Katia furono legate le mani dietro la schiena ed introdotti all’interno della grande tenda. Dentro c’erano due beduini che li stavano attendendo: avevano preparato tè alla menta per tutti! A Guido, la cosa parve stonare con il contesto in cui si trovavano, ma non aveva considerato l’antico rituale dell’ospitalità beduina! Accanto alla tenda c’era un automezzo e di lì a poco si rese conto del perché. Faisal gli fece cenno di uscire, liberandogli le mani e quando furono fuori: <<Facciamo il pieno.>> Senza fare commenti Guido tolse i tappi di chiusura dei serbatoi e travasò il carburante da quella specie di autocisterna improvvisata, augurandosi che la benzina fosse priva di impurità! Subito dopo l’aereo fu ricoperto con un telo mimetico. Terminata l’operazione lo riportarono nella tenda, legandogli nuovamente le mani e mentre subiva la legatura pensò: <<Forse dovremo fare altri spostamenti. Contrariamente non si spiegherebbe la necessità del pieno.>> In pieno deserto, Adam, dopo essersi adoperato per liberarsi dal paracadute, aveva scavato con le mani un buco nella sabbia per seppellirvi ogni cosa che potesse contribuire alla sua localizzazione, ma era cosciente di essere un obiettivo facilmente individuabile: dal luogo in cui si trovava non vedeva nascondigli.

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Sapeva dove si trovava e valutò che gli sarebbero voluti circa quattro giorni di marcia per percorrere i centoventi chilometri che lo separavano dal confine con Israele. Con lui aveva acqua e cibo a sufficienza per il periodo stimato, a patto che li avesse razionati. Decise, inoltre, di liberarsi della tuta di volo, rimanendo in maglietta, e per copricapo utilizzò un fazzoletto. Non gli rimaneva che consultare la bussola ed iniziare la marcia puntando verso Ovest. Se avesse trovato un riparo lungo il percorso, vi si sarebbe nascosto, aspettando la notte per marciare. In quel modo avrebbe risparmiato energie, acqua e non sarebbe stato facilmente individuabile. Sperava, comunque, che i suoi si sarebbero attivati per trarlo in salvo. Con lui aveva il localizzatore elettronico e per loro sarebbe stato facile trovarlo! Nella sede centrale del Mossad i dirigenti, il comandante della base di Adam e Karima discutevano sull’accaduto con l’intento di mettere a punto un piano d’intervento per recuperare Adam. Quando Karima aveva appreso il nome del pilota, pur avendo mantenuto il controllo, si era sentita profondamente turbata ed aveva pensato che tutto si stava compiendo. Come se si fosse trattato di un copione! Ma pensava, anche, che avrebbe lottato per difendere il loro amore appena nato. Non sarebbe passato molto tempo ed il Mossad avrebbe avuto a disposizione la documentazione fotografica, ricavata dalle riprese satellitari. Con le informazioni che ne avrebbero ricavato, unitamente ai segnali emessi dal localizzatore di Adam, lo avrebbero individuato facilmente. Rimaneva, comunque, la problematica relativa alla

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violazione del territorio giordano, ma quell’ostacolo non era possibile rimuoverlo! Abed, dopo essersi consultato con Faisal, lo lasciò a guardia dei due prigionieri per poi allontanarsi dall’accampamento con il mezzo che era servito per rifornire l’aereo di Guido. Era sua intenzione raggiungere i suoi per riferire come si era svolto il rapimento e mettere a punto i dettagli della trattativa, che sarebbe iniziata nei giorni successivi, con il governo italiano. Adam, in lontananza, vide una sagoma scura emergere, evanescente, dal rosso della sabbia e stagliarsi sullo sfondo blu del cielo. Si fermò per meglio valutare cosa potesse essere. Il sudore che gli imperlava la fronte, non più trattenuto dalle sopracciglia inzuppate, gli stava colando all’interno degli occhi, procurandogli forti bruciori ed impedendogli di avere una visione nitida. Portandosi l’avambraccio sulla fronte, prima, e sugli occhi poi, con un movimento strisciante, cercò di liberarsi dal sudore, riuscendoci in parte. Osservando, con maggiore attenzione, la macchia che vedeva davanti a sé, concluse che, con ogni probabilità, poteva essere una tenda di nomadi beduini e decise che vi si sarebbe diretto, confidando nella loro ospitalità. Con il diminuire della distanza, Adam ebbe la conferma che l’ipotesi che aveva fatto era giusta. Confortato, accelerò il passo. Non era più preoccupato di disperdere acqua con il sudore: sicuramente le persone che stava per incontrare lo avrebbero rifornito e rifocillato. Poche centinaia di metri separavano Adam dalla tenda. Lui si fermò improvvisamente: c’era qualche cosa che non lo convinceva, che lo aveva messo in allerta.

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Istinto…non supportato da nulla! Si stese sulla sabbia e facendo leva sui gomiti, portando le mani agli occhi a mo’ di binocolo, cercò di cogliere tutti i dettagli del luogo dove stava dirigendosi. La tenda era sicuramente quella dei nomadi beduini, inconfondibile nella forma e nei colori. Accanto a questa vide alcune capre e qualche bidone, poco discosti, due cammelli sonnecchiavano accovacciati. Nessuna traccia di persone: sicuramente erano all’interno per ripararsi dal sole! Ah…ecco cosa stonava: un telo mimetico ricopriva un qualche cosa di indefinito, ma di grosse dimensioni. Osservò meglio, cercando di indovinare cosa potesse essere nascosto là sotto, ma non arrivò a nessuna conclusione. Adam indugiò in quella posizione per alcuni minuti, poi si girò, rimanendo disteso sulla schiena, ad occhi chiusi, con il sole che lo martellava. Quel grande telo non lo convinceva: <<Cosa ci faceva nelle vicinanze di una tenda di nomadi, che per loro natura e cultura si spostano frequentemente?>> Si disse che la cosa presentava una contraddizione, ma che doveva decidere sul da farsi: fermarsi o passare oltre! Optò per la prima ipotesi e, rimessosi in piedi, riprese a camminare nella direzione della tenda con lo sguardo fisso alla forma indistinta, celata dal telo mimetico. A circa quaranta metri dall’accampamento non ebbe più dubbi e fu folgorato dalla conclusione a cui era arrivato: il telo celava un aeroplano! Non aveva ancora finito di chiedersi cosa potesse fare lì un aeroplano, che vide uscire dalla tenda una persona. Imbracciava un mitra e glielo stava puntando addosso. <<Fermo dove sei.>>

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Gli disse, avanzando lentamente verso di lui, con il busto leggermente girato verso destra e proteso in avanti. Adam pensò: <<Sono fregato: è un terrorista palestinese.>> Maledicendo, in cuor suo, il momento in cui aveva preso la decisione di cercare rifugio nella tenda dei beduini! Poteva essere chiunque, si disse Faisal, ma quando fu a pochi metri da Adam, notando la piastrina di riconoscimento che il nuovo venuto portava al collo,concluse che doveva essere un pilota Israeliano. Il luogo dove si trovava, glielo confermava. Tutto quadrava con l’azione che avevano messo a punto coinvolgendo Alì. In quel momento, pensando alle incertezze che avevano avuto circa l’impiego dell’ingegnere, si sentì sollevato e fu grato a quel ragazzo così riservato. Faisal era solo, ma doveva immobilizzare il pilota israeliano! Cominciò con l’intimargli di sdraiarsi a pancia in giù e di tenere le mani dietro la schiena. Con cautela si avvicinò a quel corpo disteso sulla sabbia. L’intenzione era di legargli le mani, ma quando gli fu sopra, Adam, con un guizzo, ruotando su se stesso, lo colpì con i piedi uniti sul ventre, facendogli perdere l’equilibrio. Faisal cadde a terra sulla schiena, ma riuscì a mantenere il mitra puntato su Adam. <<Fermo!>> Adam non avendo alternative, non reagì. <<Se lo rifai ti ammazzo.>> E con la rapidità di un serpente, lo colpì sul viso, con il calcio del mitra. Senza emettere un suono, Adam stramazzò a terra, svenuto. Quando rinvenne era all’interno della tenda, la mandibola gonfia e dolorante.

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Rannicchiati davanti a lui, sul lato opposto della tenda, c’erano Guido e Katia che lo guardavano con apprensione. Lui non capì immediatamente dove era e la situazione in cui si trovava, ma trascorsi i primi istanti di disorientamento, si rese conto del contesto: era in compagnia di due prigionieri come lui. Osservando gli abiti della coppia che gli stava davanti ,concluse che erano civili e che quindi doveva trattarsi di un sequestro! Omar e il rimanente del gruppo, giunti a Tripoli, in un anonimo ufficio di polizia, avevano terminato di raccontare come erano venuti a conoscenza della scomparsa dei due italiani. Fu a quel punto che la diplomazia libica si mise in contatto con l’ambasciata italiana in loco, fornendole tutte le informazioni in suo possesso. Negli uffici del Mossad, utilizzando gli occhi elettronici dei satelliti, erano riusciti ad individuare la zona dove era precipitato Adam, ma cosa ancor più sorprendente, possedevano le riprese dei movimenti del loro pilota e sapevano dove si trovava. Sapevano anche, sempre in virtù del materiale fotografico pervenuto dai satelliti, della presenza di Guido, di Katia e dell’aereo. Dall’elaborazione delle immagini, erano riusciti a scoprire cosa c’era sotto il telo usato per ricoprirlo e di che tipo si trattava. Con quell’aeromobile sarebbe stata sufficiente circa un’ora di volo, per uscire dalla Giordania ed entrare in Israele; in quel modo non avrebbero dovuto varcare i confini dello stato Giordano con i loro mezzi! La persona, a cui era stato affidato il coordinamento del salvataggio di Adam, rivolgendosi a Karima:

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<<Avrai capito che, per raggiungere il nostro pilota, sarà necessario essere paracadutati nei pressi della tenda che abbiamo visto…te la senti di andare là e tornare con l’aereo?>> Karima non aspettava altro e non si fece ripetere la domanda: <<Sono qui per questo.>> Fu la risposta. <<Ma ho una domanda da fare>> : <<Come mai un aereo nel deserto?>> <<Ancora non lo sappiamo, ma è solo questione di tempo, poi ti saprò rispondere. Solamente quando avremo tutto chiaro, entrerai in azione.>> L’ambasciatore italiano a Tripoli, a sua volta, aveva messo al corrente il ministero degli esteri dell’accaduto e un funzionario si era prodigato per contattare i familiari di Guido e Katia. Fu Renato a ricevere la telefonata. Quando sentì il telefono trillare, considerando l’ora tarda, fu tentato di non rispondere, ma poi, sollecitato dalla moglie, lo fece. Quando capì di cosa si trattava rimase senza parole. Ascoltò in silenzio e solo alla fine pronunciò con un filo di voce un grazie, per poi riattaccare. Con poche, sterili parole mise al corrente Maria che, incredula, scoppiò in un pianto irrefrenabile. Silvano avrebbe appreso la notizia solo più tardi, al suo rientro a casa. Nell’abitazione di Guido il telefono suonò a vuoto parecchie volte e a più riprese: nessuno rispose, la casa era vuota e solo periodicamente una collaboratrice domestica vi si recava per le pulizie.

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La notizia sarebbe diventata di dominio pubblico l’indomani, durante la prima edizione del telegiornale! Il direttivo della cellula, a cui apparteneva anche Alì, quella sera stessa si era riunito per ascoltare il resoconto di Abed e stabilire la gestione del sequestro degli italiani. Faisal non era presente e i sei non sapevano della cattura di Adam! Prese la parola quello che sembrava il capo del gruppo e, rivolgendosi ad Abed: <<Per prima cosa ci vogliamo congratulare con te: tu e Faisal avete portato a termine una missione condotta in modo magistrale, ancora complimenti ed un grazie da parte di tutti.>> E continuando: <<Ti informo, inoltre, che il lavoro di Alì ha già dato i suoi frutti: oggi è precipitato un F 16 ed i nostri stanno cercando il pilota. Riprenderanno le ricerche con le prime luci dell’alba.>> <<Se sei d’accordo, dopo esserti riposato, darai il cambio a Faisal.>> <<Sì d’accordo.>> <<Piuttosto, che tipi sono gli italiani?>> <<Tranquilli…penso che non daranno problemi.>> Poi discussero sul come gestire la trattativa inerente il sequestro, concludendo all’unanimità, che avrebbero atteso due giorni, prima di comunicare al governo italiano le loro richieste: denaro e la liberazione di due fratelli, attualmente ospiti delle carceri italiane. Mentre il direttivo palestinese discuteva, Karima era stata, nuovamente, convocata nell’ufficio del suo capo. <<Cosa c’è di nuovo?>>

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Chiese entrando nella stanza. <<Siamo arrivati alla conclusione che non è opportuno, paracadutarti nelle vicinanze della tenda. <<Fatemi capire.>> <<E’ semplice: sentirebbero il rumore dell’aereo che ti porta fin là!>> <<Ah…avevo trascurato questo particolare, avete ragione, ma l’alternativa qual’è?>> <<abbiamo un piccolo aliante che pensiamo di agganciare sotto la fusoliera di un aereo da trasporto e di sganciarti a trenta chilometri dall’obiettivo.>> <<Trenta chilometri? Ma siete sicuri che da quella distanza riuscirò a volare fino alla tenda?>> <<Sì, l’aliante ha un’efficienza di quaranta, il che significa che, se ti sganciamo da mille metri, sarai in grado di volare per quaranta Chilometri, prima di toccare terra.>> <<Sì, vero.>> <<Comunque, per sicurezza, sarai sganciata ad una quota superiore.>> <<Tutto chiaro: a me sta bene, anzi, preferisco così. A quando la partenza?>> <<Domani sera. Ti senti pronta?>> <<Sì…sono pronta.>> L’interno della tenda era illuminato da qualche candela. Seduti su tappeti di lana, con le gambe incrociate e le braccia legate dietro la schiena, i tre prigionieri riflettevano in silenzio sulla situazione in cui si trovavano: ognuno a modo suo! Katia soffriva la mancanza di libertà, la costrizione a cui era costretta soggiacere e il fatto di essere la sola donna fra tutti uomini. Lei sperava che Guido riuscisse ad eludere la

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sorveglianza e che la portasse in salvo con l’aereo. Ma la sua era una tenue speranza. Fino a quel momento lui si era dimostrato arrendevole. Se avesse dovuto esprimersi in base ad una valutazione obiettiva dei fatti, avrebbe dovuto concludere, che non era l’uomo su cui poter contare, ma lei continuava a sperarci. Guido, contrariamente a ciò che pensava Katia, non aveva mai smesso un solo istante di valutare ogni dettaglio in funzione della loro fuga, ma fino a quel momento non si era presentata nessuna opportunità che avrebbe potuto fargli intravvedere la possibilità di fuggire. Tanto valeva starsene tranquillo e non insospettire i carcerieri. Adam aveva concluso che era il caso di non azzardare colpi di mano, per il momento. Era sicuro che i suoi avrebbero fatto di tutto pur di liberarlo! Fu Guido a rivolgere la parola, per primo, ad Adam: <<Mi chiamo Guido e vengo dall’Italia, lei è Katia. Siamo stati rapiti durante un trekking in Libia.>> <<Io sono Adam, un pilota israeliano. Il mio aereo è precipitato ed io sono saltato fuori. Il destino ci ha fatto incontrare!>> Guido aveva capito la situazione di quel pilota e non sarebbe, di certo, mai voluto essere nella sua condizione. Per loro si trattava, certamente, di un riscatto; per lui sarebbe stata questione di vita o di morte, senza considerare gli interrogatori a cui lo avrebbero sottoposto. Adam interruppe i pensieri di Guido chiedendogli: <<L’aereo là fuori, è tuo?>> <<Sì, è mio.>> A quelle parole Adam si illuminò. Divideva la sorte con un altro pilota…e l’aeroplano avrebbe potuto diventare una formidabile opportunità per fuggire! <<E’ da molto che voli?>>

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<<Una vita.>> In quel momento Faisal li zittì, ma questa volta usò un tono meno perentorio del solito. Diminuita la tensione del sequestro, si stava rilassando e poteva permettersi di fare affiorare anche sentimenti di pietà per quelle persone. << Cercate di dormire!>> La mattina seguente, Abed decise che sarebbe rimasto per una giornata al campo profughi: Feisal se la sarebbe cavata anche senza di lui, considerando il contesto in cui si trovava! Sbagliava: non sapeva di Adam. Karima, terminato da poco il controllo delle armi con le quali aveva riempito una sacca di robusto tessuto nero, sentì suonare il cellulare: era il suo capo che la convocava. <<Come va Karima? Pronta?>> <<Bene. Sì, pronta.>> <<Andiamo alla base dove si trova l’aliante di cui ti ho parlato.>> <<Ok. Sono curiosa di vederlo.>> I due, seguiti da quattro agenti, si mossero velocemente per le vie di Tel Aviv e in breve raggiunsero l’aeroporto militare. L’aliante era veramente piccolo ed il colore nero lo faceva sembrare ancora più minuto di quello che in realtà era. Karima non aveva mai volato con un aeroplano di quel tipo e dimensioni. L’impressione che ne ricevette fu di fragilità, ma nello stesso tempo di grande efficienza. Avvicinatasi, aprì il tettuccio e, facendo attenzione a non danneggiare nulla, si insinuò nel minuscolo abitacolo.

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Con sua sorpresa, constatò che la seduta era più comoda di quello che aveva pensato. Tutti i comandi erano stati disposti tenendo conto dell’ergonomia e la strumentazione basica, completa. Notò, inoltre, che dietro al capo c’era un piccolo vano di carico, che le avrebbe permesso di porvi il sacco con le armi. <<Veramente tutto a posto!>> Pensò soddisfatta.

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Diventi responsabile per sempre di chi hai addomesticato A. de Saint-Exupèry

Durante il telegiornale del mattino fu data la notizia del rapimento di Guido e Katia. L’annunciatrice, sinteticamente, riferì le generalità dei due malcapitati, il luogo del sequestro e lo scopo per il quale la coppia si trovava in Libia, sottolineando il particolare che i due non si conoscevano e che si erano trovati, contemporaneamente, coinvolti nel sequestro per puro caso. La notizia fu appresa dai genitori di Katia che, davanti al televisore, speravano di ricevere nuovi dettagli da aggiungere alle informazioni ricevute la sera precedente, ma non fu così, con loro disappunto.

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Anche Carlo sentì la notizia, mentre stava bevendo il caffè nella sua casa, rimanendo con la tazzina a mezz’aria. Ripresosi dallo stupore la posò, con un gesto lento della mano, sul tavolo. Federico era in Hangar, quando apprese la notizia del rapimento di Guido dalla radiolina portatile, che teneva costantemente accesa vicino a sé durante il lavoro. Angela, mentre si recava in ufficio con l’auto, ascoltando il notiziario trasmesso dalla radio, trasalì, venendo a sapere di Katia. Per non correre il rischio di avere un incidente, accostò fermandosi. Al termine della notizia, stentò a ripartire, incredula, aspettando che il tremore alle gambe le passasse. Nuovamente in strada, si propose di telefonare ai genitori di Katia, non appena giunta in ufficio. In Egitto, fin dalle prime ore del mattino, erano riprese le ricerche, ma ovviamente senza nessun risultato. Tre palestinesi avevano ricominciato la ricerca di Adam, senza sapere che era stato catturato da Faisal e che questi avrebbe avuto bisogno di aiuto per meglio gestire la prigionia degli italiani e del pilota israeliano. Durante la notte appena trascorsa, Guido, Katia ed Adam non erano riusciti a dormire, causa le mani legate dietro la schiena e le caviglie unite da lacci di cuoio. Faisal li aveva ulteriormente legati per non correre rischi e potersi permettere di riposare. I beduini, che davano loro ospitalità, avevano accettato di farlo, ma non volevano essere coinvolti attivamente nel sequestro.

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Guido e Adam, quando si resero conto che Faisal stava dormendo profondamente, confrontandosi l’uno con l’altro, decisero che non era ancora il momento di tentare un’azione per sopraffare il loro carceriere. Avrebbero atteso ancora un giorno, poi, se l’intelligence israeliana non fosse intervenuta, avrebbero cercato di liberarsi vicendevolmente, ed in seguito rendere inoffensivo Faisal. Katia si era offerta di slegare con i denti Guido, e lui a sua volta, avrebbe liberato Adam. Sussurrando, Katia s’inserì nella discussione fra i due uomini, facendo osservare che: <<Secondo me non è opportuno aspettare che passi un’altra notte. Non possiamo escludere che arrivino altre persone per aiutare Faisal.>> Adam riflettè su quelle parole concludendo che la ragazza aveva ragione. I suoi, con l’aiuto dei satelliti avrebbero potuto seguire, comunque, i loro movimenti ed intervenire. Rivolgendosi a Guido: <<Cosa ne pensi? Per quanto mi riguarda sono d’accordo di anticipare a questa notte.>> Guido tacque per alcuni secondi, poi: <<Sì, vada per questa notte.>> Durante il parlottare dei tre, Faisal aveva continuato a dormire pesantemente e la stessa cosa avevano fatto i beduini. Messa a punto la loro strategia, i prigionieri tacquero per non approfittare della situazione favorevole che si era verificata, attendendo pazientemente il da farsi. Karima , nella base dove si trovava il piccolo aliante, aveva contribuito ai lavori di messa a punto del velivolo, seguendo, in particolare, la fase di aggancio sotto la fusoliera di un grande C 130. I preparativi si protrassero per gran parte della

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giornata non lasciandole il tempo per distrarsi e permettendole, in parte, di scaricare la tensione di quelle ore. Quando i lavori d’aggancio dell’aliante sotto la fusoliera del grande aereo da trasporto furono terminati, Karima rimase ad osservare per qualche minuto l’accostamento dei due velivoli restando colpita dalla differenza delle dimensioni. L’aliante sembrava un fuscello rispetto al C 130! Avvicinatasi a quel curioso connubio, salendo su di una scaletta metallica, sgusciò all’interno dell’abitacolo del minuscolo velivolo, constatando, nuovamente, la buona ergonomia che offriva, poi si fece allungare da uno specialista il contenitore delle armi che dispose nell’alloggiamento che si trovava dietro la schiena. Per simulare la condizione di volo, abbassò sul capo il tettuccio, chiudendolo. Rimase così, isolata dall’ambiente circostante. I rumori le giungevano ovattati e lei, avvolta da quell’angusto abitacolo, si sentì protetta, quasi come se si trovasse all’interno del ventre materno. Chiuse gli occhi, abbandonandosi ad un dolce torpore, al quale si compiacque di cedere. I piedi sfioravano la pedaliera, l’avambraccio sinistro poggiava sulla coscia e con tre dita della mano destra reggeva la barra di comando. Cercò di immaginarsi il volo che avrebbe compiuto fra qualche ora e l’incursione per liberare Adam, concludendo che quella sarebbe stata l’ultima pagina del libro che era iniziato tanti anni prima, quando era stata reclutata per far parte di una cellula eversiva palestinese. Ora ne voleva iniziare un altro: l’ultima pagina del vecchio sarebbe stata l’introduzione al nuovo! Rimase, perdendo la coscienza del tempo che trascorreva, chiusa nell’abitacolo ancora per molto, fantasticando sulla vita che avrebbe trascorso con Adam, poi una voce

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pronunciò il suo nome e lei dovette imporsi di tornare alla realtà, aprendo gli occhi. Era il suo capo. <<Karima è ora che tu scenda.>> A malincuore aprì il tettuccio e, senza rispondere, scese dall’aereo. <<A che ora è previsto il decollo?>> <<Alle due del mattino. Avrai quattro ore d’oscurità. Ora è meglio che tu vada a riposare. Cerca di dormire…ti avviseremo noi quando sarà il momento.>> Insieme si diressero verso una zona riservata agli alloggi e lì giunti, si salutarono. Karima si sentiva pronta e calma. Per la prima volta, da quando era un’agente della CIA, stava operando per salvare una vita e non per sopprimerne una! Faisal aveva slegato le caviglie dei suoi prigionieri. Quel gesto avrebbe alleviato il loro disagio, permettendo loro di sgranchire le gambe ed assumere posizioni più comode. Katia, per tutto il tempo della prigionia non aveva mai completamente smesso di pensare alla sua famiglia, mettendo in discussione i sentimenti che fino a quel momento aveva avuto nei confronti dei genitori. In particolare era turbata per l’atteggiamento che aveva verso suo padre. E, dopo tanto pensare sofferto, era arrivata alla conclusione che, non potendo scegliere i genitori, occorre avere la forza e l’umiltà di accettarli per quello che sono. Essenziale, era riuscire ad avere un sentimento compassionevole nei loro confronti; nel senso di pacata condivisione delle loro limitazioni. Sì, doveva essere proprio così! Meravigliandosi di essere giunta a conclusioni simili, si sentì tranquilla ed in pace con se stessa.

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Guido avrebbe voluto confrontarsi con Adam, ma la situazione non glielo permetteva. Faisal, molto attento, non permetteva che parlassero fra loro. Era, inoltre, piuttosto nervoso e stanco. Stava accusando il peso di dover gestire, da solo, la prigionia di quelle tre persone. Non riusciva a spiegarsi il perché dell’assenza di Abed o di altri compagni. Da qualsiasi angolazione considerasse la cosa, concludeva che al campo si stavano comportando come dei dilettanti e che se fosse successo qualche cosa di anomalo, la responsabilità non sarebbe certamente stata sua. All’interno della tenda la temperatura era salita notevolmente: Guido, Adam e Katia, pur non facendo movimenti, sudavano copiosamente e, quasi senza rendersene conto, si abbandonarono in un dormiveglia riparatore del disagio che erano costretti a gestire, cadendo in uno stato semi vegetativo. Tutti avevano iniziato una sorta di conteggio alla rovescia. Non potendo consultare l’orologio, cercavano di farsi un’idea dell’ora sbirciando, di tanto in tanto, fuori dalla tenda, con lo scopo di valutare la dimensione dell’ombra che proiettava sulla sabbia: più lunga fosse stata, più vicino sarebbe stato il tramonto. Un’ulteriore informazione, che potevano ricevere, era dall’intensità della luce all’esterno. Adam prima di assopirsi ritenne che il tramonto era prossimo, congratulandosi della cosa. Alla stessa conclusione era arrivato anche Guido, che decise di provare a dormire un poco. Katia, osservando quei due compagni di sventura, provò gratitudine nei loro confronti, pensando a quello che avrebbero fatto fra qualche ora e, seduta con le gambe

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incrociate, cercò di mettere in pratica quello che le aveva insegnato il suo maestro di meditazione. Abed, dopo aver parlato con alcuni membri del direttivo, decise di partire per raggiungere Faisal. Aveva calcolato che sarebbe arrivato da lui circa alle ventidue, pensando fosse l’ora giusta per dargli il cambio. A breve sarebbe calata la notte e lui, protetto dall’oscurità, si sarebbe mosso con maggiore sicurezza sulla pista diretta alla tenda dove si trovava Faisal. Karima dormiva pesantemente, quando fu svegliata dal suono del telefono. Sul momento ebbe qualche difficoltà a rendersi conto di dov’era e di quanto aveva dormito. Ancora non completamente lucida, protese un braccio verso il cellulare e: <<Chi parla?>> <<Devi cominciare a prepararti. A minuti saremo da te.>> << Ok…mi sbrigo.>> Immediatamente riprese consapevolezza della situazione e, come una molla, saltò giù dal letto. Con altrettanta velocità indossò la tuta nera, progettata per il combattimento, che aveva preparato prima di coricarsi, accanto al letto. Poco sotto il ginocchio destro introdusse, nell’apposito alloggiamento, un pugnale, poi cinse la vita con un cinturone corredato dalla fondina della inseparabile beretta. Prima di inserirvi la pistola la controllò con cura accertandosi che fosse carica. Infine agganciò alcuni caricatori, altri li introdusse nelle tasche cucite sulla parte anteriore della tuta. Il rimanente dell’armamento lo aveva collocato all’interno della borsa che si trovava già sull’aliante. Terminò, calzando

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un paio di scarponcini che le fasciavano le caviglie, fin quasi ai polpacci. Davanti allo specchio, appeso sopra un minuscolo tavolino, dove erano stati appoggiati alcuni barattoli contenenti il necessario per il trucco notturno, si cosparse il viso con una pomata di nero fumo. Dopo aver terminato il mimetismo, della sua carnagione olivastra non era rimasto nulla. Solo il bianco degli occhi risaltava sul volto! Mentre controllava il risultato del trucco mimetico, sentì bussare alla porta: <<Avanti.>> Entrò il suo capo, che senza preamboli, dopo aver notato che aveva terminato la vestizione, le disse: <<Andiamo.>> <<Ti seguo.>> Abed stava guidando con prudenza, districandosi fra le cunette ed i dossi che incontrava sulla pista, quando sentì un forte rumore di metallo lacerato. Il volante gli girò fra le mani, mentre l’auto si inclinava sul fianco sinistro. Imprecò in silenzio, poi scese per controllare cosa era accaduto. Alla luce della torcia elettrica si rese conto che una balestra aveva ceduto. In quelle condizioni non poteva, certamente, continuare il viaggio! Scartò immediatamente l’ipotesi di tornare al campo profughi, da dove era partito, avendo già percorso gran parte del tragitto. L’unica possibilità, per raggiungere Faisal, era quella di mettersi in marcia. Acqua e viveri ne aveva e, se i suoi calcoli non erano sbagliati, lo avrebbe raggiunto a circa metà giornata.

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Prima di allontanarsi dall’auto, maledisse il fatto che in quelle zone non c’era campo per comunicare con il cellulare, poi, dopo aver riempito una sacca con acqua e viveri, si allontanò dal fuoristrada, che così inclinato su un fianco, sembrava una bestia agonizzante. Nella tenda illuminata dalla luce tremolante, prodotta da una lanterna alimentata con petrolio, l’unico rumore era il ronfare sordo di Faisal che prima di cedere al sonno, aveva ripetuto il rituale della sera precedente, legando le caviglie dei tre. Sicuro della loro inoffensività, dopo averli osservati, abbandonati nel loro falso sonno, a sua volta si concesse qualche ora di riposo. Prima di addormentarsi, pensando ai compagni del campo, li rimproverò mentalmente, ritenendo disdicevole l’averlo lasciato solo con i prigionieri, prendendosela soprattutto con Abed. Katia attese ancora circa un’ora prima di muoversi. Lo fece con grande cautela! Sapeva che le prime ore di sonno sono quelle più pesanti e lei doveva agire durante quel lasso di tempo. Strisciando come un rettile, si avvicinò a Guido che nel vederla muoversi, si girò sulla pancia. Assumendo quella posizione, le avrebbe offerto la possibilità di accedere agevolmente ai polsi, legati dietro la schiena. Ogni piccolo movimento che faceva, produceva un leggero fruscio dovuto allo sfregamento della stoffa dei vestiti con la lana dei tappeti, che fungevano da pavimento della tenda. Katia percepiva quel leggero rumore come se fosse amplificato, interrompendo bruscamente l’avvicinamento a Guido, ogni volta che si produceva, rallentando notevolmente il suo avanzare.

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Guido e Adam avrebbero voluto incitarla a velocizzare, ma entrambi rimasero in silenzio pensando di non influenzarla. Karima era calma. Tutte le volte che si apprestava ad iniziare una missione, il condizionamento mentale, che le era stato insegnato, prendeva il sopravvento sulle emozioni, e lei si trasformava in una perfetta macchina da combattimento. Aveva chiuso da pochi istanti il tettuccio dell’aliante, acceso le luci dell’abitacolo e messo in funzione gli apparati di bordo, quando sentì la voce del pilota del C 130 chiederle: <<Tutto bene?>> <<Tutto bene.>> <<Bene. Avvio i motori. Sentirai delle vibrazioni, non preoccuparti, è normale.>> Karima non rispose, limitandosi a pigiare per due volte il pulsante del PTT, in segno d’assenso. Era vero…le vibrazioni erano molto forti e, se non fosse stata avvertita, si sarebbe preoccupata. Il rumore dei quattro motori, amplificato per via della posizione in cui si trovava, era assordante e la sistemazione in cui si trovava la faceva sentire in una condizione precaria. In quel momento il pilota le comunicò che avrebbero iniziato il rullaggio e di mantenere centralizzati i comandi per tutta la durata del volo. Giunto il momento dello sgancio, l’avrebbe avvertita. Lei attivò il navigatore, nel quale erano state inserite, preventivamente, le coordinate del punto in cui si sarebbe staccata dal C 130; in quel modo poteva seguire l’evolversi del volo. Il controllore del traffico, in quel momento, dette l’autorizzazione al decollo ed il pilota, già allineato sulla pista, spinse in avanti le quattro manette senza tentennamenti. I motori, al massimo della potenza, scossero

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l’aereo, che iniziò la corsa di decollo e dopo una manciata di secondi erano in aria. Istintivamente, Karima aveva mantenuto la mano sulla barra di comando, come se pilotasse. Quando si rese conto della cosa, sorrise ed allentò la presa. Doveva, comunque, mantenere i comandi centralizzati, come gli aveva detto il pilota del grosso aereo a cui era agganciata. Non ci volle molto per raggiungere il punto di sgancio e quando il pilota le comunicò che erano in zona, lei già si era preparata per farlo, avendolo appreso dallo schermo del GPS. <<Sei pronta?>> <<Sì, pronta.>> <<Ok. Buona fortuna…vai.>> Karima avvertì un leggero rumore metallico e, quasi per incanto, sopra di lei era scomparsa la pancia dell’aereo che l’aveva trasportata fin lì. Lo vide ancora per poco davanti a sé, poi scomparve nell’oscurità. La decelerazione che subì fu violenta e lei si guardò bene d’intervenire sui comandi. La velocità era troppo alta! Con pazienza aspettò che diminuisse fino al raggiungimento del valore di crociera, per poi impostare le coordinate della zona in cui si trovava Adam e dirigervisi. Avrebbe percorso la distanza che la separava dalla tenda dei beduini in circa 15 minuti. Il tempo era poco, doveva concentrarsi sul da farsi! Al chiarore della luna, giunta sulla verticale del luogo previsto per l’atterraggio, distinse senza difficoltà l’obiettivo. Decise che avrebbe toccato terra a qualche centinaio di metri dalla tenda, per poi raggiungerla a piedi. Non voleva correre il rischio di farsi sentire in alcun modo!

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Katia, durante il volo d’avvicinamento di Karima, era riuscita, non senza sforzo, a sciogliere, con i denti, i legacci che serravano i polsi di Guido. Lui, con le mani libere, aveva tolto i lacci alle caviglie, e mentre Karima, toccato terra, stava scendendo dall’aliante, iniziava a slegare le corde che immobilizzavano Katia. Faisal, ignaro di tutto, continuava a dormire profondamente. Intanto, con grande attenzione a non fare rumore, Karima si era avvicinata alla tenda. Era lì davanti a lei, a pochi metri di distanza. Da una fessura della stoffa fuoriusciva una tenue luce. Sentì chiaramente il ronfare di Faisal ed alcuni rumori indistinti. Decise di avvicinarsi ulteriormente e di sbirciare all’interno dalla fessura da cui proveniva la luce. Incredula, vide Guido che stava liberando Adam e dal lato opposto della tenda, Katia. Una sola persona era armata e stava dormendo! D’istinto entrò ed appena si trovò all’interno urlò: <<A terra.>> Girandosi verso Faisal, che si era svegliato di soprassalto, sparò una raffica verso il soffitto, per poi puntargli il mitra addosso ed ordinargli di allontanarsi dalla sua arma. Faisal ubbidì senza tentennamenti. Aveva capito immediatamente che se voleva vivere, non doveva opporre resistenza. I beduini non si erano mossi e, tremanti, continuavano a stare sdraiati a terra. Karima, rivolgendosi a Guido, lo esortò a terminare il lavoro di slegatura, porgendogli il pugnale che aveva portato con sè. Guido liberò Adam in un istante e lui, senza che nessuno glielo dicesse, s’impadronì del mitra di Faisal. Il gioco era fatto!

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A Faisal fu intimato di sdraiarsi a terra, a pancia in giù e, mentre Karima lo teneva sotto tiro, Adam lo legò, immobilizzandolo. La stessa sorte toccò ai beduini, anche se innocui. Adam e Karima si guardarono, per la prima volta da quando lei aveva fatto irruzione nella tenda, rimanendo per qualche istante immobili, per poi, fatti alcuni passi l’uno verso l’altra, abbracciarsi teneramente. Quel gesto fu l’innesco affinché la tensione, che si era instaurata in seguito all’irruzione di Karima, si dileguasse. Katia, seduta a terra, abbracciava le ginocchia che aveva avvicinato al petto, appoggiando la fronte su queste. La schiena, ricurva, era scossa da fremiti continui, che tradivano un pianto irrefrenabile. Guido le si avvicinò e, senza parlare, inginocchiandosi accanto a lei, le accarezzò più volte i capelli, attendendo che la crisi nervosa, di cui era preda, terminasse. Per Karima la missione era, di fatto, terminata e rivolgendosi ad Adam con tono tranquillo: <<Tutto bene?>> <<Sì, tutto bene. Ma con cosa sei arrivata fin qui?>> <<Con un aliante. Un C 130 mi ha trasportata a circa 30 chilometri da qui, poi mi sono avvicinata planando.>> <<Bella trovata. Noi non ci siamo accorti di nulla!>> <<Beh, lo scopo era questo.>> <<Di questi stronzi cosa ne facciamo?>> <<Li lasciamo qui, legati. Sicuramente arriveranno i loro compari.>> <<Sì, concordo.>> Ed indicando Guido e Katia: <<E loro due?>> <<Guido e Katia sono due turisti italiani che erano stati rapiti. Vengono con noi. Guido possiede un aereo che si trova sotto un telo, qui accanto.>>

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<<Ma tu come ci sei finito insieme a loro?>> <<Per puro caso. Mentre mi allontanavo dal luogo in cui ero precipitato.>> Katia, nel frattempo, si era calmata e Guido pensò che poteva parlarle: <<Katia è tutto finito, tranquilla, ora ce ne andiamo.>> Lei non gli rispose, con entrambe le mani si asciugò le lacrime, facendo seguire quel gesto da alcuni respiri profondi; lo guardò, ed appoggiando una mano a terra, si mise in piedi. Per poi pronunciare a bassa voce e con il capo chino un grazie. Rivolta a Karima ed ad Adam disse semplicemente: <<Mi chiamo Katia.>> I due, con altrettanta semplicità, sorridendole, pronunciarono i loro nomi. Era giunto il momento di pensare concretamente alla fuga. Adam, rivolgendosi a Guido, gli chiese se fosse disposto a pilotare il suo aereo, ricevendo una risposta affermativa. Intanto Karima aveva estratto da una tasca della tuta una minuscola scatolina. <<E quella che cos’è?>> Le chiese Adam. <<Un telecomando per innescare l’autodistruzione dell’aliante. Non possiamo permetterci di lasciarlo a loro.>> Non aveva ancora terminato la frase, che Adam la vide premere un pulsante rosso che sporgeva da un lato della scatola. Qualche istante dopo, udirono una deflagrazione seguita da un intenso bagliore. Del piccolo aliante rimanevano solo alcuni frammenti sparsi tutt’intorno!

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Le due ragazze presero posto sui sedili posteriori dell’aereo di Guido che, aprendo la portiera, si accorse dell’assenza delle chiavi. Poco male, pensò. A bordo, ne portava sempre un set di riserva, per ogni evenienza. <<Adam, dammi le chiavi. Sono nella tasca alla tua destra.>> <<Eccole. Come stai con il carburante?>> <<C’è il pieno.>> <<Ottimo…dai metti in moto.>> Guido si crucciò di non poter fare i controlli pre volo a causa dell’oscurità e della necessità impellente di decollare. Il motore partì al primo colpo, con sollievo di tutti e, dopo aver raggiunto il punto da dove avrebbe iniziato la corsa di decollo, dette tutta manetta. Guido, avvicinando a sè la barra di comando, alleggerì il ruotino anteriore, per minimizzare il più possibile i sobbalzi dovuti alle irregolarità del terreno, aspettando di raggiungere la velocità che gli avrebbe permesso di staccarsi da terra. La corsa fu più lunga del solito: il terreno sabbioso li rallentava ed erano a pieno carico! Adam notò, fin dalle prime fasi del volo che Guido non era un pivello e che si era diretto verso Ovest, volando molto basso, concludendo che aveva fatto le scelte giuste. <<Dove vi porto?>> <<Mantieni questa rotta. Quando saremo in territorio israeliano ti dirò dove andare, poi farò io le comunicazioni radio.>> <<Ok.>> <<Ricorda che dobbiamo superare delle montagne.>> <<Sì, lo so. Comunque grazie.>> Dietro, le ragazze avevano fraternizzato e Katia, superato il momento dell’incursione di Karima, stupita che la missione

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fosse stata affidata ad una donna, la stava tempestando di domande. Karima, da professionista qual’era, le rispondeva, ma le diceva quello che voleva, dandole l’impressione di essere esauriente senza, però, esserlo. Il volo sarebbe stato piuttosto breve: circa un’ora. Guido aveva già le montagne in vista e sapeva che, superatele, sarebbe stato in territorio israeliano. Iniziò la salita, considerandosi oramai fuori pericolo. La stessa cosa aveva pensato Adam. Adam, impaziente, quando capì che avevano attraversato il confine che separa Israele dalla Giordania, rivolgendosi a Guido: <<Se non ti dispiace posso prendere io i comandi…>> Guido, che da sempre era geloso del suo aereo, gli rispose che preferiva continuare. Adam capì e non se ne fece un problema. <<Come preferisci. Mi limiterò alle comunicazioni radio, prima che ci intercettino i ricognitori.>> Fu così che alla base di Adam ed al Mossad appresero della loro liberazione. Nel frattempo due F 16, levatisi in volo, li avevano intercettati e, dopo averli affiancati li scortarono all’atterraggio. A terra, auto con le sirene spiegate li guidarono nella zona a loro riservata e quando scesero dall’aereo Karima ed Adam, circondati da un nugolo d’agenti, furono separati da Katia e Guido, ai quali toccò la stessa sorte. Fecero appena in tempo a salutarsi, ripromettendosi di rivedersi appena possibile, poi furono letteralmente inghiottiti da quegli uomini.

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Il locale, dove Guido e Katia vennero portati, era arredato in modo accogliente. Seduto su di una imponente poltrona girevole, dietro una grande scrivania di legno scuro, con il piano ricoperto da una spessa lastra di vetro, c’era un uomo, sulla cinquantina. Quando li vide entrare, si alzò e, girando attorno alla scrivania, andò loro incontro, porgendo la mano sorridendo. Parlava perfettamente l’italiano, sinteticamente, spiegò loro quello che sarebbe successo nelle ore successive e la versione ufficiale che sarebbe stata resa di dominio pubblico. - Loro erano riusciti a liberarsi senza l’intervento di Karima. - Erano, quindi, fuggiti con l’aereo di Guido, dirigendosi in Israele, dove avevano chiesto asilo. - Del pilota israeliano non dovevano fare menzione. - L’ambasciatore italiano sarebbe stato informato della cosa e loro avrebbero confermato. Sorridendo: <<Siete d’accordo?>> Guido e Katia si guardarono in silenzio, ma poi assentirono. <<Bene, capite che la questione è delicata: mi riferisco alla presenza del nostro pilota…e della ragazza.>> <<Sì, lo capiamo.>> Poi pose davanti a loro una dichiarazione da firmare, dove era stato messo per iscritto ciò che quella persona aveva esposto. Dopo che ebbero firmato, il tono della voce e l’espressione del viso del loro interlocutore cambiò: era diventato serio e parlava con una cadenza che non ammetteva repliche: <<Ovviamente tutto ciò che ci siamo detti non dovrà uscire da questa stanza. E’ un segreto che vi dovrete tenere per tutta la vita.>> <<Diversamente…noi sapremo raggiungervi ovunque.>>

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<<Abbiamo capito.>> Ancora una volta aveva risposto Guido per entrambi. <<Bene, ora vi porteremo alla vostra ambasciata.>> Stavano uscendo dalla stanza, quando Guido si girò e, pensando di interpretare anche il pensiero di Katia, disse: <<Desidereremmo rivedere Adam e Karima…se possibile.>> <<Vedrò cosa si può fare…, ma considerando quanto ci siamo detti, non prometto nulla…>> In Ambasciata furono accolti con calore, ma anche qui, terminata la fase dell’accoglienza, vollero sapere le modalità in cui si era svolto il rapimento ed a tale proposito furono invitati a non tralasciare nulla. Quando il funzionario, che li aveva ascoltati, valutò che non avevano altro da aggiungere, rivolgendosi a Guido: <<Lei come pensa di rientrare in Italia?>> Guido, senza riflettere, rispose: <<Con il mio aeroplano.>> <<Immaginavo…e quando?>> <<Quando non lo so. Mi dia il tempo di riflettere. Magari ne riparleremo nei prossimi giorni…possiamo considerarci vostri ospiti?>> <<Sì, certamente.>> <<E lei signorina?>> <<Io…con un aereo di linea, ma dia anche a me il tempo di riflettere.>> <<Certamente, domani ne riparleremo. Sa… i media hanno il diritto di sapere…>> <<Ora sarete stanchi…vi faccio accompagnare alla vostra stanza.>> Katia e Guido incrociarono gli sguardi, ma non dissero nulla. Ad entrambi stava bene condividere la stessa camera!

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Poi, fu Katia a parlare per prima: <<Io sono stanchissima…cosa ne pensi se ci coricassimo?>> <<Condivido…tempo per discorrere ne avremo dopo che ci saremo riposati.>> Non avevano di che cambiarsi e, vestiti com’erano, si abbandonarono pesantemente su quel letto anonimo, senza storia per loro. Il sonno li avvolse quasi contemporaneamente e fu loro custode per tutta la giornata. Un bussare insistente e privo di garbo li riportò alla realtà: avevano dormito fino a sera, senza interruzione. <<Sì?...chi è?>> <<Scusate, l’ambasciatore vi sta attendendo per la cena…>> <<Ah…qualche minuto e siamo pronti.>> <<Vi attendo qui per farvi strada.>> <<Grazie.>> Nello stesso momento, Adam e Karima, nell’abitazione di lui, stavano adoperandosi per preparare la cena. Adam, mentre Karima era intenta a cucinare, preparava la tavola. Era orgoglioso della sua donna: sì,…anche se non ne avevano ancora parlato, la considerava tale ed in cuor suo, dava per scontato che, da quel momento, avrebbero iniziato una vita di coppia. Le modalità, considerando il lavoro di lei, sarebbero state tutte da definire, ma la cosa non lo preoccupava. Pensava che qualsiasi tipo di difficoltà sarebbe stata superata se subordinata al desiderio di fondere le loro vite. Fin dalla sera che la vide per la prima volta, la sua attenzione fu polarizzata dalla personalità di Karima.

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Aveva colto che quel bellissimo corpo celava un misterioso travaglio e che l’atteggiamento spavaldo che ogni sua movenza esprimeva, altro non era che una copertura a conflittualità antiche. Contrariamente a quello che il modo di porsi di Karima avrebbe potuto trasmettere, si sentì pervaso da una dolce tenerezza, che intuiva poter manifestare con comportamenti protettivi. Razionalmente non era riuscito a spiegarselo, ma della razionalità, in quel contesto, a lui importava poco. Prendeva atto di assorbire le fragilità nascoste di Karima e di volerla proteggere da se stessa. Mentre era immerso in queste riflessioni, che lo avevano distolto dalle mansioni domestiche, senti la voce di Karima, proveniente dalla cucina, che gli comunicava: <<La cena è pronta.>> <<Arrivo con i piatti.>> Stupito del ruolo che gli era piaciuto assumere, raggiunse Karima. Lei lo attendeva orgogliosa, desiderosa di offrigli il lavoro che aveva appena concluso e con l’aspettativa di ricevere i suoi complimenti. Cucinare non era mai stata un’attività dalla quale si era sentita attratta, ma quella sera si era compiaciuta, facendolo. Aveva capito e assaporato che, con quel fare semplice ed antico, stava dicendogli: sono innamorata di te. Ma Karima andò oltre. Come un edificio che si sgretola, scosso dal sisma, così gli schemi mentali, le certezze a cui aveva attinto fino ad allora si dissolsero. Fra la polvere delle macerie, spazzata via dal soffio dell’amore, ora poteva intravedere la possibilità di vivere diversamente. Quella sera avrebbe cercato di comunicare ad Adam, mettendo ordine nei pensieri, le sue sensazioni.

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Magari…semplicemente, con un bacio, dato in punta di piedi, abbracciandolo teneramente.

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17 Sii sempre il meglio di ciò che sei. Martin Luther King

Seduti ad un tavolo troppo grande per tre persone, Guido e Katia conversarono amabilmente con l’ambasciatore italiano per tutta la durata della cena. La stanza nella quale si trovavano, arredata con gusto sobrio, era stata preparata per l’avvenimento: venne loro spiegato che non capitava tutti i giorni di ospitare italiani reduci da un sequestro! L’ambasciatore, desideroso di conoscere i particolari del rapimento, fece tante domande riguardanti l’argomento e in più di una occasione lasciò trapelare ammirazione per la loro capacità d’inventarsi l’avventura e rammarico per non avere, lui stesso, mai avuto capacità simili, disdegnando la vita sedentaria che da sempre aveva condotto. Ma inevitabilmente, quando notò che l’atmosfera era diventata

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meno formale, ritornò sull’argomento riguardante il loro ritorno in Italia. Era importante che lui conoscesse le intenzioni che avevano maturato. Capiva che tutto era successo molto velocemente, troppo velocemente, che erano stanchi, ma il ministro degli esteri premeva per sapere. A sua volta doveva rendere conto anche agli organi di stampa. Insomma, loro due non potevano comportarsi sottovalutando quanto aveva appena esposto. Guido abbassò la testa e rimase per un attimo pensieroso, mentre Katia, con alcuni movimenti del capo, tradì nervosismo. Guido, pur rimanendo seduto, allontanando la sedia dal tavolo, spiegò che sarebbe partito nell’arco delle ventiquattro ore successive. Aveva bisogno di un giorno per organizzarsi e riposare. <<Bene.>> Commentò l’ambasciatore e continuando: <<Se ho ben capito lei desidera tornare, servendosi del suo aereo?>> <<Sì, con il mio aereo.>> <<Ha già pensato alla rotta che seguirà?>> <<Farò domani il piano di volo.>> <<D’accordo, me lo comunichi quando lo avrà realizzato. Penseremo noi ad inoltrarlo ed a contattare le autorità competenti.>> <<Grazie, lo farò.>> L’ambasciatore, rivolgendosi a Katia: <<E lei signorina, cosa mi dice?>> <<Posso prendermi, ancora, un poco di tempo?>> <<Ho già spiegato che devo dare delle risposte…>> Katia portò una mano sul capo, per poi abbassarla velocemente, e sbalordendo tutti:

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<<Non torno in Italia.>> Un silenzio imbarazzante seguì le sue parole, poi fu l’ambasciatore a parlare per primo: <<Si spieghi meglio.>> <<Semplicemente…desidero continuare il mio viaggio e fare l’esperienza che mi ero proposta quando sono partita.>> <<E cioè?>> <<Avevo deciso di staccare dal lavoro per qualche mese. Non ho intenzione di rinunciare.>> Sorpreso da tanta determinazione cocciuta: <<Ah…dove si dirigerà?>> <<Kenia, Tanzania, Madagascar…poi non so. Mi pensi una foglia trasportata dal vento.>> <<Buon per lei…le auguro che i miei superiori le permettano di realizzate il suo progetto.>> <<Bene signori…si è fatto tardi ed abbiamo definito il programma per i prossimi giorni.>> L’ambasciatore, alzandosi dal tavolo, dette loro la buona notte, per poi allontanarsi dalla stanza. In camera, fu Guido a parlare per primo: <<Sai…mi hai stupito con la tua uscita. Proprio, non avrei mai immaginato che tu volessi continuare il viaggio.>> Katia rimase in silenzio mentre aggirava il letto. Quando lo ebbe affiancato si sedette, facendolo cigolare e con i gomiti poggiati sulle ginocchia, racchiudendo il viso fra le mani, tacque a lungo. Guido, rispettandola, attese, tacendo. Aveva intuito che quella ragazza stava vivendo un travaglio: forse neppure lei sapeva cosa desiderava veramente fare. <<Capisco che la mia decisione possa sembrare priva di buon senso, ma cos’è il buon senso? Si può parlare di

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oggettività quando sono in ballo scelte che interessano l’esistenza di una persona? Guido…, la mia decisione va contro corrente, lo capisco, ma sento che le mie esigenze trascendono ciò che potrebbe essere il pensare comune.>> Guido continuava ad ascoltare in silenzio, pensando che l’intuizione, avuta poco prima, era stata giusta. Voleva, tacendo, permetterle di sfogarsi, darle la possibilità di fare chiarezza, di confrontarsi con lui. E lei continuando a parlare più che a lui, a se stessa: <<Sai… tutto sommato, forse non è una decisione: è una frenesia, un’avidità.>> <<Non capisco cosa mi vuoi dire. Cosa intendi per avidità?>> <<Avidità, nel senso di possedere il più possibile. Anche viaggiare, desiderare di vedere, di emozionarsi per ciò che stai vivendo, può essere una forma di possesso e quindi d’egoismo.>> Guido aveva capito. E capendo aveva ripercorso periodi della sua esistenza, ricordando… Si avvicinò a Katia, sedendosi accanto a lei, prendendole le mani fra le sue. Nel farlo, per la prima volta, da quando si era messo in viaggio, le osservò come aveva fatto la mattina della sua partenza. Non erano trascorsi molti giorni, ma questa volta non negò a se stesso i segni del tempo che era trascorso. Era stanco, avvertiva una leggera dolenzia alla spalla destra, che si era diffusa lungo il braccio. Non ci fece caso e si predispose per parlarle. Aveva preso coscienza che, con il trascorrere degli anni, progressivamente, ragionava sempre più con il cuore e sempre meno con la testa. Ora, sapeva che le avrebbe parlato con il cuore in mano ed esordì dicendole, con parole pacate:

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<<Ma…sai, le situazioni che siamo chiamati ad affrontare non sono mai così semplici né mai rappresentabili con il nero o il bianco, bensì da una moltitudine di sfumature di grigio.>> <<Sì, lo so. Ma è come se qualche cosa mi impedisse di tornare. Sento di avere una resistenza fortissima.>> Guido chiuse gli occhi e vi fece scorrere sopra il palmo della mano, dall’alto verso basso, quasi volesse aiutare il movimento delle palpebre con quel gesto. Lui sapeva! Mentre ascoltava le parole di Katia, brandelli di vita passata affiorarono dalla sua memoria e, con essi, le emozioni, le aspettative, le illusioni con le quali li aveva vissuti. Ora poteva considerarli con distacco, possederli e non essere posseduto dalle situazioni che si era creato. Era come se, con il trascorrere del tempo, fosse salito gradino dopo gradino, lentamente e con fatica, al sessantaquattresimo piano di una torre. Sopra di lui, nascosti da una nuvola, sapeva che ci sarebbero stati altri piani, altri gradini da salire, ma non quanti. Non gli era dato vederli. Katia era sotto di lui, molto più sotto. Da dove si trovava, Guido poteva osservare un orizzonte molto più grande di quello di lei. Quando anche Katia fosse salita fin lassù, il suo orizzonte si sarebbe allargato e, forse,avrebbe capito. <<Scusami per la franchezza, ma se non te la senti di tornare alla tua quotidianità, significa che ancora non sei diventata adulta, che non è terminata l’infanzia traumatica e la giovinezza garibaldina.>> <<Non credo di capirti.>> <<Non mi stupisco. Cercavo di dirti che è una caratteristica dei giovani voler essere indipendenti da tutto e da tutti, posseduti dalla smania di solitudine egoista. Più gli anni crescono e più si comprende come il senso della vita

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consista prevalentemente nell’essere necessari a qualcuno.>> Katia taceva pensierosa e Guido, vedendola assorta nei suoi pensieri, continuò a parlare. <<Non ti devi preoccupare se la tua anima sente che non devi tornare e la tua testa non riesce a starle dietro…>> E continuando: <<Supponi di non aver mai assaggiato una fragola. Per quanto io possa descriverti il sapore e le sensazioni che si provano mangiandola, tu non potrai avere la percezione del sapore fino a quando non farai l’esperienza diretta. Capisci cosa ti ho voluto trasmettere con questo paragone?>> <<Sì, ho capito: devo fare le mie esperienze, nessuno si può sostituire a me.>> <<Sì, così. Io posso darti dei suggerimenti, raccontarti della mia vita, ma poi devi essere tu a discernere. Nessuno può sostituirsi a te.>> <<Ma se posso…cos’è la cosa più importante, secondo te, nella vita di una persona?>> <<Secondo me, sono due. Entrambe collegate: sapersi accettare per quello che si è, e quindi amarsi ed accettare i nostri simili per quello che sono e quindi amarli.>> Katia rifletté a lungo sulle parole di Guido, ma poi: << Hai ragione, solo se mi accetterò, avrò la possibilità di estendere a chi mi circonda la stessa cosa.>> Guido pensò che aveva raggiunto un buon risultato e ne fu gratificato. Era riuscito ad esprimersi con parole semplici che gli erano sgorgate dal cuore. <<Ma tu perché non porti a termine il tuo progetto? Avevo capito che ci tenevi tanto.>> <<Vero, ci tenevo tanto, ma le cose cambiano. Ora non è più così. Sai,…durante il sequestro ho riflettuto molto, mettendo a fuoco alcune cose.>>

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<<Se ti va ti ascolto, magari le tue parole potranno illuminarmi.>> In altre occasioni, Guido non avrebbe continuato a discorrere di argomenti strettamente personali con una persona, tutto sommato, a lui estranea, ma l’esperienza del sequestro li aveva coinvolti, era diventata un collante. E continuando: <<Se proseguissi lo farei per tener fede al proponimento iniziale, ma il mio agire sarebbe privo della carica emotiva che avevo quando sono partito e quando progettai il mio viaggio. In altre parole, non ne ho più bisogno per sentirmi vivo.>> <<Ma come mai un mutamento del genere?>> <<Le motivazioni interiori non le conosco. Sento così, ed ho deciso di ascoltarmi, di essere coerente a ciò che mi suggerisce la mia anima.>> Dopo una pausa, Guido proseguì, dicendo: <<Ho raggiunto la consapevolezza che il sentirsi in pace con se stessi non sta nel fare o non fare una certa cosa, ma nel possedere la realtà nella sua totalità. In altre parole nell’essere affettivamente indipendenti dalle sollecitazioni che la quotidianità ci propina, o se vuoi, nel saper bastare a noi stessi. Inoltre, cucciola, mi piace pensare che gli avvenimenti, che siamo chiamati a gestire, non siano dovuti al solo caso, ma che siano portatori di opportunità. L’interruzione forzata del mio viaggio, la voglio interpretare come un invito a fermarmi.>> <<Katia, sono stanco,…domani, entrambi, dobbiamo organizzare le prossime giornate. Dormiamo?>> <<Sì,…stanca pure io, grazie e buonanotte.>> Guido nella mattinata aveva preparato il piano di volo che avrebbe seguito per tornare in Italia.

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Dalla sera precedente non si sentiva del tutto a posto e, considerando che non aveva date da rispettare, decise di rientrare con calma. Il piano di volo prevedeva cinque tappe: Cipro, Creta, la Grecia continentale con sosta al Pireo, Albania e di lì Bari. Avrebbe, poi, risalito la costa adriatica fino a destinazione. In totale, aveva previsto cinque giorni, con tappe della durata massima di cinque ore. Katia, mentre Guido organizzava il rientro, comunicò all’ambasciatore la sua destinazione: Kenia. In serata furono convocati, nuovamente, dall’ambasciatore che, soddisfatto di aver espletato i suoi impegni con la Farnesina, consegnò loro la documentazione: a Guido il piano di volo approvato ed a Katia il biglietto aereo ed il visto. Furono, inoltre, informati che, l’indomani, un funzionario israeliano avrebbe condotto Guido nella base militare dove si trovava hangarato il suo aereo e che di lì avrebbe potuto decollare per lasciare lo stato d’Israele. La partenza di Katia, al contrario, rientrava nella norma. Un’auto dell’ambasciata l’avrebbe accompagnata all’aeroporto civile. A quel punto sarebbero stati nuovamente liberi di gestire le proprie esistenze. Nel tardo pomeriggio, Carlo aveva terminato il lavoro che si era proposto di svolgere in quella giornata. Gli rimaneva ancora tempo e decise di fare una passeggiata nel parco urbano. Lì, pensava di trovare un poco di refrigerio e, magari, sedersi su di una panchina per leggere tranquillamente il quotidiano. In quei giorni, i telegiornali avevano diffuso le notizie dello scampato pericolo di Katia e Guido e del loro prossimo rientro.

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Mentre camminava nei vialetti del parco con il giornale ripiegato sotto braccio, all’ombra di un grande platano, vide una panchina vuota. Sembrava invitarlo ad una sosta. Lui era lì per questo e, senza indugiare, si fermò con l’intento di rilassarsi e di leggere tranquillamente. In prima pagina vide l’introduzione all’articolo che si riferiva a Katia e che rimandava il lettore, che avesse voluto approfondire la notizia, ad una pagina interna. Quando apprese che la sua ex ragazza non sarebbe rientrata, e che avrebbe continuato il viaggio, rimase sbalordito. Ma riflettendo, non poté fare a meno di concludere che quello era il modo di comportarsi tipico di Katia: così aveva deciso e così doveva essere! Constatandolo, concluse che tutto sommato non aveva perso gran che. Katia doveva crescere, conquistare la consapevolezza che il mondo non ruota intorno a lei. Carlo era assorto in queste considerazioni, quando una ragazza si sedette accanto a lui. Mentre continuava a leggere, notò che sbirciava il giornale ed improvvisamente, senza che lui le avesse dato motivo: <<Che tipa quella li, non trovi?>> Carlo, sollevando lo sguardo dal foglio, la guardò sorpreso : è una gran bella ragazza, si disse, e dopo un attimo di silenzio le rispose. <<Sì, davvero strana, ma penso abbia i suoi buoni motivi per prendere una decisione del genere.>> <<Ma…non la capisco davvero.>> <<Mi chiamo Carlo, piacere di conoscerti.>> <<Francesca, il piacere è mio.>> A lei, Carlo era piaciuto ancora prima di sedersi. Mentre si avvicinava a quella panchina, lo aveva squadrato con una sola occhiata, dopodiché aveva deciso che voleva conoscerlo!

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<<Francesca, ti andrebbe un aperitivo? E’ l’ora giusta!>> <<Ti ringrazio; con questo caldo è proprio quello che ci vuole.>> Carlo, constatando la disponibilità di Francesca, decise di provarci e: <<Magari potremmo approfondire la conoscenza andando a cena dopo l’aperitivo. Conosco un buon ristorante in riva al fiume, è un posto sempre fresco. Cosa ne pensi?>> <<Penso che sei gentile e che gradisco l’invito.>> Si incamminarono, uno accanto all’altra, conversando amabilmente, con il sole che proiettava le loro ombre sulla ghiaia del sentiero, quasi ad indicare loro, una direzione. <<Sono arrivati.>> Così esordì la persona che si trovava all’altro capo della linea telefonica. A sollevare il telefono, era stata Katia che, informata dell’arrivo degli israeliani, aveva passato la comunicazione a Guido. <<Katia, devo andare.>> <<Sì, avevo capito.>> Entrambi erano di poche parole. A loro bastavano gli sguardi, un abbraccio, una carezza. Le parole, se pronunciate, avrebbero affievolito l’intensità delle emozioni che stavano provando. <<Buona fortuna Katia.>> <<Anche a te, Guido.>> Uscendo dalla camera, chiuse la porta senza voltarsi e dopo pochi minuti, accompagnato da un funzionario dell’ambasciata, era in strada dove un’auto lo stava attendendo per condurlo nella base dalla quale sarebbe decollato alla volta di Cipro. Ancora qualche ora ed anche Katia sarebbe partita con un volo diretto a Nairobi.

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Cinque giorni dopo, Guido atterrava sulla pista da dove era decollato con l’intento di raggiungere il Sudafrica. Erano le prime ore del pomeriggio di una tranquilla giornata d’estate. Il club era semideserto; troppo presto e troppo caldo per volare. Federico, quando sentì il rombo di un aereo che si stava avvicinando, uscì dall’hangar per vedere se lo avesse riconosciuto , e quando si rese conto che si trattava di Guido, trasalì. Emozione, gioia, sorpresa si sovrapposero nel suo cuore. Anche lui aveva seguito con apprensione le notizie che i telegiornali avevano trasmesso e non si aspettava di vederlo arrivare senza preavviso, così in sordina. Ma, riflettendo, mentre l’aereo compiva il circuito d’atterraggio, concluse che era nello stile di Guido, evitare il clamore. Guido, mentre conduceva l’aereo, rullando, nel piazzale adibito a parcheggio, vide Federico che gli stava venendo incontro e pensò che non era cambiato nulla dalla sua partenza, al contrario di ciò che si era avvenuto nella sua anima. Come sempre, prima di spegnere il motore, controllò che tutto fosse a posto e quando lo ebbe verificato disattivò le utenze elettriche ed escluse i magneti. Silenzio…il motore, dopo tanto girare, taceva. Liberandosi dal vincolo delle cinture di sicurezza, aprì lo sportello e, dopo qualche istante d’esitazione pensierosa, con le articolazioni irrigidite, scese dall’aereo. Fu Federico, guardandolo dritto negli occhi, a parlare per primo con linguaggio sobrio. <<Finalmente a casa. Come stai?>> Guido gli si avvicinò, gli strinse la mano, per poi abbracciarlo ed essere ricambiato con vigore, intriso

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d’emozione. E mentre i due uomini indugiavano in quell’atteggiamento: <<Sto bene, grazie. Solo un poco indolenzito.>> <<Ti ha riportato a casa ancora una volta questa vecchia carretta…>> <<Non chiamarlo così, non se lo merita. E poi, con le tue cure non poteva essere diversamente.>> Guido immaginava che Federico avrebbe voluto sapere dalla sua bocca cosa gli era veramente capitato; non per mera curiosità, ma per sentita partecipazione. Non lo manifestava apertamente per non contravvenire al senso di discrezione che era insito nel suo comportamento. Guido gli disse semplicemente: <<Ti racconterò tutto, con calma, i prossimi giorni. Sono stanco, desidero riportare la carcassa a casa e fare una bella dormita. Quando vedrai gli altri, salutameli tutti. All’aereo ci pensi tu e quando avrai tempo fagli una revisione completa.>> <<Sì, certamente, ma quando pensi di riprendere la tua attività d’istruttore?>> Guido abbassò lo sguardo che cadde sulle sue mani. Non rispose, limitandosi ad un gesto vago con un braccio, che terminò con una pacca su una spalla di Federico. In cuor suo aveva deciso, in quel momento, che non avrebbe più insegnato a volare! <<Ora vado amico mio.>> Mentre si allontanava, lo vide intento ad introdurre il suo aereo nell’hangar e pensò che lo lasciava in buone mani. In auto, durante il ritorno, avvertì nuovamente un dolore fastidioso alla spalla destra, che si diffondeva lungo il braccio, come nei giorni precedenti. Anche questa volta volle non considerarlo!

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Scendendo dall’auto, che aveva parcheggiato davanti casa, ebbe la sensazione che il fluire del tempo si fosse dilatato. Tutto sommato, dalla sua partenza, non erano trascorsi molti giorni, ma lui ora percepiva diversamente. Per Guido era come se avesse trascorso un periodo molto più lungo ed alla sensazione di aver vissuto in una dimensione spazio temporale diversa, si aggiunse un senso di pacata tranquillità e distacco dalle cose. All’interno, la casa gli sembrò in ordine e pulita, ma non gli trasmise il senso di accoglienza che era solito assaporare rientrando dai suoi viaggi. Pensò che avrebbe dovuto viverla nuovamente. Prima di dimenticarsene, telefonò ad Erika, la signora che lo aiutava nelle pulizie domestiche, chiedendole se sarebbe potuta venire la mattina seguente. La risposta fu affermativa e lui aggiunse che se non avesse risposto, di entrare con le chiavi che possedeva. Voleva dormire senza avere l’impegno di svegliarsi ad un orario prestabilito. Dopo cena, prima di coricarsi, gli piacque ascoltare della musica. Scelse un brano di Beethoven: la suonata “al chiaro di luna”. Lo fece nel terrazzo di casa. Il cielo, limpidissimo, esibiva una moltitudine di stelle e la luna piena rischiarava le colline circostanti con luce argentea, mentre le note e il panorama che poteva osservare si integravano, completandosi armoniosamente. Guido era in pace con se stesso e l’universo intero. Si sentì parte integrante dell’ambiente in cui si trovava ed un interrogativo gli balenò, improvviso, nella mente: cosa avrebbe risposto se gli avessero chiesto chi fosse? …Avrebbe risposto: ciò che da sempre era apparso!

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Quando il brano terminò, Guido continuò a bearsi delle percezioni che il connubio della musica e del paesaggio gli avevano trasmesso. Avrebbe desiderato riascoltare quel brano, continuare ad ammirare e stupirsi del paesaggio, ma a malincuore, decise di coricarsi. Era molto stanco! Appoggiando le mani sui braccioli della sedia, si alzò lentamente, per poi raggiungere la camera da letto. Non gli rimaneva che spegnere la luce; protese la mano verso l’interruttore e con il dito indice pigiò sul tasto. Guido si trovò al buio, lentamente scivolò sotto le lenzuola, si girò e rigirò nel letto ed infine si sistemò a pancia in giù con le braccia sotto il cuscino, come sempre. Facendo un piccolo sforzo, girando gli occhi, guardò le cifre rosse dell’orologio digitale della radio-sveglia. Erano le undici e diciassette minuti. Una bella ora per coricarsi, pensò. Prima di chiudere gli occhi ed abbandonarsi al sonno, rifletté sul suo passato, …sì: era fuggito da lui pur avendolo tenuto stretto a sé. Poi, dal nulla, nella sua mente, si materializzò l’immagine di lui bambino. Stringeva con la mano destra un aeroplanino di legno bianco e nero. Quell’immagine iniziò a dilatarsi nella mente di Guido. Lentamente i meandri della sua coscienza furono invasi da quella figura, ingiallita dagli anni. La sua coscienza stava perdendo criticità e, dolcemente, si faceva penetrare da quella lontana reminiscenza. Fu così che Guido, anche quella sera, permise ad un ricordo di trasformarsi in sogno. Ed il sogno continuò, sviluppandosi. Non sapeva dove fosse. Era bambino ed adulto nello stesso tempo. Lo spazio, infinito.

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Lui lanciò verso il cielo il suo aeroplanino che iniziò a volare, volteggiando elegante, vincendo, inaspettatamente, la gravità. Guido protese le braccia verso il giocattolo, che gli stava sfuggendo. Improvvisamente, stupito, anche lui volava, libero, nel cielo, verso un bagliore accecante. E fu in un luogo di sola luce che lo raggiunse, afferrandolo con una manina. Quella fu, per Guido, la prima notte di quiete! L’indomani Erika avrebbe cercato di svegliarlo, ma inutilmente. Gli amici pensarono: è morto come è vissuto, in silenzio.

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INDICE

Capitolo

Pagina

Uno

11

Due

29

Tre

53

Quattro

73

Cinque

93

Sei

115

Sette

135

Otto

157

Nove

177

Dieci

199

Undici

219

Dodici

239

Tredici

259

Quattordici

279

Quindici

299

Sedici

319

Diciassette

341 359



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