Ecce homo. Ecco l’uomo. O almeno quel che rimane di quel primate che per evoluzione biologica è sceso dagli alberi e ha imparato a essere prima habilis, poi erectus, poi sapiens. E ora? Quale sarà il futuro prossimo venturo? Da una foresta proveniva la prima scimmia evoluta, antropomorfa, ominide potenziale. E in una giungla di segnali, di marchi di fabbrica, di straripanti loghi oggi si vive. Fino a diventare ognuno un codice alfanumerico, fiscale o quant’altro. Fino a trasformarsi in vittime di un codice a barre, una sorta di gabbia in cui entrare e rimanere per sempre oscurati dalla sequenza dei tratti. Un percorso di milioni di anni, partito dalla fitta vegetazione, da una vita in libertà a contatto con la natura, si conclude oggi con la perdita del proprio corpo e l’identificazione con un codice. Il passo successivo sarà la cancellazione di storie personali, di passioni, di desideri, il tutto sostituito dalle barre di un codice artificiale in cui la persona è solo un’identità da archiviare. Questa storia racconta Raffaele Bova. Storia triste di un’involuzione del genere umano, un tributo pagato alla tecnologia selvaggia, alla massificazione, alla globalizzazione. Lo schema dell’evoluzione umana in cammino si conclude entrando tra le barre del codice, anzi divenendo la stessa figura eretta una barra, la cui sequenza finisce per essere il prodotto finale di una mutazione genetica. “Ecce homo” è l’ultimo sigillo, il prodotto finito e codificato. Bova ci porta per mano in questa paradossale metamorfosi, dove il mostro terminale è una figura
umana negata, cancellata. Il viaggio inizia tra i colori di un eden perduto e si conclude nel bianco e nero, più nero che bianco, del codice a barre. Il tutto è realizzato con una tecnica che vira dall’acquerello disegnato, ricco di colore e calore, alla meccanica riproduzione del codice. Un’altra serie di carte è dedicata all’invasione dei molteplici simboli di cui sono disseminate le strade, le tv, i monitor, i nostri stessi pensieri. È un mondo policromo, a tratti giocoso, pervaso quasi da un divertito compiacimento infantile. Ma è una scacchiera da cui non si esce vincitori. È una ragnatela abilmente tessuta da cui non c’è un’uscita di emergenza. Eppure, ogni singolo pezzo, ogni scheggia è parte integrante della nostra quotidianità. Quello di Bova è un impetuoso richiamo all’arte, alla sensibilità individuale, alla delicatezza dei sentimenti. Nei suoi lavori c’è tutta la storia di un artista che è partito negli anni Settanta invitando alla partecipazione dell’atto creativo. “Arte nel sociale” la chiamammo. Da allora sono passati vari decenni, la storia, la sua come la nostra, ma anche quella di tutto il genere umano, si è profondamente modificata, arricchendosi di straordinarie potenzialità e opportunità mediatiche, ma perdendo anche pezzi importanti di un percorso culturale e sociale. L’allarme che lancia Raffaele Bova è espressione di un disagio, di una difficoltà a rivendicare il ruolo dell’artista, dell’intellettuale in genere, in un mondo così massificato. E ancora una volta Bova chiama alla partecipazione, alla consapevolezza. Lo fa con la manualità della pittura, con l’attrazione del colore. È una denuncia sociale. C’è voglia di tenerezza, di sentimenti, c’è voglia di piangere! Enzo Battarra
ECCE HOMO di Raffaele Bova Nel corso del XX secolo, la comunicazione visiva spostò il suo interesse dalla semplice rappresentazione all'indicazione e spesso alla denuncia: basti guardare alla funzione svolta da un'opera come “Guernica” per stabilire che dipingere diventava un autentico intervento politico alla pari dei murales sudamericani. L'”esplosione” dell'arte concettuale rese sempre più evidente l'impossibilità, per un artista impegnato nella realtà, a limitarsi all'osservazione e diede il via ad un'arte “politica” (spesso ideologica e talvolta “di regime”) che ne ha accompagnato l'evoluzione fino ai giorni nostri con esiti diversi ma sempre incisivi. In qualche modo, si leggono agevolmente in alcuni autori e in alcune realizzazioni capacità intuitive che potrebbero essere viste anche come anticipazioni o precursioni del reale. Raffaele Bova si è trovato a vivere fino in fondo una condizione di questo genere, in parte per i dati anagrafici, in parte per la personale evoluzione, in parte anche per il territorio di vita e di lavoro. La “Madonna dell'Arco” posta in trono su una montagna di spazzatura (ancora a metà degli anni Settanta) non nasce dalla coscienza (ancora non c'era) di uno dei più gravi problemi di Terra di Lavoro; eppure lo intuiva con lucida ingenuità. Allo stesso modo il “Monumento alla lira” ancora non poteva tener conto del dominio della finanza sulla società (solo in tempi recenti si sarebbe avvertito) ma accennava ad una plutocrazia incombente come – per altri percorsi – qualcun altro denunciava l'elefantismo della burocrazia. A distanza di oltre quarant'anni, l'atteggiamento mentale non è cambiato e si è semplicemente evoluto in armonia coi tempi e attraverso una più raffinata elaborazione del pensiero, prendendo in considerazione comunque gli elementi dominanti e condizionanti della vita. Il senso dei rifiuti della società che soffocano l'esistenza si è sbizzarrito attraverso tutte le possibili manifestazioni fino all'”invasione” dei codici a barre e degli indirizzi e mail.
Ancora non è arrivato a rendersi conto, forse, che tutto è superato già dal QRcode: ma avrà occasione di rifletterci. L'ultimo approdo, però, ha quasi il sapore di una sintesi “da età matura”. Riprendendo la teoria di Darwin e affidandola al “fanciullino” che dentro di lui non ha mai smesso di urlare che “il re è nudo”, Bova azzarda una personalissima interpretazione dell'evoluzionismo che riassume efficacemente nell'”Ecce homo” che non ha molto a che vedere con la citazione biblica (anche se non le è completamente estraneo) ma che indica solo sinteticamente il percorso attraverso cui il senso dell'umano (e dell'Umanesimo) sembra essersi, se non perduto, quanto meno sbiadito nei meandri che hanno costruito il “produttore”, il “conservatore”, il “consumatore”, l'”utente” e tutti i termini possibili (e inventabili) per tentare invano di coprire l'unico che li riassume, lo “schiavo di se stesso e del sistema”. La rabbia è quella di sempre, anche perché sono venute meno anche le illusioni che sembravano rendere accettabile la realtà in vista di una sognata “rivoluzione”; e forse è proprio la coscienza del fallimento a rendere più amara la riflessione. Non credo ad un Bova sostenitore del “felice regresso”; ma i quadrumani delle origini sembrano senz'altro più naturali (se non più felici) dei consumatori coi codici a barre; e il senso di rinuncia anche al sogno ed all'impegno può risultare un pericoloso segnale di rinuncia all'indignazione, unica reazione che ci era rimasta. Ma Bova è ed è sempre stato soprattutto un pittore, anche nei momenti in cui più intenso ed acuto era l'impegno verso forme di espressione meno legate al segno (gestualità, teatralità, performance ecc.): per questo la sua operazione rimane soprattutto pittorica e recupera tutta la dignità della pittura, al di là dei contenuti fortemente sociali e polemici. Alla fine, estrapolate dal contesto in cui sono nate e dalla destinazione più o meno predeterminata, le “opere” restano tali e riacquistano la propria dignità nella Pittura. Enzo di Grazia
Un rapporto professionale quello instaurato tra il sottoscritto e l’artista Raffaele Bova che nel tempo è cresciuto, colorandosi di curiosità e di profonda ammirazione. Nel 2010 incontro il professore Raffaele Bova (1946) per proporgli di partecipare alla mostra “A di arte A di architettura” (Ex Palazzo del Fascio, Caserta, 16 - 22 aprile 2010), che mi accingevo a curare con i colleghi Caterina Belardo e Silvia Tartaglione su committenza dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesag gisti e Conservatori della Provincia di Caserta. Padre di un mio caro amico, già conoscevo l’artista e le sue opere fuori dalle righe. Collaborare professionalmente con lo storico allievo di Domenico Spinosa, nonché fondatore, negli anni settanta con gli artisti Armando Napoletano, Peppe Ferraro, Livio Marino e Aldo Ribattezzato, del mitico gruppo di “operatori estetici” ”Collettivo Lineacontinua Terra di Lavoro” fu un sollievo: in questo modo sarebbero state appagate le numerose curiosità suscitate dalle criptiche tele coi “codici” e dalle sculture con le “Lire”. Dunque, con la disarmante semplicità di chi è forte delle proprie idee, Raffaele Bova accettò di partecipare alla mostra che, nello specifico, si poneva come obiettivo quello di esaminare il rapporto figurativo esistente tra l’arte e l’architettura. Si decise di presentare l’opera “Tempo presente, modo indicativo, verbo essere”: un olio su tela datato 2009, incentrato sul mondo iconico dei codici a barre, i cui segni apparivano come una lettura iper - cromatica di una facciata ritmata di un edificio o di un moderno frammento urbano. Come nelle opere di Liam Gillick (Aylesbury, Regno Unito Gillick, 1964), la tela di Bova presentava l’eredità dell’astrazione modernista, coi suoi colori a effetti propri dell’estetica astrattista. Immediatamente dopo questa esperienza, con Raffaele Bova si lavorò all’allestimento dell’instant show “Dalla matrice al codice il quadro è fatto.it” presso la Facoltà di Architettura della Seconda Università degli Studi di Napoli (Chiostro dell’Abazia di San Lorenzo ad Septimum di Aversa (CE), 23 luglio 2010). Nella circostanza ci si confrontò con un modo di “fare arte”, purtroppo non più attuale, caratterizzato dal coinvolgimento sociale: con l’instant show, definito dallo stess o Bova “a partecipazione statale”, si puntò a ricollocare per qualche ora al centro della macchina universitaria gli studenti e le loro idee. Furono allestite dieci tele bianche sulle quali l’artista chiamò ad intervenire i discenti, affinché le “completassero” aggiungendovi i propri codici fiscali e i numeri di matricola universitaria, ma anche segni e disegni. Tracce iper - personali, infine, si confrontarono con segni di matrice burocratica. Per lo stato italiano non era più sufficiente identificare lo studente mediante una impronta omologante: affianco ai codici campeggiavano nomi e disegni colorati. L’obiettivo di Bova era chiaramente quello di munire i discenti, mediante il coinvolgimento diretto, di un senso critico scientemente assopito dal massificante sistema mediatico, che avrebbe permesso loro di identificarsi come reali protagonisti della macchina formativa, e non come mere matricole/contribuenti. Nell’occasione conobbi il critico d’arte Enzo Di Grazia, responsabile della galleria d’arte “La Roggia” di Pordenone, nonché protagonista, in qualità di osservatore diretto e curatore, delle vicende creative che interessarono il “Collettivo Lineacontinua Terra di Lavoro”. Il passo verso un approfondimento filologico dell’argomento fu breve, ed immediatamente iniziò a concretizzarsi l’idea di organizzare una mostra/evento che celebrasse l’operato dello storico “Collettivo”. Intanto con Raffaele Bova si continuava a lavorare. Nell’ottobre del 2010, in occasione dell’inaugurazione del centro polivalente per eventi “Studio Uno” di Caserta, con i già menzionati architetti Belardo e Tartaglione, e con Lucia Ferrara, storico dell’arte, si allestì una mostra concepita come chiosa dell’esperienza svolta poche settimane prima da Raffaele Bova e gli studenti della Facoltà di Architettura. Nella mostra, intitolata “Io ero presente”
(Studio Uno, Caserta, 8 - 28 ottobre 2010) si decise di esporre una sequenza verticale di acrilici su tavola dedicati ai “Codici”, che accompagnassero per mano il visitatore fino a condurlo al nucleo dell’evento: le dieci tele “completate” dalle matricole universitarie e l’ultima opera dell’artista consistente, anche in questo caso, in una tela bianca sulla quale i partecipanti all’happening sarebbero stati invitati a lasciare un “segno” identificativo. L’evento fu accompagnato da un importante testo critico di Enzo Di Grazia, di cui si riporta un tratto: “Sin dagli inizi della sua attività, Raffaele Bova ha continuato a “fare il suo mestiere” che è quello di dipingere in maniera provocatoria. In un primo tempo, il tema più caro è stato quello dei rifiuti (…). Lo sguardo si spostò poi verso un’altra forma di “produzione di rifiuti”che era quello della plutocrazia: prendendo a soggetto la Lira (il più bistrattato ma anche il più sconosciuto degli strumenti di consumo e produzione di rifiuti”). “Successivamente, ha spostato l’attenzione sull’annullamento dell’individualità nei “codici di identificazione”: il senso delle personalità perdute, dell’omologazione che annienta, della perdita totale di qualunque elemento di identificabilità è fin troppo chiaro nella serie dedicata ai “codici a barre”; ma finisce per travolgere tutti quei sistemi che omologano gli individui e li riducono a numeri e sigle (…). La “scoperta” dei codici a barre come sistema di cancellazione della personalità è, in qualche modo, una conseguenza logica del percorso. Nasce dalla realtà, ed anche in questo caso vale come indicazione estetica nel sociale”. Nel Gennaio 2011 ebbe luogo la mostra/omaggio dedicata al “Collettivo Lineacontinua Terra di Lavoro”, l’importante movimento casertano che dominò, tra gli anni settanta e ottanta, le scene artistiche nazionali attraverso “interventi d’estetica sociale”: installazioni d’avanguardia, concepite come “strumento estetico” di critica sociale, adoperate contro le scellerate iniziative politiche propinate all’epoca sul territorio campano. La mostra intitolata “Il Collettivo Lineacontinua Terra di Lavoro. Caserta 1975 – 1980. Una vicenda anomala” (Auditorium Ex Macello, Aversa (CE), 9 - 10 gennaio 2011) propose una digressione didattico/didascalica dell’attività del “Collettivo”, mediante l’esposizione di un inedito apparato documentale (fornito da Enzo Di Grazia) e di opere d’arte concepite dagli artisti Raffaele Bova, Peppe Ferraro, Livio Marino, Aldo Ribattezzato, Antonello Tagliafierro, principali attori del movimento. L’importante iniziativa pose finalmente l’accento su quella che fu la sede delle più propulsive forze creative della cultura d’avanguardia casertana. … E siamo a oggi. Il lavoro sull’“Ecce Homo”, presentato in questa sede, appare come una promenade visiva sul tema della spersonalizzazione iconica speculato finora da Raffaele Bova. Come in un prequel di un’avvincente serie narrativa, l’artista svela la genesi del tema “codice a barre”, raccontando da dove le criptiche forme rettangolari hanno avuto origine: è l’uomo la “chiave”. L’evoluzione dell’uomo, da primate a “erectus”, porta infine ad un codice a barre, attraverso un percorso catartico: liberandosi dalle insidie della selva primitiva, l’uomo entra nella selva dei codici a barre, confondendosi e smaterializzandosi in questa. Il D.N.A. della ricerca dell’autore, l”ironia napoletana”, è più che mai presente. “La perfezione non esiste”, dice l’autore raccontando del suo ultimo lavoro, di lì l’esigenza di ricorrere a schizzi e ad acquerelli dalla gestualità primitiva e brutalist. Una riflessione, quella proposta da Raffaele Bova in questa sede, che ribadisce in modo forse più ironico del solito ma al contempo più “brutale” il dramma della società odierna, tanto iper-connessa col mondo quanto disconnessa dal proprio Io e dalla propria sfera emozionale. Le tragicità di cui i media quotidianamente raccontano lobotomizzano l’uomo, inducendolo ad una somatizzazione passiva di notizie scevra da pulsioni critiche ed emotive. Da reale pioniere, prima col tema dei rifiuti, poi con quello della spersonalizzazione iconica, Raffaele Bova invita da oltre quaranta anni ad un risveglio del senso critico. Luigi Rondinella (Caserta, 1981) è architetto, dottore di ricerca in conservazione dei beni architettonici, critico d’arte e curatore.Ccollabora con le seguenti riviste di settore Flash Art, Artribune, Exibart.