LE ROTTE DELL’ANIMO, I SENTIERI DELLO SPIRITO Davide Orler: sacro impulso e furore ideale
THE WAVES OF THE MIND, THE PATHS OF THE SPIRIT Davide Orler: sacred impulse and ideal frenzy
Con il patrocinio ed in collaborazione con: Sponsored by and in conjunction with:
COMUNE DI FIRENZE
MUSEO DIOCESANO DI ARTE SACRA DELLA CURIA ARCIVESCOVILE DI FIRENZE
Si ringraziano: Don Sergio Pacciani, responsabile dell’Ufficio Arte Sacra della Curia Arcivescovile di Firenze; Eugenio Giani, Assessore allo Sport, ai Gemellaggi e alle Tradizioni Popolari del Comune di Firenze. Si ringraziano inoltre: Carlo Alaimo, Chiara Basile, Licia Bertani, Azzurra Devincenzi, Giovanna Fozzer, Lorella Guarnieri, Antonella Zagli. Allestimento della mostra: Arch. Giampaolo Trotta, con la collaborazione dell’arch. Lapo Galluzzi. Foto Renato Idi, Klick Studio - Firenze, Lapo Galluzzi, Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici, Storici e Demo-Etnoantropologici per le Provincie di Firenze, Pistoria e Prato, Museo Diocesano di Arte Sacra di Firenze, Comune di Firenze, Raffaello Bencini (alcune delle immagini della chiesa di Santo Stefano al Ponte). Catalogo C&M Arte Grafica e layout del catalogo Giampaolo Trotta In copertina: Omaggio a Giotto, 2004, smalti su tela, particolare. In IV di copertina: In croce, 2001, smalti su tavola. L’autore desidera dedicare questo catalogo alla memoria degli amici e colleghi Elvio Natali e Tommaso Paloscia, attenti e sensibili studiosi d’arte contemporanea, recentemente scomparsi.
© C&M Arte - Arezzo - 2005 arezzo.cmagency@tin.it Archivio Orler - via Col S. Martino, 39 - 30030 Favaro Veneto (Venezia) www.collezioneorler.com La riproduzione del materiale pubblicato, totale o parziale, con qualunque mezzo (compresi le copie fotostatiche, le videocassette, i CD ed i microfilm) e per qualsiasi fine, è proibita, salvo specifico consenso scritto dell’Archivio Orler. Ogni abuso sarà perseguibile a termini di Legge. All rights reserved. This book may not be reproduced in whole or in part, in any form (except by reviewers for the public press), without written permission of the Archivio Orler, Favaro Veneto (Venice). ISBN 88-89712-00-7
GIAMPAOLO TROTTA
Le rotte dell’animo, i sentieri dello spirito DAVIDE ORLER: SACRO IMPULSO E FURORE IDEALE
The Waves of the Mind, the Paths of the Spirit DAVIDE ORLER: SACRED IMPULSE AND IDEAL FRENZY
FIRENZE, PALAGIO DI PARTE GUELFA, 18 APRILE - 30 APRILE 2005 SANTO STEFANO AL PONTE VECCHIO, 18 APRILE - 22 MAGGIO 2005 FLORENCE, PALAGIO DI PARTE GUELFA, 18 APRIL - 30 APRIL 2005 SANTO STEFANO AL PONTE VECCHIO, 18 APRIL - 22 MAY 2005
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resentare un volume che ci conduce nell’itinerario di vita e di arte di un personaggio di grande prestigio come Davide Orler costituisce per me un grande onore e un vivo piacere. Tanto più a pochi giorni di distanza dalla stupenda mostra di icone russe di proprietà della Fondazione Orler che la più antica chiesa fiorentina, quella di San Lorenzo, ha ospitato in una cornice di incomparabile e struggente bellezza, come mai non era avvenuto negli ultimi anni a Firenze. Proprio quelle icone sono la testimonianza diretta dell’amore per l’arte religiosa e della passione nella ricerca di esperienze anche lontane dal nostro contesto culturale che ha animato l’ispirazione di Orler nel corso del suo lungo e complesso processo di maturazione e produzione. L’approfondita e organica ricostruzione della biografia e del percorso artistico di Davide Orler, che, con la consueta competenza e rigorosa puntualità, Giampaolo Trotta ci propone, evidenzia l’intensità e le progressive tappe che rendono assai prezioso il lavoro nell’arco di una vita, testimoniatoci oggi dall’opera dell’artista: dall’entusiasmo adolescenziale dell’iscrizione all’Accademia di Belle Arti di Venezia, al coraggio con cui intraprenderà esperienze all’insegna di una scelta di vivere in modo forte la propria esistenza, fin dall’arruolamento nella Marina Militare, ai numerosi momenti in cui il mettersi in discussione significherà imboccare nuove esperienze di vita e di lavoro. È davvero un fatto di grande prestigio per l’Amministrazione Comunale di Firenze che il Palagio di Parte Guelfa, ove nel tempo hanno lavorato Giotto, Benedetto Da Maiano, i Della Robbia, Filippo Brunelleschi e Gior gio Vasari, ospiti oggi questa rassegna antologica dell’artista trentino. Nel Palagio di Parte Guelfa si sono svolte funzioni pubbliche importanti, come quando è stato la sede del Comune di Firenze, visto che Palazzo Vecchio era in quel momento Palazzo del Governo granducale della Toscana, ma anche funzioni culturalmente di particolare significato, come quando, sede del Gabinetto Vieusseux, ha ospitato un uomo quale Eugenio Montale, direttore della stessa istituzione. Oggi, nel contesto monumentale del Palagio, le opere di Orler rappresentano un momento importante della vivacità culturale della città nell’ospitare i massimi artisti contemporanei, nell’ambito dei quali l’opera di Davide Orler costituisce, indubbiamente, valida e viva testimonianza.
Eugenio Giani Assessore alle Tradizioni Popolari Fiorentine Comune di Firenze
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a chiesa di Santo Stefano, un edificio sacro fiorentino di antica origine e che conserva numerose ed importanti testimonianze artistiche, fin dal 1980 è stata utilizzata come prestigiosa sede per attività culturali ad alto livello. In quell’anno, infatti, vi fu allestita una delle note mostre che si tennero nel capoluogo toscano e aventi per tema Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento. Dal 1983 e per dieci anni la chiesa è divenuta la sede dell’Orchestra Regionale Toscana e vi sono stati tenuti numerosi concerti, anche da parte di rinomate orchestre straniere. Con l’autobomba di via dei Geor gofili, nel 1993, l’edificio è stato gravemente danneggiato, ma, sapientemente restaurato, nel 2000 è tornato ad ospitare attività culturali a carattere musicale, con orchestre internazionali (vengono tenuti oltre 80 concerti l’anno), e teatrale. Inoltre, vi si svolgono normalmente convegni, incontri letterali, letture di importanti testi poetici, lezioni di musica e mostre di scultura e di pittura. Queste ultime, però, hanno avuto sede dal 2002 ad oggi, prevalentemente nel portico del contiguo chiostro, facente parte del Museo Diocesano di Arte Sacra, creato nel 1995. Merita di essere ricordata, particolarmente, la serie delle esposizioni aventi per tema Nuove proposte di iconografia sacra al Museo Diocesano di Fir enze. Elemento conduttore era stato un approccio all’arte sacra per il Ventunesimo Secolo in maniera nuova e non convenzionale (non ricorrendo all’immagine umana), scommessa, questa, certamente non facile. Le quattro mostre che si sono susseguite, ideate e curate da Giampaolo Trotta, ebbero come oggetto il suggestivo Evangeliarium ‘minimalista’ di sole ‘cose’ (senza alcuna raffigurazione di personaggi) di Andrea Mancini, il poetico e naturalistico Evangelium florum di Fiorella Noci (2002), l’Evangelium Lucis del sensibilissimo Sergio Rinaldelli, forse il più rarefatto, colto e ‘teologico’ (2003), e l’astratto Evangelium hominum di Franco Margari, con le sue ‘illuminazioni’ cromatiche (2004). La chiesa di Santo Stefano è l’unica della Diocesi fiorentina ad essere adibita esclusivamente ad attività di carattere culturale, con un’attrezzatura specifica particolarmente valida. Questa bella ed importante sezione della mostra fiorentina, dedicata alle opere a carattere sacro del Maestro Davide Orler e che si svolge sia nella chiesa che nel chiostro del Museo Diocesano, rientra egregiamente nel solco intelligente della strada intrapresa.
Don Sergio Pacciani Direttore dell’Ufficio Arte Sacra della Curia Arcivescovile di Firenze
Indice / Contents Davide Orler: il viaggio tormentato ed esaltante di un’anima, di Giampaolo Trotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 15 Davide Orler: The Tormented Yet Inspiring Journey of a Soul, by Giampaolo Trotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 Orler e gli altri, di Giovanna Fozzer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Orler and the Others, by Giovanna Fozzer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
CATALOGO: CENTOOTTO OPERE DI DAVIDE ORLER, di Giampaolo Trotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CATALOGUE: A HUNDRED AND EIGHT WORKS BY DAVIDE ORLER, edited by Giampaolo Trotta . . . . . . . . . . .
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• Sezione di Palagio dei Capitani di Parte Guelfa: le r otte dell’animo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 Palagio dei Capitani di Parte Guelfa Section: The W aves of the Mind . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 1. Gli anni tormentati della formazione e della ricerca di una propria identità di vita ed artistica (1952-1960). Omaggi a Rousseau, Matisse, Munch e Picasso tra idealismo ‘primitivo’, furore espressionista e travaglio esistenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 The tormented years of training spent searching for a life and artistic identity (1952-1960). Tributes to Rousseau, Matisse, Munch and Picasso from “primitive” idealism o expressionist frenzy and existential toil . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 2. La serenità conquistata (1959- 1970). Intimismo romantico e pace spirituale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 Acquired serenity (1959-1970). Romantic Intimism and spiritual peace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 3. La parentesi careniana (1966-1970). Tetragona e corale epica umana nella vita, nelle tragedie e nel lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 The Carena period (1966-1970). Steadfast, concerted human epic in life, in tragedies and in work . . . . . . . . . . 148 4. Verso nuove sperimentazioni (1970-1992). Tra Pop Art e Nouveau Réalisme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150 Towards new experiments (1970-1992). From Pop Art to Nouveau Réalisme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150 5. Le opere recenti (1994-1997). Ricerca di nuove frontiere e rivisitazioni dei grandi cicli passati . . . . . . . . . . . . 182 Recent works (1994-1997). Search for new frontiers and re-examination of great past cycles . . . . . . . . . . . . . . 182 • Sezione di Santo Stefano al Ponte Vecchio: i sentieri dello spirito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Santo Stefano al Ponte Vecchio Section: The Paths of the Spirit . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. La grande parabola religiosa della vita (1961-1967). Serenità francescana ed epica careniana . . . . . . . . . . . . . Life’s great religious parable (1961-1967). Franciscan serenity and Carena epic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Dal profondo cosciente (1971-1972). Nuove sperimentazioni e simbologia antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . From the conscious depths (1971-1972). New experiments and ancient symbology . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Folgorazione e intuizione sui sentieri di una personale Transavanguardia (1996-2004). Luce e gesto negli spazi dello spirito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dazzlement and intuition on the paths of a Transavantgarde personal exhibition (1996-2004). Light and gesture in the spaces of the spirit . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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I quadri biblici di Davide Orler, di Renato Laffranchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Davide Orler’s Biblical Paintings, by Renato Laffranchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Frammenti d’arte e di vita, di Davide Orler . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fragments of Art and Life, by Davide Orler
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Nota biografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313 Biographical note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 314
Brevi note storiche sulle due sedi della Mostra fiorentina, di Giampaolo Trotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 315 Il Palagio dei Capitani di Parte Guelfa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 315 La chiesa ed il Museo diocesano di Arte sacra di Santo Stefano e santa Cecilia al Ponte Vecchio . . . . . . . . . . . . . 322 Short historical notes on the Florentine exhibition’s two venues, by Giampaolo Trotta The Palagio dei Capitani di Parte Guelfa The Church and Diocesan Museum of Sacred Art of Santo Stefano and Santa Cecilia al Ponte Vecchio Alcune postille all’allestimento della mostra, di Giampaolo Trotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Comments on the Exhibition, by Giampaolo Trotta Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliography
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Elenco delle opere in esposizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . List of Works in the Exposition
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 347
Bagliori illuminanti il pensiero, la sintesi, capire a fondo, un attimo, nel presente che fa deflagrare tutta la vita passata Illuminating flashes thought, synthesis, fully understand, an instant, in the present that flares up all past life
GIOVANNA FOZZER, Proustiana, in La Forma quieta (Quiet Form), 2001
Davide Orler: il viaggio tormentato ed esaltante di un’anima La produzione artistica di un pittore è stata sempre espressione e quasi specchio del suo animo, riverberando eco più o meno nascoste dei grandi eventi che hanno segnato la vita dell’artista stesso. Questo, com’è ampiamente noto, soprattutto nel Novecento, quando il diffondersi della fotografia e, contestualmente, delle ricerche psicanalitiche di Sigmund Freud hanno decretato la sostanziale fine della pittura come mera raf figurazione della realtà, per aprire la nuova e stimolante via di un’arte che raffigurasse l’emotività dell’animo umano, i sentimenti e le emozioni più intime dell’artista, e questo non solo attraverso l’astrazione, più o meno ‘classica’, lirica oppure gestualmente informale e ‘fauve’. Orbene, tutta l’opera di Davide Orler, che si distende fino ad oggi per oltre mezzo secolo di attività indefessa e magmaticamente travolgente, è
quasi l’esempio più paradigmatico di come l’arte possa e debba essere espressione autentica - e quasi poeticamente psicologica - di un’anima, divenendo (quando di arte vera si parli) intuizione di un messaggio universale, antesignano, non soggetto a mode o a correnti. Le sue quasi cinquemila opere finora prodotte lo stanno inequivocabilmente a dimostrare. La vigorosa gestualità onirica e ‘profetica’ dell’ultima sua produzione non si potrebbe comprendere appieno senza considerare le precedenti tappe (talvolta difficoltose, dolorose ed apparentemente buie) della sua maturazione umana e professionale, riverberate volutamente ed in parte
1. Gli alpini sciatori, 1942, tecnica mista su carta, cm 24x20 1. Alpine Skiers, 1942, mixed technique on paper, 24x20 cm
2. San Pietro, 1947, olio su tela, cm 65x55 2. Saint Peter, 1947, oil on canvas, 65x55 cm
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inconsciamente nelle sue tele e nelle sue tavole, dove la ‘concettualità’ del messaggio sotteso diviene altissima lirica disincantata della fragilità umana, tutta riposta nel mistero del Divino, come anche il suo quasi af fannoso desiderio di raccontarsi pare voler sottolineare. Nell’ultimo Orler si radica, attraverso le vie di una concreta caparbietà ‘montanara’, il messaggio di quella nuova arte figurativa sacra, così squisitamente e genuinamente nuova, fresca e cristallina, così apertamente e programmaticamente non astratta e, in ultima analisi, però, così intimamente ‘informale’, se per informale intendiamo la scissione, nel messaggio indotto dall’artista, dal significato oggettivo della raf figurazione stessa, per accedere a più profonde intuizioni esistenziali e di fede. Ancor più che in altri artisti, le vicende umane di Orler divengono chiave indispensabile per poter leggere e comprendere a fondo le sue opere, il suo messaggio, la sua vis artistica. Il primo contatto
di Davide Orler con la pittura si può dire che sia avvenuto attraverso l’amico e ‘maestro’ Riccardo Schweizer (1925-2004), più vecchio di lui di appena sei anni e che allora, non senza fortuna, si era potuto allontanare dal paese natio ed iscrivere all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Come lo stesso Orler rammenta, nell’immediato Dopoguerra ebbe modo di frequentare Schweizer e, con lui, “un ristretto gruppo di amanti dell’arte e della cultura, un piccolo cenacolo di intellettuali ansiosi e curiosi di esplorare quei nuovi fermenti che si facevano largo in Europa”; tra essi vi erano anche lo scrittore e poeta ungherese Zoltan Rakoi ed il pittore Bruno Saetti (1902-1984), indimenticabile riscopritore (o meglio, interprete) dell’antica e modernissima tecnica dell’affresco. In realtà, però, possiamo andare un po’ più indietro nel tempo, quando Davide, all’età di dodici o tredici anni, fu letteralmente folgorato dalla magia delle forme e dei colori nel suo paese natale, Mezzano, uno degli antichi nuclei abitati della Valle di Primiero, nel Trentino, paese caratterizzato da architettu-
3. Autoritratto, 1953, olio su compensato, cm 40,5x34,5 3. Self-portrait, 1953, oil on plywood, 40.5x34.5 cm
4. Colline di La Spezia, 1953, olio su faesite, cm 47,5x64,5 4. Hills of La Spezia, 1953, oil on board, 47.5x64.5 cm
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re tipicamente rurali e montane, in pietra e legno (come l’abitazione dei suoi genitori, risalente al 1807), dove talvolta le pareti esterne erano ricoperte di semplici e popolari pitture murali, traenti in parte origine dalla tradizione artistica sviluppatasi nella non distante Feltre, da sempre luogo di confine e cerniera tra la pianura veneta centro-orientale già della Serenissima e l’area alpina del Trentino austroungarico (quel “Contado del Tirolo”, come ancora si legge nelle mappe antiche). E proprio la cultura e le forme d’arte della Valle di Primiero, sempre sospese tra la Germania e Venezia, influenzeranno indelebilmente l’opera orleriana, costituendone il naturale retroterra. Pur tra infinite traversie legate alla dura esistenza in un paese di montagna che usciva dalla guerra, ancora ruotante attorno ai ritmi antichi della fienagione, dell’alpeggio e della transumanza, Orler si mise a dipingere ingenue ma fresche ed immediate raf figurazioni della Madonna sui muri della propria casa, di gusto popolare, e quindi, quattordicenne, una Crocifissione su un asciugamano sottratto alla madre oppure un
‘affresco’ sulle pareti del mulino dove lavorava il padre (una ‘vocazione’, comunque, maturata in seno alla famiglia: lo zio Giovanni era stato, agli inizi del secolo, un rinomato affrescatore di chiese, allorché era emigrato in Nord America, portando colà la tradizione delle sue terre). Proprio al 1942 (quando il nostro esercito era impegnato in quella che sarà la disastrosa avventura russa) risale una schietta raf figurazione de Gli Alpini sciatori (fig. 1), che pur nell’ancor acerba restituzione, rivela, ad appena undici anni, una sorprendente abilità di Davide nel disegno, dalle indubbie assonanze con i grandi grafici del tempo, quali Marcello Dudovich o Walter Molino. Orler giunse nel 1946, quindicenne, per la prima volta a Venezia, la città dei suoi sogni e delle sue più profonde aspirazioni, com’egli stesso ricorda, ancora trepidante d’emozione: “Non avevo che quindici anni quando sono scappato di casa dal mio paese […] per vede-
5. Paesaggio a Mezzano, 1956, olio su tela, cm 140x195 5. Landscape in Mezzano, 1956, oil on canvas, 140x195 cm
6. La Toch, 1958, olio su tela, cm 100x69,5 6. La Toch, 1958, oil on canvas, 100x69.5 cm
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re la città dei miei sogni, la città costruita sull’acqua di cui tanto avevo sentito parlare da amici e conoscenti, da poeti e pittori innamorati - come dovevo esserlo io - dell’arte e della cultura che Venezia emanava. Quando ripenso a quei giorni mi commuovo ancora. Era l’inverno del ’46 allorché, con solo pochi spiccioli in tasca a senza amici su cui fare affidamento, lasciai il mio paese per Venezia”. È del 1947 un olio raffigurante San Pietro (fig. 2), che, al di là della stereotipata rappresentazione dei simboli connotanti il santo, rivela una certa ingenua immediatezza, tipica dell’Orler di quegli anni. Pieno di entusiasmo, in seguito (all’età di diciott’anni), si iscrisse all’Accademia di Belle Arti, ma poi ben presto l’abbandonerà per arruolarsi volontario nella Marina Militare, alla ricerca giovanile di una vita avventurosa e di esperienze forti. Così, percorse le varie rotte del Mediterraneo su dragamine e su corvette in servizio di pattuglia, conoscendo
porti, popolazioni e civiltà diverse e, come egli ricorda, “soprattutto il Sud, carico di colori e di quella luce intensa, così diversa da Venezia e dalle mie montagne del Trentino” (si veda, in tal senso, anche la tav. 2). Quando, per servizio, si trovava nella base di Messina, aprì un suo piccolo studio a Contesse, luogo segreto dove rifugiarsi nelle pause e nei momenti di sosta dalle attività militari: “fu allora che sentii in me il desiderio irrefrenabile di dipingere. Dipingere seguendo il mio istinto, la mia passione, senza maestri e senza Accademie. Quello che vedevo e quello che sentivo lo traducevo di getto nella tela, senza ripensamenti, senza compromessi, alternando il lavoro a bordo con i miei pennelli”. Nel 1953 dipinse, tra l’altro, un suo Autoritratto (fig. 3), in divisa da marinaio e contraddistinto dalla folta e chiara barba: una raffigurazione che risente ancora del clima pittorico europeo e segnatamente francese di fin de siècle. Sempre come egli stesso ama sottolineare, nelle sue opere di allora entrò prepotente “il calore di quella terra, i volti della gente” qualunque, segnata epicamente dal dolore, dalla fatica, dal sole. Osservando
7. La processione in costume sardo, 1959, olio su tela, cm 124,5x200 7. Procession in Sardinian Costume, 1959, oil on canvas, 124.5x200 cm 8. La raccolta delle olive, 1959, olio su tela, cm 100,5x70,5 8. Olive Harvest, 1959, oil on canvas, 100.5x70.5 cm
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più approfonditamente, però, in quegli anni focosi e ‘fauve’ il ventenne Davide mostrava una sua interna fragilità: proiettato dal piccolo paese montano nella grande realtà dei Paesi mediterranei, la sua forte sensibilità fu messa duramente alla prova, specialmente dalle grandi tragedie di calamità naturali nelle quali fu coinvolto come soccorritore, insieme ai suoi commilitoni. Tali esperienze drammatiche si riverberano nei colori accesi e nelle deformate figure spettrali dagli accenti espressionisti (quasi interiore urlo munchiano) di quei corpi informi, sfaldati e decomposti di annegati, da lui recuperati con la Marina a Salerno ( Recupero degli alluvionati di Salerno, del 1955: tav. 5; cfr. anche tav. 6), oppure nelle opere ‘allucinate’ dedicate al Terremoto a Salina o ancora nel groviglio e cartoccio di carni e lamiere raffigurante lo scontro fra due camion ( Scontro siciliano , sempre del 1955), dove la Pasquali ha voluto quasi vedere la concretizzazione inconscia di una pura Art brut orleriana, vale a dire di quell’arte così definita da Jean Dubuffet nel 1945 e propria degli outsiders, fuori dalle istituzioni e dagli schemi culturali del siste-
ma artistico. In effetti, l’opera di questo giovane Orler è spontanea e sincera, immune da qualsiasi forma di condizionamento monodirezionale, fondata su impulsi creativi individuali, ora irregolarmente compulsivi, ora ingenuamente ‘primitivi’. In una visione panteistica e della Divinità coincidente con la Natura, anche la pittura, elaborata nel suo piccolo rifugio siciliano, venne prepotentemente attraversata dalla tempesta di quelle tragedie, rese per tinte forti e con una scomposizione ‘schizofrenica’ delle figure di ascendenza cubista e picassiana (il grande maestro del Novecento da Lui incondizionatamente ammirato), filtrata attraverso un’interpretazione espressionista e nordica, desunta in parte da Schweizer , o meglio con lui condivisa con sincerità. Proprio i paesaggi eseguiti durante una licenza nel 1955, impiegando frammenti di legni incollati, rappresentano un omaggio a quel suo panteismo, dove ancora una volta la Natura dona all’Arte
9. Ritratto, 1957, tecnica mista su carta, cm 62x59 9. Portrait, 1957, mixed technique on paper, 62x59 cm
10. Ragazza in poltrona, 1957, olio su carta, cm 100x74 10. Girl on Armchair, 1957, oil on paper, 100x74 cm
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quei suoi legni bruciati dal sole, corrosi e tormentati dal tempo. Fin dagli anni 1955/1956 inizia per Orler , a La Spezia, un periodo di crisi profonda, per certi versi paragonabile a quella di Geor ges Rouault (1871-1958), che raggiungerà il suo acme nel 1958: il continuo contatto con le grandi tragedie legate al mare provocarono in lui una sofferenza esistenziale che generò un senso amaro di impotente solitudine, segnale o punta di un iceberg di depressione che lo portò anche sull’orlo del suicidio. La pleurite, contratta durante le esercitazioni militari, che lo condusse in ospedale (1956), gli fece abbracciare la tecnica del collage (elitaria del Cubismo), non avendo a disposizione colori per dipingere. Di questo periodo rimangono paradigmatici ‘harem’ con le ‘donne dei marinai’, opere intrise di desolante solitudine e di sconsolato realismo: tutto un mondo di emblematiche e ambigue figure, talvolta ritratte con spie-
tata violenza, che popola le tele e i collages di quegli anni, elaborando un linguaggio aderente alla sue più intime esigenze di drammaticità espressiva. L ’amore mercenario e senz’anima rappresentato in quelle opere era simbolo del tentativo di sottrarsi all’angoscia della realtà opprimente, ma come una droga che crea paradisi artificiali finiva per essere una trappola esistenziale, ammaliante ma vuota. Si pensi, in tal senso, alla Donna al balcone, del 1956, nelle forme di un’enigmatica e fatale sfinge tentatrice, oppure ai vari collage del medesimo anno, aventi per tema l’immagine misteriosa, deformata e ‘deformante’ di una donna sensuale negli attributi ma non più nelle forme, che diventano quasi simboli di un crudo e antiestetico kamasutra (si ricordano, solo per citare alcuni esempi, Donna in poltrona - tav. 15; Donna col cane ; Ragazza in giar dino; Donna allo specchio ; Donna al sole ; Interno con donna sdraiata ; Donne al balcone - tav. 16; cfr. anche tav. 14). Pur avvicinandosi alle esperienze dell’Espressionismo tedesco e segnatamente a certo clima caro a George Grosz (dove la donna, come giustamente ha rilevato Paolo Levi,
11. Ritratto di Silvio Alchini, 1958, olio su tela, cm 125x84 11. Portrait of Silvio Alchini, 1958, oil on canvas, 125x84 cm
12. Maternità, 1958, tecnica mista su tela, cm 122x74 12. Motherhood, 1958, mixed technique on canvas, 122x74 cm
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“è terra aggressiva, arida, dal sesso spinto al ridicolo”), non compaiono, però, come del resto anche in Rouault, motivi di denuncia sociale o intenti politici dalla forte tensione morale, ma, più che altro, accenti di un profondo travaglio interiore tutto psicologico. Come altra fuga dalle rammentate tragedie del mare, che nelle sue tele si erano tinte di toni accesi e passionali, quasi fauve, durante le sue licenze trascorse nelle biblioteche di Napoli e Messina o seguendo mostre e biennali d’arte, già precedentemente aveva avuto un simbolico ed utopico slancio verso eteree, primordiali ed ‘ingenue’ isole serene, estranee alla sua vita di allora, che si erano poi rivestite della corografia dolcissima delle morbide e sinuose colline attorno a La Spezia (basti pensare a quel suo olio su faesite del 1953, di impianto quasi naïf, dove l’azzurro del mare contrasta con il candore delle cime lontane e le colline in primo piano, dai toni bruni e contrassegnate da alberi sui morbidi crinali, rimandano, in un certo senso, al primitivismo delle colline idealizzate da Zoran Music: fig. 4; cfr. anche tav. 8).
Unica altra pausa in quegli angoscianti ‘incubi’ sono, forse, la grande tela raf figurante Mezzano e i cristallini Notturni a Mezzano del 1958 (tav . 18) - poi ripresi nei notturni incantati Sul lago di Gar da del 1961 - quasi il riposo ‘fanciullesco’ nel sereno, sicuro e rasserenante ventre della Madre Terra, coperta di neve e baciata dalla luce discreta di una luna tur gida e boteriana, notturni stellati di incantato stupore che rappresentano anch’essi una sorta di fuga dalla quotidiana guerra con se stesso. Il rammentato e grande dipinto (m 3x7,40), raffigura, invece, una veduta estiva e nostalgica del paese di Mezzano, con le Pale di San Martino sullo sfondo e numerosi personaggi del luogo, conosciuti da Orler quando era ragazzo. Fu realizzato dall’artista iniziandolo nel 1956, quando era a bordo della nave militare su cui era imbarcato ed impiegando teli di amache, fatti di canapa, da lui cuciti insieme, man mano che proseguiva nell’opera. Il dipinto fu ultimato solamente nel 1958 ed
13. Gatti e chitarra, 1959, smalta su carta, cm 70,5x100 13. Cats and Guitars, 1959, enamel on paper, 70.5x100 cm 14. Sant’Erasmo, 1961, olio su tela, cm 64x48 14. Saint Erasmus, 1961, oil on canvas, 64x48 cm
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esposto ad Antibes. Ogni volta, però, i disastri naturali e le varie alluvioni, nelle quali veniva comandato quale soccorritore, lo avevano prepotentemente e violentemente riportato nel gorgo delle sue tempeste esistenziali. Così La guerra del 1954 (tav. 2) già allora significativamente contrastava con il tentativo di ‘evasione’ rappresentato dalla Ballerina picassiana (tav. 4) ovvero dalle equivoche e sensuali ‘donne dei marinai’ rammentate. Nel 1958, lasciata oramai la Marina, Orler fu invitato per la prima volta dal conservatore Dor de la Souchère a tenere una personale al Musée Grimaldi di Antibes, il rinomato centro d’arte moderna dove era presente anche Marc Chagall e dove con lui esporrà anche Schweizer , ricevendo positivi commenti dalla critica. Precedentemente Orler aveva esposto le sue opere in una località non distante dal suo paese natale: a San Martino di Castrozza, un antico castrum romano al-
l’estremità settentrionale della sottostante Valle di Primiero, dove sor gerà, nel Medioevo, lo ‘spedale’ per ‘bianti’ dei Santi Martino e Giuliano (cioè l’ospizio per i viandanti provenienti o diretti nella Val di Fiemme attraverso il Passo Rolle), poi località sciistica e turistica fin dalla seconda metà dell’Ottocento; proprio l’Alpe di Castrozza, insieme a Mezzano, diverrà un luogo magico nei suoi ricordi. Specialmente la mostra francese dette la possibilità ad Orler di aprire la sua arte ad esperienze internazionali e di conoscere alcune delle figure più eminenti nel panorama culturale dell’epoca, come lo stesso ‘sacro mostro’ Pablo Picasso (al quale, tra gli artisti italiani, si era precocemente avvicinato, al di là delle mode ‘servili’), la scultrice Germaine Richier (1904-1959), gli scrittori e poeti Jean Cocteau (1889-1963, che fu anche illustratore delle sue stesse opere e pittore) e Jacques Prévert (1900-1977). Inoltre, a Venezia aveva avuto la possibilità di entrare a far parte di quella sorprendente élite di giovani artisti emergenti, nella quale si incontravano e si scontravano le nuove poetiche e
15. Meli in fiore in laguna, 1961, olio su tela, cm 67x100 15. Flowering Apple Trees on the Lagoon, 1961, oil on canvas 67x100 cm 16. Case a Sant’Erasmo, 1961, olio su tela, cm 70x100 16. Homes on Saint Erasmus , 1961, oil on canvas, 70x100 cm
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le nuove filosofie neorealiste, neoespressioniste, astrattiste e informali. Come fosse allora letta e sentita l’opera di Orler lo possiamo constatare nelle ‘datatissime’ recensioni del critico Paolo Rizzi dalle colonne del “Gazzettino”. Nel 1957, in occasione della mostra alla Fondazione Bevilacqua La Masa, egli parlava di “focoso temperamento, sempre alla ricerca di nuove forme di espressione” e individuava subito in lui una matrice picassiana, del resto già presente fin dalle composizioni eseguite dall’artista nel 1954 (opere nelle quali Marilena Pasquali avrebbe in seguito individuato un modello picassiano relativamente alle “figure contorte, brulicanti, fortemente espressive che popolano le Tempeste, i Porti e le Guerre”). La ceramica con un San Gior gio, esposta appunto alla Bevilacqua La Masa, aveva, a suo dire, un “calore primitivo”, che colpiva l’osservatore. Qualche mese più tardi, nel 1958, Orler espose, con l’amico Schweizer, ancora alla Bevilacqua La Masa: questa volta fu notato come più evidente il suo picassisme; ma vi erano pure delle composizioni più libere
nelle quali, secondo Rizzi, l’artista “riesce meglio ad esprimere le sue innegabili qualità espressive”. Seguiva una personale al galleria del Centro San Vidal, sempre a Venezia, sul finire del 1959. Ed è in quell’occasione che “la pittura di Orler acquista il significato di una riscoperta, fatta con occhi nuovi e smaliziati”. Furono allora esposti alcuni paesaggi montani nei quali, sempre secondo Rizzi, “par di sentire l’espressione intensa di un ricordo lontano, pieno di calore”. I brani più riusciti erano quelli che “ritraggono, in uno stile che ha il fascino del racconto ingenuo e un po’ rozzo, le vecchie case del paese natio, cariche di suggestivi toni bruniti, rischiarate qua e là da macchie vive di colore”: significativo, in tal senso, è l’olio del 1956, con il paesaggio montano di Mezzano (fig. 5), dominato, quasi per dissonanze, dai prati verdi e dagli alberi naïf (la sua naïveté verrà sottolineata anche dal rammentato de la Souchère; cfr . anche tav. 7), dalla chiesa e dalle case rurali tipicamente trentine
17. Venezia, 1960, olio su tela, cm 100x75 17. Venice, 1960, oil on canvas, 100x75 cm
18. Campo Santa Maria Mater Domini, 1961, olio su tela, cm 78x100 18. Campo Santa Maria Mater Domini, 1961, oil on canvas, 78x100 cm
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(con la legnaia e il piol per l’essiccazione del granturco) deformate nella volumetria e, in parte, cubisticamente dissezionate. Accenti naïf, intrisi di reminiscenze esistenzialiste amaramente nostalgiche verso certo ambiente meridionale, immortalato da Giuseppe Migneco, sono riscontrabili anche ne La Toch, del 1958 (fig. 6) o ne La Processione in costume sar do (fig. 7) e ne La Raccolta delle olive (fig. 8), ambedue del 1959. Anche altri critici, come Guido Perocco e Gigi Scarpa, lodano la forza “nativa” di Orler , la verità della sua nostalgia montana, l’essenza sentimentale e lirica di una pittura al di fuori dei manierismi di moda. Ancora recentemente (in “Arte a Cortina”, inverno 2004) Paolo Rizzi ricorda, di allora, “quei quadri rozzi e forti, ricolmi di energia” e “fuori dalle maniere […], densi di colore, talora agitati secondo l’impulso vangoghiano” e Davide Orler come un “montanaro […], un ‘puro’che ha sempre viaggiato lungo la strada dell’Utopia, tra pri-
mitivo e colto […]. In sostanza: il senso rude della terra natia rivelato attraverso una pittura visionariamente espressiva”. Sta qui, probabilmente, il motivo primo e più ‘superficiale’ del successo dell’artista e forse anche dei vari riconoscimenti pubblici e privati che egli ottenne nel fecondo periodo veneziano degli Anni Cinquanta, calcando allora la mano sugli aspetti esteriori e cromatici di quella sorta di suo indubitabile lirismo naïf, naïveté che la Pasquali, però, nel 2003 ha voluto addirittura, ma impropriamente, negare, dando a tale termine, oltre tutto, una connotazione quasi di falsità e demagogia, per altro, non rispondente alla realtà storica di tale ‘movimento’. Così facendo, però, a nostro avviso si era perso di vista il significato più autentico e profondo sotteso alle sue opere, che sarebbe più liberamente sgorgato solo nella sua produzione posteriore. Così, ‘naïf’ e ‘picassismo’ (si vedano, a confronto, le tavv. 3; 9-1 1) avrebbero segnato per troppi anni, nella critica, l’opera orleriana, decontestualizzando tali caratteristiche dalla forza oniricamente profeti-
19. Un canale a Venezia, 1961, olio su tela, cm 100x90 19. Canal in Venice, 1961, oil on canvas, 100x90 cm
20. Interno d’atelier, 1963, olio su tela, cm 154x99,5 20. Atelier Interior, 1963, oil on canvas, 154x99.5 cm
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ca (o poetica?) sottesa ai suoi dipinti ‘esistenziali’, fortemente emotivi, che così venivano ad essere, in qualche modo, banalizzati e ridotti nel più genuino messaggio artistico, ancorché il picassismo di quegli anni, in Italia, vada ancora considerato come ‘precoce’ e non certo un’adesione alla moda o di maniera, come, purtroppo, lo sarà in seguito in molti ambienti e per vari pittori. Significativo resta, invece, l’incontro-scontro con Peggy Guggenheim, nel cui salotto era stato introdotto dall’amico spazialista Tancredi (1927-1964): un’occasione perduta, certamente (come egli stesso ci ricorda), ma anche una conferma dell’onestà del suo temperamento di uomo e di artista, che la dice lunga sulla sua concezione dell’arte, ben al di là dei suoi “toni bruni del paese natio” o della scontata volontà di voler ricercare in lui una matrice picassiana, in seguito (ma, ribadiamo, solo in seguito!) praticamente comune a tutti i pittori. Più significativa per comprendere il vero Orler, senza incorrere in equivoci o abbagli storiografici, a nostro avviso, è la serie di splendidi ritratti del 1957-1958, alcuni di ascendenza latamente tedesca e
kirchneriana, dalla Figura di donna (fig. 9), resa con veloci pennellate nere ed ocra, alla Ragazza in poltrona (un olio dai forti accenti espressionisti: fig. 10), al Ritratto dello scultor e Silvio Alchini (dagli accenti più marcatamente realisti e psicologici: fig. 1 1), alla Maternità (fig. 12), di gusto - questa sì - più simbolicamente picassiano (si vedano anche le tavv . 20-24; 2728). Pause di serenità sono, in questo periodo, alcune composizioni plastiche e di immediato realismo, come, ad esempio, il gioco sapiente di panneggi, oggetti e animali dello smalto su carta Gatti e chitarra, del 1959 (fig. 13). In questo delicato e travagliato momento la riflessione su letture sacre e di letteratura francese - in particolare del poeta e scrittore Paul Valéry (1871-1945), indimenticabile autore de Il cimitero marino - lo spinse ad una riconsiderazione dell’universo panteistico giovanile, per approdare ad una più autentica fede cristiana.
21. In croce, 1962, olio su tela, cm 200x110 21. On the Cross, 1962, oil on canvas, 200x110 cm
22. Deposizione, 1962, olio su tela, cm 161x140,5 22. Deposition, 1962, oil on canvas, 161x140.5 cm
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Altre sue costruttive letture di quegli anni riguardarono i ‘Poeti Maledetti’, ad iniziare da Charles Baudelaire (1821-1867), ma anche Paul Verlaine (1844-1896), Rainer Maria Rilke (1875-1926), i poeti russi dell’Avanguardia - come Ser gej Aleksandrovi Esenin (1895-1925) - e Federico Garcia Lorca (1898-1936). La svolta religiosa ed esistenziale quasi si concretizzerà emblematicamente nella distruzione delle precedenti opere in ceramica da lui eseguite, gettate da due barconi nelle solitarie calli di Venezia nella seconda metà degli Anni Sessanta. Frattanto, al 1960 risale il primo prestigioso riconoscimento, la medaglia d’oro ottenuta alla Quadriennale di Roma. Proprio negli anni 1959/1960, con l’af fiorare nelle sue opere del tema a carattere sacro e nel ritrovare l’artista la propria identità nel rapporto con Dio, si può indicare la grande ‘svolta’ esistenziale ed artistica. Così, nei
dolci paesaggi dipinti a partire dal 1960-1961 ( S. Erasmo - fig. 14; Meli in fiore in Laguna - fig. 15; Case a S. Erasmo, dalle solide volumetrie di ascendenza quasi nordica: fig. 16; Scorcio veneziano, di indubbio fascino anche per il taglio prospettico degli edifici che si rispecchiano in acque immobili alla Carrà: fig. 17; Notturno a Campo Santa Maria Montedomini , con l’accensione gialla delle luci delle case nella notte, che ci fa venire in mente alcuni notturni ‘popolari’ livornesi del postmacchiaiolo Renato Natali: fig. 18; Un canale a Venezia: fig. 19; v. anche tavv. 25-26; 29), al di là delle pur apprezzabili, ma esteriori componenti naïf, si intravede chiaramente la prima serenità riconquistata, con tenacia e fatica: l’alba radiosa e piena di speranze di un nuovo giorno esistenziale si dischiude nella contemplazione francescana del creato, visto quasi con gli occhi di un bambino (nonostante egli avesse oramai trent’anni), con la purezza e la genuina freschezza che trasforma tutto in un Eden primordiale. Ora i notturni divengono notturni silenti di pace e di serenità e anche la morte (basti pensare al Transito di San Francesco , del
23. Resurrezione, 1963, olio su tela, cm 140x180 23. Resurrection, 1963, oil on canvas, 140x180 cm
24. Stefano Meneghin, 1963, olio su tela, cm 70x50 24. Stefano Meneghin, 1963, oil on canvas, 70x50 cm
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1961: tav . 63) diviene accettabile, accettata e quasi ‘sorella’. Sempre in tal senso si osservino le due raffigurazioni dello studio dell’artista, rispettivamente del 1958 (tav. 19) e del 1963 ( Interno d’atelier , fig. 20, reinterpretando, nella composizione, lo stesso soggetto di Johannes Vermeer, del 1666) e così profondamente diverse tra di loro: vuoto (o meglio, con un’assenza che è un’angosciante, incombente presenza) e ‘scompaginato’ nella confusione il primo, ordinato e con la solida presenza fisica del pittore il secondo. L’impiccato (traslitterazione poetica attraverso il ricordo di un fatto reale di cronaca: v . tav. 37) sta quasi a sigillare un passato, ’uccidendo’ ovvero chiudendo, con quella corda robusta, un passato di traversie e un’età di incubi e di mostri tutti freudianamente nascenti dal di dentro e proiettati al di fuori, per approdare all’età dei mandorli in fiore e del sole radioso (pensiamo agli omonimi soggetti dipinti in alcune sue opere del 1964). Una visione di limpide certezze in una rinnovata Età dell’Oro, dove, quasi ficinianamente, nel sole, nella sua luce e nel suo calore, si rispecchia la pace e la grandezza del Divino
(“in lumine tuo videbimus Lumen” aveva scritto nel Quattrocento il filosofo toscano, a conclusione del terzo libro del De vita). E ancora in quell’interno con il pane frugale e la Bibbia sul nudo tavolo di legno antico si rispecchia l’aspirazione autentica ad un rigore e ad una semplicità tutte proprie di un francescanesimo vissuto nella convinzione che anche l’arte divenga o possa divenite un instrumentum provvidenziale. Nel 1964 giunge il secondo ambito riconoscimento: il premio ottenuto presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Tra le nuove opere a carattere sacro di Orler risalenti agli anni Sessanta (cfr. anche tavv. 62-70) non possiamo dimenticare due grandi oli del 1962: In Croce (fig. 21) e Deposizione (fig. 22), il primo con una visione di Cristo crocifisso desuetamente visto di profilo, dove il rosso scarlatto del perizoma contrasta con il blu notte del fondale e con il livido paesaggio dalle lontane eco annigonia-
25. Natura morta, 1965, olio su tela, cm 60x40 25. Still Life, 1965, oil on canvas, 60x40 cm
26. Natura morta, 1963, olio su tela, cm 55x75 26. Still Life, 1963, oil on canvas, 55x75 cm
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ne, personalizzate attraverso turgide ed ‘ingenue’nubi. Il secondo è qualificato dalla solenne postura delle immagini, in una composizione estremamente moderna e sofferta, ma dalle suggestive reminiscenze antiche da sacra rappresentazione, con riferimenti precisi tratti anche dal primitivismo popolare del ‘doganiere’ Henri Rousseau (1844-1910). Nella Resurrezione (fig. 23), dell’anno seguente, dalle connotazioni più marcatamente simboliche, il Cristo, nel giardino fiorito della nuova vita, emerge dal sepolcro, vincendo con la croce le fiamme del peccato e della morte. A tale periodo appartengono ancora schietti e genuini ritratti, contrastanti con fondi informali dalle veloci ed ampie pennellate (Stefano Meneghin, del 1963: fig. 24), semplici nature morte di grande immediatezza nei vividi e rutilanti colori ( Natura morta, 1963: fig. 25; Pane, cipolla, finocchio e carota, 1965: fig. 26; cfr. anche tav. 30) e una suggestiva tela raf figurante i Bracconieri con
spiedo sulle Dolomiti (fig. 27), incentrato sulla vivace fiamma che illumina la selvaggina mentre tutt’intorno, nell’oscurità della notte e nel fumo emergono le statiche e provate figure dei bracconieri, dove possiamo leggervi anche un omaggio a certi ‘omini’ di Ottone Rosai. Spesso i suoi quadri, i quadri di questo nuovo Orler , convertitosi nell’esuberanza, appunto, del neofita, sono ora influenzati anche dall’opera di un grande maestro italiano del tempo, da lui conosciuto nel 1958 e profondamente stimato ed ammirato: Felice Carena, che si era trasferito da Firenze a Venezia dopo la guerra. Specialmente dal 1967, il periodo per così dire ‘careniano’ di Orler, egli trasforma la rappresentazione delle tragedie umane da una pessimistica e passiva visione di disperazione ad un momento epico di positiva e costruttiva riflessione. Un figurativo sanguigno e decisamente anticonformista, giustamente propugnato come innovatore, in un’Italia intellettuale che allora quasi riconosceva esclusivamente come arte la via dello Spazialismo astratto di Lucio Fontana (e la querelle tra Orler e Fontana stesso dimostrano ampiamente
27. Bracconieri con spiedo sulle Dolomiti, 1963, olio su tela, cm 150x200 27. Poachers with Spit in the Dolomites, 1963, oil on canvas, 150x200 cm 28. Dietro le sbarre, 1965, olio su tela, cm 45x35 28. Behind Bars, 1965, oil on canvas, 45x35 cm
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l’humus di quei fecondi e indimenticabili Anni Sessanta). I richiami, pur presenti nelle opere di Orler , alla morte non sono più - o lo sono sempre meno frequentemente - angoscianti incubi (come Dietro le sbarr e, del 1965 - fig. 28, dai riferimenti ancora un volta ad Edvard Munch), né fughe dal gor go sof focante e insostenibile della depressione, né esorcizzazioni ubriacate e stordite nella presenza di una ‘materia-dio’ opprimente, ma divengono una tranquilla, serena e naturale constatazione, un non temuto memento mori , simboleggiato dalla ripetuta presenza di quel teschio che il fratello missionario Cesare gli aveva portato dal Sud Africa, appartenente ad un giovane di colore ucciso in quei funesti momenti, dominati dal bestiale razzismo della Apartheid: si pensi, ad esempio, a Composizione con teschio e ananas e Composizione con teschio, ambedue del 1965, oppure a Fiori, conchiglie e teschio, del 1968 (fig. 29), che già, per taluni aspetti, instaurano il periodo careniano di Orler (si confronti, ad esempio, Natura morta con teschi e clessidra , dipinta da Felice Carena nel
1950). La trasfigurazione di quel teschio in un simbolo di risurrezione dello spirito oltre la morte si trasforma, così, indirettamente, anche in una pacata denuncia sociale, ponendosi dalla parte dei ‘piccoli’ di evangelica memoria. La stessa serenità traspare dalla trasfigurazione de La montagna incantata del 1965 (tav . 40), dove l’astro rosso risplende tingendo le vette purpuree e i campi di grano quasi come in una notte d’eclisse, oppure nel Sole a Fedai (del medesimo anno), dominato appunto da un gigantesco sole all’orizzonte, ingrandito e onnipresente come attraverso suggestive lenti telescopiche. Nel 1966/1967 Orler torna al vecchio tema legato ai drammi di calamità naturali, ma questa volta le “alluvioni” a Mezzano di Primiero, evento risalente a quel 4 novembre 1966 noto soprattutto per i grandi danni che allora subirono anche Firenze e Venezia, rispecchiano una maestosità solennemente etica e vibratamente care-
29. Fiori, conchiglia e teschio, 1968, olio su tela, cm 45x75 29. Flowers, Shells and Skull, 1968, oil on canvas, 45x75 cm 30. Campagna al tramonto, 1972, olio su tela, cm 60x70 30. Countryside at Sunset, 1972, oil on canvas, 60x70 cm
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niana, ben lontana, come si è detto, dalla lacerante disperazione gridata e senza speranza, da quella notte profonda senza alba delle sue opere risalenti al 1954-1955. Una genuina pietas, come ha giustamente ricordato recentemente il Rizzi, che però va ben oltre gli “accenti umanamente struggenti”, per assur gere al tono poderosamente epico di petrigna coralità esistenziale. Un evento personale contribuirà, in quegli anni, a raf forzare le componenti di incanto e serenità, ma anche di accettazione pacata dei drammi e delle miserie umane, che traspaiono dalle sue opere: il matrimonio con la compagna della sua vita, Carmela Zanda, sposata l’11 febbraio 1966. All’inizio degli Anni Settanta Orler riscopre pure il collage, ma questa volta in maniera nuova e concettualmente anticonformista, non più legata a picassismi: vicino ad alcune esperienze della Pop Art americana ed italiana (si vedano I campi dallo studio - tav . 46, Campi dallo studio a Favaro, ambedue del 1971, oppure
Campagna al tramonto, del 1972 - fig. 30, con l’apporto materico del colore spremuto direttamente dal tubetto) e, insieme, anche vicino (in tempi ancora non sospetti!) a certe espressioni del Nouveau Réalisme propugnato da Pierre Restany (nonostante egli, nelle sue memorie, si dica lontano sia da questa espressione artistica che dalla Pop Art, dall’Informale, dal Concettuale o dall’Optical Art), le sue tele e le sue tavole si coprono di accumulazioni di oggetti di scarto della società moderna. Si tratta di materiali che non servono più o che, comunque, non possono più servire per lo scopo per il quale erano stati creati, come tubetti di colore spremuti, barattoli di vernice e vecchi pennelli, innalzando ad ‘opera d’arte’ qualsiasi oggetto di rifiuto della moderna civiltà dei consumi, a significare come cose che hanno perso la loro funzione non meritano di essere cinicamente gettate, ma possano assumere un altro ruolo ed un’altra dignitosa funzione (quella di trasmettere un concetto tramite forma artistica). In altre parole, fuori dalla metafora e dal simbolismo, anche ciò che pare inutile nel mondo della produzione e dei con-
31. Busillis, 1974, tecnica mista su tela, cm 65x80 31. Busillis, 1974, mixed technique on canvas, 65x80 cm 32. Frutta e composizione, 1974, tecnica mista su tela, cm 70x50 32. Fruit and Composition, 1974, mixed technique on canvas, 70x50 cm
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sumi ha, invece, un suo oggettivo ed intrinseco valore. Inoltre, l’’accumulazione’ di oggetti rotti o consumati diviene quasi il desolante e disincantato ‘reperto archeologico’ ante litteram del futuro, concernente la nostra civiltà, spesso priva di valori profondi e durevoli e di concetti legati al Bello e alla Trascendenza. Basti pensare ai suoi Campi di inquinamento del 1975 (tav . 54) o alle accumulazioni di corde ed oggetti usati oppure rotti (tavv. 53; 55-56) per rendersene immediatamente conto, sebbene in Orler rimanga sempre vivo il richiamo, tramite anche questi poveri rifiuti, alla raffigurazione di altri spazi e paesaggi reali, in quanto la sua è e rimane sempre un’arte figurativa, non influenzata dalle pur rilevanti esperienze nel campo dell’Astrazione e dell’Informale (pensiamo a Frammento di paesaggio ; Campi dall’aereo, tav. 51; Tavolo di pittore; Vaso di fiori esotici, tutti del 1972). Tra queste sue opere rammentiamo, inoltre, Busillis (fig. 31); Frutta e composizione (fig. 32), dalle indubbie assonanze concettuali con alcuni collage di Mario Schifano; Composizione con uovo (fig. 33); Grande sole (fig. 34, tutti del
1974); Paesaggio in tempesta (fig. 35); Mare - Donna cananea (del 1975/2001: fig. 36), fino al Senza titolo (fig. 37), del 1989, in cui i vivi smalti e le macchie di colore jeté contrastano con le candide geometrie delle carte applicate, e alle Nuvole e erbe , del 1994 (fig. 38), che si richiama ancora a Jackson Pollock (1912-1956), come già, per taluni aspetti, Paesaggio in tempesta n. 3 o L’uomo e l’universo, del 1975, dove ad un effetto visivo quasi di dripping pollockiano si accostano, in una action painting che invade interamente il supporto, con risultato all over, accenti figurativi e inserzioni di collage e materiali diversi che ammiccano alla Pop Art nella sua versione italiana e segnatamente romana di Piazza del Popolo (certi “paesaggi anemici”, “turbolenze” o impostazioni della figura umana in posture classiche e quasi michelangiolesche, che rimandano a Mario Schifano, a Franco Angeli e a Tano Festa). Sempre nel 1972 Orler si accosta anche all’osserva-
33. Composizione con uovo, 1974, tecnica mista, cm 80x40 33. Composition with Egg, 1974, mixed technique, 80x40 cm
34. Grande sole, 1974, tecnica mista su tela, cm 110x100 34. Large Sun, 1974, mixed technique on canvas, 110x100 cm
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zione dei grandi cicli musivi ravennati e all’arte di ascendenza bizantina, riscoprendo in essa le radici della più genuina cultura cristiana delle origini (vedi tavv. 7173). In tal modo, l’ammirazione per l’universo artistico prerinascimentale, così pregno di simboli sacri e di mistici significati, lo aveva già aperto o introdotto, quasi casualmente (o provvidenzialmente?) fin dal 1965, anche alla conoscenza delle icone orientali e particolarmente russe: un incontro ovvero una letterale ‘folgorazione’ che avrebbe segnato per sempre la sua vita di uomo e di artista, come ricorda egli stesso, non senza commossi accenti di viva emozione: “mi aveva colpito qualcosa di molto lontano da qualsiasi concetto di arte cui ero abituato in quegli anni, ma allo stesso tempo suscitava in me una forza magnetica irresistibile: forse la stessa che aveva scioccato Matisse durante il suo viaggio in Russia agli inizi del secolo e nella quale af fondano le radici di Marc Chagall fino all’ultima sua produzio-
ne pittorica, le grandi raf figurazioni della Bibbia”. Gli astratti fondi oro che rimandano al fulgore di Dio, le figure ascetiche e immutabili nel tempo (avvolte da un senso mistico, ad un tempo popolare e raf finato), com’è immutabile quel mondo divino che cercano di far intuite, si rispecchieranno in maniera assai ampia nella produzione artistica a carattere sacro di Davide Orler, in un modo che travalica decisamente quelle indubbie assonanze iconologiche presenti in alcuni lavori orleriani degli Anni Novanta (come, ad esempio, la Trinità angelica, del 1996 - fig. 39 - e quella del 1997 - tav . 81 oppure la raffigurazione della Natività, sempre del 1997: fig. 40). Dal 1958 fino al 1978 Orler ha tenuto circa cento personali sia in Italia che all’estero (comprese quelle assai significative nelle gallerie d’arte moderna di Parigi e di Zurigo), ma proprio il 1978 rappresenta per lui la fine di un’epoca artistica, sebbene proprio in quell’anno eseguisse alcuni affreschi in Tanzania (che seguivano quelli nel Transvaal, del 1972): in seguito e fino al 1987, per una molteplicità di motivi contingenti, la
35. Mare. Donna cananea, 1975/2001, tecnica mista su tela, cm 70x100 35. Sea. Canaanite Woman, 1975/200, mixed technique on canvas, 70x100 cm 36. Paesaggio in tempesta, 1975, tecnica mista su tela, cm 100x130 36. Landscape in a Storm, 1975, mixed technique on canvas, 100x130 cm
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sua attività pittorica si rarefà, pur appartenendo a tali anni alcuni interessanti collages d’avanguardia, realizzati con carte luminescenti, e tutta una produzione minore a cavalletto, con paesaggi lontani. La profonda conoscenza dell’arte e del sentimento religioso dell’Europa Orientale e segnatamente della Gran Madre Russia, che anche nella vita di collezionista e di mercante lo ha così indelebilmente segnato (portandolo ad avere, com’è ampiamente noto, una delle più importanti raccolte di icone russe presenti nell’Europa Occidentale), ha influenzato soprattutto la sua ultima produzione, ad iniziare dal 1987/1989 e, soprattutto, dalla metà degli Anni Novanta (una vera nuova giovinezza creativa), che, per sua espressa volontà ed essendone egli perfettamente cosciente, vuole quasi essere il suo testamento spirituale di uomo e d’artista. Rileggendo il Discorso agli Artisti scritto da Paolo VI (7 maggio 1964) e facendolo visceralmente suo fino nei più reconditi accenti tra le righe, ha prepotentemente (ancorché umilmente) voluto af fermare che anche il Moderno può ed anzi deve avere un messaggio di
fede, come ha avuto in passato (concetto, peraltro, poi ribadito da Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli Artisti del 4 aprile 1999). Infatti, come egli sostiene e come ha già espresso nel 1988 un raf finato e sensibile critico d’arte, purtroppo recentemente scomparso, Elvio Natali, “che l’arte sacra sia viva ancor oggi, fra tanti vaticini di morte, è testimoniato da documenti di altissimo pregio estetico. Come non citare, fra gli altri, Rouault, Chagall, Matisse, Sutherland e, fra i nostri, Manzù, Fazzini o Greco”. Del resto, come già aveva espresso il Beato Angelico, “per dipingere Cristo bisogna vivere con Cristo”. Ciò nonostante, l’arte ha le sue leggi e anche la fede più profonda non può di sé autenticare l’opera pittorica religiosa (facendola assurgere ad Arte Sacra) se non supportata da una reale intuizione creativa e dall’’abito’ dell’arte, che è forma (cioè struttura espressiva), stile e ritmo personale dell’artista: come af fermava il poeta Vladimir
37. Senza titolo, 1989, smalti e collage, cm 157x75 37. Untitled, 1989, enamels and collage, 157x75 cm 38. Nuvole e erbe, 1994, tecnica mista, cm 74x92 38. Clouds and Grasses, 1994, mixed technique, 74x92 cm
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Majakowskij, “l’idea più grande morirà se non le daremo una forma adeguata”. Sostanzialmente resta sempre attuale il principio della Scolastica, concernente lo splendor formæ, cioè splendore della sostanza interiore attraverso la forma come essenza. In quest’ansia palpitante di Davide Orler nel voler lanciare e lasciare questo suo messaggio, quasi che il tempo non gli bastasse (e quasi in ‘lotta’ con esso), i grandi problemi esistenziali insoluti ed insolubili dell’Uomo si riversano come un gor go straripante sulla tela, attraverso ampie pennellate gestuali, fluide e veloci, creando vorticosamente opere nuove di grande impatto emotivo, come le cento raf figurazioni ispirate alle storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, totalmente aliene da qualsiasi retorico pietismo e da un’oleografia volgare, fatta di abbandoni e estasi mielosamente stomachevoli. Parallelamente, pur influenzato dalla ricerca della Verità e dello Spirito che traspare dalle icone
sacre russe, Orler rimane un uomo e un artista occidentale, che segue una concezione diversa dalla visione orientale ed ortodossa della divinità, raf figurata nelle icone, dove l’Assoluto si por ge all’uomo in una statica immobilità figurale di derivazione ancora bizantina e ritratta con la devozione di un puro ed esclusivo atto liturgico, come un mistico sacramento. La civiltà dell’Occidente interpreta e vede Dio come vivente in interiore homine, cioè calato dentro il cuore dell’uomo attraverso Cristo e pertanto, come tale, figurabile in maniera dinamicamente mutevole come la vita. Ed è proprio il vibrante dinamismo della pennellata, sempre mutevole e diversa, di Orler, pur sempre nell’ortodossia del dogma, che qualifica stupendamente i suoi quadri, in una visione escatologica del Cristianesimo che anela e tende all’ecumenismo, come le sue dinamiche e vorticose figure anelano e tendono al Salvatore (cfr . tav. 104). Un Orler che, ponendosi contro un piatto e svilente materialismo e, nel contempo, contro uno sterile e banalizzante angelismo, riunisce l’unità e l’armonia dell’umano con il Divino, che tornano ad incon-
39. Trinità angelica, 1996, smalti su tavola, cm 150x184 39. Angelic Trinity, 1996, enamels on board,150x184 cm
40. Natale, 1997, smalti su tela, cm 150,5x205 40. Christmas, 1997, enamels on canvas, 150.5x205 cm
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trarsi. In ultima analisi, la risposta a Paolo VI, che diceva, rivolto agli artisti, “noi abbiamo bisogno di voi!”, e a Giovanni Paolo II, che, rivolto sempre agli artisti quali “geniali costruttori di bellezza”, auspicava “tra Vangelo e arte un’alleanza feconda” in un rinnovato dialogo. La prima opera che ci colpisce in tal senso è proprio l’Incontro, del 1989 (fig. 41), una rivisitazione originalissima e visionaria degli ‘incontri’ di Virgilio Guidi, riproiettati in uno spazio e in una scena reali (naturali) e non più sospesi in una totale luminosità eterea e atemporale. A questa, ad iniziare dal 1996, seguono - solo per fare qualche esempio, oltre a quelli esposti in mostra ed analizzati nelle singole schede (tavv . 74-108) - la policroma e luminosa Epifania, del 1996 (fig. 42), quasi una sorta di nuova epifania della bellezza che salva (per usare un’espressione di Giovanni Paolo II, tratta dalla rammentata Lettera agli Artisti scritta in occasione della Pasqua del 1999); il Carro di Sant’Elia , del 1997 (fig. 43), il cui vorticoso dinamismo è, in un certo senso, la reinterpretazione in chiave sacra di quello futurista di Boccioni e di Balla; Le tentazioni di
Sant’Antonio, sempre del 1997 (fig. 44), il cui gor go di figure ammalianti che si trasformano in incubi mostruosi allude alla bellezza e al peccato, con accenti espressionisti, ma anche con richiami alla Transavanguardia e, nella luminosa cromia di alcuni poderosi tratti, all’Informale del gruppo CoBrA. E ancora possiamo rammentare, di quel fecondo anno, La strage degli innocenti (fig. 45), di drammatico realismo, dominato dalle ‘scudisciate’ di rosso brillante sul cumulo quasi informe di corpi, o La guarigione del paralitico (fig. 46), ove plastici ed armonici segni traccianti corpi, che ci ricordano Matisse o forse anche Cantatore (come già nella Figura sdraiata , risalente al 1956), le cui teste sono limpidi volumi nello spazio, di dechirichiana memoria. Oppure, ancora, la Deposizione (fig. 47), composizione staticamente solenne e dinamica ad un tempo, resa per ampie e sinuose pennellate di smalti, che incidono la drammaticità della scena che risalta su un fondo notturno, Klein blue.
41. Incontro, 1989, smalti su juta, cm 95x95 41. Meeting, 1989, enamels on jute, 95x95 cm
42. Epifania, 1996, smalti su tela, cm 140x200 42. Epiphany, 1996, enamels on canvas, 140x200 cm
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Il buon samaritano , del 1999, è un’opera suggestiva nei toni dell’ocra e del blu, dove le linee essenziali e sicure accennano a figure umane ed animali e al paesaggio che possiamo intuire ed immaginare a supporto del forte carisma di pietas cristiana che traspare prepotente dalla tela. Il suo modello, conforme al sentire della chiesa postconciliare, è quella del Christus patiens , lucido riferimento per il tormento e le ansie moderne, più che verso il Christus triumphans , caro ad età più serene o dogmatiche della nostra. Capovolgendo il messaggio teologico dell’iconologia orientale, la sua non è arte ‘sacra’, cioè non dipinta da mano (mente) d’uomo, espressione Divina immutabile calata per rivelazione dall’alto, ma arte ‘religiosa’, vale a dire spinta dalla fede ab imo hominis verso il Salvatore. Ne La tempesta sedata (fig. 48: uno smalto ed olio su juta del 2000) il dinamismo vorticoso e sintetico della scena pare ruotare tutto attorno all’imponente figura scar-
latta di un Cristo appena accennato da un’intensa pennellata, nella quale si concentra e concretizza tutto il furor pingendi orleriano. Sostanzialmente, si modifica il suo modo di far pittura: la trasparente luminosità è resa attraverso colori primari brillanti e cangianti, senza sfumature; l’ampia e sinuosa pennellata si avviluppa a disegnare figure corporee ed eteree ad un tempo, quasi come matasse di lana policroma, attraverso le quali traspare la tela sottostante ed il paesaggio del fondo. Cromie espressionisticamente irreali accendono quei personaggi le cui teste, spesso prive di connotati nel volto, nella loro simbolica forma ellissoidale, ammiccano, come si è detto, a universi surreali dechirichiani. Spesso l’impiego della vernice data a spruzzo (da lui sperimentata fin dagli Anni Settanta, ma ora ripresa con maggior padronanza della tecnica) conferisce alle ambientazioni e alle figure sacre un alone etereo di silente e mistica religiosità. Il suo modo di fare pittura, il suo disegno deciso, i suoi colori forti e pieni di luce, si diceva, denunciano chiaramente il fascino verso la matrice
43. Il carro di Sant’Elia, 1997, smalti su tela, cm 140x200 43. Elijah’s Cart, 1997, enamels on canvas,140x200 cm 44. Le tentazioni di Sant’Antonio, 1997, smalti su tela, cm 150,5x205,5 44. The Temptations of Saint Anthony, 1997, enamels on canvas, 150.5x205.5 cm
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tedesca del grande espressionismo, ad iniziare dalla sua nascita con la Brücke (basti pensare, ad esempio, ai vari ritratti di Marcella di Ernest Ludwig Kirchner , il cui segno nero e deciso dei contorni, il colore acceso di vesti, ambienti e nature morte fatte di oggetti del quotidiano hanno avuto alcuni indubbi riflessi su certe opere orleriane). Ma è stato forse soprattutto l’espressionismo cromatico germano-americano di Max Beckmann che può trovare maggiori assonanze culturali con il Nostro, unite alle forti ascendenze oniriche (“una finestra sul sogno” è stata definita la sua opera nella recente mostra Cortina d’Ampezzo) e metafisiche rammentate. Ecco che allora nel suo simbolismo possiamo individuare eco del surrealismo di Joan Mirò o dei ‘racconti’ di Marc Chagall, dove, però, spesso il racconto poetico di quest’ultimo è tradotto in vorticosi e abbaglianti flash. E ancora potremmo individuare, in certe sue produzioni ancora legate alle esperienze degli Anni Settanta, dotte citazioni francesi e italiane: da Henri Matisse, a Osvaldo Licini o, in parte, a Enrico Baj. Tutto questo, però, in fin dei conti poco importa, poiché Orler riela-
bora queste eco - più o meno volute o inconsce - in una pittura decisamente autonoma e sempre personalissima. In un mondo figurativo e simbolico di ascendenza nordica, però, possiamo ravvisare anche una sapiente rielaborazione, in chiave decisamente moderna, di personaggi, come si è accennato, propri dell’universo russo e di rito orientale, ma ricca di tensioni e di un’emotività primigenia, che affonda le sue lontane origini in un ‘dimenticato’ ma non del tutto cancellato pathos da “Sturm und Drang”, tradotto ‘italianamente’ in vive e violente cromie mediterranee (di ascendenza siciliana e mignechiana) o in lunari sfocati di sof fusa luminosità veneta, con riferimenti, inoltre, a Picasso, a De Chirico, a Guttuso stesso. Colori, come si è detto, assoluti, vivaci e squillanti, talora in chiara ed evanescente dissolvenza; essenzialità del tratto, in un prepotente assunto della restaurazione del primato del disegno e della pittura; eclettismo stilistico
45. La strage degli innocenti, 1997, smalti su tela, cm 134x205 45. The Slaughter of the Innocents , 1997, enamels on canvas, 134x205 cm 46. La guarigione del paralitico, 1997, smalti su tela, cm 140x200 46. Healing of the Paralytic, 1997, enamels on canvas, 140x200 cm
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con un gusto per la citazione di motivi delle avanguardie storiche eminentemente a carattere espressionista, primitivista e fantastico, con ammiccanti richiami al nomadismo intellettuale e stilistico della Transavanguardia italiana o dei Nuovi Selvaggi tedeschi, ma ampiamente personalizzati secondo una propria inconfondibile ‘via’, come solo un artista che ha tanto vissuto può attuare (ma, nel contempo, nonostante i suoi oltre settant’anni, con l’energia e la vitalità di un giovane), ci restituiscono ambienti, personaggi e, più che altro, sensazioni antiche che parlano direttamente e con linguaggio sciolto e modernissimo alla complessa e contraddittoriamente travagliata società odierna e al cuore dell’uomo: e proprio in questo sta, a nostro avviso, l’arte più vera e genuina di Davide Orler, un colto ed ‘umile’ messaggio, fatto di sensazioni e di concettualità al di là delle ideologie, delle avanguardie e delle mode, fatto di pathos e di logos, unito ad una superba thecne, un’abilità innata, cioè, nel di-
segno e nelle varie tecniche pittoriche, un autentico messaggio culturale di arte, di vita e di fede - memore del tempo passato ma proiettato nel futuro - per il ‘viaggiatore’ di questo travagliato, pragmatico e magmatico inizio di Ventunesimo Secolo. Per questo abbiamo voluto inizialmente citare, quasi a summa del suo lungo viaggio umano ed artistico, i versi dedicati a Marcel Proust di Giovanna Fozzer, amica dell’artista e che con lui ha condiviso e condivide le vibrazioni vitali più profonde e cosmiche dell’essere umano e della “natura-anima” alla ricerca di un significato e di un senso per l’esistenza, sottraendola alle inquietudini esistenziali del tempo. Ovvero, come ne À la r echerche du temps per du di Proust, è il racconto straordinario dell’esistenza artistica e della vittoria di Orler - atto a spiare l’incosciente e a cercare l’io profondo nel ricordo - sulla vita mondana dissipatrice e panteistica prima e sul tempo stesso poi, per mezzo dell’Arte stessa che tutto redime.
47. Deposizione, 1997, smalti su tela, cm 150x200 47. Deposition, 1997, enamels on canvas, 150x200 cm 48. La tempesta sedata, 2000, smalti e olio su juta, cm 95x95 48. Appeased Storm, 2000, enamels and oil on jute, 95x95 cm
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Orler e gli altri di GIOVANNA FOZZER1 “Io sono riuscito a capire la mia giovinezza soltanto circuendola. L ’ho assediata famelico” scriveva Piero Bigongiari, nel 1938, ed Ennio Scalet trascriveva nel 1954, in una lettera a Giovanna, composta anche da un brano di Trame di Luzi. Giovinezze roventi, sul filo d’ogni rischio, anche mortale, furono quelle di Davide Orler, di Giulio Alchini, di Riccardo Schweizer, gli amici (nati tra gli ultimi anni Venti e i Trenta), che nei primi Cinquanta s’incontravano, specie d’estate, nella valle nativa, Primiero. La più piccola valle del piccolo Trentino pareva un crogiolo di intelligenze, di passioni: per l’arte, la poesia, la bellezza - scontate in parte come inferno di povertà, di sospetto e d’incomprensione. Passavano le notti a camminare da un paese all’altro, Ennio e Davide, Giulio e Riccardo, parlando d’arte: Morandi o Picasso, Goya o Rembrandt, recitando Pasolini, Valéry o Rimbaud, Montale, Gatto o Saba, citando a memoria pagine di Ragghianti o di Longhi, scontrandosi e incontrandosi nelle idee, negli amori. Potevano trovarsi talora a Venezia - i musei, le mostre, gli intellettuali - ed incontrare Giovanna Bemporad che già recitava gli endecasillabi della sua Odissea, o la bellissima cassiera del bar, dalla rosa affondata nella scollatura, o Zoltan Rako i, l’intellettuale supremo, l’ungherese apolide a rischio di impiccagione, che sapeva a fondo tutto, le lingue antiche e moderne, o le pietre e la storia di Venezia.
Fiammate di amicizia e d’ironia, bevute e risse in osteria, salotti letterari, incontri d’eccezione; e ancora povertà, e via via la diaspora di questi giovani negli anni giovani del dopoguerra, verso la vita: pittura, scultura, poesia, anche lavoro, che dalla povertà avrebbe infine salvato. Ma presto venne la sventura e la prima morte, quella di Giulio nel 1958. Nella pittura di Davide Orler - sceso dalla valle dolomitica per la ferma nella Marina Militare a La Spezia (una paga sicura, e tante nuove esperienze) - entrava per la prima volta il mare.
Davide Orler al Lido di V enezia, con il pittor Schweizer e l’amico Enrico Zeni (1949 cir ca).
e Riccar do
1 Riteniamo interessante riportare in questo catalogo un breve ma illuminate scritto della nota letterata e poetessa, appositam ente steso nel febbraio del 2005, che ricorda gli anni della sua frequentazione con Davide Orler, riuscendo in poche righe - ‘schegge’ autobiografiche e biografiche, quasi esistenziali - a sintetizzare ed immortalare tutto un mondo ed un ambiente culturale così ricco e fecondo, in u n alone nostalgico e velatamente onirico.
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Davide Orler: the tormented yet inspiring journey of a soul The artistic production of a painter has always been the expression, and almost reflection of his mind, resounding more or less hidden echoes of the great events that have marked the life of the artist himself. This, as is widely known, is above all true of the twentieth century when the spread of photography and, contextually, of Sigmund Freud’ s psychoanalytic research substantially decreed the end of painting as a mere depiction of reality, opening the new and exciting way for an art that portrays the sensitiveness of the human mind, the artist’ s feelings and most intimate emotions, and not only through the more or less ‘classic’, lyrical or gesturally informal, ‘fauve’ abstraction. Thus the entire work of Davide Orler, stretching back over half a century of tireless and chaotically overwhelming activity, is almost the most paradigmatic example of how art can and must be the authentic - and almost poetically psychological - expression of a soul, becoming (when it is true art) the intuition of a universal message, a forerunner, free from fashions or currents. The some five thousand works he has so far created are the unequivocal demonstration of this. The oneiric, ‘prophetic’ and vigorous gestural expressiveness of his latest work can only be fully understood by looking at the previous stages (at times dif ficult, painful and apparently gloomy) of his human and professional development, deliberately and in part unconsciously reflected in his paintings and boards, where the ‘conceptual’ nature of the tinged message becomes sublime disenchanted lyric poetry of human fragility , hidden in the mystery of the Divine, as his almost breathless desire to recount his story seems to wish to emphasise. In Orler ’s later work, by means of a concrete “mountain” stubbornness, the message of that new sacred figurative art takes root, so exquisitely and genuinely new , fresh and crystal clear , so openly and programmatically non abstract and yet, in the end, so intimately ‘informal’, if by informal we mean a split, in the message infused by the artist, from the objective meaning of the depiction itself, to access deeper existential and faith-based intuitions. Orler ’s human vicissitudes, more than those of other
artists, are the essential key to interpreting and fully understanding his works, his message, his artistic strength. Davide Orler ’s first encounter with painting can be said to have taken place through his friend and ‘maestro’ Riccardo Schweizer (1925-2004), just six years older than he and who at the time, not without fortune, had managed to leave his hometown and enrol in the Academy of Fine Arts in Venice. As Orler himself recalls, he had the opportunity to meet regularly with Schweizer immediately after the war and with him “a small group of culture and art lovers, a little artistic coterie of intellectuals, curious and anxious to explore the new turmoil that was spreading across Europe”; among them were Hungarian writer and poet Zoltan Rákosi and artist Bruno Saetti (19021984), the unfor gettable rediscoverer (or rather interpreter) of the ancient and state-of-the-art fresco technique. In actual fact, however, we can go a little further back in time to when Davide, at the age of twelve or thirteen, was literally struck by the magic of the shapes and colours of his hometown, Mezzano, one of the ancient dwelling spots in Trentino’s Primiero Valley, a town characterised by typically rural, mountain architecture, built from wood and stone (like his parents’ home built in 1807). Here, outside walls were often decorated with simple, folk murals, partly originating from the artistic tradition developed in nearby Feltre, historically a frontier town and dividing point between the Serenissima’ s central-eastern Veneto plain and the Alpine area of Austro-Hungarian Trentino (the ‘Contado del Tirolo’ as can still be read on ancient maps). And it was precisely the culture and art forms of the Primiero Valley, forever suspended between Germany and Venice, that indelibly influenced Orler ’s work, constituting its natural backdrop. Despite infinite hardships linked to the tough existence in a mountain town recovering from the war , where life still revolved around the ancient rhythms of haymaking, mountain pastures and transhumance, Orler began painting ingenuous yet fresh and immediate depictions of the Madonna on the walls of
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Landscape in Mezzano, 1956, oil on canvas, particular.
his house in the popular style. At fourteen, he painted a Crucifixion on a towel stolen from his mother and a fresco on the walls of the mill his father worked in (a “vocation”, however, that developed within the family: his uncle, Giovanni, at the start of the century, had been a renowned church fresco painter before emigrating to North America, taking the tradition of his lands with him). In 1942 (when our army was engaged in what was to become the disastrous Russian escapade) he painted an unadulterated depiction of Alpine Skiers (fig.1) which, though still immature in style, reveals, at the tender age of eleven, Davide’ s remarkable drawing ability , with unquestionable assonances with the great engravers of the period, such as Marcello Dudovich or Walter Molino. In 1946, at the age of fifteen, Orler went for the first time to Venice, the city of his dreams and deepest aspirations as he himself recalls, still trembling with excitement: “I was only fifteen when I ran away from my home and town […] to see the city of my dreams, the city built on water that I had heard so much about from friends and acquaintances, from poets and artists, in love - as I must have been - with the art and culture that Venice emanated. When I think back to those days I still get emotional. It was the winter of 1946 when, with just a few coins in my pocket and no friends to rely on, l left my town for Venice.” It is a 1947 oil painting depicting Saint Peter (fig. 2) that, beyond the stereotyped representation of symbols connoting the saint, reveals a certain ingenuous immediacy so typical of Orler ’s work at that time. Full of enthusiasm, he later (at the age of eighteen) enrolled in the Academy of Fine Arts but was soon to drop out to volunteer for the Navy, in youthful search of an adventurous life full
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of intense experiences. Thus he patrolled up and down the Mediterranean on minesweepers and corvettes, visiting ports and meeting various peoples and cultures and, as he recalls, “above all the south, full of colours and that intense light, so dif ferent from Venice and the mountains in Trentino” (see also table 2). While posted at the Messina base, he opened a small studio in Contesse, a secret hideout where he could take refuge during breaks from military activities: “It was then that I felt the irrepressible desire to paint. To paint following my instinct, my passion, with no teachers or academies. I threw what I saw and felt onto canvas, without thought, accepting no compromises, alternating between work on board and work with my brushes.” In 1953 his paintings included a Self-portrait (fig.3) in which he is dressed in his sailor’s uniform with a thick, fair beard: a portrayal that still showed traces of the European and distinctly French fin de siècle pictorial climate. Again as he himself likes to point out, “the warmth of that land, the faces of the people”, ordinary people, epically lined by sorrow, fatigue and the sun, overbearingly permeated his works of the period. However, in those passionate ‘ fauve’ years, more careful observation reveals twenty-year -old Davide’ s internal fragility: cast from a small mountain town into the vastness of countries on the Mediterranean, his strong sensibility was put harshly to the test, particularly by the great tragedy of the natural disasters he was caught up in as a rescuer along with his fellow soldiers. These dramatic experiences were to be reflected in the vivid colours and deformed spectral figures of an expressionist tone (an almost interior Munch-like Scream) of those shapeless, fractured and decomposed bodies of the drowned he recovered with the Navy in Salerno ( Recovery of Salerno’ s Flood Victims, 1955: table 5; cp. also table 6), or in the ‘haunted’ works dedicated to the Salina Earthquake , or again in the tangled mess of flesh and steel depicting a crash between two lorries (Sicilian Crash, again 1955). In it, Pasquali almost went as far as seeing the unconscious realisation of a pure Orler-style Art Brut, i.e. of that art thus defined by Jean Dubuf fet in 1945, the art of the outsiders, those outside the art system’s institutions and cultural mould. Indeed, the work of this young Orler is spontaneous and sincere, immune from any form of one-way conditioning, based on individual creative impulses, at times irregularly compulsive, at times naively ‘primitive’. In a pantheistic vision of the Divine coinciding with nature, his art, painted in his small Sicilian refuge, is also overbearingly traversed by the hail of those tragedies, rendered using strong colours and with a ‘schizophrenic’ decomposition of figures of cubist and Picasso descent (the great master of the twentieth century he unconditionally admired), filtered across a Nordic, expressionist interpretation drawn in part from Schweizer , or
rather, sincerely shared with him. Precisely those landscapes created while on leave in 1955, employing fragments of gluedon wood, are a tribute to his pantheism, where once again Nature gives Art its woods, scorched by the sun, worn and tormented by time. In 1955/56 Orler , at that time in La Spezia, began to go through a profound crisis, in some ways comparable to that of Georges Rouault (1871-1958), that reached its peak in 1958: his ongoing involvement in great sea tragedies provoked existential suffering that generated a bitter sense of powerless solitude, the sign or tip of an iceber g of depression that even led him to the brink of suicide. The pleurisy he contracted while on military duty, resulting in him being sent to hospital, led him to embrace the collage technique (elite form of Cubism), having no paints at his disposal. Two paradigmatic works of the period are Harem and Sailors’ Women, works steeped in distressing solitude and disconsolate realism: an entire world of emblematic, ambiguous figures, at times portrayed with ruthless violence, that populates his paintings and collages of the period, elaborating a language that adheres to his most intimate needs for expressive drama. The heartless, mercenary love shown in those works symbolises his attempt to escape the anguish of oppressive reality , but like a drug that creates artificial paradises, it proved to be an existential trap, bewitching but empty . An example of this is Woman on Balcony , from 1956, in the form of an enigmatic, fatal, sphinx-like temptress, or various collages from the same year, the subject of which is the mysterious, deformed and “deforming” image of a woman, sensual in characteristics but no longer in form, that become almost symbols of a crude and unaesthetic kamasutra (see, to name but a few , Woman on Armchair - table 15; Woman with Dog; Girl in Garden; Woman in the Mirr or; Woman in the Sun ; Interior with W oman Lying Down; Woman on Balcony - table 16; cp. also table 14). Though similar to the experiences of German Expressionism and in particular to a certain climate dear to Geor ge Grosz (in which the woman, as Paolo Levi rightly pointed out, “is aggressive, arid land, of sex driven to the absurd”), as in Rouault’ s work elements of social accusation or political intents of strong moral tension do not appear , but rather tones of a deep, entirely psychological, interior struggle. As another escape from those tragedies on the sea, tinged in his works with vivid, passionate, almost fauve tones, during his leave spent in the libraries of Naples and Messina or following art exhibitions he had already felt a symbolic, utopian impulse towards ethereal, primeval, ‘ingenuous’islands, serene and alien to his life at that time, that were later to be seen in the sweet chorography of the soft, winding hills around La Spezia (see, for example, his oil on board from 1953, of almost naïve structure,
Olive Harvest, 1959, oil on canvas, particular .
where the blue of the sea clashes with the whiteness of distant peaks, and the hills in the foreground, with their brown tones and marked by trees on soft ridges, to a certain extent recall the primitivism of the hills idealised by Zoran Music: fig. 4; cp. also table 8). The only other break from those distressing “nightmares” is, perhaps, a large painting depicting Mezzano and the crystalline Nocturnal Scenes in Mezzano from 1958 (table 18) - later taken up in the enchanted nocturnal scenes On Lake Garda from 1961 - almost a “childlike” rest in the calm, safe and comforting womb of Mother Nature, snow-covered and touched by the discreet light of a tur gid, Botero-style moon, starry nocturnal scenes of enchanted wonder , they too representing a sort of escape from his daily inner conflict. The large painting mentioned above (3x7.4m), on the other hand, depicts a nostalgic summer view of the town of Mezzano, with the “Pale di San Martino” ( steep mountains of San Martino) in the background and several locals who Orler had met as a boy . The artist began the painting in 1956 while serving on board his military ship. He used hammock fabrics, made from hemp, sowing them together as the work progressed. The painting was only completed in 1958 and displayed in Antibes. However, every time he had been sent as a rescuer to deal with natural disasters and floods, they had overbearingly and violently thrown him back into the vortex of his existential tempests. Hence War, 1954 (table 2), already at that time significantly clashed with his attempt to “escape” represented by his Picasso-style Ballerina (table 4) or the ambiguous and sensual Sailors’ Women mentioned earlier. In 1958, having left the navy , Orler was invited for the first time by curator Dor de la Souchère to hold a personal exhibition
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Campo Santa Maria Mater Domini , 1961, oil on canvas, particular.
at the Grimaldi Museum in Antibes, the renowned modern art centre where Marc Chagall was also present and where Schweizer was to exhibit with him, receiving positive comments from the critics. Orler had previously exhibited his works in a place not far from his hometown: in San Martino di Castrozza, an ancient Roman castrum at the northern tip of the Primiero Valley, where Saints Martin and Julian’ s “spedale” for “bianti” (i.e. pilgrim hospice for wayfarers leaving or heading into the Fiemme Valley across the Rolle Pass) was built in the Middle Ages, before becoming a ski and tourist resort in the second half of the nineteenth century; indeed the Castrozza Alp, along with Mezzano, was to become a magical place in his memories. The French exhibition, in particular, gave Orler the opportunity to open up his art to the international scene and meet some of the more prominent figures on the cultural scene of the period, such as the “mythical figure” of Pablo Picasso (whom, among Italian artists, he prematurely resembled, “servile” manners aside), sculptress Germaine Richier (1904-1959), and writers and poets Jean Cocteau (1889-1963, who illustrated his own works and was a painter) and Jacques Prévert (1900-1977). Moreover, in Venice he had had the chance to join that astonishing elite group of emer ging young artists, in which the new neorealist, neoexpressionist, abstractionist and informal poetics and philosophies met and clashed. The way in which Orler ’s work was interpreted and felt at that time can be established in the rather dated reviews by critic Paolo Rizzi in the columns of the Gazzettino newspaper. In 1957, on the occasion of an exhibition at the Fondazione Bevilacqua La Masa, he spoke of a “passionate nature, forever in search of new forms of expression” and immediately identi-
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fied his Picasso roots, roots that had been present since the compositions carried out by the artist in 1954 (works in which Marilena Pasquali was later to identify a Picasso model relating to the “contorted, swarming, strongly expressive figures that populate the Tempests, Ports and Wars”). His ceramics, with a Saint George on display at Bevilacqua La Masa, had, according to him, a “primitive warmth” that struck the observer . A few months later, in 1958, Orler exhibited with his friend Schweizer, again at Bevilacqua La Masa: this time hispicassisme was noted as being more evident; but there were also freer compositions in which, according to Rizzi, the artist “better manages to express his undeniable expressive qualities”. A personal exhibition followed at the end of 1959 at the Centro San Vidal gallery, again in Venice. And it was on this occasion that “Orler ’s painting acquires the sense of rediscovery , made through new , cunning eyes”. A number of mountain landscapes were then exhibited in which, again according to Rizzi, “one seems to feel the intense expression of a far-off memory, full of warmth”. The most successful pieces were those that “in a style that has the charm of an ingenuous, if not a little coarse, tale, depict the old houses of his hometown, laden with striking, burnished tones, lit up here and there by brightly coloured sketches”: one significant example is an oil painting from 1956 depicting the Mezzano mountain landscape (fig. 5), dominated, almost in discordance, by green meadows and naïf trees (his naïveté was also to be highlighted by de la Souchère; cp. also table 7), by the church and typically Trentine country homes (with woodsheds and piol to dry the corn), volumetrically distorted and, in part, cubistically dissected. Naïf tones, steeped in bitterly nostalgic existentialist reminiscences of a certain southern environment, immortalised by Giuseppe Migneco, can also be found in La Toch, from 1958 (fig. 6) or Procession in Sar dinian Costume (fig. 7) and Olive Harvest (fig. 8), both 1959. Other critics too, such as Guido Perocco and Gigi Scarpa, praise Orler’s “native” strength, the verity of his mountain nostalgia, the sentimental and lyrical essence of a style that is outwith fashionable mannerisms. Again recently (in “Art in Cortina”, winter 2004), speaking of that period, Paolo Rizzi recalled “those strong, uncouth paintings, full of ener gy” that were “outwith manners […], full of colour, at times agitated following the Van Gogh impulse” and Davide Orler as a “man of the mountains […], a ‘pure’ person who has always travelled along the road to Utopia, between primitive and cultured […]. In substance: the rough sense of his native land revealed through a visionarily expressive form of painting”. This is probably the main and most “superficial” reason for the artist’s success and perhaps also for the various public and private acknowledgements he obtained during the prolific Venetian period of the 1950s, exaggerating the exterior and
chromatic aspects of this sort of unquestionable naïf lyricism, a naïveté, however, that Pasquali went as far as denying, though inappropriately, in 2003, almost giving the term a connotation of falseness and demagogy not in keeping with the historical reality of that “movement”. In doing so, however, she had lost sight, in our opinion, of the deeper , more authentic meaning to his works that was to flow more freely only in his later production. Thus naïf and “Picassism” (cp. tables 3; 9-1 1) were to distinguish Orler’s work among the critics for too long, decontextualising such characteristics from the dreamily prophetic (or poetic?) strength underlying his “existential”, strongly emotional paintings. To some extent they were thus made banal and minimised in terms of their more genuine artistic message, even if the “Picassism” of that period in Italy was still considered “premature” and certainly not an adherence to fashion or manner as, unfortunately, it was later to become in many circles and for several painters. Still significant, on the other hand, is his encounter -clash with Peggy Guggenheim, whose drawing room he had been invited into by his Spatialist friend Tancredi (1927-1964): a missed opportunity, certainly (as he himself recalls), but also confirmation of the honesty of his human and artistic temperament, saying a lot for his conception of art, which goes well beyond his “dark tones of the hometown” or the obvious desire to reveal his Picasso roots, later (but we repeat only later!) common to practically all painters. Of greater significance in our opinion to the understanding of the real Orler, avoiding historiographic ambiguity or inaccuracy, is the series of splendid portraits from 1957-1958, some of broadly German and Kirchner descent, from Female Figure (fig. 9), painted using fast, black and ochre brush-strokes, and Girl on Armchair (an oil-painting of strong expressionist tones: fig. 10) to Portrait of Sculptor Silvio Alchini (of more pronounced realist and psychological tones: fig. 1 1) and Motherhood (fig. 12), this indeed in a more symbolically Picasso style (see also tables 20-24; 27-28). Intervals of serenity during this period are represented by plastic compositions of immediate realism, such as the skilful use of drapery , objects and animals in the enamel on paper Cats and Guitars from 1959 (fig. 13). During this delicate, troubled moment, reflection on sacred readings and French literature - in particular by poet and writer Paul Valéry (1871-1945), unfor gettable author of The Graveyard by the Sea - led him to reconsider the youthful pantheistic universe, and to reach a more authentic Christian faith. Other constructive readings of that period regarded the “poètes maudits” - starting with Charles Baudelaire (18211867) - Paul Verlaine (1844-1896), Rainer Maria Rilke (18751926), the avant-garde Russian poets - such as Ser gei Aleksandrovi Esenin (1895-1925) - and Federico Garcìa Lorca
Flowers, Shells and Skull, 1968, oil on canvas, 45x75 cm, particular.
(1898-1936). His religious and existential turning point almost emblematically came to fruition with the destruction of his previous ceramic works, thrown from two bar ges into solitary narrow streets of Venice in the second half of the 1960s. In the meantime his first prestigious acknowledgement was received in 1960 - a gold medal awarded at the Quadrennial Exhibition in Rome. Indeed 1959/1960, with the appearance of sacred themes in Orler’s works and the finding of his own identity in his relationship with God, can be identified as the moment of his great existential and artistic “turning point”. Hence, in the soft landscapes painted in 1960 and 1961 ( St. Erasmus - fig. 14; Flowering Apple Trees on the Lagoon - fig. 15; Homes on St. Erasmus, with solid dispositions of volumes of almost Nordic descent: fig. 16; Venetian View, of unquestionable charm thanks also to the Carrà-style cut in perspective of the buildings reflected in still waters: fig. 17; Nocturnal Scene in Campo Santa Maria Montedomini , with the yellow lighting from homes at night reminding us of some “popular” Leghorn nocturnal scenes by “post-macchiaiolo” painter Renato Natali: fig. 18; Canal in Venice: fig. 19; see also tables 25-26; 29), beyond the appreciable though external naïf elements, the first signs of a serenity , regained with tenacity and ef fort, can clearly be seen: the radiant daybreak full of hope of a new existential day opens out in Franciscan contemplation of creation, almost as if seen through the eyes of a child (despite him being thirty), with the purity and genuine freshness that transforms everything into a primeval Eden. His nocturnal scenes became silent depictions of peace and serenity and even death (see for example Transit of Saint
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Clouds and Grasses, 1994, mixed technique, particular.
Francis, 1961: table 63) became acceptable, accepted and almost “sisterly”. As further examples two depictions of the artist’s studio can be observed, respectively from 1958 (table 19) and 1963 ( Atelier Interior, fig. 20, in the composition reinterpreting the same subject as Johannes Vermeer in 1666), yet so profoundly different from each other: the first empty (or rather with an absence that is a distressing, impending presence) and “disarranged” into confusion, the second orderly and with the solid physical presence of the painter . Hanged Man (poetic transliteration through the memory of a real news story: see table 37) almost seals off the past, the thick rope “killing off” or rather closing with a past of misfortunes and an age of nightmares and monsters all Freudianly rising from within and projected out, to reach an age of flowering almond trees and radiant sun (see subjects by the same name painted in some of his works from 1964). It is a vision of limpid certainties in a renewed Golden Age in which, almost in a Ficino style, the sun, its light and its heat reflect the peace and greatness of the Divine (“in lumine tuo videbimus Lumen” wrote the Tuscan philosopher in the fifteenth century , at the end of his third book of De vita). And again that interior with the frugal bread and the Bible on a bare old wooden table reflects the authentic aspiration to a rigour and simplicity that belong to a Franciscanism lived through in the belief that even art becomes or may become a providential instrumentum. In 1964 he received a second coveted acknowledgement: the prize awarded by the Fondazione Bevilacqua La Masa in Venice. Among Orler’s new works of a sacred nature dating back to the 1960s (cp. also tables 62-70), not to be for gotten are two great oil paintings from 1962: On the Cr oss (fig. 21) and
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Deposition (fig. 22). The first is a vision of Christ on the cross unusually seen in profile, in which the scarlet red of the loincloth contrasts with the dark blue backdrop and livid landscape with distant echoes of Annigoni, personalised with tur gid, “ingenuous” clouds. The second is marked by the solemn positioning of the images, in an extremely modern, difficult composition, but with striking ancient echoes of sacred representation, with precise references also made to the popular primitivism of “Le Douanier” (the customs of ficer) Henri Rousseau (18441910). In Resurrection (fig. 23), from the following year , with more markedly symbolic connotations, Christ, in the flowering garden of new life, emer ges from the tomb, overcoming the flames of sin and death with the cross. Further works belonging to this period are genuine, unadulterated portraits contrasting with informal backgrounds of swift, large brush-strokes ( Stefano Meneghin , from 1963: fig. 24), simple still lifes of great immediacy with their vivid, glowing colours ( Still Life , 1963: fig. 25; Bread, Onion, Fennel and Carrot, 1965: fig. 26; cp. also table 30) and a striking painting depicting Poachers with Spit in the Dolomites (fig. 27), centred around a bright flame that lights up the game while all around, in the darkness of the night, amidst the smoke, the static, exhausted figures of the poachers emer ge, which we can interpret as a tribute to certain “omini” ( common people) by Ottone Rosai. Often his paintings, the paintings of this new Orler, converted into the exuberance of a novice, were now also influenced by the work of a great Italian painter of the period whom Orler had met in 1958, admired and held in high esteem - Felice Carena, who had moved from Florence to Venice after the war . In particular, from 1967 on, Orler ’s so-called “Carena” period, he transformed the representation of human tragedies from a pessimistic and passive vision of desperation to an epic moment of positive and constructive reflection. It was a sanguine and decidedly nonconformist figurative art, rightly championed as innovative in an intellectual Italy that, at the time, almost exclusively recognised as art the way of Lucio Fontana’ s abstract Spatialism (and the controversy between Orler and Fontana himself widely demonstrates the breeding ground of those prolific and unforgettable Sixties). References to death, though present in Orler ’s works, are no longer - or ever less frequently - distressing nightmares (as in Behind Bars, from 1965 - fig. 28, with reference once again to Edvard Munch), nor do they represent flight from the suf focating and unbearable vortex of depression, nor dazed, drunken exorcisms in the presence of an oppressing “substance-god”, but rather a quiet, calm and natural observation, a non feared memento mori, symbolised by the repeated presence of the skull his missionary brother Cesare had brought him back from South
Africa, the skull of a black youth killed during the fatal period of Apartheid dominated by beastly racism: see Composition with Skull and Pineapple and Composition with Skull, both from 1965, or Flowers, Shells and Skull , from 1968 (fig. 29), that in some respects already establish Orler’s Carena period (compare, for example, Still Life with Skulls and Hour glass painted by Felice Carena in 1950). The transfiguration of that skull into a symbol of resurrection of the spirit beyond death also indirectly becomes quiet social accusation, placing itself on the side of the “little ones” of Evangelic memory . The same serenity shines through the transfiguration of Enchanting Mountain from 1965 (table 40), in which the red sun tinges the deep red mountain tops and cornfields as if during a nocturnal eclipse, or in Sun in Fedai (from the same year), dominated by a gigantic sun on the horizon, enlar ged and omnipresent as if seen through striking telescopic lenses. In 1966/1967 Orler returned to his old theme of natural disasters, but this time the “floods” in Mezzano di Primiero, an event dating back to 4 November 1966 famous above all for the great damage caused in Florence and Venice, reflect a solemnly ethical and vibrantly Carena majesty , far, as mentioned before, from the hopeless, lacerating, screaming desperation of that dawnless dead of night in his works dating back to 1954-1955. A genuine pietas, as Rizzi rightly recalled recently , that goes well beyond “humanly tormenting tones” to rise to the powerfully epic tone of steadfast existential concerted nature. During that period a personal event went on to contribute to strengthening the features of charm and serenity, but also quiet acceptance of dramas and human miseries, that shine through his works: his marriage to life companion Carmela Zanda on 1 1 February 1966. At the start of the Sixties Orler also rediscovered collage, but this time in a new and conceptually nonconformist way , no longer linked to “Picassisms”. Similar to some experiences of American and Italian Pop Art (see Fields from the Study - table 46, Fields fr om the Study in Favar o, both from 1971, or Countryside at Sunset , from 1972 - fig. 30, with the physical contribution of colour squeezed directly from the tube) and at the same time even similar (at still unsuspicious times!) to certain expressions of the Nouveau Réalisme championed by Pierre Restany (despite him saying in his memoirs that he was distant from both this artistic expression and from Pop Art, Informal, Conceptual or Optical Art), his paintings and boards fill with piles of modern society’s discarded objects - material that is no longer needed or, in any case, can no longer be used for the purpose for which it was created, such as squeezed tubes of paint, paint tins and old brushes. He elevates any of modern consumer society’s reject objects to “work of art”, symbolising the way in which things that have lost their function do not deserve to be
Meeting, 1989, enamels on jute, particular.
cynically thrown away , but can assume another role, another dignified function (that of transmitting a concept through artistic form). Away from metaphors and symbolism, even that which appears to be useless in a world of production and consumerism can, instead, have its own objective, intrinsic value. Furthermore, the accumulation of broken or discarded objects almost represents the desolating, disenchanted “archaeological find” of the future, ahead of its time, regarding our society, often devoid of profound, lasting values and concepts linked to the Beautiful and Transcendence. A look at his Fields of Pollution from 1975 (table 54) or the piles of ropes and used or broken objects (tables 53; 55-56) suf fices to immediately realise as much, though Orler ’s reference, even through this waste, to the portrayal of other real spaces and landscapes is always clear in as much as his is and always remains a figurative art, uninfluenced by even significant experiences in the field of Abstraction and the Informal (see Fragment of Landscape; Fields from Plane, table 51; Artist’s Table; Vase of Exotic Flowers , all from 1972). Among these works, we also recall Busillis (fig. 31); Fruit and Composition (fig. 32), of undoubted conceptual assonances with some of Mario Schifano’s collages; Composition with Egg (fig. 33); Large Sun (fig. 34, all from 1974); Landscape in a Storm (fig. 35); Sea Canaanite Woman (from 1975/2001: fig. 36), up to Untitled (fig. 37), from 1989, in which the bright enamels and blots of paint jeté contrast with the clean geometries of the applied papers, and Clouds and Grasses , from 1994 (fig. 38), that again recalls Jackson Pollock (1912-1956) as does, to a certain extent, Landscape in a Storm no. 3 or Man and Universe, from 1975, in which to an almost Pollock-style dripping visual effect is added, in an action painting that completely invades the support, with
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Elijah’s Cart, 1997, enamels on canvas, particular.
an all over result, figurative tones and insertions of collages and various materials that remind us of Pop Art in its Italian and especially Roman Piazza del Popolo version (certain “anaemic landscapes”, “turbulences” or definitions of the human figure in classic and almost Michelangelesque postures that recall Mario Schifano, Franco Angeli and Tano Festa). Again in 1972 Orler took an interest in Ravenna’ s great museum cycles as well as art of Byzantine descent, rediscovering the roots of the more genuine original Christian culture (see tables 71-73). His admiration for the world of pre-Renaissance art, so rich in sacred symbols of mystic significance, had already opened him up, or introduced him, almost by chance (or perhaps providentially?) from 1965 on, to knowledge of oriental and particularly Russian icons; it was a meeting, or rather a “lightning strike”, that was to mark his life as a man and artist forever, as he himself recalls not without considerable emotion: “I had been struck by something very far from any concept of art I had been used to during those years, but at the same time it stirred up in me an irresistible magnetic force: perhaps the same force that had shocked Matisse during his journey in Russia at the start of the century and in which Marc Chagall’ s work was rooted up to his last pictorial production, the great depictions of the Bible.” The abstract golden backgrounds representing God’s splendour, the unchanging ascetic figures (shrouded by a mystic sensation, both popular and refined), as is unchangeable the divine world they attempt to portray , were to be widely reflected in Davide Orler’s sacred artistic production, in a way that resolutely crosses those unquestionable iconographic assonances present in some Orler works from the Nineties (such as the Angelic Trinity, from 1996 - fig. 39 - and the one from 1997 table 81 - or the depiction of the Nativity, again from 1997: fig.
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40). From 1958 to 1978 Orler held some one hundred personal exhibitions both in Italy and abroad (including quite significant ones in the modern art galleries of Paris and Zurich), but it is 1978 that represents the end of an artistic period, despite painting several frescoes in Tanzania that year (following those in Transvaal in 1972). From then on, and until 1987, for a multitude of incidental reasons his pictorial work thinned out, although several interesting avant-garde collages made from luminescent paper date back to those years as well as a whole series of lesser easel works of far -off landscapes. His great knowledge of art and religious sentiment in Eastern Europe and especially the Russian Motherland, that also so indelibly marked his life as a collector and dealer (leading him to possess, as is widely known, one of the most important collections of Russian icons to be found in Western Europe), above all influenced his later production, from 1987/1989 on and especially from the mid 1990s (a real, new creative youth). By his express desire and with perfect awareness, this work is almost his human and artistic spiritual testament. Reading the Address to Artists written by Paul VI (7 May 1964) and taking even its innermost meaning to heart, he overbearingly (though humbly) wished to affirm that even the Modern can and indeed must have a message of faith, as it has had in the past (a concept later confirmed by John Paul II in his Letter to Artists of 4 April 1999). Indeed as he maintains, and as a refined and sensitive art critic, Elvio Natali, who sadly died recently , had already pointed out in 1988, the fact that “sacred art is still alive today , among many prophecies of death, is borne witness to by documents of great aesthetic value. How can we not cite, among others, Rouault, Chagall, Matisse, Sutherland and, among our own, Manzù, Fazzini or Greco”. Besides, as Fra Angelico had already stated, “to paint Christ, one must live with Christ”. Nevertheless, art has its own laws and even the deepest of faiths cannot itself authenticate religious pictorial art (elevating it to Sacred Art) if not supported by real creative intuition and by the makings of art, represented by the artist’ s personal form (i.e. expressive structure), style and rhythm: as poet Vladimir Mayakovski maintained, “the greatest idea will die if we don’ t give it a suitable form”. Substantially, Scholasticism’s principle regarding splendor formæ, i.e. the splendour of inner substance through form as essence, remains relevant. In Davide Orler’s great eagerness to launch and leave behind this message of his, almost as if time were not enough (and almost “struggling” against it), man’ s great unresolved and unsolvable existential problems pour out onto canvas like an overflowing vortex, through wide, gestural, swift, flowing brush-strokes, vortically creating new works of great emotional impact, like the one hundred depictions inspired by stories from
the Old and New Testament, totally alien to any sort of rhetorical pietism or vulgar oleography , made up of neglects and sweetly nauseating ecstasies. At the same time, though influenced by the search for the Truth and the Spirit that shines through Russian sacred icons, Orler remained a western man and artist who followed a dif ferent conception from the eastern and orthodox vision of divinity depicted in the icons, in which the Absolute offers itself to man in a static, figurative immobility that is still of Byzantine origins and portrays with the devotion of a pure, exclusive litur gical act, like a mystic sacrament. Western society interprets and sees God as being alive in interiore homine, i.e. descended into the heart of man through Christ and so, as such, can be represented in a dynamically changeable way as can life. And it is the vibrant dynamism present in Orler’s brush-stroke, ever changeable and diverse, though always in the orthodoxy of the dogma, that so wonderfully marks his paintings in an eschatological vision of Christianity that longs for and ver ges on ecumenism, the way his dynamic, vortical figures long for and ver ge on the Saviour (cp. table 104). It is an Orler who, setting himself against a flat, debasing materialism and equally against a sterile, banalising angelism, reunites the unity and harmony of the human with the Divine, that meet once again. Lastly , it is the response to Paul VI, who said, addressing the artists, “we need you!”, and to John Paul II, who, again addressing the artists as “ingenious builders of beauty”, hoped there would be “between Gospel and art a fertile alliance” in a renewed dialogue. The first work to strike us in this way is precisely Meeting, from 1989 (fig. 41), a very original and visionary re-examination of Virgilio Guidi’ s “meetings”, recast in a real (natural) space and scene and no longer suspended in totally ethereal and timeless luminosity. From 1996 on, this was followed - to add but a few examples to those on display at the exhibition and analysed in the individual files (tables 74-108) - by a bright, polychrome Epiphany, from 1996 (fig. 42), almost a sort of new epiphany of beauty that saves (to quote an expression used by John Paul II, taken from the aforementioned Letter to Artists written at Easter in 1999); Elijah’s Cart , from 1997 (fig. 43), whose vortical dynamism is, to some extent, the sacred reinterpretation of Boccioni and Balla’s futurist work; The Temptations of Saint Anthony, again from 1997 (fig. 44), whose vortex of bewitching figures that transform into monstrous nightmares allude to beauty and sin, with expressionist tones, but also with hints of the Transavantgarde and, in the bright tone of some powerful strokes, the CoBrA group’s Informal. And again we can recall from that prolific year the dramatically realist Slaughter of the Innocents (fig. 45) dominated by the “lashings” of brilliant red on an almost shapeless pile of bodies, or Healing of the Paralytic (fig. 46), harmonious plastic marks trace bod-
Healing of the Paralytic, 1997, enamels on canvas, particular.
ies that remind us of Matisse or perhaps even Cantatore (as in Figure Lying Down, dating back to 1956), whose heads are clear volumes in space, of De Chirico memory . Or again, Deposition (fig. 47), a statically solemn yet dynamic composition, painted using wide, sinuous enamel brush-strokes, that engrave the dramatic power of the scene that stands out against a Klein blue nocturnal background. The Good Samaritan, from 1999, is a striking work in tones of ochre and blue in which the steady , essential lines hint at human figures and animals and at the landscape we can sense and imagine supporting the strong charisma of Christian pietas that overbearingly shines through the painting. His model, in compliance with the post-conciliar church sentiment, is that of the Christus patiens , a clear reference point for torment and modern anxieties, rather than the Christus triumphans dear to a more serene and dogmatic age than our own. Transforming the theological message of eastern iconology, his art is not “sacred”, i.e. it is not painted by the hand (mind) of man, unchangeable Divine expression lowered by heavenly revelation, but “religious” art, that is to say driven by faith ab imo hominis towards the Saviour. In Appeased Storm (fig. 48: an enamel and oil on jute from 2000) the vortical and synthetic dynamism of the scene seems to revolve entirely around the imposing scarlet figure of a Christ barely intimated by an intense brush-stroke, in which Orler ’s entire furor pingendi is concentrated and given substance. Substantially, his way of painting changes; the transparent luminosity is rendered by brilliant, iridescent primary colours, with no shades; the ample, sinuous brush-stroke gets tangled up drawing earthly and heavenly figures, almost like skeins of polychrome wool, through which the canvas below and back-
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Deposition, 1997, enamels on canvas, particular
ground landscape shine. Expressionistically unreal tones kindle those characters whose symbolically ellipsoid-shaped heads, often devoid of features, recall, as was said before, surreal De Chirico universes. Often the use of spray paint (already experimented by him in the Seventies, but now re-employed having greater command of the technique) bestows upon the settings and sacred figures an ethereal aura of silent and mystic religiousness. His way of painting, his resolute drawing, his strong colours full of light, as was said, clearly manifest his fascination for the German roots of the great expressionism, from his beginnings with Brücke (see, for example, the various portraits of Marcella by Ernest Ludwig Kirchner, whose strong black marking of contours, bright colour of garments, environments and still lifes made up of daily objects had some unquestionable influence on certain works by Orler). But it was perhaps, above all, Max Beckmann’s German-American chromatic expressionism that may find greater cultural assonances with our own, united with its strong oneiric (at the recent Cortina d’Ampezzo exhibition his work was defined as being “an opening into dreams”) and metaphysical background mentioned earlier. Thus it is that in his symbolism we can identify echoes of Joan Mirò’ s surrealism or Marc Chagall’s “tales”, in which the latter ’s poetic narrative is, however, often expressed in vortical, dazzling flashes. And again we could identify, in certain productions still linked to his experiences of the Sixties, skilled French and Italian citations: from Henri Matisse, to Osvaldo Licini or partly to Enrico Baj. In the end, however , all this is of little importance since Orler revises these more or less desired or unconscious echoes in a
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decidedly independent and always very personal form of painting. In a figurative and symbolic world of Nordic descent, however, we can also recognise a skilful revision, from a decidedly modern point of view , of characters, as mentioned before, of Russian and eastern rite, though rich in tension and a primitive emotiveness that places his far -off origins in a “for gotten” but not altogether removed “Sturm und Drang” pathos, transformed Italian-style into lively, violent Mediterranean tones (of Sicilian and Migneco descent) or into hazy moonlights of suf fused Venetian luminosity , with references made to Picasso, De Chirico and Guttuso himself. As said before, sharp, bright, absolute colours, at times in clear, evanescent fading; essentiality of the stroke, in an overbearing assumption of the restoration of the supremacy of drawing and painting; stylistic eclecticism with a taste for the citing of themes from the historical avant-gardes eminently of an expressionist, primitivist and fantastic nature, hinting at the intellectual and stylistic nomadism of the Italian Transavantgarde, or the German New Savages, but extensively personalised according to an unmistakable personal “way”, as only an artist with great experience can accomplish (but at the same time, despite being over seventy, with the energy and vitality of a younger man), they provide environments, characters and, above all, old sensations that speak directly and with a very modern and easy language to today’ s complex and contradictorily troubled society and to the heart of man: and here, in our opinion, resides Davide Orler ’s truest and most genuine art, a cultured and “humble” message, made up of sensations and conceptualities beyond ideologies, avant-gardes and fashions, made up of pathos and logos, united with a superb thecne, i.e. an innate ability to draw and in the various pictorial techniques, an authentic cultural message of art, life and faith - mindful of the past but projected into the future - for the “traveller” in this troubled, pragmatic and chaotic start to the twenty-first century. For this reason we decided to start by citing, almost summing up his long journey as a man and artist, the lines dedicated to Marcel Proust by Giovanna Fozzer, a friend of the artist who shared and shares with him man’ s deepest and most universal vital vibrations as well as those of the “nature-soul” in search of a meaning and a sense to existence, subtracting it from our age’ s existential anxieties. Or , as in Proust’ s À la r echerche du temps perdu, it is the extraordinary story of Orler ’s artistic existence and victory - aimed at spying on the unconscious and searching for the deep-rooted ego in memory - firstly over dissipating, pantheistic worldly life and secondly over time itself, by means of Art that redeems all.
Orler and the Others GIOVANNA FOZZER “I managed to understand my youth only by tricking it. I beset it greedily,” wrote Piero Bigongiari in 1938, transcribed by Ennio Scalet in 1954 in a letter to Giovanna, also consisting of a passage from Plots by Mario Luzi. Blazing childhoods, taking any risk, even deadly, those of Davide Orler, Giulio Alchini and Riccardo Schweizer, the friends (born in the late Twenties and Thirties) who met up in the early Fifties, especially in summer , in their native Primiero Valley. The smallest valley in the small region of Trentino seemed to be a melting pot of intelligentsia and passions: passion for art, poetry and beauty - partly discounted as an inferno of poverty , suspicion and misunderstanding. They spent their nights walking from one town to another , Ennio and Davide, Giulio and Riccardo, talking about art: Morandi or Picasso, Goya or Rembrandt, reciting Pasolini, Valéry or Rimbaud, Montale, Gatto or Saba, quoting by heart pages from Ragghianti or Longhi, agreeing and disagreeing about ideas, about love. Now and then they met up inVenice - the museums, the exhibitions, the intellectuals - and met Giovanna Bemporad who was already reciting the hendecasyllables of her Odyssey , or the beautiful waitress in the bar , with the rose on her bosom, or Zoltan Rakoi, the supreme intellectual, the stateless Hungarian at the risk of being hanged, who knew everything about everything, from ancient and modern languages to Venice’s stones and history. Bursts of friendship and irony , drinking and fighting in taverns, literary salons, amazing encounters; as well as poverty, and the gradual dispersion of these youths in the early years after the war towards life: painting, sculpture, poetry , even work, that would save them from poverty in the end. But soon came misfortune and the first death, that of Giulio in 1958. Into Davide Orler ’s painting - having descended from the dolomitic valley to serve in the Navy in La Spezia (a guaranteed wage and plenty of new experiences) - entered the sea for the first time.
Davide Orler and Riccardo Schweizer (about 1949).
Ship “Duilio” (about 1950).
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CATALOGO / CATALOGUE
CENTOOTTO OPERE DI DAVIDE ORLER A HUNDRED AND EIGHT WORKS BY DAVIDE ORLER
Sezione di Palagio dei Capitani di Parte Guelfa
Le rotte dell’animo Palagio dei Capitani di Parte Guelfa Section
The Waves of the Mind
1952 1958
1. Gli anni tormentati della formazione e della ricerca di una propria identità di vita ed artistica Omaggi a Rousseau, Matisse, Munch e Picasso tra idealismo ‘primitivo’, furore espressionista e travaglio esistenziale
TAV. 1 Figura, 1952
Olio su faesite, cm 37x28 Firmato e datato in basso a destra: “Orler David / Napoli agosto 1952” Il quadro rappresenta il busto di una giovane donna con serti di foglie tra i lunghi capelli biondi e con il braccio destro posto sopra la testa. Lo sguardo è rivolto alla sua sinistra. Interessante quest’opera del giovane Orler , allora ventunenne, ancorché pregna di forti reminiscenze novecentiste e cubiste. La figura statuaria della donna è resa per ampie campiture cromatiche prive di sfumature e i plastici volumi sono sottolineati dall’uso sapiente delle luci e delle ombre che spartiscono la testa ed il busto verticalmente (a sinistra dell’osservatore le bianche membra sotto la luce, a sinistra le gialle ombre). I capelli che discendono sulle spalle, a sinistra sono ‘incisi’ e graffiati nel pigmento, così da far emergere il sottostante fondo arancione. Il fogliame astratto a destra, a tratti disegnato in punta di pennello con finissima trina di spirali, assume le movenze e la leggerezza eterea di ali di farfalla o di piume di pavone, quasi liberty . La giovane esprime in pieno la solarità mediterranea e la luminosità calda che avevano così prepotentemente ammaliato l’Orler , proveniente da una terra nordica, dalle luci più ovattate e soffuse.
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TAV. 2 La guerra, 1954
Olio su tela, cm 62x81 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler 8-1-‘54” La scena presenta, al centro, una sorta di asse di simmetria costituito da un fiume, nel quale nuota disperatamente, verso la riva, una figura in rosso ed è attraversato da un ponte, sul quale si trovano altri due personaggi in nero. Il corso d’acqua raggiunge un agglomerato urbano, posto sullo sfondo, avvolto dalle fiamme di un bombardamento, mentre nel cielo, sopra le case, precipitano scure sagome di aerei, anch’esse incendiate. Sulla sinistra, in basso, un uf ficiale si trova presso una postazione con mitragliatori che colpiscono una donna che tiene le braccia alzate; sul retro avanza un carro armato. Sull’altra sponda del fiume, a destra, notiamo quattro personaggi, tra i quali un uomo che spara e la silhouette bianca di una donna con un cuore rosso accanto. Sovrasta la scena un gruppo di alberi scheletriti su un terreno incandescente.
L’incubo orleriano della guerra, traslitterazione simbolica di un sof ferto stato interiore dell’artista, trae spunto, specialmente in alcune figure, da quello che era stato l’indiscusso capolavoro picassiano di Guernica (1937), con le figure deformate e drammatiche inserite in un paesaggio cubista. Alcune di queste ultime (come la donna in bianco colpita a morte), inoltre, hanno, nella postura epica, lontane assonanze anche con la nota opera Fusilamientos a la montaña de Príncipe Pío (1814) di Francisco Goya. La composizione, che in Picasso era stata tutta giocata sul non colore, però, si accende in Orler di vivide cromie espressioniste (azzurri, verdi, gialli, ocra, rossi), alla maniera della Città apocalittica di Ludwig Meidner, del 1916. Interessante, sulla grumosità del pigmento, la figura della donna bianca, deformata (come in alcune raf figurazioni di Miró) in una drammaticità freudianamente ‘urlata’ e af fiancata, su fondo nero, dal simbolo di quel cuore rosso (del resto, le sferzate di rosso del sangue e delle fiamme sono lo scheletro portante di tutta l’opera) che, in altro contesto, può rammentarci i cuori di Terezin ‘graffiati’ negli affreschi di Celiberti. La figura dell’uf ficiale, dominata dal grande berretto, richiama alcune figure di Mino Maccari, ma immerse in una tragedia globale che esclude ogni graf fiante ironia sottesa alle figure dell’artista senese.
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TAV. 3 Ritratto di Giovanni Orler , 1954
Tecnica mista su compensato, cm 109x90 Firmato e datato in basso a sinistra: “Ritr . di G. Orler 2/8/’54” Il lontano parente dell’artista, violinista e scultore, è raf figurato seduto su un divano, in maniche di camicia, intento a leggere un libro. È di tre quarti, con lo sguardo rivolto in basso a sinistra.
Ancora una volta possiamo sottolineare, nella composizione della figura e dell'ambiente circostante, un omaggio a quello che era stato il Cubismo. La figura massiccia dai biondi capelli e dal bianco incarnato del volto, reso espressivo attraverso ombre colorate nei toni dell’ocra e del rosso, richiama, nelle cromie, opere di Matisse, risalenti all’inizio del secolo Ventesimo, con accenti maggiormente spigolosi ed espressionisti. La psicologia del personaggio emer ge nell’armonica ed equilibrata composizione e la presenza-assenza delle caviglie (rendendo quasi staccate e fluttuanti le scarpe rispetto ai pantaloni), introducono una nota di no sense surreale e magrittiano. Tutti questi colti richiami denunciano la solida preparazione del pur autodidatta Orler , allora ventitreenne.
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TAV. 4 Ballerina, 1954
Tecnica mista su faesite, cm 118,5x64 Firmata e datata in basso a destra: “Orler ‘54 / M.” La ballerina, sulle punte, ha il seno nudo e un tutù scarlatto; sulla destra, la tenda rossa di un sipario mette in evidenza un faretto che, illuminando la fanciulla, proietta la sua ombra sul palcoscenico. Sullo sfondo è un cielo dominato da un vivo sole dorato. Anche in questo caso è evidente la matrice picassiana e vi possiamo cogliere un richiamo, nei tratti (quasi un omaggio) e nell’ambientazione scomposta, a quelle Donne di Algeri che Picasso iniziava a dipingere in quello stesso 1954. Tuttavia, alcune costruzioni ci fanno pensare anche alla Rotazione di ballerina e pappagalli di Fortunato Depero, del 1917/1918. Tutta la composizione è dominata da vivaci inserti di colori, in un equilibrato studio dei rapporti tra i volumi e delle luci e ombre proiettate; interessante è anche il contrasto fra la luce fredda del faretto nell’interno e quella eterea dell’esterno, quel sole cui pare simbolicamente guardare la ballerina sul palcoscenico del mondo, in un anelito ad un’apertura interiore. Pur rivelando una mano già sicura nell’eseguire un’opera di indubbio fascino, non si può non sottolineare la dipendenza ancora forte dai modelli già consolidatisi nella prima metà del secolo.
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TAV. 5 Il recupero degli alluvionati a Salerno , 1955
Tecnica mista su compensato, cm 84x122 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler del Fiordaliso / 7.c. / 55” La raf figurazione rappresenta il recupero di una annegata durante l’alluvione di Salerno. Il corpo, mutilato, gonfio e decomposto, nei toni del bianco, del rosa e del rosso, legato in vita, è issato tramite un ar gano sulla nave a sinistra, dove si vede il volto del marinaio addetto al recupero. Sul fondo, un cielo nuvoloso sovrasta un mare burrascoso, nei toni del grigio-verde. In una scomposizione delle forme quasi ingenuamente baconiana, il volto della donna è irriconoscibile e si sfalda in colature di rosso con ef fetto quasi dripping. Più composta la scena sulla sinistra, con il marinaio che ha l’incarnato dello stesso colore del cielo retrostante, divenendo una sorta di immagine trasparente, ridotta ad una silhouette in secondo piano, muto spettatore di quel dramma che ruota tutto attorno alla violenza di quel cadavere in primo piano, emotivamente espressionista, alla maniera di Emil Nolde. Anche in questo caso, la drammaticità si estrinseca attraverso il viatico simbolico ed emozionale dei colori.
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TAV. 6 Dopo l’alluvione, 1955
Olio su faesite, cm 127x250 Firmato e datato al centro: “C. 1955 - n. 13 / Orler del Fiordaliso” Ancora un quadro ispirato alle tragedie del mare e segnatamente al recupero degli annegati dell’alluvione di Salerno, ma raf figurante una scena più complessa rispetto alla precedente. Al centro è la nave, della quale si vede la prua con un marinaio barbuto, a destra del quale è visibile un tavolino. L’argano tira fuori dalle acque un corpo decomposto di donna, mentre sul retro, tra le acque color blu, si vedono galleggiare altri corpi informi. Pure sulla sinistra è visibile un corpo deformato e in decomposizione di donna, vicino al quale si trova un secondo marinaio canuto all’interno di una scialuppa. In alto volano alcuni uccelli, mentre in mare sono visibili verdi pesci che si cibano di frammenti di carne strappati ai cadaveri. La complessa articolazione della tavola, dalle tinte luminose, ma fosche ad un tempo, denuncia una solida composizione, a partire dalla rappresentazione del mare, scomposto cubisticamente in triangoli nelle sfumature del blu e dell’azzurro, che in alcuni settori (come in quello a sinistra del marinaio sulla nave) raggiungono la poetica di quella che era stata l’astrazione geometrica classica. Le deformate figure matissiane dei cadaveri sono, anche in questo caso, un pretesto per ‘urlare’ tutto il disagio interiore dell’artista, in una cruda denuncia che, pur negli ammiccanti riferimenti all’Espressionismo tedesco, non ha velleità di denuncia sociale. La schematizzazione delle due figure di marinai, in una delle quali pare rispecchiarsi Orler stesso come in un autoritratto, e le strane creature volanti e marine si richiamano al filone del surrealismo onirico (da Chagall a Possenti), ma la connotazione non è tanto quella del sogno fantastico e poeticamente liberatore, quanto la concretizzazione di incubi interiori non risolti.
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TAV. 7 Le stagioni - Estate , 1955
Tecnica mista su tavola, cm 109,5x161 Firmato e datato in basso al centro: “David Orler - 1955”
La simbologia dell’estate è resa attraverso un paesaggio di Mezzano. In primo piano possiamo osservare il tipico sottotetto di una casa montana trentina, con un lungo balcone dai balaustri lignei e con i robusti puntoni che sorreggono le travi primarie della copertura, le terzere ed i travicelli, questi ultimi resi impiegando legno reale. Sul retro di questa sorta di sezione si vede un grande tetto a coppi, dominato da un camino fumante. Dietro la costruzione si sviluppano le coperture e gli abbaini del piccolo villaggio, al di là del quale si estendono verdi prati, punteggiati di alberi, fino a lambire le imponenti montagne, le vette delle quali sono innevate e risplendono nell’azzurro del cielo. Una composizione questa volta più serena, in una sorta di puro Eden primitivo, dove l’ingenuità della composizione naïf si stempera in un paesaggio genuinamente antico, veduto attraverso gli occhi del ricordo nostalgico, vicino ad alcune opere di simile soggetto eseguite da Riccardo Schweizer . Interessante la visione di quel fumo denso e marrone che fuoriesce dal camino e che proietta la sua ombra sul tetto: quasi palloncini, materici ed eterei allo stesso tempo, in una fresca, popolare e fantasiosa trouvaille alla maniera di Antonio Ligabue. In questo caso l’ assemblage, l’inserimento cioè di materiali come il legno, non ha nulla a che vedere con gli assemblaggi del Dadaismo o del New Dada, né con certi ‘collage’ o accumulazioni concettuali del Nouveau Réalisme che impiegano oggetti lignei, ma diviene elemento iniziatico all’universo naturalistico, onirico e quasi panteistico orleriano.
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TAV. 8 Colline di La Spezia II , metà Anni Cinquanta
Olio su faesite, cm 48x64,5 Firmato e dedicato in basso a destra (sulla nave): “Orler David / A Giovanna. Aiuto” Il paesaggio è quello del golfo di La Spezia: in primo piano son visibili una nave e altre tre barche presso un molo. Al di là del lungomare, con edifici e alberi, si elevano le colline e le montagne innevate, sul fondo di un cielo nitido e sereno. Una tipica opera del cosiddetto periodo naïf orleriano, con gli alberi dai rami incisi nel pigmento pittorico, di gusto decisamente primitivista. Toni smorzati e caldi, che nei marroni e negli ocra delle sinuose colline, quasi grandi ed antichi seni materni, hanno alcune assonanze formali e cromatiche con le colline dalmate o con i colli senesi dipinti da Zoran Music, ma anche con certo rigore arcaizzante di alcuni paesaggi dipinti da Massimo Campigli (particolarmente la collina a sinistra, che ci rammenta un suo Paesaggio a Fiesole). La semplice schiettezza e apparente calma serenità della rappresentazione cela, tuttavia, il grande disagio esistenziale di Orler in quegli anni, come è disvelato dal quel grido criptico e disperato di “aiuto” (appena leggibile e quasi cancellato, ovvero leggibile solo per chi ‘sa’ e ‘deve’ leggere!) che il grande ‘gigante’ della montagna - ma indifeso come un bambino - lancia ad una sua amica coetanea, la scrittrice, filologa, biografa e poetessa Giovanna Fozzer, cui è dedicata l’opera. Un travaglio di profonda, abissale e lacerante inquietudine, che lambirà, come si è detto, il suicidio, rivestito, però, di una rassicurante “forma quieta” della Natura, metafisica e fugace dal tempo, per usare il titolo di una recente (2001) e nota raccolta di poesie proprio della Fozzer , che Giovanni Falsetti ha definito “canto sospeso sul baratro”. Quel disperato ‘SOS’ lanciato da Davide Orler e segnato sulla prua della ‘sua’nave, sulla quale è imbarcato come marinaio e che si allontana dal porto sicuro verso il mare aperto del futuro, ci fa venire in mente i versi fozzeriani: “ Passa la nave mia / Colma d’oblio, gravata / di zavorra e compassione”. Un desiderio orleriano d’amore vigoroso e disperatamente prepotente, come un torrente in piena: ma, per citare ancora un ‘frammento’ illuminante della Fozzer, “e quando troppo si ama / tempo è di morire”.
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TAV. 9 Figura sdraiata, 1956
Smalto su carta, cm 69,5x104,5 Firmato e datato in basso al centro: “David Orler / Maridepo / 7. 7.’956”
Il quadro rappresenta il nudo procace e abbondante di una donna sdraiata su un prato fiorito, con la testa rivolta a destra e incorniciata da lunghi capelli ondulati e con gli occhi chiusi. L’immagine, quasi scomposta nella rotondità delle sue forme primarie, ricorda chiaramente note matrici picassiane coeve (si pensi alla costruzione sfaccettata e geometrica del corpo femminile nella Donna nuda davanti al giar dino del 1956), pur tuttavia si qualifica per una originalità nell’intensa cromia dell’incarnato e nella vivacità del fondale naturalistico di sapore quasi astratto, ma che ritrova una sua più nitida figurazione nell’impressionismo dei fiori del prato, rivelandoci un giovane Orler già indiscusso padrone e maestro del colore. La composizione è piena di luce e dietro il grande corpo dalle proporzioni monumentali (quasi da Venere preistorica oppure iapigia), si intravede, appunto, il prato di un giardino come nel dipinto di Picasso. Il corpo femminile, come in Schweizer , diviene, in un certo qual senso, il solo spunto strutturale per deformare, accavallare ed intrecciare pure forme carnali che divengono una sorta di surreali colline dell’eros.
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TAV. 10 Figura al balcone 1 , 1956
Olio su carta, cm 103x70 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / 30 - 7- ‘56” Un’altra figura di donna nuda, dalle morbide e carnose rotondità, seduta con le gambe accavallate, su un fondale scompartito. La mano sinistra è poggiata sulla testa dai capelli scuri, ma che non presenta nessun connotato fisionomico all’infuori dell’accenno sintetico del naso. Ancora una volta possiamo osservare il forte picassismo formale che era comune anche all’amico e collega di Orler , Riccardo Schweizer. Questo fattore, però, non va superficialmente connotato in un giudizio negativo, in quanto bisogna rammentare che sino alla fine degli Anni Quaranta solo i più attenti artisti italiani avevano guardato e assimilato la lezione di Picasso, che era approdato sostanzialmente in Italia, dopo la caduta del Fascismo e la fine della guerra, alla biennale di Venezia del 1948, per poi avere una maggiore eco solamente con alcune mostre nel 1953. Ricordiamo, infatti, che il Postcubismo ispirato a Picasso e alla sua Guernica si era diffuso in Europa nella seconda metà degli Anni Quaranta, trovando in Italia seguaci in Renato Guttuso e negli esponenti del Fronte Nuovo delle Arti (filiazione del gruppo prebellico di Corrente, che si era opposto, con accenti espressionistici, al monumentalismo di Novecento), in artisti per lo più giovani, progressisti in politica e attenti alle varie possibilità di rinnovamento interno del linguaggio pittorico. Proprio alla metà degli Anni Cinquanta le forme rigide, geometriche e non naturalistiche (sebbene non fosse mancato mai un preciso riferimento alla realtà) del Postcubismo tesero a declinarsi secondo accezioni più libere e, in taluni artisti anche italiani, più realiste. La genuina e precoce adesione di Orler alle tematiche picassiane, pertanto, va letta in modo positivo, come giustamente Maurizio Scudiero ha evidenziato di recente anche per Schweizer , divenendo l’opera del maestro spagnolo pure per Orler “prassi e metodo”, sebbene non per tutta la vita, come, invece, nel caso di Schweizer.
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TAV. 11 Figura al balcone 2 , 1956
Smalto su carta, cm 104,5x70
Un altro nudo di donna seduta al balcone, con il braccio destro poggiato sulla ringhiera e con il quale si sorregge la testa. Questa volta i colori dell’incarnato si fanno più rossi e vivaci, mentre il volto, senza connotati, è ‘squarciato’ da un cuneo nero che rimanda, ma più dinamicamente, a certi manichini surreali dechirichiani. La grande massa corporea invade quasi tutta la campitura ed il fondale si gioca quasi esclusivamente nell’azzurro mediterraneo del cielo, nel quale si stagliano e risaltano caldi fiori meridionali, in un silenzio ovattato e sonnolento. Interessante il frammento, in alto a destra, di una persiana, rimando a certo ambiente siciliano, simbolicamente carico di eros inespresso e che, solo formalmente, invece, anticipa quasi certi paesaggi con persiane in seguito rappresentati da Tano Festa. Belli anche il gioco geometrico del balaustro all’estrema sinistra della ringhiera e la scomposizione cubista della sedia.
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TAV. 12 Ritratto di zio Micel , 1956
Tecnica mista su carte, cm 93,5x70
L’opera rappresenta il fratello della madre Giulia, Michele Schweizer , che fu sindaco di Mezzano di Primiero: una figura di tre quarti di un uomo maturo con baf fi ed un cappello dalle falde flosce; sul retro, le pareti dell’interno sono rivestite di carte da parato a decorazione floreale. Il delicato ritratto, sapientemente disegnato a matita con tocchi finissimi e acquerellato con raffinatezza, sembra richiamarsi all’ambiente francese ed in particolare, nel fondo scompartito verticalmente in due sezioni, può ricordare alcune soluzioni già adottate all’inizio del Novecento da Matisse in certi suoi ritratti. La raf figurazione dello zio dell’artista, pur essendo realistica, trasforma il dato oggettivo, che serve ad Orler quasi esclusivamente come spunto tematico, in un’immagine assorta, fuori dal tempo, realizzata con colori puri e trasparenti, che contrastano con il leggero disegno piatto. Il pittore opta, infatti, per una rappresentazione dalle morbide linee decorative e dalle forme appiattite, ma profondamente realiste; come già Matisse, egli è molto attento al gioco delle corrispondenze di forme e colori nelle pareti.
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TAV. 13 Ritratto, 1956
Tecnica mista su carta, cm 83,5x73,5 Firmato e datato, in basso a destra: “Orler / ‘56” Il ritratto rappresenta una giovane signora dagli scuri capelli, corti e ondulati, e dagli occhi celesti. Indossa una maglia a righe, sulla quale risalta un fermaglio tondo color verde, una collana di perle e un paio di orecchini a cerchio color rosso. Anche in questo caso la sobria e delicata cromia dell’immagine si sposa ad un sicuro disegno a matita che delinea essenzialmente, sintetizzandoli in forme geometriche, il mento, il naso compatto con la sua ombra netta proiettata a sinistra mediante veloci linee a tratteggio, gli occhi e le sopracciglia che hanno origine dalla radice del naso stesso, fortemente aggettanti sopra l’azzurro degli occhi, quasi di sapore scultoreo. In questo caso non la rotondità di forme idealizzate e surreali, ma spigolosità del mento, che ritroviamo anche nel naso accentuato e che ci richiama all’essenzialità di alcuni ritratti di Amedeo Modigliani. In ef fetti, le varie parti del volto paiono sbalzate volumetricamente come forme sintetiche di una scultura: infatti, le sezioni geometriche di chiaroscuro che partiscono le campiture di colore sul viso e sul collo (si notino le nere ombre) conferiscono un’autentica tridimensionalità scultorea alla figura, accentuata dal fondo totalmente astratto, nei toni del marrone-ocra e del rosso, che la circonda e dal quale emerge prepotentemente la testa con intensa espressività. Orler riesce a fissare in pochi tratti la personalità della modella e si richiama fortemente a quell’ambiente francese che già aveva affascinato lo stesso Modigliani all’inizio del Novecento.
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TAV. 14 Dama in poltrona , 1956
Collage, cm 29x21 e
Crocifissione, 1956
Collage, cm 29x 20,5 Firmati e datati al centro: “Davide Orler - 1956” La composizione della prima delle due opere, a sinistra, è costituita dall’assemblaggio di varie carte: su una carta da parato di fondo, con motivi fitomorfi, sono incollati frammenti fotografici tratti da riviste e giornali. Tra questi, alcuni riproducono cornici e altri, in nero, definiscono schematicamente un busto di donna dall’ampia scollatura rossa; quello che dovrebbe essere il collo e la porzione inferiore della testa sono resi tramite la silhouette scura di una gamba femminile, sulla quale l’astratta ellisse dorata contiene un richiamo ad una testa ricoperta di capelli castani. La seconda immagine, invece, raf figura, sempre attraverso frammenti di giornali colorati, prevalentemente ritagliati in forma triangolare, due personaggi in primo piano, totalmente astratti; sul fondo è accennata la Crocifissione, con tre croci sul Golgota, contro un cielo striato di nubi. In alto, a sinistra, è rappresentato un grande sole giallo entro uno spazio suddiviso in campiture blu e celesti.
Il collage, come si ricorderà, sperimentato dal Futurismo e dal Dadaismo, fu una tecnica pittorica connessa strettamente alle poetiche del Cubismo e lar gamente usata da Picasso e da Braque, ma anche dallo stesso Miró nel proseguimento della linea tracciata dai suoi “dipinti selvaggi” del 1934. L’acuta sensibilità dell’artista disegna, attraverso le geometrie dei frammenti cartacei applicati, personaggi dai volti inesistenti o totalmente deformati e alludenti semplicemente a forme umane, spesso di donne. In particolare, in queste due opere si ravvisa una straordinaria forza espressiva, accentuata dall’uso vibrante del rosso e del nero nella Dama in poltrona e da quello della realistica Crocifissione sullo sfondo della seconda omonima opera, che contrasta con l’inserimento, in dissonanza, del sole e delle due figure in primo piano, rese picassianamente. Nell’immagine di sinistra i frammenti di cornice modanata e dorata rimandano chiaramente ad un ambiente bor ghese di sapore ancora quasi ottocentesco e fanno intuire più che un singolo ritratto un’intera società nella quale, a nostro avviso, i neri e gli scarlatti potrebbero anche alludere all’evasione di un eros mercenario o, forse, utopicamente liberatorio, imbrigliato sotto le specie di un esteriore perbenismo moralizzatore e soffocante del dovere e degli statici ruoli sociali, quale già era emerso, ad esempio, nel romanzo Portrait of a Lady di Henry James (1880). Contraltare alla fuga vana e senza speranza è la riflessione esistenziale sul Calvario nel collage di destra. 84
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TAV. 15 Notturno alla finestra , 1956
Collage, cm 29x20,5 e
Donna in poltrona , 1956
Collage, cm 29,5x21 Firmati e datati al centro: “David Orler - 1956” La prima opera, a sinistra, è Notturno alla finestra: una figura in primo piano, ancora una volta nelle note dominanti del rosso e del nero, presenta un lungo collo alla Modigliani ed un volto maggiormente definito dal punto di vista fisionomico, con gli occhi azzurri resi attraverso due piccoli quadrati di carta colorata. Nel cupo fondale, nel quale risplende una luna gialla, vola una grande ape. Sulla destra, invece, è tracciata a lapis la silhouette di una donna picassiana, totalmente priva di cromia all’infuori che nell’inserto dei due enormi seni; è seduta su una poltrona deformata cubisticamente con gli inserimenti di collage; sullo sfondo è l’immagine fotografica di un salotto, dove possiamo vedere un tappeto, una tenda bianca ed un piccolo mobile sul quale sono due foto in bianco e nero. Ancora una volta, come nel caso dell’opera precedente, fughe orleriane dagli incubi del quotidiano attraverso donne carnali e la loro ammaliante seduzione erotica, alle quali specialmente allude l’opera sulla destra, non solo mediante il colore rosso, ma anche con l’accenno fotografico per frammenti a gambe femminili con ammiccanti calze a rete.
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TAV. 16 Due donne al balcone , 1956
Collage, ciascuno di cm 29,5x20,5 Firmati e datati al centro: “David Orler - 1956”
L’opera di sinistra rappresenta una donna nuda seduta su un’asse in riva al mare, mentre sullo sfondo nuvoloso risplende l’inserimento geometrico ed astratto di un sole raggiato. Quella di destra, invece, raffigura anch’essa una donna con un cappello piumato e nel fondo azzurro del cielo si trova il sole, reso per cerchi concentrici color giallo ed arancione. Sempre più evidente è l’immagine-fuga orleriana attraverso le “donne dei marinai”: la figura nuda di sinistra, dall’accentuato e un po’ volgare erotismo, connotato dalle gambe divaricate e dalla macchia nera in antesignana corrispondenza del buñueliano e surreale “oscuro oggetto del desiderio” (1977), si dilata nella sproporzionata testa, dai grandi e gelidi occhi neri e dalle doppie labbra turgide, rosse e sensuali (quasi un omaggio a quella Cassiera del bar, dipinta da Maurice Vlaminck nel 1900). Interessante l’accenno cromatico al vaso di fiori e alla tenda celeste sulla destra, in contrasto con il paesaggio marino in bianco e nero, sulla sinistra: una fuga effimera che si accende solo nell’amore di un’ora, per piombare nuovamente in un ambiente privo di colori, nei deserti dell’anima, in un oceano di perdizione. L’opera di destra, invece, totalmente policroma, è quasi la rivisitazione di una scena della Belle époque e i due seni trafitti della donna sono estrapolati dal reale contesto fisionomico, per divenire globi e mondi surreali nell’universo, come del resto all’universo della vita paiono riferirsi le tre simboliche uova che si vedono a sinistra. Nella metafora surreale ritroviamo, però, la stessa dura e disincantata riflessione che pervade, nel crudo realismo, certe opere di Geor ge Grosz, ma senza il suo connotato di feroce satira e senza quell’idea, almeno del tutto consapevole, di corruzione e di squallore del mondo bor ghese. Un giuoco - quello di Orler - che confonde e in cui va ricercato il significato profondo al di là della metafora. Il simbolo, spesso psicanalitico e freudiano, tradisce comunque un disincantato, ancorché larvato, pessimismo sul genere umano, in parte accostandosi, inconsciamente, a quella deformazione della realtà attuata nei suoi film proprio dal regista aragonese Luis Buñuel (da L’età dell’oro, del 1930, cosceneggiato insieme a Salvador Dalì, a Susana, del 1950). Del resto, Il Surrealismo, pur essendosi sviluppato storicamente tra le due guerre mondiali (alla prima esposizione collettiva parigina del 1925 avevano partecipato, tra gli altri, Picasso, Man Ray, Klee, Miró e De Chirico) ed af fondando le sue origini dell’ironica ribellione ‘iconoclasta’ dadaista, per il suo richiamo all’‘irrazionale’ e al mondo dell’inconscio, in contrapposizione al mito della ratio e di una ‘aristotelica’ e ‘borghese’ realtà oggettiva, si sottrae ai limiti cronologici della sua formazione, per sopravvivere, rinnovato in svariate forme, ancor oggi. Nel 1965 Josef Hodin sottolineerà come il Surrealismo va inteso soprattutto come “un atteggiamento metafisico verso il complesso dell’umana esistenza e un metodo d’indagine più che una teoria artistica e letteraria”: in tal senso vanno inquadrate anche queste opere orleriane. 90
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TAV. 17 Paesaggio a Mezzano , 1958
Olio su faesite, cm 85x125 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler / ‘58” Nel quadro compare un grande edificio rurale, dominato dall’imponente tetto coperto in coppi, sul retro del quale si innalzano verdi montagne. Sulla sinistra si intravede una seconda costruzione più in lontananza, sul cui tetto emer ge un bianco comignolo. Il primo edificio, perimetrato da una staccionata, è veduto da sotto la tettoia di un terzo edificio in primo piano, la cui struttura è sorretta da una massiccia colonna lignea. Ancora una bella veduta montana della Valle di Primiero, con le tipiche costruzioni rustiche trentine. Il paesaggio, tranquillo e sereno, per l’Orler rappresenta spiritualmente una ‘licenza’ durante quel tormentato periodo. In quest’opera gli accenti primitivisti si stemperano maggiormente in una visione in plain air e dai connotati ancora sapientemente e luministicamente derivati dall’Impressione ottocentesca. Interessante la solida costruzione prospettica della raf figurazione, nella quale la profondità viene maggiormente enfatizzata dalla struttura lignea in primo piano, attraverso la quale l’artista vede lo scorcio di paesaggio esterno. Anche dal punto di vista chiaroscurale la cupa struttura in primo piano, con il tronco quasi nero sorreggente il tetto, contrasta magistralmente con la bianca calce sotto il sole che riveste le murature e con le vibrate pennellate del verde delle montagne che si sfrangiano nell’azzurro del cielo in una composizione quasi astratta e morlottiana.
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TAV. 18 Notturno invernale a Mezzano , 1958
Smalto su compensato, cm 106x118 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler / 1958”
Sulla sinistra sono rappresentate alcune case rustiche dell’antico nucleo abitato di Mezzano nella Valle di Primiero, tra le quali si apre un vicolo, illuminato da un lampione posto in alto. Sul retro delle abitazioni e sulla destra le montagne sono ricoperte da uno spesso manto di neve; sul rilievo in primo piano svetta un albero scheletrito, mentre il cielo notturno è rischiarato dalle stelle e da una tur gida luna piena. Tutta l’opera, di forte connotazione primitivista, è irradiata di candido nitore. Pur nella semplicità con la quale è reso il paesaggio (quasi scena di un presepe), questo rimane ben riconoscibile e individuabile nei suoi connotati salienti. Le antiche case, in pietra e in legno sembrano ammassarsi tra di loro, in un abbraccio o in una ripiegamento fetale, che racchiude l’intimità delle famiglie e la luce di quel lampione; tutt’intorno la neve soffice e fresca avvolge l’ambiente, come un mantello luminescente. Su tutto regna un silenzio e una stasi profondi, che ci restituiscono perfettamente il senso sacrale del riposo notturno. La luna in quel cielo cristallino diviene una sfera materica e vicinissima al paesaggio, fin quasi a lambirlo. In questa dolce ‘culla’ sembra di sentire la ‘ninna nanna’ che protegge l’artista in fuga dalle sue ossessioni esistenziali e il senso di irreale fiaba è sottolineato da quella luce metafisica e squisitamente malinconica che illumina da destra tutta la scena (si noti la proiezione dell’ombra dell’albero che non è data dal plenilunio). Interessante notare come l’Orler sia riuscito, pur nel delicato racconto fuori dal tempo, a farci sentire, attraverso un uso sapiente del colore, il freddo candore della neve che riverbera la luce di quella luna e di quel cielo blu magicamente incantato. La stessa forza e brillante trasparenza del colore che riprodurrà in alcune sue rivisitazioni di questo tema, risalenti alla fine degli Anni Novanta.
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TAV. 19 Lo Studio, 1958
Olio su tela, cm 84x123 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / Ve[nezia] ‘58” Il dipinto raffigura l’interno di una stanza, attraverso una porta sulla destra, con stipiti ed architrave lignei; l’intero vano è coperto da un grande solaio del quale si vedono solamente le travi primarie, anch’esse in legno. L ’intera composizione è dominata dal grande letto disfatto, sul materasso del quale si trovano bianche lenzuola ed una coperta color rosso ed arancio. A sinistra è raffigurata una sedia in legno, tornita e scolpita e sul retro, in angolo, un piccolo e rustico tavolo, sul quale si trovano una bottiglia ed un bicchiere, mentre al di sopra sono appesi due panni. La camera, o ‘studio’, vuota del pittore diviene il simbolo per antonomasia del travaglio esistenziale e psicologico dell’artista in quegli anni. Il letto disfatto sta quasi a indicare la sua confusione e, pur non comparendo la figura umana, tutta l’opera è pregna di umanità e dell’identità orleriana. Certamente la rappresentazione ci rimanda a La stanza di V incent ad Arles del 1888, dove Van Gogh, come poi Orler , forse più ancora che in un autoritratto, ci fa penetrare nella dimensione intima e privata dell’artista. L’ambiente, come nell’artista olandese, è caratterizzato da un processo di sintesi delle forme e di un uso non più oggettivo ma soggettivo dei colori, aventi, come il rosso ‘agitato’ della coperta, una valenza simbolica. Mentre in Van Gogh la scelta delle tinte tenui e l’accordo principale di ocra e di azzurro avevano un ef fetto rasserenante sull’osservatore e lo spazio aperto al suo sguardo lo accoglieva invitandolo al silenzio e al raccoglimento, in Orler l’accenzione cromatica e fauve introduce al tormento a alla ribellione esistenziale. L’isola felice di Van Gogh diviene in Orler l’isola rifugio, assediata dagli incubi. Il connotato del letto vissuto, quasi alcova, rappresenta l’esistenza umana come, in altro modo, ha rappresentato Furio Cavallini nella sua nota serie di Letti disfatti, dipinti nel periodo milanese. Interessante anche la natura morta con bicchiere e bottiglia, nel calcolato studio di forme e volumi solidi sotto la luce, che ci rimanda all’essenzialità del miglior novecentismo; la tavola gialla con veloci segni rossi che delimita il letto è, invece, quasi un richiamo a certa astrazione segnica poi sviluppata dai maestri del Gestuale.
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TAV. 20 Mio Padre, 1958
Olio su tela, cm 125x83,5 Firmato e datato nel mobile, a destra: “Orler / ‘58” Nell’essenzialità di un interno, qualificato solamente dal mobile a destra e dalla piccola finestra con inferriata sul retro, domina maestosa e solenne la figura del padre di Orler, seduto su uno sgabello di legno, con le braccia conserte e una giacca sulle spalle. La rustica stanza inquadra perfettamente la figura massiccia del lavoratore, delineato con lineamenti scarni, segnati dalla fatica. Lo sguardo fisso e pensoso rivolto verso l’osservatore, il volto solcato da rughe profonde, la bocca semiaperta e contornata da grandi baf fi e la fossa del mento ci restituiscono una personalità quasi timida e schiva di uomo di montagna; l’ambiente e l’esterno che si intravede attraverso la finestra, ridotto ad una pura monocromia, sono giocati tutti sull’essenzialità del marrone, del bianco e del celeste; l’intera composizione non si esalta mai in toni squillanti, ma è avvolta in un manto onirico di malinconia e di affetto filiale. L’accenno al crocifisso, reso per tenui grigi, che si vede sulla parete in alto a destra, contribuisce a dare alla scena un accento di sacralità patriarcale: è l’inizio della prima ‘luce aurorale’ che ben presto invaderà l’animo dell’artista, segnando un profondo mutamento anche nella sua opera.
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1959 1970
2. La serenità conquistata
Intimismo romantico e pace spirituale
TAV. 21 Maternità, 1959
Olio su cartoncino, cm 70x50 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / Ve ‘59” L’olio raffigura in monocromo nero l’immagine di un donna con il velo in testa, che regge in braccio un bambino mentre le bacia la guancia destra. L’opera, resa per veloci pennellate di nero, costituisce una variante moderna della Madonna della tenerezza, con richiami nel tratto a certi disegni picassiani. Le figure specialmente la Madre - dal sapore arcaico e latamente af fini a certe raf figurazioni coeve di Remo Brindisi, per la velocità del tratto raggiungono in alcune parti quasi la poetica dell’astrazione. La testa del Bambino, dai capelli ricciuti, è magistralmente resa in ‘negativo’, essendo non rappresentata la silhouette della capigliatura, ma venendosi questa a definire in conseguenza dell’ampia pennellata che connota il retrostante fondo scuro.
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TAV. 22 Uomo a letto che legge , 1959
Olio su tela, cm 100x77 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘59” È rappresentato un uomo dalla folta capigliatura e barba nere (lo scultore Silvio Alchini nello studio veneziano di Orler, a Palazzo Carminati) che, semiseduto nel letto, legge un giornale. Sulla destra, ai piedi della coperta rossa, sono le scarpe, poggiate su un pavimento in assi di legno; sul retro della figura si trova una porta chiusa, anch’essa con le ante lignee, che si apre in una muratura intonacata color bianco. Tale quadro, dal sapore intimistico e latamente bohemien, si ricollega, in un certo senso, a Lo studio dell’anno precedente. Anche in questo caso, infatti, tutta la composizione ruota attorno al letto con l’ampia coperta rossa, disposto diagonalmente, alla Van Gogh, a scompartire ed or ganizzare lo spazio pittorico, rendendolo dinamico. Questa volta, però, non si tratta di un’alcova vuota, dove intuire il tepore della persona appena alzatasi, ma è un letto ancora con la presenza umana, rappresentandosi uno scorcio semplice di vita quotidiana vissuta. Interessante la resa cromatica della coperta con le morbide pieghe che denotano una attenzione notevole verso la luce, la quale rende mobili e soffici le superfici. Pur così spoglio in apparenza, lo spazio risulta fortemente caratterizzato, trasmettendoci un’impressione di grande serenità.
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TAV. 23 Ritratto di Maria Grazia , 1959
Olio su carta, cm 77x62,5 Firmato e datato in basso a destra: “A G[razia] / D[avide] O[rler] / ‘59” In questo olio viene raffigurata una giovane donna di profilo, dalla capigliatura nera che le scende a treccia lungo le spalle. La ragazza è intenta a cucire. Un delicato ritratto, il cui dolce profilo si staglia per contrasto su un fondo monocromo marrone-ocra; la totale e anodina astrazione monocroma di quest’ultimo si vivacizza e si personalizza solamente attraverso alcune scure pennellate materiche e gestuali sulla sinistra, a farci appena intuire la presenza volumetrica di oggetti in questo rarefatto ambiente interno. La fanciulla è rappresentato con pennellata delicata e finemente descrittiva, che ci restituisce un’impressione fortemente intimistica, di derivazione ancora ottocentesca e romantica: il soave e quasi impalpabile e vellutato profilo del suo dolcissimo naso e delle sue guance, appena irrorate di un tocco di rosa che si stempera in una luce radiosa proveniente tutta dall’interno della figura, si accende nel cupo e scintillante sguardo di una pupilla che trafigge con indefinito amore lo spazio che la circonda, quasi angelo sulla terra. L’uso dei colori, però (il rosso cardinale della maglia, il bianco del panno ricamato, il cupo fondale rammentato, dai toni scuri e bitumosi dei maestri nordici), ci rimandano ad una temperie fortemente moderna. Attraverso lo sguardo della donna, che osserva con attenzione il proprio lavoro, pare quasi di vederla, nel contempo, tutta assorta nei suoi più reconditi e ver ginali pensieri.
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TAV. 24 Nonna e nipote , 1960
Olio su tela, cm 59x45 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘60” Il quadro raffigura una donna anziana con un fazzoletto sulla testa, che regge fra le braccia il nipotino, che tiene un cucchiaio nella mano destra. Ancora una scena intimistica dal sapore quotidiano, ma resa magistralmente in maniera decisamente moderna. L ’anziana è veduta diagonalmente dall’alto verso il basso, occupando con maestosità la parte principale del quadro. Le figure sono rese per solide ed essenziali volumetrie, che si accendono di colori forti e talvolta - come nella capigliatura fulva del bambino - quasi irreali; proprio attraverso il colore e le forti e decise ombre nelle pieghe dei vestiti e nelle rughe del volto della donna, le due immagini paiono letteralmente scolpite, in una possanza essenziale e dolcemente etica. Bello lo sguardo complice tra i due volti, che si scambiano tenerezze d’amore pur in una fortissima e quasi statica o monumentale dignità. Anche in questo caso il fondo scuro è trattato in maniera totalmente astratta e serve a connotare e far maggiormente risaltare le figure e la loro psicologia.
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TAV. 25 A Chioggia, 1961
Olio su tela, cm 100x73,5 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘61” Uno scorcio di un canale a Chioggia, con le case sullo sfondo e varie barche a vela in primo piano. Il paesaggio è realisticamente reso con un’accensione cromatica rutilante di colori. Le costruzioni lungo il canale, con porte e finestre rettangolari contornate da fasce bianche in contrasto con l’intonaco rosato, ci richiamano perfettamente l’ambiente marinaro e semplice di pescatori. Il quadro si accende tutto nella radiosità solare delle vele nei toni del giallo, del bianco, dell’arancio e del rosso. Tale luminosità non conferisce, però, una eterea trasparenza alla tela, che anzi assume una consistenza volumetrica e materica quasi monumentale; anche il riflesso della vela in primo piano raggiunge una matericità al pari delle acque che sembrano solide. Un dipinto, quindi giuocato tutto su volumi, luci e colori che ci restituiscono l’immagine di un artista fortemente immerso in una realtà concreta e radiosa ad un tempo. La luminosità non è resa attraverso la vibrazione della luce e le sfumature, ma anch’essa pare diventare materia mediante l’uso di pennellate decise e corpose, vere macchie di colore. Le immagini riflesse nell’acqua, in una cromia di toni caldi e freddi, raggiungono, anche in questo caso, la potenza di un quadro astratto ed informale a sé stante.
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TAV. 26 Burano, 1961
Olio su tela, cm 70x100 Firmato e datato in basso al centro: “’61 / Orler” Contro un cielo azzurro, appena velato da candide nubi, vediamo una serie di edifici dell’isola di Burano, dominati dai tipici alti camini veneti. In primo piano si trovano quattro gondole tirate in secca sull’arenile. Il paesaggio, che può dare alla prima impressione una sensazione estremamente realistica, è invece un pretesto per assemblare volumi in una composizione fortemente metafisica. Infatti, basti osservare le volumetrie degli edifici sulla sinistra, che, grazie anche all’uso di forti ombre proiettate, creano un giuoco sapiente di parallelepipedi, cilindri e piramidi - cioè volumi primari - nella luce e nello spazio. La luce e il colore pienamente veneti dell’articolato ed armonico incastro di volumetrie architettoniche, in buona parte prive di aperture (compaiono solo quattro piccole finestre nella cortina dei nove blocchi rappresentati) e così ulteriormente rese astratte, creano quasi una barriera geometrica contro il cielo, alla quale fa riscontro in primo piano il motivo sinuoso dell’altra barriera, costituita dai neri scafi delle incombenti gondole che imprimono una sensazione dinamica, ed ancora una volta astratta, alla composizione. Il contrasto fra le grandi barche in primo piano e le ‘piccole’ case sul fondale ci restituiscono, in ultima analisi, un ambiente irreale e statico, quasi quinta teatrale, attraversato trasversalmente da quella massa nera che quasi si attorciglia su se stessa come una corda, poderosamente tirata, dove nell’assenza atemporale della figura umana, tutto rimanda alla presenza pregnante dell’uomo in una visione tra l’onirico ed il melanconico, per certi aspetti dechirichiano, pur nella presenza (o meglio, nonostante la presenza) di un cielo realissimo, che dà profondità e respiro all’intera plasticissima opera.
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TAV. 27 Ritratto di Ermanno , 1961
Olio su tela, cm 100x70 Firmato e datato nel tavolo a destra: “Orler - Ve[nezia] 1961” Il quadro raf figura il fratello dell’artista: un giovane uomo, seduto al tavolo, in maniche di camicia e con un cappello, tiene le braccia incrociate sul petto e poggiate sul bordo del tavolo, sopra il quale si trovano due pagnotte, un bicchiere ed un fiasco di vino. La figura, dallo sguardo penetrante, rivolge i due grandi occhi (che ci rammento quelli dell’autoritratto di Antonio Ligabue del 1955) verso l’osservatore, ma nel contempo pare assorto e meditabondo. La figura, fortemente realista e caratterizzata, è resa per decise pennellate, che diventano ampie e veloci nella restituzione degli indumenti. Il sapore della quotidianità traduce l’opera in un racconto di viva e spontanea immediatezza, assumendo contemporaneamente già l’accento di un ricordo. Bella la natura morta in primo piano e lo studio della luce sull’impagliatura e sul vetro del fiasco, mentre la torsione dei muscoli delle braccia, dai colori simili al pane vicino ci restituiscono la schietta robustezza dell’uomo.
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TAV. 28 Ritratto di Papà , 1961
Olio su tela, cm 100x69,5 Firmato e datato in basso a destra: “1961 / Davide / Orler” Un altro ritratto di famiglia e ancora una volta il padre dell’artista: l’uomo, seduto su una sedia, e veduto di tre quarti dall’alto, inforca gli occhiali ed è intento a leggere. Sul foglio, tenuto in mano dall’anziano signore, l’Orler inserisce, alla maniera dei pittori di ritratti del passato, la propria firma. Il carattere personale della raffigurazione pare sottolineato dai colori caldi impiegati (il rosso della camicia, l’ocra arancio del fondo totalmente astratto, che sembra materializzarsi in un’aura attorno alla figura), stesi in maniera veloce e con un’immediatezza da sereno idillio familiare. I colori e le pennellate, che tramite le ombre e le rughe creano sulla tela l’uomo, si impastano di un distaccato amore che osserva e avvolge la scena tranquilla e intimistica. La luce illumina a sprazzi il padre e la sedia imbottita sulla quale è seduto, una luce totalmente diversa da quella irreale - o surreale - che abbiamo notato nel fondale dalle nervose pennellate. In tal modo la figura sembra enucleata dal contesto e sospesa in una dimensione e in un tempo nostalgicamente indefinito, cullata dall’af fetto del figlio.
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TAV. 29 Notturno a Venezia, 1962
Olio su tela, cm 90x50 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘62” Uno scorcio di semplici case lungo uno dei tanti e tipici canali veneziani e in primo piano è l’angolo di uno stabile altro quattro piani fuori terra a ridosso del quale, sulla destra, si trovano altre più modeste costruzioni. Gli edifici sono perimetrati alla base da una delle numerose calli che definiscono la struttura urbana della città e dalla quale una piccola scala, composta da quattro gradini, scende fino al pelo dell’acqua del canale, nella cui oscurità emer ge una gondola, ormeggiata. Sullo sfondo si vede, in lontananza, la silhouette nera di altri edifici che stagliano contro il blu profondo del cielo. Interessante anche questa veduta notturna, dominata da colori cupi e spenti, ma non più angoscianti, che si accendono nelle luci dei lampioni, i quali creano suggestive diagonali e coni di luce sugli intonaci delle case. Una serena, solitaria, silenziosa e rassicurante visione della città che dorme e che nell’intimità di alcuni spazi ancora veglia (si osservi il giallo luminoso che proviene da una finestra, lontana, sulla destra), che ci fa venire alla mente alcuni notturni di un altro pittore e di un’altra città di mare, il postmacchiaiolo Renato Natali e la sua Livorno, ancorché la costruzione prospettica e la pennellata siano decisamente diverse, non presentando l’opera orleriana la vibrazione accesa nei toni del rosso, del blu e del giallo, se non forse, in quella finestra illuminata che abbiamo rammentato e che ci richiama alla presenza sveglia e cosciente dell’artista mentre osserva e pensa nella sua amata Venezia che si sta riposando.
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TAV. 30 Natura morta con fiasco , 1963
Olio su tela, cm 60x90 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘63” Questa originale Natura morta rappresenta un vecchio comodino adagiato a terra, accanto al quale si trovano un fiasco, abbandonato vicino a un cencio rosso arancio con forti ombreggiature nere e grigie, gettato con noncuranza sul pavimento, e ad alcuni fogli di carta spiegazzati. Tutta la composizione si gioca sulla diagonale costituita dagli oggetti disposti con apparente disordine, diagonale disposta con andamento dall’alto verso destra e dal basso verso sinistra. I toni cupi e spenti del fondale ridotto al minimo essenziale, del pavimento e del mobile si illuminano solamente nel bianco candore della carta, nelle ampie pieghe del panno e nell’impagliatura del fiasco, egregiamente restituita con potenza plastica, attorno alla quale, perimetralmente, è posta la firma dell’artista. Un’opera certamente di forte realismo, un pretesto sapiente per studiare in maniera non convenzionale oggetti del quotidiano nei loro volumi e sotto gli ef fetti della luce.
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TAV. 31 Sedia e scopa , 1963
Olio su tela, cm 80x60 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘63” Su un rustico pavimento, presso l’anta di una porta lignea, è raf figurata una sedia impagliata, dietro lo schienale della quale si trova appoggiata una scopa di saggina.
Ancora una natura morta ispirata alla semplice quotidianità di oggetti comuni consunti dall’uso e dal tempo. Un divertissement dell’artista intento ed appagato nell’osservare con rinnovato stupore i piccoli ed umili strumenti di una vita agreste. La sapienza del disegno, il gesto veloce ed il colore caldo con i quali è resa la sedia e la scopa retrostante sono maggiormente evidenziati dal cupo fondo nero sul quale risaltano, con tonalità e luce vangoghiane. Interessante, anche in questo caso lo scorcio prospettico dall’alto nel trattare come veri modelli questi ‘insignificanti’manufatti dell’uomo, pieni di sapore e saggezza antichi, qui esaltati nella loro oggettiva armonia formale che ci richiamano un disegno rappresentante La scopa, opera del 1947 del pittore fiorentino Vinicio Berti, ora in collezione privata. Attraverso questo scorcio pare quasi di sentire gli odori e i profumi di un ambiente di campagna, pervaso da un senso indefinibile ed inef fabile di religiosità.
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TAV. 32 Gamba. Il pittore mancino , 1963
Olio su tela, cm 95x70 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘63”
Il quadro rappresenta lo studio del pittore “Gamba”, intento a dipingere con la mano sinistra una sua opera, posta sul cavalletto. In primo piano è visibile un mobile in legno sul quale è posta la tavolozza dei colori, mentre sullo sfondo si intravede altro mobilio della stanza. La tozza figura dell’artista è rappresentata di profilo, con un maglione nero e con il colletto della camicia bianca. Anche questo interno denota una composizione di oggetti rappresentati con una sapienza prospettica che costruisce profondità ed insiemi armonici (il mobile in primo piano è una rivisitazione del comodino che compare nell’olio Natura morta con fiasco dello stesso anno). Il pittore è caratterizzato dalla grande testa, psicologicamente ritratta attraverso le pennellate decise che segnano rughe, sopracciglia e baffi, e dal braccio sinistro nell’atto vigoroso e potente della creazione artistica. Da notare la composizione quasi cromaticamente astratta dell’opera pittorica, raffigurante il quadro nel quadro, fissata nel suo divenire (nei toni del celeste, del rosso, del rosa, del grigio e del fucsia), nonché la maglia nera, incisa da graf fi profondi nel pigmento, di forte impatto gestuale.
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TAV. 33 Ritratto di donna , 1963
Olio su tela, cm 80x54 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / 1963” È rappresentata una donna, ancor giovane, con il caschetto dei capelli scuri ed un maglione a righe dal collo alto; la figura è a mezzo busto e lievemente ruotata. Il quadro, di forte realismo, è tutto sapientemente giocato sul volto illuminato da destra e con la parte sinistra in ombra. La pennellata minuziosa e calligraficamente sicura ci restituisce un viso femminile, appena velato dal tempo e da una indefinibile tristezza esistenziale che pare trasparire in quegli occhi grandi e scuri che, pur rivolti verso l’osservatore, sono assorti in pensieri nostalgici. Anche sui capelli i fini e sapienti colpi di bianco giocano magistralmente a far risaltare la luce. Alla perfezione del volto, descritto nei minimi particolari anatomici, fa riscontro la restituzione del torso avvolto dalla maglia, caratterizzata da ampie e veloci pennellate essenziali, quasi a creare una più indefinita volumetria a corollario del volto. Pure in questo caso le spalle sono vedute in prospettiva di sbieco, così da ricreare la consueta diagonale compositiva orleriana. Il tutto risalta su un informale fondo Kein blue che nelle vibrazioni tonali modernissime, fa quasi assumere una tridimensionalità materica al ritratto, che pur mantiene, in un costruttivo e dinamico contrasto, una composizione ancora di sapore ottocentesco.
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TAV. 34 La casa di zia Giuliana e ‘tabià’ dei Vetoreti, 1963
Olio su tela, cm 70x100 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / 1963”
Il quadro rappresenta due tipiche case trentine in pietra e legno (delle quali una è un tabià, vale a dire un granaio), con le verdi montagne sullo sfondo. È una delle opere più realistiche di Orler, resa con una pennellata quasi macchiaiola, che ci restituisce quelle architetture in tutto il loro sapore antico e rurale, dove pare che le murature e i vecchi scuri in legno delle finestre, come le scale in pietra o la catasta di legna, siano percepibili nella loro reale tridimensionalità. Si noti, particolarmente, quell’uso delle velature del colore che fa, ad esempio, assumere alle superfici bianche quell’impalpabile, autentica matericità dell’intonaco grezzo. Anche le ombre, colorate secondo l’insegnamento impressionista, contribuiscono a definire un paesaggio di forte lirismo e di grande pathos, lontano da altre opere più di sapore primitivista, realizzate dal maestro, restando, al di là di una certa appartenenza ancora alla grande figurazione ottocentesca, un quadro che, dilatando le caratteristiche proprie di un bozzetto o di ‘impressione’ad una grande superficie dipinta, resta un’immagine di profondo impatto scenografico ed un’opera rappresentativa - sebbene di un ristrettissimo filone - nella produzione orleriana degli Anni Sessanta.
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TAV. 35 La città sul mare , 1964
Olio su tela, cm 142,5x203,5
Una composizione totalmente ‘astratta’, nelle cromie dei cui volumi possiamo intuire edifici e tetti; sullo sfondo si può percepire un mare azzurro sovrastato da un cielo sereno. Si tratta di una rivisitazione orleriana del Cubismo e dell’astrazione geometrica classica, in una composizione equilibrata di volumi e di colori, che dai toni del verde brillante e del grigio, in basso (riferiti alla concretezza della madre terra) raggiungono quelli caldi e solari del crema, dell’oro e del rosso, verso l’alto. Tutta l’opera ruota attorno alla massa centrale rosso vivo, che diviene il vero fulcro della composizione, e i volumi, dati dalla scomposizione delle mura e dei tetti degli edifici, si stagliano contro il mare retrostante, che risulta visibile attraverso tagli verticali, feritoie ed un oculo, imprimenti una sorta di profondità prospettica e scultorea al grande insieme di volumi ‘astratti’ in primo piano ovvero a quella idealizzata città in riva al mare. L’opera, che formalmente può avere qualche assonanza con noti capolavori di Gino Severini o di Vasilij Kandinskij (nel suo periodo di avvicinamento stilistico all’astrazione geometrizzata), è una vera finestra sul mondo, che lascia intravedere sullo sfondo, al là delle astratte costruzioni urbane, elementi naturalistici, come il cielo e il mare blu. A ciò si sovrappone una varietà di forme e di colori che definiscono bene la complessità armonica urbana. Con questa sovrapposizione di poliedri astratti (le case degli uomini) e di natura, Orler, quasi come Kandinskij, ci suggerisce che ambedue sono sottomesse “alle leggi universali del mondo cosmico” e che al mondo naturale si af fianca quello umano, altrettanto reale e concreto, cosicché l’arte astratta orleriana diventa per antonomasia arte solida e concreta. La composizione di aree e di volumi fatti di colori limpidi e vivaci, come un’antica e sfolgorante vetrata dipinta, è per certi versi avvicinabile anche alle gradazioni tonali degli ultimi dipinti di Franz Marc, che, con Kandinskij e con August Macke, aveva fondato il movimento del blaue Reiter.
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TAV. 36 Terremoto, 1964
Olio su tela, cm 143x204 Firmato e datato al centro verso destra attorno a una porta: “Orler / 1964” Un’altra composizione ‘astratta’, nella quale possiamo osservare un ammasso di volumi di costruzioni, sul cui sfondo sono visibili un mare agitato, un cupo cielo ed una verde montagna. Anche in questo caso assistiamo ad un assemblaggio centripeto di figure geometriche, formalmente desunte da crolli di edifici in conseguenza di un terremoto. Il disastro naturale è, però, quasi il pretesto per creare una composizione anamorfica di volumi astratti e per studiare la loro poderosa matericità sotto i giochi della luce. Questa volta gli elementi realistici sono maggiormente evidenti (si possono osservare colonne, scale, tetti, finestre) ed anche il paesaggio retrostante è meglio identificabile (si osservino la montagna in alto ed il mare burrascoso sulla destra). I toni sono maggiormente cupi e freddi ma si accendono nella grande superficie intonacata centrale dell’edificio crollato in primo piano. Belle anche le due colonne grigie dai riflessi bianchi che si intersecano a croce di Sant’Andrea anch’essa in primo piano e che si sovrappongono dinamicamente come un elemento che quasi squarcia la tela e la incide.
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TAV. 37 L’impiccato, 1964
Olio su tela, cm 140,5x190 Il quadro raffigura un evento realmente accaduto e che Orler trae dai propri ricordi. Dal soffitto dell’ambiente in primo piano, a sinistra, pende la figura di un uomo impiccato; al di là della ringhiera si osserva il paese montano della Valle di Primiero, con le tipiche case trentine, una fontanella nella piazzola e, sullo sfondo, le Dolomiti, in direzione delle Pale di San Martino. L’opera, nella sua drammaticità, come del resto la precedente, non denunciano più il terremoto interiore dell’artista, come già negli Anni Cinquanta, ma il suicida sta, in certo qual senso, a sigillare e chiudere definitivamente tutto un mondo oramai passato nella vita di Orler. La raffigurazione verista del paese incastonato nella valle fra gli alti monti è reso per veloci pennellate nere che definiscono i volumi e nelle quali si inserisce un rado colore liquido e gocciolante (marrone, bianco e azzurro), che lascia ampiamente scoperto il supporto, così che l’insieme mantiene il sapore del disegno preparatorio. Bella la calda luminosità della vetta della montagna in lontananza, baciata dai raggi del sole al tramonto, unico elemento veramente cromatico della composizione. Nel cupo ambiente in primo piano si trova la figura del suicida, anch’essa resa col tratto veloce del disegno e con una limitata tavolozza nei colori del verde azzurro e del viola glicine; la fisionomia è schematicamente resa attraverso la sfumatura del ricordo, sottolineando la sua valenza simbolica. Una finestra sul mondo dai toni smorzati ed evanescenti, proprio come quel mondo sul quale Orler poneva, ancorché oniricamente e con qualche venatura nostalgica, un’elegiaca pietra tombale.
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TAV. 38 La famiglia pompeiana , 1965
Olio su tela, cm 90x70 Firmata e datata in basso a destra: “65 . Orler” È la visione di un uomo rannicchiato, che si regge la testa tra le mani ed ha la bocca aperta nella quale sono evidenziati i radi denti. Di lato due figure di fanciulli che si stringono al genitore. Il calco coglie le figure nell’istante drammatico della morte, dovuta all’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. La scena dolorosa, resa sostanzialmente in monocromo (solo il fondo uniforme è nelle gradazioni del marrone) a sottolineare il carattere ‘funebre’ della composizione, è una meditazione sull’esistenza umana e sulla sua fragilità, ma tuttavia l’urlo dell’uomo non è qui interpretato con disperazione cosmica munchiana, ma è quasi bloccato nella materia, assumendo un tono di silente sacralità. Pittoricamente le figure sono rese per ampie, vibranti e nervose pennellate di bianco e di nero che modellano e plasmano matericamente le immagini, graffiate e tormentate. Lo sguardo fisso nel vuoto dell’adulto, o meglio della sua immagine di ‘gesso’, ha una compostezza che, pur nella constatazione della vanitas della vita, non approda al pessimismo universale che aveva caratterizzato l’Orler degli anni precedenti e tutto si consuma come in una parabola evangelica.
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TAV. 39 La cena, 1965
Olio su tela, cm 100x120 Un misero interno fumoso e cupo, angusto e spoglio, nel quale emerge un tavolo di legno dove consumano il frugale pasto un uomo e una donna. In primo piano una pagnotta di pane ed una forma di formaggio, già intaccata; sullo sfondo, dietro la donna è visibile la fiamma del camino.
La semplice e rustica scena familiare raccontata da Orler diviene quasi una serena metafora evangelica e francescana, dove, al pari che nella Morte di San Francesco del 1961 (vedi tav. 63), nell’oscurità e nella povertà non vi è nulla di doloroso e di angosciante, ma anzi una dimensione di purezza e di fraterno amore. Le due affaticate figure in penombra, isolate e con gli sguardi che non si incontrano, dalla silente e dignitosa sacralità quasi da Verismo ottocentesco, non hanno, però connotazioni di denuncia sociale e di ’quadro di storia’, ma quasi si perdono nell’oscurità della stanza, divenendo eterei. Tutta la scena, nel fioco ed instabile bagliore in controluce di quella fiamma che si trasforma in evanescente aureola attorno alla donna, è pervasa di silenzio ancestrale; la monocromia nera del fondo materico e tormentosamente lavorato è, però, trasparenza leggera di fronte allo spettatore e i punti di colore e di luce, compositivamente e simbolicamente ridotti ai soli volumi del pane e del formaggio, rimandano, in un certo senso, ai Mangiatori di patate , dipinti da Van Gogh nel 1885 e a quella stessa visione priva di interpretazione astrattamente romantica ed idilliaca alla Millet (si pensi, per quest’ultimo, alla notissima L’Angelus). I fondali cupi, scuri e sporchi, comunque, non sottolineano, a differenza di quanto avviene nell’opera del pittore olandese, i segni della fatica quotidiana e materiale di quella famiglia contadina, riunita nel momento del pasto serale, ma solamente la dimensione del suo spirito.
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TAV. 40 La montagna incantata , 1965 Olio su tela, cm 97x100
Uno scorcio della Valle di Primiero in direzione delle Pale di San Martino, baciate dal sole al tramonto. Nella valle, in basso e già immersa nell’oscurità, si nota appena, in primo piano, una casa in legno. La visione poetica e quasi struggente della montagna più cara dell’artista è sostanzialmente suddivisa in due settori: la zona inferiore nei toni cupi del grigio, dell’ocra e del marrone ha indicare l’oscurità in cui oramai riposa la valle; il settore superiore, dove risplende un sole rosso arancio che ancora illumina le propaggini più alte dei campi e le rocce, tinte di rosa, delle Pale di San Martino, sul retro delle quali il cielo ha assunto le tonalità profonde del blu della notte. Una immagine, quindi, giocata tutta sull’oscurità che si accende e focalizza negli elementi cromatici del giallo, del verde e dell’arancione, in corrispondenza dei luoghi baciati dalla luce. Al di là delle connotazioni realistiche che ci fanno individuare la Valle di Primiero, la raf figurazione diviene onirica e dolcemente simbolica, infondendo una profonda serenità in una dimensione di silente contemplazione e di meditazione atemporale (o meglio in un’altra dimensione del tempo), come sta a sottolineare anche il titolo dato al quadro dall'autore, che riprende significativamente quello di un romanzo di Thomas Mann ( Der Zauberber g, 1924), dove l’autore tedesco, nell’atmosfera stregata e di sogno della montagna incantata e incantante del sanatorio, legata ai suoi ozi infiniti, crea un racconto del tempo dai ritmi diversi, in qualche modo vicino Alla ricerca del tempo perduto di Proust, e questa montagna diventa uno scrigno di moltissime cose e sensazioni.
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TAV. 41 Fiori e paesaggio , 1966
Tecnica mista su panforte, cm 40x59,5 Firmato e datato in basso a destra: “Orler ‘66” Sullo sfondo del declivio di una collina sulla quale splende un grande sole è rappresentato, a destra, un vaso con fiori. Un paesaggio restituito per grandi pennellate nei toni del bianco, del grigio e del rosso-arancione, sul quale incombe un cielo azzurro e quasi uniforme. Su questo schematico ambiente naturale risalta, in primo piano, il grande vaso di fiori, poggiato su un ipotetico davanzale, rappresentato da quella fascia orizzontale nera che dà profondità a tutta la composizione (un po’ come avviene con le fasce che Virgilio Guidi, talvolta, poneva in primo piano per dare prospettiva alle sue marine spaziali o a certe vedute di Venezia). Il colore, però, pur denso e luminoso nella tradizione della pittura veneta, non ha quella trasparenza indefinibilmente eterea di Guidi, ma una robusta matericità e volumetria, sottolineata dalla restituzione del vaso quale silhouette nera con fiori solo intuibili come tali. La pennellata scura e decisa, di forte e spontanea immediatezza alla maniera dell’Espressionismo astratto, diviene vera e propria action painting a definire quella natura morta, che è solo un pretesto per una pittura gestualmete libera. La stessa pennellata nera va a perimetrare nervosamente il disco solare imprimendogli una dinamica radiosa e dripping.
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TAV. 42 Cavoli, cachi, pannocchia e mele , 1969
Olio su tela, cm 80x120 Firmato e datato al centro a destra: “Orler ‘69”
Una natura morta con ortaggi: a sinistra due diosperi e due mele, al centro una composizione di cavoli e cavolfiori, a destra una pannocchia di mais. Sullo sfondo, a sinistra, la veduta di un cielo con un grande sole; a destra, una balaustra oltre la quale si scorgono le cime innevate delle Pale di San Martino. Alla natura morta resa realisticamente, in primo piano, e all’inserimento, ancora una volta naturalistico, dell’immagine montana, si contrappone, sulla sinistra, una veduta astratta, nella quale il sole (al tramonto su un lago?), il cielo e la terra sono suddivisi cubisticamente in campiture policrome rettangolari (celesti, azzurre, turchesi, arancio, rosse, gialle, viola, nere e verdi) che si incastrano tra loro e nel restante paesaggio verista. Ciò tuttavia non comporta una stridente dicotomia, ma il tutto si amalgama in un armonico insieme dominata dalla vivacità del colore.
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TAV. 43 La zingara, 1970
Olio su tela, cm 70x50 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler ‘70” Un ritratto a mezzo busto di una donna dai lunghi capelli neri come gli occhi, che regge tra le braccia un bambino biondo. L’Orler si avvale di una tecnica che impiega colori puri, senza sfumature. Lo sguardo intenso e penetrante della zingara rivela austerità e fierezza di una donna che ha sofferto. Il volto scavato, dai lineamenti marcati, evidenzia il mondo interiore e l’amore, privo di superficiali sentimentalismi nei confronti del figlio che tiene saldamente stretto al suo seno, come pare confermarci anche la grande mano destra in primo piano. In ciò l’artista si rivela indagatore attento dell’interiorità psicologica del personaggio da lui raffigurato. Diversamente dalla madre, il bambino è tratteggiato come sola volumetria primaria, senza elementi connotanti all’infuori della bionda capigliatura, corollario alla figura materna. L’equilibrata composizione rivela un uso sapiente ed armonico del colore, steso con decisione espressionista e con il tratto del disegno che sottolinea il braccio reso con marcata pennellata nera, come già nell’Espressionismo tedesco. Il fondo astratto e ceruleo a tratti assume quasi la trasparenza limpida dell’acquerello.
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1966 1970
3. La parentesi careniana
Tetragona e corale epica umana nella vita, nelle tragedie e nel lavoro
TAV. 44 Pescatori a Trapani, 1970
Olio su tela, cm 70x50 Firmato e datato in basso a destra: “’70 / Orler” Sono rappresentati due pescatori in riva al mare, vicino all’ammasso delle loro reti. Il soggetto, che può ricordare alcune raf figurazioni a sfondo latamente sociale di Migneco, è tuttavia trattato in maniera profondamente diversa e la pennellata veloce e sinuosamente mossa, che disegna di getto le due figure in blu e le reti marroni con tocchi di giallo e di rosso, rammenta quella impiegata da Felice Carena a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale, specialmente in alcuni suoi bozzetti, eseguiti a Venezia, alla ricerca di una sua dimensione estetica più solitaria e appartata, fatta di straordinaria intensità espressiva e di profondo scavo interiore. Come in Carena e a dif ferenza di quanto avviene in Virgilio Guidi, la ricerca della luce non fa perdere fisicità alle figure e agli oggetti, sfumando in un indistinto atmosferico, ma diviene spunto per indagare le loro pieghe più dolorose, approdando ad una pittura più limitata nei colori e bassa nei toni (ocra, bruni, grigi, bianchi, celesti smorti) e la materia si mescola contaminando le vicine pennellate in guizzi dinamici (si pensi anche alle tre varianti dell’ Alluvione a Mezzano, del 1967). A tale periodo appartiene pure una produzione a carattere sacro che rivela anch’essa affinità con la religiosità di questo ultimo Carena (si confronti, ad esempio, la Pietà n. 2, eseguita ed esposta da Carena alla Biennale di Venezia del 1956, con l’orleriano Studio per la Deposizione, del 1966). Il disfacimento espressionista della forma, latamente desunto dalla flessuosa pennellata di Oskar Kokoschka, crea figure epiche e statuarie, fermate nel tempo, ancorché i volti, resi per masse, senza specifici connotati, perdano la caratteristica di ritratti psicologicamente investigati come, invece, in alcuni personaggi delle Alluvioni. 148
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1970 1992
4. Verso nuove sperimentazioni
Tra Pop Art e Nouveau Réalisme
TAV. 45 Ritratto di mio figlio Gabriele , 1970
Olio su tela, cm 45x35 Firmato in basso a destra: “Orler”
È il ritratto del figlio maggiore, il cui busto è veduto di tre quarti con la testa rivolta a sinistra. Pur riconoscendosi le sembianze del bambino, l’opera diventa estremamente innovativa nell’iter artistico di Orler: i colori, totalmente astratti (verde per l’incarnato) non hanno più nulla a che vedere con la realtà e le pennellate che definiscono i lineamenti divengono colore direttamente spremuto dal tubetto, estremamente materico. Questo, come le sgocciolature (si veda l’occhio sinistro) rivelano un riferimento lato all’opera di Jackson Pollock, ma più segnatamente a certe tele di Mario Schifano e alla sua pittura gestuale. Il bambino emerge da un fondo monocromo rosso che annulla ogni riferimento ambientale, inserendo l’opera orleriana nella più avanzata sperimentazione delle Avanguardie di quegli anni in Italia.
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TAV. 46 I campi dallo studio , 1971
Olio e sabbia su tela, cm 61x71 Firmato e datato in basso verso destra: “Orler ‘71” Il quadro raffigura i campi di grano che in estate il pittore osservava dal proprio studio a Favaro Veneto; in basso si notano alcuni alberi e in alto il cielo.
La composizione richiama alla mente, pur in una sua originale versione, alcune opere della Pop Art italiana del gruppo di artisti di Piazza del Popolo a Roma e, segnatamente, per la veloce pennellata fortemente materica, quelle di Mario Schifano (si pensi ad alcuni suoi Campi del pane, le Case sole, i Paesaggi anemici o le Turbolenze, in particolare a quel “naturale sconosciuto” della mostra tenutasi nel 1984 presso il circolo artistico nel Palazzo delle Prigioni Vecchie a Venezia). Il paesaggio diventa un pretesto per uno studio cromaticamente astratto delle campiture geometriche nelle varianti vivaci del verde e del giallo, alle quali fanno da contrappunto le sinuose rappresentazioni degli alberi e del cielo, con colore spremuto dal tubetto sulla tela, senza l’uso del pennello o della spatola. Anche l’impiego delle sabbie rimanda ad alcune opere che saranno proprie del maestro tunisino. Orler non mira a ‘rappresentare’ il colore, bensì a mostrarlo svincolato da ogni relatività. Questi campi non sono quadri astratti e neppure tracce della memoria o metafore in forme di variazioni sul tema della natura, né, come giustamente ha sottolineato Alain Cueff per l’opera di Schifano, pittura figurativa, né metaforica. La materia, con il suo spessore e il suo rilievo, sembra prevalere sul colore, ma in realtà, le interferenze fra i colori stesi in stretto contatto uno accanto a l’altro (rendendo maggiormente limpida ed esplicita la loro purezza) danno al colore stesso tutta la sua vera ampiezza.
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TAV. 47 Campi dallo studio a Favaro , 1971
Olio e sabbia su tela, cm 70x100 Firmato e datato in basso a destra: “’71 / Orler”
Una veduta dall’alto degli stessi campi, questa volta in primavera. Anche in questo caso l’opera si richiama, per tecnica e risultato a certe opere di Mario Schifano (si osservino, in particolare, le nuvole bianche e azzurre nel cielo e gli alberi ottenuti spremendo il colore giallo a formare anelli e semicerchi che ricordano fiori d’acqua e ninfee del maestro di Piazza del Popolo). Il quadro sviluppa, questa volta, i toni del verde, da quello chiaro e brillante al più cupo; interessante la restituzione dei solchi nei campi, prospetticamente resi con strisciate a rilievo di massa pittorica. Nonostante tale espediente, la composizione risulta astratta e irreale, divenendo, come in Schifano, un paesaggio simbolico e mediatico ad un tempo: al pari delle ninfee e dei campi del pane di quest’ultimo, l’ambiente naturale si fa icona del campo nell’immaginario collettivo, per assurgere a simbolo di una natura in via di estinzione sotto gli ef fetti della urbanizzazione e dell’industrializzazione nella civiltà del boom economico e dei consumi. Ne consegue, in ultima analisi, un viaggio che passa dalla visione ‘fisica’ - che abbiamo attraverso gli occhi - a quella ‘mentale’.
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TAV. 48 Paesaggio sul mare , 1971
Olio su stoffa, cm 50x70
In primo piano è visibile una collina degradante verso il mare, sul quale risplende il sole. La pennellata, ampia e rada, lascia in evidenza la trama della stof fa impiegata, che diviene essa stessa ‘pigmento’ pittorico a definire la collina ed il cielo. Solamente il sole ed il mare sono resi con colori giallo ed azzurro compatti, dai quali tuttavia si intravede sempre la tela. Pur nella figurazione l’opera rasenta, in alcune sue parti, l’astrazione per la sua intensa espressività materica che, per taluni aspetti, anche tecnici, è raffrontabile ad alcuni paesaggi dipinti su stof fa da Carlo Mattioli, quantunque la figurazione elaborata da Mattioli non abbia i connotati cromatico formali di quella orleriana, di una vivacità primitivista estranea al maestro modenese.
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TAV. 49 Notturni tropicali, 1971
Collage e olio su tela, cm 100x150 Un insieme di quadri naturali, con piante esotiche e la silhouette di un uomo sulla barca in controluce su uno specchio d’acqua. Un ulteriore omaggio orleriano alla Pop Art anche americana, questa volta attraverso l’impiego del collage e della fotografia, ritoccata come in alcune tele emulsionate di Schifano. Le quattro immagini fotografiche tratte da riviste, ma che hanno la valenza quasi di fotogrammi bloccati attraverso la televisione, rappresentano tre momenti paradigmatici dell’universo tropicale, così come immaginato dalle masse (l’uomo in barca su un lago o su un fiume al tramonto; piante che diventano palme, anch’esse contro un tramonto di fuoco; un notturno rischiarato dalla luna piena e una raggiera di linee verdi, rosse e gialle su fondo nero che rammentano un’alba ma anche la grande foglia di una palma), sono, però, personalizzate mediante il ritocco che Orler esegue con il colore, aggiungendo elementi e reinterpretando l’ambiente con piante, alberi, nubi e onde. Le quattro figure sono collegate ed unite in ununicum con ulteriori rettangoli e quadrati recanti scale cromatiche ed ottiche, quasi a voler sottolineare la scomposizione della luce nei colori complementari e violenti dei tropici; il tutto viene ulteriormente unito dal verde di un prato dipinto e dal sole che Orler rappresenta in alto a sinistra e che abbraccia in un’unica visione quei frammenti di immaginario popolare.
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TAV. 50 Tavolo di pittore , 1972
Tecnica mista su tela, cm 60x80
In alto a destra splende quasi un sole sul tavolo del pittore dove possiamo scor gere tubetti spremuti, pennelli, tappi di bottiglia e cicche di sigarette. Evidente è il richiamo, in quest’opera alla Pop Art europea o meglio al Nouveau Réalisme, particolarmente al Nuovo Dadaismo di Arman. Anche in Orler, infatti, ritroviamo l’accumulazione sulla tela di oggetti usati e finiti, che hanno perso la funzione per la quale la società e l’industria gli avevano creati (i tubetti, i pennelli, i tappi e le sigarette fumate) ma che assumono un’altra funzione e un’altra dignità, quella artistica, a sottolineare come si debba esercitare una sorta di nemesi e di rivalorizzazione di fronte alla filosofia del consumismo che tutto vorrebbe produrre, mercificare ed annullare. Contemporaneamente questi oggetti ‘parlano’, divenendo, pure, connotanti l’artista ed il suo operato, un po’ come avverrà nell’autoritratto-identikit eseguito da Arman nel 1992 (ma venti anni dopo!) mediante l’accumulazione di oggetti da lui impiegati e divenienti una sorta di ricognizione per il suo riconoscimento. A differenza di quanto avverrà nell’Autoportrait-robot di Arman, dove il caos anodino degli oggetti accumulati rivela il disordine di una memoria e i criptici segnali di un’intera esistenza che l’artista stesso può decifrare nel loro più intimo significato, nell’opera di Orler gli oggetti sono, in qualche modo, maggiormente ordinati a definire il tavolo del pittore sul cui retro splende la figurazione di un sole. Non tanto, quindi, l’intera sua esistenza, quanto il suo essere pittore. La restituzione della sfera solare mediante un sottopentola in paglia intrecciata richiama alla mente inserti applicati, già nel 1955, in composizioni con collage, eseguiti da Robert Rauschenberg nell’ottica da lui propugnata di un’identità tra la pittura e l’oggetto ( Combine paintings) che scaturisce in assemblaggi tra pigmento e oggetti vari, con lo scopo di tradurre sulla tela la vita quotidiana. Ancora una volta, vi può essere un richiamo a Marcel Proust A ( lla ricerca del tempo perduto) a proposito del passato che identifica ciascuno di noi: “è inutile cercare di rievocarlo […], esso si nasconde […] in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da questo oggetto materiale) che noi non supponiamo”.
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TAV. 51 Campi dall’aereo, 1972
Tecnica mista su tela, cm 130x200 Una visione zenitale delle geometrie dei campi, come veduti da un aereo. Un altro sapiente collage dell’Orler, nel quale sottopentole in paglia e tovagliette o tappetini, pur mantenendo la loro oggettiva realtà di oggetti del quotidiano, si trasformano mentalmente in appezzamenti di terreni coltivati, oggetti connessi tra loro da ampie strisce di colore nei toni del verde, del rosso e del giallo, mentre in alto la doppia linea in variazioni di azzurro più che rimando ad un fiume diviene il ribaltamento sul piano del cielo ovvero la sua proiezione ortogonale, conferendo all’opera una sorta di astrazione dove le dominanti armoniche sono date dai rapporti, per così dire, musicali tra le forme e l’accostamento dei colori. Le semplici schematizzazioni degli alberi in verde o in bianco si trasformano in una specie di simboli di un primitivo alfabeto universale e l’intera composizione assume i toni ed i significati più profondi della natura stessa della Natura.
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TAV. 52 Lo stregone e la capanna , 1972 Tecnica mista su tela, cm 60x80
Un ulteriore collage nel quale possiamo osservare in alto a sinistra un grande sole rosso e, all’interno di una capanna il cui tetto ha una falda resa attraverso l’applicazione sulla tela di tre vecchi pennelli, la silhouette nera di un uomo, posto in basso a destra. In questo assemblaggio di colori e materiali che ci restituiscono l’idea di un ambiente, emerge la figura misteriosa e simbolica di quello stregone, che forse altro non è che la metafora del pittore stesso e del fare alchemico della pittura e dell’arte, le quali riescono a modificare la realtà oggettiva in una idea mentale che travalica la tela, in un divenire cosmico, dominato dal movimento della luce e dalla prepotenza del gesto segnico, nella violenta e materica apposizione di una sorta di verde sigillo serpeggiante, in basso a sinistra. I ‘ventagli’ floreali e i bouquet applicati all’interno della capanna inseriscono una connotazione di una natura stereotipata e artificiale, quasi come l’elaborazione alchemica dello stregone, atto a rielaborare e creare una nuova realtà attraverso elementi fondamentali e primari, interpretati dai colori nella loro essenzialità primigenia.
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TAV. 53 Tavolozza, 1974
Tecnica mista su tela, cm 80x60 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘74” Sul fondo bianco della tela sono applicati perpendicolarmente una serie di barattoli vuoti di colore, a formare una sorta di policroma tavolozza. In basso notiamo, incollati, dei sassi. Con un procedimento che possiamo avvicinare ancora una volta a certo Nouveau Réalisme di Arman, Orler impiega oggetti usati del suo studio (i barattoli di colore), innalzati alla dignità nuova di strumenti dell’arte e del pensiero. Alla configurazione astratta che in una visione zenitale diviene assemblaggio policromo di cerchi, formanti una sorta di tavolozza - omaggio al colore -, fa riscontro quel coperchio di barattolo colorato di rosso e di giallo, trasfigurato - dif ferenza di quanto avviene nelle opere di Arman -, nel significato o archetipo di un sole naturale, che risplende su un paesaggio, rappresentato in basso a sinistra, mediante l’uso di macchie di verde e dell’applicazione di sassi reali, come in alcune Schegge di Mario Schifano (del ciclo, appunto, dei Sassi). Nella ricerca formale orleriana, tendente all’essenzialità, non poteva, del resto, mancare il sasso, prototipo per antonomasia dei mezzi impiegati dall’uomo per lasciare un segno (sicuramente il primo materiale della storia umana, impiegato per segnalare e indicare qualcosa in luogo o in alternativa alla voce). Così, il sasso diviene un elemento mediatico che racconta e trasmette agli uomini, una sorta di primordiale antenato del televisore e del computer , cui Orler af fida il compito quasi di sollecitare una doverosa attenzione nei confronti della comunicazione e della comunicabilità nel mondo e nella natura, pur sempre attraverso la molteplice cromia o varietà della mente umana, guidata dal gesto dell’arte.
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TAV. 54 Campi d’inquinamento, 1975
Tecnica mista su tavola, cm 80x100
Una composizione di oggetti del consumo e propri dell’inquinamento ambientale: cicche e scatole di sigarette, corde e stracci usati e macchiati. Su un supporto pittorico cromatico nei toni del bianco e del marrone, Orler accumula sulla tavola rifiuti del mondo moderno, un po’ come Arman aveva fatto negli Anni Sessanta con le Poubelles o Les poubelles or ganiques. In questo caso, però, più che di un’accumulazione decontestualizzata dallo spazio di pertinenza, si tratta di una disseminazione naturalista su un terreno reale, a mantenere quasi l’immagine di un’istantanea dal forte contenuto di denuncia sociale. Così, il grido alzato dall’artista contro la violenza dell’uomo nei confronti della natura si trasforma, attraverso la protesta provocatoria di un’avanguardia, in una forma armonica e quasi astratta di arte concettuale che, nella sua ‘bellezza’ formale e cromatica, resa per equilibrati apporti di oggetti e di colori essenziali, riesce a riconciliare l’uomo ‘peccatore’ con la natura violentata.
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TAV. 55 Vetri (paesaggio con fiale) , 1975
Tecnica mista su tela, cm 70x100
Una composizione con varie boccette e fiale di vetro, con rena, trucioli e apporto pittorico nei toni del nero e dell’azzurro. L’accumulazione di fiale di vetro rimanda anche in questo caso ad alcune creazioni di Arman, con l’applicazione su plexiglas di boccette d’inchiostro versato sulla superficie trasparente di supporto. Mentre l’opera diArman, però, rimane un’armonica composizione di oggetti reali usati su un fondo astratto, la tela che supporta l’intervento di Orler diventa, grazie alle sabbie, ai trucioli e all’inserimento del colore, un vero e proprio paesaggio della Pop Art, dove la fascia scura e le rene indicano la terra e la silhouette sfrangiata ed informale color azzurro, nella parte superiore, rimanda ad un cielo o forse, meglio, ad un'onda del mare, cosicché l’intera visione assume quasi la valenza di oggetti che la risacca del mare ha ammucchiato sulla battigia. Non, però, conchiglie, alghe o legni, ma bottigliette, non contenenti mitici e romantici messaggi affidati al mare, bensì gli avanzi dell’industria e del consumismo e quindi, ancora una volta un paesaggio dell’inquinamento prodotto dall’uomo. In questo senso la nota naturalistica inserita nell’accumulazione fa divenire l’opera orleriana quasi una summa, ovvero una riconciliazione fra il figurativo della Pop Art angloamericana e il Nouveau Réalisme di oggettistica ‘concettuale’ francese.
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TAV. 56 Bambola rotta, 1975
Tecnica mista su tela, cm 90x100 Si notano i frammenti di tre bambolotti sfasciati con violenza, distrutti e incollati, disseminandoli sulla superficie rigida. Alle membra dei tre bambolotti si mescolano piccoli giocattoli in plastica come, spazzole, formine da rena, pennelli e una corda. Al tutto viene aggiunto il colore (nero, azzurro e marrone). Come nell’opera precedente, alla disgregazione armaniana si aggiunge il gesto pittorico sinteticamente figurativo, che ci rammenta Schifano. Su questa allegorica spiaggia, perimetrata e quasi avvolta dal mare, troviamo quell’universo fanciullesco che ci fa venire in mente il ciclo delle Schegge detto Avevo dieci anni di Schifano. In un certo senso, sognare e dare sfogo alla propria fantasia è l’unica libertà che non può essere tolta all’uomo, sebbene oggi, quando ci rifugiamo in una sorta di favola, che possa essere solo nostra, la molteplicità di immagini, scagliataci addosso dai mezzi di comunicazione, finisca per minare anche quest’ultimo spazio di autonomia del pensiero, specialmente nei bambini. Orler ci ricorda, in un certo senso, con desolante rammarico, che quando era fanciullo ciò era ancora possibile e che, però, è nostro dovere riappropriarsi dei sogni in un mondo che tende a condizionare sempre più l’umanità con bisogni indotti. Questo omaggio alla fantasia infantile pare recuperare un universo di simboli all’interno di un proprio territorio mentale. Orler rivive l’essere bambino attraverso i giocattoli stessi (infranti dal cinismo della vita moderna, ma ricomposti in una nuova dimensione altrettanto reale del sogno, ovvero del ricordo) e attraverso il colore acceso e vibrante che uniforma e racchiude quella nuova realtà sul supporto polimaterico, in un’atmosfera onirica che trasforma il sogno stesso in metafora e indicazione di una via per la riconquista della libertà dell’io più profondo mediante la semplicità evangelica e francescana di un bambino: Orler , infatti, proprio come un bambino, impastato di sogni e di giochi, vuole giuocare e, attraverso la pittura (si noti l’ammiccante presenza dei pennelli), il gioco stesso torna a essere sogno per sé e per chi guarda l’opera, quasi uno specchio per la parte più profonda e pura che è in noi e che non va dimenticata. L ’accostamento della testa di un piccolo bambolotto di colore alla bambola bianca sottolinea, inoltre, il carattere di universalità del messaggio orleriano.
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TAV. 57 Legni, 1975
Tecnica mista su tela, cm 70x100 Da una fascia dipinta di nero, posta alla base della tela, nasce un collage di rami ed aghi di pino su un fondo monocromo bianco. Questa composizione, che riduce il colore alla sola base scura, indicante la terra, è un omaggio alla natura e, segnatamente, al bosco, restituito attraverso elementi tratti dalla realtà del bosco stesso. Tecnicamente l’opera ci richiama alcuni lavori del pittore inglese John Picking. Mentre, però, Picking, non alieno dal fascino di William Turner e soprattutto dal Surrealismo di Graham Sutherland, impiega la trama di legni incollati sulla tavola quasi fosse una quinta scenografica dell’ambiente, ove poi esibire il racconto delirante di un sogno tratto dagli antichi miti mediterranei (si pensi, ad esempio, a una sua Forest intercourse del 1998, ora in collezione privata fiorentina), in Orler la mancanza di una rappresentazione figurativa dai colori vivaci, dipinta sullo sfondo, fa sì che l’elemento ligneo diventi il solo ed l’assoluto protagonista dell’opera ed il bosco, che si staglia su quel monocromo bianco, diventa un simbolo atemporale della natura, radicata alla terra. Il secco sottobosco dal quale si innalzano alberi scheletriti e morti, quasi come dopo un incendio o dopo una guerra apocalittica, si trasforma un’altra volta in un messaggio contro la violenza perpetrata ai danni della natura, totalmente stravolta, che si ribella all’uomo, ed il medesimo sottobosco può essere anche veduto come allusive chiome secche di alberi capovolti, con le radici proiettate verso il cielo.
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TAVV. 58-59 Sole nel vuoto , 1992
Tecnica mista, cm 100x82,5 Firmato e datato in basso a destra, sul dritto: “Orler / ‘92” Un telaio ligneo è il supporto per una serie di corde che si intrecciano e annodano, reggenti un disco rosso in alto, che rappresenta il sole, e un pezzo di stof fa e un filo attorcigliato in basso, alludenti alla terra o a una montagna e all’erba. Pur con un riferimento figurativo al sole che illumina la terra, l’opera si fa totalmente concettuale ed astratta. Sin dagli Anni Cinquanta, il segno forte di Lucio Fontana tagliava con gesto paradigmaticamente violento la tela monocroma, a indicare come la pittura di rappresentazione della realtà avesse ormai espresso tutto e che, quindi, bisognava andare ‘oltre’, verso opere non più rappresentanti altro, ma se stesse, mediante concetti spaziali che, travalicando la tela o comunque il supporto, coinvolgessero la tridimensionalità dello spazio effettivo, in una visione astratta e concettuale dello Spazialismo stesso. Nella visione della pittura non più come rappresentazione del reale e neppure come raffigurazione informale dell’inconscio diveniva, pertanto, opera d’arte l’oggetto stesso, vale a dire la tela ed il telaio, tela che Alberto Burri bruciava e Salvatore Emblema detesseva, così da far entrare nell’opera stessa ciò che veramente è reale, come, ad esempio, il muro di supporto al quadro che, nelle opere detessute di Emblema, entra in gioco come mutevole elemento cromatico, materico e luministico. Ciò vale anche per quest’opera di Orler, nella quale la tela addirittura scompare, per lasciare spazio al solo telaio e la funzione della tela stessa è assunta da quelle corde tese ed annodate, che rendono trasparente, più che filtrato, il fondo, inserendo direttamente nel gioco ottico il muro retrostante; il quadro viene così ad essere personalizzato da chi inserisce l’opera sulla propria parete. L’opera, significativamente, può essere veduta anche dal retro, con uno scambio simbolico tra il dritto e il verso, la realtà e la sua ombra o immagine, vedute come un’entità unica ed inscindibile. Orler, comunque, non crea un’opera astratta, ma rimane sempre figurativo, con quel suo paesaggio, che le corde scompongono in triangoli e in poligoni (quasi materializzazione del Postcubismo di ascendenza picassiana) e con quei riferimenti alla terra, ai prati e al sole, sole che metaforicamente è legato e come imprigionato nel vuoto dell’opera, ennesima denuncia contro le alterazioni che l’uomo ha perpetrato contro la natura e il cosmo.
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1994 1997
5. Le opere recenti
Ricerca di nuove frontiere e rivisitazioni dei grandi cicli passati
TAV. 60 Figure in riposo , 1994 Smalti su tavola, cm 42x110 Firmato e datato: “Orler ‘94”
La tavola rappresenta due figure sdraiate su una spiaggia in riva al mare. Finito o in via di esaurimento il periodo influenzato dalle Avanguardie sperimentali, Orler torna alla pittura con la rappresentazione di queste due figure allungate che si compenetrano e fondono sinuosamente e, quasi specularmente, fra di loro. La pennellata ampia e gestualmente mossa del blu del mare le unisce in un af flato d’amore, sottolineato, in un certo senso, dal rosso che si focalizza in basso e al centro attorno ad un rombo che diviene, per così dire, la fusione spirituale e, nello stesso tempo fisica, tra due esseri. La sgocciolatura bianca su tutta la superficie, come schizzi fecondi della spuma del mare, dà un senso di ovattato riposo sotto il sole. L ’opera, comunque, non si può dire totalmente realista, in quanto l’azzurro si confonde astrattamente con i corpi, resi in ‘negativo’per mancanza di colore e con la visione diretta della tavola sottostante. In tal senso possiamo ancora ritrovare lontane eco di Schifano, come del resto anche nell’espediente della cornice invasa, ma non dal proseguimento della scena, bensì, da una decorazione dagli accenti cromatici vivacemente primitivisti. Comunque, si sente oramai pure una certa quale influenza della Transavanguardia sull’artista.
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TAV. 61 Paesaggio mediterraneo, 1996
Collage e smalti su tela, cm 94x192 Firmato e datato in alto al centro: “Orler / 96” Un’assemblaggio di materiali diversi, incollati sulla tela (comprese alcune stof fe) ed un intervento con smalti a rappresentare un grande sole rosso che si rispecchia nell’azzurro del mare. L’opera rappresenta una rivisitazione orleriana del collage, nel quale gli elementi naturali, come il cielo, il mare e la terra, sono scomposti in figure geometriche primarie (alcune rese attraverso l’incollaggio di stof fe), rappresentano una riproposta neocubista vicina ad alcune sue esperienze dei decenni precedenti. Del resto, sempre alla seconda metà degli Anni Novanta appartengono alcuni dipinti costituenti una sorta di revival della sua produzione compresa tra gli Anni Cinquanta e Settanta, come certi paesaggi primitivisti di Mezzano (nelle varie stagioni) o la restituzione cubista in blu di una chiesa della Valle di Primiero o, ancora, la bella e vigorosa natura morta con bottiglie, frutta, sole e luna del 1997, anch’essa di impostazione postcubista. La tela qui riprodotta si qualifica per un’equilibrata composizione di volumi, di forme e di colori; in particolare, all’elemento spiegazzato e quasi ‘or ganico’ del grande tovagliolo grezzo, applicato in alto a sinistra, fa riscontro la serie geometricamente ordinata e razionale dei quadrati e dei rettangoli di stof fe policrome, inserite in basso a destra, nelle cromie scure del nero, del marrone, dell’ocra, del verde e del blu. Interessante il sinuoso e stravagante gesto espressionista in nero che va a ‘ghermire’ la sfera sgargiante del sole, in una visione fantasiosamente onirica e ironica che ci può rammentare alcune opere di Joan Miró (come il Sorriso dalle ali in fiamme del 1953) o certe Improvvisazioni e Composizioni di Kandinskij.
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TAV. 62 Tavolo da lavoro , 1997
Tecnica mista su tavola, cm 100x100 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler / ‘97” Su un tavolo in legno compare tutta una serie di boccette, di barattoli di colore e di pennelli, appartenenti allo studio dell’artista. Sul fondo vediamo porzione di un quadro in cui è raf figurata un’isola e vicino al quale è inserito un frammento di giornale con il titolo “Al lavoro anche di domenica”. Il quadro figurativo è anch’esso una rivisitazione di esperienze precedenti, ma amalgamate fra di loro in un sincretismo eclettico dal sapore alquanto innovativo. Gli oggetti rappresentati in prospettiva dall’alto sul tavolo da lavoro sono resi, infatti, alcuni tramite una pennellata nera, vigorosamente espressionista, che si illumina nei vivaci colori dei pigmenti, raf figurati nei barattoli stessi, altri mediante l’applicazione di autentici coperchi di barattoli, intrisi di colore; anche certi stracci, come del resto, alcuni pennelli autentici sono incollati sulla tela, mentre altri sono dipinti, creando un gioco sottile di rimando tra l’oggetto, quasi dedotto dal Nouveau Réalisme e la sua immagine o rappresentazione illusoria. I due elementi sul fondo (il collage con frammento di giornale ed il quadro nel quadro) simbolicamente rimandano all’opera indefessa dell’artista che quotidianamente e ininterrottamente persegue i suoi ideali artistici ed esistenziali, metaforicamente indicati da quell’utopica ‘isola che non c’è’. Attraverso il cencio sulla sinistra e il pennello applicato in basso a destra si ha una parziale invasione della cornice, a suggerire una dilatazione della scena al di fuori della tavola, cioè a una dif fusione nello spazio del messaggio artistico, tutto interiore, proiettato all’esterno con forti vibrazioni etiche e poetiche.
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Sezione di Santo Stefano al Ponte Vecchio
I sentieri dello spirito Santo Stefano al Ponte Vecchio Section
The Paths of the Spirit
1961 1967
1. La grande parabola religiosa della vita Serenità francescana ed epica careniana
TAV. 63 La morte di San Francesco , 1961
Olio su tela, cm 115x200 Firmato e datato al centro a destra: “Davide Orler VE 1961” Su uno scarno e ruvido tavolato giace il corpo esanime di San Francesco, che tiene un crocifisso tra le mani, segnate dalle stigmate. All’estremità del letto funebre sono collocati quattro ceri accesi, mentre due giovani frati pregano con le mani giunte, pregano presso il santo; un terzo frate, entrando dalla porta piange coprendosi il volto. Nell’angolo destro della stanza, al di sopra di un inginocchiatoio vi è un crocifisso e dalla finestra, con gli scuri aperti, vediamo un solitario paesaggio umbro serotino. Un quadro che ci restituisce tutta la pacata serenità di ‘Sorella morte’. I colori cupi e francescani, nei toni del marrone e del grigio, invadono la semplice e spoglia stanza. Tutto ruota attorno alla figura statica del santo ed anche gli altri frati sono rappresentati in una solennità statuaria, dove il tempo sembra essersi fermato in quello storico e fatale attimo del transito. L’aura sacra, ma rude, è sottolineata ancora una volta dall’uso dei materiali con i quali sono realizzati l’edificio e gli arredi e, innanzitutto il legno - marrone come il saio dei frati, del solaio, il telaio e l’anta della porta, degli scuri della finestra, del lettuccio e del crocifisso -. Mentre uno dei frati guarda assorto la salma di Francesco, l’altro rivolge il vivido occhio al cielo, a ricordare il passaggio del santo nella vita ultraterrena. Proprio il cielo nei toni blu e azzurri dell’imbrunire è l’elemento dominante del panorama, veduto attraverso quella finestra ‘esageratamente’ dilatata in orizzontale, assumendo in un certo senso la valenza di un quadro nel quadro, ovvero, della finestra sull’al di là. L’essenziale massa arborea, pur senza connotati particolari, ci rende perfettamente l’idea e la sensazione della verde Umbria. Ai giovani volti barbuti dei due frati fa riscontro quello del santo sof ferto e scavato dalla sof ferenza (più che dagli anni), incorniciato, nel freddo pallore della morte, da una barba canuta. Tutta l’opera, che in alcuni tratti e nelle cromie terragne (ma non nella pennellata) ci rammenta alcuni quadri di Felice Carena, è pervasa da una sacra monumentalità, per certi aspetti raffrontabile con la solennità meno retorica di grandi opere della corrente prebellica di Novecento, intrisa, tuttavia, di una semplicità primitivista, che già era stata propria delle opere orleriane degli Anni Cinquanta. 190
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TAV. 64 A Emmaus, 1961
Olio su faesite, cm 129x88 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / VE 1961” “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Luc. 24, 30-31).
La scena ripropone proprio il racconto evangelico quando Cristo, dopo la risurrezione, seduto a un tavolo all’interno di una semplice stanza, viene riconosciuto dai due discepoli all’atto di spezzare il pane. Alla figura maestosamente statica di Cristo fanno riscontro i volti stupefatti dei due seguaci e gli occhi di quello veduto frontalmente, nella dilatazione della grande pupilla, ricordano altre raf figurazioni orleriane. Bella la scelta dei colori cupi delle vesti e soprattutto, l’abito di Cristo, nei toni quasi cangianti del rosso e del nero. Il punto luminoso si concentra anche simbolicamente nel candore della tovaglia, sulla quale è poggiato il pane, e nell’azzurro del calice, fulcro attorno al quale ruotano le tre figure. Interessante anche lo scorcio di quell’architettura sul retro, dalle proporzioni strette e allungate, dalle reminiscenze metafisicamente dechirichiane; al blu di quel cielo che si intravede dalla finestra di fondo, quando oramai si fa sera, fa da contrappunto la luce interna, proveniente da dietro la porta e dalla finestra centrale, che si accende nell’ampia pennellata d’oro attorno al profilo di Cristo, quasi icona bizantina nella luminosità astratta del divino.
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TAV. 65 Caino e Abele, 1963
Olio su tela, cm 170x200 Firmato e datato in alto a sinistra: “Orler 1963” “Mentre si trovavano nei campi, Caino si scagliò contro Abele suo fratello e lo uccise” (Genesi 4, 8).
Vicino ad una roccia, sulla quale sono nati piccoli fiori gialli, si innalza ciclopica la grande figura di Caino con un bastone fra le mani, mentre alla sua destra, giace Abele esanime, con il sangue che cola dalla testa e gli occhi aperti e con la mano sinistra piena di terra. Sul retro, tra i cespugli del paesaggio sassoso, si notano tre pecore del gregge e, in lontananza, alcuni alberi a ridosso di una verde collina, al di là della quale è una brulla montagna che si staglia sull’azzurro del cielo solcato da alcune nuvole. La grande tela è dominata dalle due imponenti figure, rese in tutta la loro massiccia volumetria e potenza primitiva, con pennellata a tratti divisionista. L ’ambientazione solitaria e rocciosa, da inizio o primordio della storia umana, ci svela una natura ancora incontaminata, ma già violentata dal male e tutta la scena, dalle forti componenti epiche, ci presenta un Caino, rivestito di pelli, che ha la potenza di un Polifemo, il semidio uscito dal mito omerico, ma anche l’Ercole che uccide Caco, immortalato nella tavoletta di Simone del Pollaiolo. Il suo sguardo non rivolto verso il fratello appena ucciso, ma pare guardare impietrito, lontano, i futuri destini dell’umanità. I colori accesi e brillanti, fortemente mediterranei, danno vita a colline, rocce, animali e figure, immerse in una forte umanità, come in certo realismo guttusiano. Una grande metafora sull’eterna lotta tra il bene e il male, tra l’ignoranza e la conoscenza.
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TAV. 66 Deposizione, 1964
Olio su tela, cm 130,5x200 “Giuseppe d’Arimatea […] chiese a Pilato di poter toglier e il corpo di Gesù. E Pilato lo permise […] e anche Nicodemo […] venne” (Gv . 19, 38-39).
La composizione della scena con il corpo di Cristo, sostenuto da Giuseppe e Nicodemo, rammenta analoghe raf figurazioni, immortalate da grandi artisti classici, fra i quali ricordiamo Raffaello, Tiziano, fino al Bronzino. La figura magra e allungata di Gesù, resa con una pennellata veloce e nervosa e nei toni scuri dal rosaceo, al grigio, al verdaccio, al nero, richiama alcune oli di Felice Carena di quegli stessi anni e anche i volti sofferti e compartecipi dei discepoli, con le grandi orbite nere incavate, in una statica solennità sacrale, ci fanno venire in mente opere careniane, come la Deposizione nella chiesa dei Carmini a Venezia nel 1963. La scena avviene in un silenzio notturno e le tre figure, tra loro unite in una solida ed unica volumetria, vengono perimetrate dal sudario che assume la consistenza della roccia del sepolcro; la parte inferiore della tela perde la definizione anatomica precisa in corrispondenza delle gambe di Cristo e la pennellata nera, spiccatamente gestuale, fa dissolvere l’anatomia del corpo in un magma informale di terra, panni e roccia, a tratti vicina a certa astrazione lirica del miglior Emilio Vedova.
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TAV. 67 Le nostre infermità , 1964 Olio su panforte, cm 155x28
L’olio rappresenta l’ Ecce Homo con la canna in mano, sotto il quale è scritta la seguente invocazione: “Oh Signore: tu stendi un velo sulla nostra putredine e ci accogli gratuitamente come tuoi amici, fa che memori di ciò possiamo considerare ogni istante la croce alla quale ti crocifiggiamo continuamente”. La stretta e allungata composizione è suddivisa in due parti quasi dello stesso peso: quella con l’immagine di Cristo e l’altra con l’iscrizione in corsivo, scritta di getto dall’artista. L’unico settore maggiormente curato è quello della testa di Gesù, reclinata a destra, con i grandi occhi chiusi e il forte naso (è l’immagine del Redentore così come si vede nella Sacra Sindone), la barba spartita nel mento, i lunghi capelli e la corona di spine, resi in punta di pennello. Il colore rosso del sangue (ma che diviene anche il simbolo del furore del male e del fuoco dell’amore) non definisce solamente la canna in primo piano, ma pure le due teste dei carnefici, posti al di sopra del Cristo, resi con tratti grotteschi e caricaturali e i rivoli del sangue redentore, che cola fino ad attraversare la preghiera in basso. Le immagini dei carnefici sono il contrappunto all’iscrizione e assumono per Orler , in questo quadro che è una sorta di meditazione, la rappresentazione dell’umanità cinica e supponente dei non credenti.
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TAV. 68 Ritratto marrone (Cristo) , 1964
Olio su tela, cm 50x35 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘64” La tela ci restituisce il volto di Cristo in monocromia: incorniciato da lunghi e mossi capelli, ha lo sguardo fisso verso l’osservatore, in una visione rigorosamente frontale, immerso in una ieraticità da icona bizantina, ma nel contempo, ci rende un Gesù vigorosamente giovanile. Anche in questo caso la veloce pennellata ed il colore più scuro perimetralmente vanno a definire il centro del volto, fulcro e sor gente di una luminosità metafisica. Il dipinto pare ispirarsi all’immagine del Salvatore Acheropita della tradizione cristiana orientale e segnatamente al Santo Mandylion, ovvero il volto di Edessa, impresso nel lino, che ebbe larga diffusione nella pittura di icone russe e corrisponde al culto cattolico del Volto Santo della Veronica. Tuttavia, alcuni elementi lo differenziano nettamente dall’iconografia orientale, come nella resa dei capelli, più mossi e non simmetrici e in quella maggiore umanità che pervade l’opera orleriana, rispetto ad un senso più imperturbabilmente divino che emana l’icona ortodossa.
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TAV. 69 Deposizione, 1965
Olio su tela, cm 142x203 “Ora, nel luogo dov’egli fu crocifisso vi era un orto e nell’orto un sepolcro nuovo […]; lì adunque […] deposero Gesù” (Gv. 19, 41-42).
Le immagini in penombra ruotanti attorno al corpo di Cristo, mentre è portato nel sepolcro, ci richiamano altre opere orleriane, risalenti allo stesso anno, come La cena (v. tav. 39) o l’ Interno con tavolo, Bibbia, pani e formaggio . Tutta la tenebrosa rappresentazione ha una dimensione intima e solenne ad un tempo e quei volti ci richiamano le figure di umili contadini, depositari di una fede autentica e genuina. La luce proviene tutta dal corpo di Cristo, morbidamente inflesso nel sudario; un’aura crepuscolare sullo sfondo è solo un connotato poeticamente marginale. Ciò è sottolineato dal fatto che i discepoli sono illuminati proprio dal bagliore di Gesù, unica metafisica e simbolica fonte di luce. Anche in questo caso ci vengono in mente i personaggi semplici e sofferti del mondo rurale immortalati dal primo Van Gogh. Il paesaggio, nella sua silente essenzialità, sembra partecipare al dramma che si sta consumando e l’antro nero del sepolcro assume i toni di un rifugio nelle viscere della madre terra anche per quei discepoli, rimasti soli e devastati dal dolore, impietriti dallo sgomento.
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TAV. 70 L’attesa dell’uomo, 1967 Olio su tela, cm 195x140
In primo piano è rappresentata l’umanità attraverso un uomo-Adamo, giovane nudo e con una folta barba nera, da una donna-Eva, sulla destra, anch’essa nuda con un drappo celeste poggiato sulla spalla sinistra e recante un mazzo di roselline rosse in mano; al centro è un bambino piccolo, visto di tre quarti, rivolto verso la madre. Sul retro, nella terra brulla del Golgota, è il teschio di Adamo, sul quale è inserita la croce che emerge dal terreno, in un paesaggio notturno dominato da tre alberi scheletriti e da una luna piena. Le tre imponenti figure simboleggianti l’umanità in attesa della redenzione, hanno la monumentalità epica che abbiamo già ritrovato nel Caino e Abele (tav. 65), risalente a quattro anni prima. Il nudo di uomo, dai toni più scuri, reso con pennellate rosacee e nere, vigorosamente veloci, contrasta con l’incarnato chiaro della donna, dai grandi fianchi fecondi e dalle gambe ben tornite. Il volto maschile è rivolto in trepida e orante attesa verso la croce, come anche la donna, nei lineamenti scavati di una bellezza mediterranea, velata dalla tristezza e dalla sofferenza. La scena in alto, nelle gradazioni fredde del blu e del verde, ha i connotati di un paesaggio notturno e spettrale, dominato dai radi alberi, privi di foglie, alludenti al peccato e al male e anche la grande luna, la Lilith, la personificazione femminile e notturna del male per gli AssiroBabilonesi e per gli Ebrei, non illumina se non mar ginalmente e glacialmente quel mondo che pare sconvolto da un cataclisma cosmico e nucleare. La croce, tuttavia, rappresenta la speranza, come quel mazzo di fiori rossi tra le mani della donna, che illuminano con una nota cromatica calda tutta la composizione. La luna, infine, formalmente ci ricorda l’astro di Notturno invernale a Mezzano (tav. 18), di nove anni precedente.
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2. Dal profondo cosciente
Nuove sperimentazioni e simbologia antica
TAV. 71 Omaggio a Gesù e a Cimabue , 1971 Collage su tela, cm 100x70
Il collage, che, come abbiamo veduto, caratterizza l’opera di Orler in quegli anni (vedi tav. 49), impiegando in parte anche le stesse carte a parziale supporto (si notino le raggiere verdi, rosse e gialle su fondo nero), si incentra su una immagine del Cristo di Cimabue, conservata nella chiesa francescana di Santa Croce a Firenze (pesantemente danneggiata nell’alluvione di cinque anni prima), e su un suo particolare corrispondente al volto. Le due raggiere che si irradiano dal crocifisso e dal volto di Cristo sono tagliate da una fascia diagonale, qualificata da elementi astratti in oro, ar gento e rosso che si richiamano, in un certo senso, alle raf figurazioni sacre medievali su tavola a fondo oro. I colpi veloci di colore nei toni del rosso, del verde e del bianco rosaceo, impresse sulle carte applicate per simulare le aureole, si ricollegano ancora ad esperienze della Pop Art italiana del decennio precedente, come pure la fascia azzurra in basso che si conclude sulla sinistra con l’apposizione di quelle sette monete, riferimento al tradimento di Giuda. La commistione tra figurativo ed astratto sembra essere sottolineata proprio dal cielo che si inserisce in basso nell’opera.
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TAV. 72 Ecce Homo con paesaggio di nubi , 1972
Tecnica mista su tela, cm 60x80 Firmato e datato in basso a destra: “’72 - Orler”
Un altro collage di Orler dominato dall’ampia superficie ar gentea del cielo con segni guizzanti e radi in celeste a farci intuire delle nubi; in basso un prato d’erba verde è realizzato con una treccia di paglia a rilievo, come in paglia è il girasole che emer ge dal prato. All’estrema sinistra, in basso, un quadrato azzurro richiama alla mente gli abissi del mare, mentre in alto, sempre a sinistra, è inserito il ritratto sof ferente di Cristo, dipinto dal maestro nei toni caldi dell’ocra e del giallo, fortemente graf fiato e corroso nel colore, così da assumere la parvenza di un’immagine sacra antica. La composizione, dove si contrappone il realismo sacro e lontano nel tempo del volto di Gesù all’astrazione degli elementi naturali che lo circondano, pone in relazione il Creatore e Signore dell’universo con la natura attraverso la donazione del Figlio. Ma sui due elementi naturali della terra (con prati e fiori) e del mare, fonte della vita nel mondo, prevale nettamente quello del cielo, luogo del divino, del diverso (dall’uomo), del dono (dal cielo, ad esempio, viene il dono della pioggia che fa germogliare i campi e crescere l’erba). I cieli rappresentano, infatti, tutto ciò che non è l’uomo ed il mondo terreno e simboleggiano l’affidamento remissivo dell’uomo stesso (il girasole) alla potenza divina che tutto plasma e redime attraverso la Passione, la Morte e la Resurrezione di Cristo.
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TAV. 73 Pesci e uccelli bizantini , 1972
Tecnica mista e collage, cm 50x30 Firmato e datato in basso a destra: “Orler - ‘72” All’immagine con i pesci e gli uccelli, riproducente un particolare del mosaico dugentesco con le Scene della Genesi nella cupoletta dell’atrio della Basilica di San Marco a Venezia, si contrappone l’applicazione in basso di due stampe policrome, riproducenti opere di Mondrian (una di queste è una Composizione con griglia, a scacchiera, dove alla costruzione puramente razionale e geometrica del reticolo, egli aveva aggiunto lo schema casuale del colore). Al di là del collegamento formale (le tessere del mosaico richiamano il susseguirsi dei quadratini colorati che avevano sostituito, nelle opere del pittore olandese, le linee rette nere già impiegate prima della guerra), il ritmo incalzante, veloce e gioioso, ma basato sulla costruzione geometrica e mentale, dell’opera di Mondrian si ricollega all’or ganizzazione rigorosamente a fasce concentriche dell’universo creato da Dio nell’ottica artistica e filosofica bizantina; e il guizzare rapido dei pesci nell’acqua e nel volo degli uccelli nell’aria dorata, ritroviamo lo stesso dinamismo che emer ge otticamente dall’opera di Mondrian, come pare voglia sottolineare Orler con gli inserimenti cromatici delle linee e dei punti in oro in basso a destra e delle zigzaganti linee azzurre a sinistra, che uniscono sulla tela le due opere distanti nel tempo, ma unite in un unicum concettuale dal quale emerge un senso profondo della vita, proprio attraverso quella Genesi.
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1996 2004
3. Folgorazione e intuizione sui sentieri di una personale Transavanguardia
Luce e gesto negli spazi dello spirito
TAV. 74 San Giorgio, 1996
Smalti su tela, cm 140x200 Firmato e datato in basso a destra: “Orler - ‘96” La tela raf figura San Gior gio in vesti azzurre che colpisce con la lancia un drago verde; sulla destra la principessa in vesti rosse e blu. La pennellata veloce e vorticosa coinvolge il drago ed il Santo in un’unicità che determina il ritorno parossistico alla pittura figurativa, dopo le pratiche orleriane connesse soprattutto al collage e alla fotoriproduzione, prevalenti nelle sue opere degli Anni Settanta. Lo scatenarsi pittorico, quasi dionisiaco, avviene con una notevole felicità di espressione, soprattutto in tele di grande formato, come in questa. È una sorta di istintualità neoespressiva, figurativamente compatta nell’impianto narrativo, pur corsivo e cromaticamente rutilante, che, in ultima analisi, si rapporta più al linguaggio della lezione storica tedesca, priva però di ogni acuminosità polemica brückeriana, innestandovi, a suo modo, un senso sacro cristiano, vorticosamente eccitato, a dif ferenza, ad esempio, di un Mimmo Germanà, più propenso, invece, a un pagano sensualismo mediterraneo. Il tema, pur essendo ampiamente trattato nella pittura occidentale (valgano per tutti il bellissimo e drammatico San Giorgio e il Drago del Pisanello o quello favolistico di Paolo Uccello, del 1455 circa), nella composizione si richiama espressamente alla iconografia delle icone sacre orientali. Centro della raffigurazione diviene la grande bocca rossa del mostro colpita dalla lancia, a significare la vittoria del bene sul male.
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TAV. 75 Al sepolcro, 1996
Smalti su tela, cm 121x200 Firmato e datato in basso a destra: “Orler - ‘96” “Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salòme comprarono dei profumi, poi andarono per fare su di Lui le unzioni […] e di buon mattino […] vennero al sepolcro” (Mc. 16, 1-2). “Ecco due uomini si presentarono a loro in vesti risplendenti” (Lc. 24, 4).
Anche quest’opera si basa formalmente su una pennellata ampia, veloce e sinuosa, che definisce le bende nel sepolcro - quasi onde marine - nonché le figure dei due angeli e delle tre Marie. Pure i colori, chiari e luminosi, trasparenti, ci rimandano al nitore del mattino della Resurrezione. L’eterea e impalpabile, fresca e vaporosa scena pare sottolineata proprio dalle figure delle Marie che sembrano nascere dall’aria, sopra (più che presso) il sarcofago vuoto. Le anatomie sono rese esclusivamente attraverso l’intreccio di quelle pennellate di colori primari, privi di sfumature (celesti, verde acqua, rosa, giallo e blu) e i volti non hanno connotazione, quasi candide e luminose teste di manichini dechirichiani. Il paesaggio è ridotto alla scarna presenza di brulle e spigolose rocce color ocra, mentre il cielo è reso attraverso la sovrapposizione, ad un fondo monocromo, di ampie e rade pennellate, in un certo senso, macroscopico ingrandimento di un tessuto pittorico divisionista. L ’organizzazione della scena mescola ecletticamente reminiscenze figurative storiche bizantine con una solida orchestrazione prerinascimentale e, a nostro avviso, emotivamente affine ad un gusto o meglio, ad un sentire nazareno e preraffaellita.
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TAV. 76 Adamo, Eva e il serpente , 1996
Smalti su tela, cm 120x200 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler . ‘96” “La donna […] colse quindi del frutto, ne mangiò e ne dette anche a suo marito” (Gen. 2, 6).
Sostanzialmente il quadro è suddiviso in due settori: a sinistra l’albero della vita, al quale è attorcigliato il serpente, a destra sono i Progenitori. Alla configurazione maggiormente realistica della prima parte fa riscontro una rappresentazione di Adamo ed Eva assolutamente desueta: le due figure, infatti, sono legate tra loro o meglio fuse in un’unica entità, sottolineata dall’abbraccio, reso attraverso le consuete ampie pennellate orleriane che, nei toni del rosa e del rosso, definiscono come una sola realtà le braccia di Adamo e quelle di Eva, formanti una sorta di groviglio o matassa. Evidente è la lezione dechirichiana, ma la restituzione pittorica cui si è accennato, attraverso le rammentate ampie pennellate, rende l’opera assolutamente originale e riconoscibile come del maestro di Mezzano; la trama o intreccio si dilata anche all’erba del terreno e alla definizione del cielo, come anche alla raf figurazione delle foglie dell’albero, ma non al tronco, ai frutti vermigli e al serpente, che, tuttavia, nella sinuosa linea a spirale, fa da contrappunto al vortice con il quale sono rese le due figure a destra. Tutta la tela, vibrante di sgargianti colori, si caratterizza per le figure dei Progenitori abbarbicati tra di loro e, nello stesso tempo, alla terra, quasi fossero anch’essi un albero, a sottolineare la loro origine dalla terra e la loro partecipazione alla Natura, che, con il loro peccato, coinvolgono nella perdita dell’armonia e nella condanna.
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TAV. 77 Deposizione, 1997
Smalti su tela, cm 140x200 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘97” Un’altra deposizione di Cristo dalla croce, con le tre Marie e Giuseppe d’Arimatea. Compositivamente la tela si richiama ad analoghe raf figurazioni, sia di epoca medievale (si pensi al gruppo ligneo nel duomo di Volterra del XIII) e ai Sacri Monti, sia rinascimentali (da Rosso Fiorentino al Pontormo); parallelamente alcuni elementi sono tratti dall’iconografia orientale (come la figura di Cristo avvolto interamente nel sudario). A sinistra ci sono due figure femminili stanti, di lato alla croce, mentre Maria Maddalena è inginocchiata ai piedi del Redentore, il cui sudario è sorretto da Giuseppe d’Arimatea. La bassa croce, molto dilatata nei bracci orizzontali, pare derivare dalla tradizione orientale, pur non essendovi rappresentate la corona di spine, la lancia e la canna, sempre presenti nella simbologia delle icone con il Compianto; dalla croce, secondo l’uso occidentale, pende la striscia di stoffa usata per calare Cristo. Il paesaggio retrostante non è roccioso, come spesso veniva rappresentato, per ricordare lo sconvolgimento naturale dopo la morte di Gesù, ma verdi colline abbracciano il drammatico evento. La forma ellissoidale della testa di Gesù, come anche quella del suo corpo, avvolto nelle fasce mortuarie, giocando sapientemente con la pennellata ellittica, così cara ad Orler, paiono interpretare il corpo di Cristo come chiuso nel bozzolo dal quale risorgerà glorioso. Nonostante la drammaticità e l’uso prevalentemente dei colori freddi, la scena è risolta e pervasa da un senso di contenuto dolore e di pacata meditazione.
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TAV. 78 Trasfigurazione sul Tabor, 1997
Smalti su tela, cm 100x150 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘97” “Egli prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo poi salì sul monte per pregare e, mentre pregava, l’aspetto del suo volto si trasfigurò e le sue vesti divennero di un candore sfolgorante ed ecco due uomini parlavano con Lui: essi erano Mosè ed Elia” (Lc. 9, 28-30).
Tutta la scena è scompartita orizzontalmente dalla linea sinuosa che definisce il monte Tabor. Inferiormente, i tre apostoli, inginocchiati a terra, sono plasticamente e dinamicamente resi come una curva sinusoidale, ovvero un’onda; superiormente, le figure di Cristo e dei due profeti, invece, divengono puri triangoli di luce irradiata dall’alto, che possono anche ricordare le tende che Pietro avrebbe voluto costruire per essi. L’evanescente trasparenza del racconto ci viene restituita attraverso le tonalità del rosa e del bianco, stemperate in uno sfocato etereo, dove le linee sfumano nell’aria, facendo perdere consistenza materica alle figure, appena accennate e intuibili attraverso l’immediatezza del gesto pittorico.
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TAV. 79 Gesù con la Maddalena il mattino di Pasqua , 1997 Smalti su tela, cm 94x192 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler ‘97”
“Maria Maddalena andò al sepolcro la mattina presto […]. Mentre stava di fuori a piangere vicino al sepolcro […] si voltò e vide Gesù in piedi” (Gv . 20, 1; 11; 14).
La figura di Cristo risorto, avvolta nella rosata e raggiante veste, ha di fronte Maria di Magdala, che indossa un manto rosso vinaccia e una tunica rosa. Nei pressi del sepolcro, con il masso rotolato a destra, è una pianta di ulivo che, crescendo là, indica la vittoria della vita sulla morte, mentre la pianta fiorita, a sinistra della Maddalena, rappresenta il giardino del Paradiso. La luminosità dell’intera scena, che trova un contrappunto nel nero antro del sepolcro, è interamente retta dalle due figure, al centro, rese con un gioco di equilibrate linee mosse, quasi armonicamente rispondenti le une alle altre in una sorta di danza. Il vortice sinuoso della figura di Maria Maddalena, rivolta verso il Cristo, è frenato dal verticalismo delle braccia dello stesso Salvatore, nell’allusione al Noli me tanger e. Le immagini, anatomicamente indefinite e più che altro intuibili, diventano icone metafisiche ed interpreti non solo della scena sacra specifica, ma coralmente dell’intera umanità.
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TAV. 80 L’adultera, 1997
Smalti e olio su tela, cm 94x192 Firmato e datato in basso a destra: “Orler . ‘97” “Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con il dito in terra […]. Si alzò e disse loro: Chi di voi è senza peccato , scagli la prima pietra contro di lei” (Gv . 8, 6-7).
Come in alcuni esempi precedenti, la tela è suddivisa in due parti: a sinistra Cristo, reso con la consueta ed ampia pennellata sinuosa, mentre traccia alcuni segni a terra; a destra l’adultera e i suoi accusatori, restituiti per linee verticali diritte, formanti una sorta di coni. Su tutte le figure domina quella maestosa e mossa di Cristo e anche l’ambiente è interpretato con poche linee di colore, ruotanti attorno ai segni tracciati da Gesù in una composizione che ha la valenza di un lirismo astratto. Questa tecnica pittorica esprime bene l’ansia che sgor ga quasi dal cuore del pittore, in un irrefrenabile moto creativo, straripante e vorticoso. Il moto d’amore che pare scaturire da Cristo trova il suo contrappunto nella staticità delle altre figure che osservano immoti e silenti quanto Gesù sta scrivendo per terra. I colori vivaci divengono si fanno rarefatti nella tela, in corrispondenza del terreno, sul quale fluttuano le figure.
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TAV. 81 Trinità angelica, 1997
Smalti su tela, cm 120x205 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘97” “Alzati gli occhi [Abramo] guardò ed ecco tre uomini, in piedi gli stavano davanti […] ed egli se ne stava […] con loro sotto l’albero mentre essi mangiavano” (Gen. 18, 2; 8).
Questa Trinità veterotestamentaria, ovvero l’ospitalità di Abramo, si richiama nella composizione all’iconografia orientale. Il pellegrino centrale, dalla tunica infuocata, è prefigurazione di Cristo. La mensa bianca con il pane ci ricorda, invece, il sacrificio della santa Messa. Abramo e Sara servono a tavola i tre ospiti, sulla destra è la grande quercia di Mamre, mentre a sinistra è l’immagine di un edificio, concluso da due orientali cupolette emisferiche. Alla consueta pennellata sinuosa e mossa nella restituzione delle figure, fa riscontro una trama di colpi di pennello che definiscono quasi un dilatato retino cromatico di ascendenza divisionista. A sottolineare la sacralità dei tre personaggi, i loro volti non hanno sembianze a dif ferenza di quelli ‘terreni’ di Sara e di Abramo, quest’ultimo restituitoci con una folta barba e con tratti da anziano ebreo. Tutta la scena è resa con colori luminosi e brillanti, tipici del ‘furore’ ispirato del pittore, che con tecnica personalissima e moderna ci rende partecipi di una scena strutturata su una sacralità bizantina.
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TAV. 82 La veglia, 1998
Smalti su tavola, cm 109x193 Firmato e datato in basso a destra: “Orler ‘98” Questo Compianto sul Cristo morto, dominato dalla grande figura del Salvatore interamente avvolto nelle bende, è qualificato dalla forza cromatica del blu, del rosso e del bianco, con alcuni interventi di nero e di giallo. Di grande potenza espressionista e gestuale, assume i toni scuri, saturi e luminosi di una vetrata antica. La scena coinvolge ed amalgama figure e paesaggio che, a tratti, assumono le valenze di un’astrazione poeticamente etica. Il vorticoso inseguirsi delle linee che definiscono i personaggi contribuiscono a fare intuire la drammaticità del momento, aprendo uno squarcio, ovvero un’intuizione nel mondo dello spirito e nell’universo del sacro nel quale sembrano essere immersi come in un gor go tutti i protagonisti di quel compianto. Il dolore corale si esplica attraverso quelle vibranti e robuste pennellate, impulsive, incisive e violente con assoluta predominanza della linea costruttrice in nero che ci richiamano l’informale del tedesco Hans Hartung e l’onirica e allucinata esperienza del gruppo CoBrA (specialmente Karel Appel, dove le immagini insieme astratte e figurative derivano spesso dall’arte folk o primitiva, dai contenuti emozionali sempre assai intensi oscillanti tra l’orrore del dramma e la beatitudine), ma dove, nell’atto gestualmente informale, si respira la profonda intuizione di fede del primitivo Cristianesimo.
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TAV. 83 La tempesta sedata , 1999
Smalti su tela, cm 94x192 Firmato e datato in basso a destra: “Orler ‘99” “Alzatosi,[Gesù] comandò ai venti e al mare e si fece una grande bonaccia” (Mt 8, 26); “Gesù, svegliatosi sgridò il vento e le onde agitate; quelle si calmarono e si fece bonaccia” (Lc. 8, 24).
L’intera opera, in una visione alquanto allungata in orizzontale, è interamente dominata dalla semiellisse che definisce la barca nella quale si trovano Cristo (a destra) e gli Apostoli. La concitata e consueta pennellata, fortemente ispirata, di Orler crea un vorticoso intreccio tra le figure nella barca, che ha un contrappunto nei colpi di pennello nervosi, con i quali ci sono rappresentate le onde in tempesta. Il settore alto della tela, più statico, ci raffigura le teste ovoidali dei personaggi contro un paesaggio dipinto sullo sfondo, di morbide e brulle colline che attorniano il lago di Tiberiade. Le cromie blu, azzurre, verdi acqua e rosse dominanti la scena in primo piano si accendono nell’ocra e nel giallo del paesaggio, contribuendo a dare contrasto e profondità all’opera; come sempre, notiamo anche qui un equilibrato ed armonico rapporto tra forme e colori, quasi dolcemente musicale.
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TAV. 84 La donna vestita di sole , 2000
Smalti e olio su juta, cm 95x95
“Un gran segno apparve nel cielo: una Donna avvolta di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle “ (Ap. 12, 1).
La visione giovannea della Chiesa (poi identificata dai Teologi, però, con Maria Vergine o l’Immacolata Concezione), tratta dall’Apocalisse, ci è resa qui nella sua vorticosa luminosità. La figura eterea e quasi evanescente in dissolvenza della Vergine, coronata di stelle, è restituita per delicate pennellate in bianco, che si vivacizzano nel giallo della luce solare che l’attornia e che definisce anche il gradiente di luna sul quale si eleva Maria. Il turbine vorticoso che, a spirale, inizia dal quarto di luna e precede in senso orario, va a concretizzarsi in quella dinamica freccia di fuoco sulla destra, data da un insieme di cherubini, in una visione che ci rammenta quella dantesca nel XXXI canto del Paradiso. In questo caso la pennellata orleriana, che restituisce in maniera efficace l’essenza della Madre di Dio, si fa preghiera, contemplazione e ad un tempo esaltazione del divino, intuito e comunicato attraverso il messaggio del colore che domina la forma e guida, supremo protagonista, l’atto pittorico ed artistico.
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TAV. 85 Il ricco Epulone e Lazzaro , 2000
Smalti e olio su juta, cm 95x95
“Trovandosi nell’Ade [il ricco] alzò gli occhi e, mentre era in preda ai tormenti, vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno” (Lc. 16, 23).
Il quadro è sostanzialmente diviso dalla diagonale che separa l’opera in due triangoli: nella parte inferiore sinistra, è rappresentato il ricco Epulone con una svelta e larga pennellata rossa che si estende anche alle fiamme dell’inferno tutto intorno; nella parte superiore a destra, si vede l’immagine di Lazzaro in Paradiso. La visione del ricco è ambientata cromaticamente con vivaci apporti nei toni del rosso e del viola su fondo giallo e formalmente con linee lunghe e guizzanti, restituendoci bene l’idea della fiamma e della grevità della materia: le tracce nere nell’angolo sinistro sprofondano l’ambientazione nelle viscere della terra e il mescolarsi quasi indistinto tra fiamma e segno anatomico ci trasmettono il senso del tormento nel quale si consuma e dissolve l’animo dell’uomo esclusivamente rivolto ai piaceri del mondo. La parte superiore, invece, chiara ed eterea (non a caso la tela di juta di supporto è ampiamente lasciata a vista), è contraddistinta da un delicato gioco di cerchi e semicerchi, in punta di pennello, che fanno sentire la candida luminosità del Paradiso attraverso soffici nubi; delicatezza e leggerezza che ritroviamo nella rapida raf figurazione di Lazzaro, cosicché tutte le linee si mescolano e disperdono reciprocamente tra loro in una compenetrazione o comunione dello spirito. I tre semicerchi delle nubi in diagonale tracciano una barriera invalicabile con il giallo del fondo, in un rapporto equilibrato e musicale di astratti volumi che, nel contempo, ci sottolineano altrettanto bene il messaggio della parabola evangelica, dove è rimarcata la divisione insuperabile tra il mondo dello spirito e quello della perdizione.
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TAV. 86 Mosè e il passaggio sul Mar Rosso , 2000 Smalti e olio su juta, cm 95x95
“Mosè stese la sua mano sopra al mare e il Signore con un potente vento orientale fece ritirare il mare […] e le acque si divisero” (Es. 14, 21).
Il quadro è dominato dall’imponente figura rossa di Mosè, anche in questo caso disposta diagonalmente a secare in due la tela. La visione del patriarca, in quel suo gesto possente, diviene la matrice dinamica dalla quale nascono le curve concentriche alla sua destra e alla sua sinistra, che, nelle cromie del bianco e del blu, lasciando visibile anche la tela sottostante in una sorta di sgranatura dell’intelaiatura pittorica, definiscono le onde del mare che si ritira. Mosè, con le braccia alzate, è veduto come un direttore d’orchestra che domina e dirige l’elemento naturale; in ef fetti, la musicalità è peculiare di quest’opera, dove il gesto e la pennellata sono più che mai armonizzati in un equilibrio di rapporti ottici. Il movimento con il quale si orchestra la scena ci trasmette tutto il pathos dell’evento miracoloso, dove le pennellate si susseguono ed incalzano come note epiche di una sinfonia behetoveniana, nella quale anche Mosè è restituito come un fluido divenire di rosse pennellate che si uniformano al movimento delle acque. Questa atmosfera fredda delle acque viene squarciata dalla lucente apparizione di Mosè, che apre il mare, e ritorna in questo dipinto la concezione universale atemporale della condizione ebraica di esuli (mobili e fluttuanti come quelle onde), metafora del doloroso passaggio dell’umanità su questa terra e della speranza riposta nell’onnipotente presenza divina. La costruzione degli spazi è interamente gestita dalle campiture di colore che separano le zone, senza imporre limiti strutturali.
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TAV. 87 Gesù cammina sulle acque , 2000
Smalti su faesite, cm 85x75 Firmato e datato in basso a destra: “Orler . 2000” “Alla quarta vigilia della notte Gesù andò verso di loro camminando sul mare […] Pietro sceso dalla barca, cominciò a camminare sulle acque per andare verso Gesù” (Mt. 14, 25; 29).
Tutta la tavola è dominata dall’elemento delle acque, rese per pennellate blu, azzurre e bianche, cromia che si estende al cielo, uniformandolo al mare. In questo guizzante mondo di acque sono immersi la grande figura di Cristo, tratteggiato con ampie pennellate bianche, rosse e arancione, quella bianca e rosa di Pietro, in lontananza (come un luminoso ed esile ectoplasma), e la barca con gli apostoli, quasi guscio di noce vasculante. Due semplici pennellate verde e gialla ci fanno intuire per sintesi il paesaggio lungo la sponda del lago. Tutto gli elementi (dalle onde azzurre ai piedi di Cristo) sembrano pesci e avannotteri che nuotano in acque pregne di vita e proprio il senso avviluppante del liquido amniotico materno emer ge prepotente dall’opera. Gli smalti brillanti, la pennellata blu, senza sfumature, ancora ricordano alcune tele di Mario Schifano nel suo ritorno alla pittura, dopo le esperienze delle tele emulsionate. Una visione, tutto sommato, ‘fanciullesca’, nell’accezione dell’ingenuo stupore della purezza di un sogno.
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TAV. 88 Emmaus, 2000
Smalti su faesite, cm 85x75 Firmato e datato in basso a destra: “Orler · 2000”
Un’altra interpretazione della cena in Emmaus, così cara al sentire di Davide Orler. Le figure si fanno sempre più sintetiche e l’ambientazione tende a sparire ridotto solamente alla presenza del tavolo e di una finestra sullo sfondo, restituitoci con pennellate scure nere e blu, a ricordarci lo scendere della sera. Toni freddi, che si vivificano solo nel rosso (simbolo del martirio) della figura di Cristo, graficismi in giallo a perimetrare i discepoli, che a tratti rasentano un’astrazione lirica (si osservi l’angolo inferiore sinistro, con una gamba di un discepolo e l’accenno ad una sedia, sul fondo blu). L’immagine allungata di Gesù può richiamare alcune opere di Chagall, come Re Davide, del 1951, sebbene l’assenza del volto in una sorta di metafora dechirichiana lo allontani da un senso di favola onirica, per assur gere al tono mistico simbolo di fede. La composizione è di grande intensità e spiritualità, dalla potente forza comunicativa e Cristo diviene protagonista in grandezza e in quotidiana debolezza. Accanto a Lui nella tavola vi è tutto quello che è in Lui e che fa parte di Lui come il pane spezzato con i discepoli.
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TAV. 89 La pesca miracolosa , 2001
Smalti su faesite, cm 85x75 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / 2001” “Gesù disse a Simone: prendi il lar go e gettate le vostre reti per la pesca […]. E avendole gettate presero una grande quantità di pesce, tanto che le loro reti stavano quasi per rompersi” (Lc. 5, 4; 6).
Il quadro geometricamente e specularmente definito, si incentra nella grande rete che contiene i pesci, quasi come un vaso o una sacra ampolla. Ancora una volta nei toni freddi dell’azzurro e del grigio l’opera si infiamma nell’immagine di Cristo a sinistra, astrattamente costruita per pennellate monocrome in rosso, senza sfumature. A destra, in lontananza, alcuni tocchi neri richiamano l’indefinita presenza umana, di uno di quegli umili pescatori del racconto evangelico. Comunque, sono quegli angoli dipinti vigorosamente a tracciare pesci guizzanti, dal sapore del simbolico pesce delle catacombe paleocristiane, che dominano la composizione. La rete diviene scrigno di vita e al contempo una sorta di rispetto reverenziale per tutto ciò che è vivo e, solo per questo, sacro e divino (nell’accezione di essere derivato, cioè creato da Dio). Anche la chiusura della rete in alto diventa quasi la metafora di una fontanella zampillante acqua di vita. La tavola, contraddistinta da quella serie di segni che si intrecciano in una sorta di pitture rupestri della preistoria, graf fite sulla roccia, pare perdere formalmente il suo equilibrio, sbilanciata a sinistra dall’immagine di Cristo, ma in realtà diviene il contrappunto che personalizzando, accende l’opera, dando un senso profondo alla vita, alla quale gli smalti orleriani sono un inno mistico.
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TAV. 90 Guarigione della donna cananea 1 , 2001 Smalti su faesite, cm 85x75 Firmato e datato in basso al centro: “Orler / 2001”
“Una donna, affetta da perdite di sangue da dodici anni […] si mise dietro la folla e toccò la veste [di Gesù] […] all’istante […] si sentì nel suo corpo che era guarita. Allora […] paurosa e tremante […] andò a prostrarsi davanti a Lui” (Mc. 5, 25; 27; 29; 33).
Tutta la tavola è, di primo acchito, un’esplosione gestualmente cromatica di segni e pennellate informali, degne dell’astrazione più alta italiana; se osserviamo con maggior attenzione, però, ecco che nella massa rossa sulla destra, riconosciamo Cristo piegato sulla donna guarita, della quale sono visibili i segni marrone che definiscono occhi, sopracciglia, naso e bocca; in lontananza, in alto a sinistra scor giamo un altro volto: quello di un uomo della folla, reso quasi etereo nell’astrazione del paesaggio. La luminosità pervade tutta la scena e proprio la trama trasparente di luce, il tocco del colore che pare dissolversi nell’etere, il gioco ritmicamente danzante delle morbide linee ci restituiscono una dimensione serenamente limpida di Dio, dove, come giustamente ha osservato Marilena Pasquali nel parlare delle ultime opere di Orler “il miracolo torna possibile” allontanando il pittore da quella visione di Cristo dai toni cupi e dolorosamente elegiaci che aveva caratterizzato l’opera precedente orleriana. Cromaticamente è un trionfo rutilante di colori: dai rossi agli azzurri, dal marrone al nero, dal bianco al rosa, dal giallo al verde. Tutto si fonde in una girandola di segni e colori che ci aprono la porta su emozioni interiori, sensazioni ed impulsi degni di Emilio Vedova, ma dove la luminosità e l’accenno figurativo inseriscono prepotentemente, attraverso il viatico della fede una dimensione non solo psicologica ma anche spirituale.
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TAV. 91 Guarigione della donna cananea 2 , 2001 Smalti su faesite, cm 85x75 Firmato e datato in basso a destra: “2001 / Orler”
Un’altra interpretazione del miracolo di Cristo, eseguita nel medesimo anno, ma questa volta in forme maggiormente realistiche. Gesù, sulla sinistra del quadro, è reso ancora una volta nei toni di un rosso brillante, mentre la Cananea, nei colori del rosa, del celeste, del blu e di verde cupo, è maggiormente intuibile nella sua figura genuflessa di fronte al Salvatore, ma con il volto astrattamente rappresentato. Tutta l’immagine ed il paesaggio che le ruota attorno assume la forza di un ellisse disposta diagonalmente e conver gente nell’inflessa figura del Cristo che pare accoglierla. Il dinamismo delle due immagini, rese con un movimento morbido e avvolgente, decisamente meno impetuoso e gestuale rispetto alla tavola precedente, ha un punto di riscontro nel mosso paesaggio sullo sfondo, nel quale tuttavia bene si riconoscono colline e costruzioni, in un grigio-azzurro illuminato da tocchi di arancio che si staglia in controluce su un luminoso cielo, lievemente nuvoloso e dove le nubi seguono, dolcemente morbide, l’andamento sinuoso dei colli. Il rammentato movimento dinamico, sottolineato dall’uso dell’ampia pennellata nera, rappresenta simbolicamente, in un certo senso, il movimento universale di tutto (uomini e natura) nel suo protendere verso la rossa luce divina del Salvatore.
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TAV. 92 In croce, 2001
Smalti su tavola, cm 185x145 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘01” “Gesù quando vide sua Madre e, lì presente, il discepolo che Egli amava, disse a sua Madre: Donna, ecco il tuo figlio” (Gv . 19, 26).
La grande tavola ci restituisce la consueta iconografia di Gesù crocifisso fra Maria (a destra) e San Giovanni Evangelista. L’opera, però, si distingue in originalità per una molteplicità di motivi. Innanzi tutto, dal punto di vista iconografico, la croce ha un’asta assai contenuta in altezza, cosicché i piedi crocifissi di Cristo sono al livello del terreno, come verosimilmente doveva essere avvenuto nella realtà. Il paesaggio retrostante è ridotto all’essenziale: un sole rosso sulla sinistra, in un tramonto di fuoco, cede lo spazio ad un cielo blu denso, dominato da una luna piena sulla destra (la presenza dei due astri è anch’essa ricorrente nell’iconografia, a simboleggiare Cristo e l’Umanità, ma posti allo stesso livello e non in una tale rappresentazione naturalistica, dove la notte segue il giorno). Al di sotto del cielo, dopo che “si fece buio su tutta la terra”, alcune ampie pennellate in giallo definiscono le colline sulle quali si spenge l’ultima luce del giorno, ma, per il resto, gli interi rilievi naturali non hanno colore e si nota la tavola sottostante, che ci restituisce un paesaggio piatto, privo di prospettiva e di profondità, quasi un fondale diritto dietro la croce, sul quale pare di intuire l’ombra proiettata di Maria, attraverso quell’ampia pennellata viola e porpora che perimetra a destra il suo corpo. Giovanni, con il volto incorniciato da una scura barba, è reso con nervose e lar ghe pennellate bianche e porpora, di una gestualità fauve, come del resto anche il corpo del Crocifisso, restituito dal pittore mediante una dinamica e ‘selvaggia’ torsione dei tratti che si attorcigliano ed intrecciano, dipingendolo con un partecipato senso di sof ferenza al dolore del Salvatore. Tali pennellate - celesti, verdi acqua e bianche con tracce di blu - ci rendono, comunque, anche un Cristo leggero ed etereo ma, al contempo, assai terreno in quella ricordata torsione muscolare, di forte espressività, ancorché il volto sia privo di connotati e, forse, proprio per questa mancanza, così espressivo. Piccole pennellate di rosso, guizzanti e con sgocciolature, segnano le ferite del Salvatore, rosso che ritroviamo nel gestuale alone di amore e di morte, di sof ferenza e di redenzione che avvolge simbolicamente e surrealmente il corpo oramai morto di Cristo.
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TAV. 93 Omaggio a Giotto , 2004
Smalti su tela, cm 100x150 Firmato e datato a sinistra: “Orler - ‘04” Questo compianto sul Cristo morto, con la Madonna, a destra, piegata sul Figlio nell’atto di baciar gli la guancia, vuol essere, come esplicitato nel titolo un omaggio all’affresco che Giotto dipinse nella Cappella degli Scrovegni a Padova tra il 1303 e il 1304 e facente parte del ciclo delle Storie di Cristo. I due volti accostati di Gesù e della Madre, l’uno irrigidito dalla morte e l’altro dal dolore (nella raf figurazione giottesca), si trasformano, nella versione orleriana, in una visione dai toni più morbidi e distesi, dove il pathos giottesco, di forte emotività, cede spazio ad accenti di mesta contemplazione, pur rimanendo un silenzioso dialogo tra la morte e la vita. La scena, che in Giotto aveva abbandonato ogni rigidità ed astrazione bizantina per calarsi nel mondo umano dei sentimenti e delle emozioni, pare recuperare in Orler un senso di ieratica atarassia, sottolineato dall’uso della vernice bianca e vaporosa, tesa a definire i volti, quasi inconsistenti realtà spirituali, e dal fondale, irradiato di quella luce aurea che rimanda astrattamente al divino.
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TAV. 94 Cristo, 2004
Smalti su tavola, cm 33x30,5 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler ‘04” “In principio […] il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio […]. In lui era la vita e la vita era la Luce degli uomini […]. E il Verbo si è fatto carne […] e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come dell’Unigenito del Padre […]. Dio nessuno l’ha mai veduto: l’Unigenito Figlio che è nel seno del Padre, Egli stesso ce l’ha rivelato” (Gv. 1, 1; 4; 14; 18).
Questa tavola esemplifica, forse meglio di qualsiasi altra, la tecnica orleriana della vernice data a spruzzo: su un fondo grigio scuro egli, infatti, ha spruzzato del bianco a formare un volume di una testa, che a mano a mano si stempera in un evanescente alone, in un nimbo luminoso. All’interno del bianco ha delicatamente ritratto, in punta di penna, un ieratico volto di Cristo, con gli occhi ben definiti, di intenso magnetismo, fissi verso l’osservatore, traendo evidente spunto dall’iconografia bizantina e dal Mandylion. Il naso stretto e allungato, insieme alla bocca chiusa, stanno a significare la forza interiore e il silenzio meditativo; i baf fi lunghi e alquanto spioventi, con la barba bipartita, concludono i tratti di questo sacro Volto. L’effetto ottenuto con tale monocromia in bianco e nero è di forte pathos e suggestione (anche in penombra la tavola pare vivere di una propria Luce interiore, quasi essenica e giovannea), in quanto l’immagine sembra la concretizzazione di uno Spirito, come nella visione russa del Salvatore Acheropita (cioè non dipinto da mano umana), trasmettendoci tutta l’enfasi religiosa del Verbo, del Figlio di Dio fatto Uomo. Le pennellate chiare, però, aggiunte nella fronte, nelle guance, nel naso e nella barba, contribuiscono a dare matericità (umanità) all’icona, a questo sacro Mandylion moderno del vero Dio e vero Uomo.
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TAV. 95 Dalla Sindone, 2004
Smalti su tela, cm 150x100 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘04” La grande tela rappresenta il volto di Gesù morto, così come appare nel telo della Santa Sindone di Torino, caratterizzato dalle grandi orbite oculari e dal lungo e pronunciato naso. L’immagine, restituitaci simbolicamente nei toni del rosso, impiega ancora una volta la vernice a spruzzo, che ci trasmette quel senso di indefinita, eterica inconsistenza delle opere precedenti, questa volta ancor più calzante nel caso dell’omaggio alla Sindone. Il volto di Gesù non è qui quello perfetto, che compare anche in altre opere orleriane presenti in questa mostra, ma è restituito come Vir dolorum, con i lineamenti deformati e le guance tumefatte, in aderenza alla vera immagine sindonica di Cristo che si accende in Orler di un emozione artistica che si fa astratta luminosità e studio quasi cinetico del colore (si osservi l’angolo inferiore destro, tra i colpi di bianco sulla rossa barba ed il fondale verde azzurro), vicino ad alcune esperienze del luminocinetismo, cioè di quella ricerca artistica in cui il movimento è ottenuto attraverso l’impiego di fasci luminosi e di luci fluorescenti, ma con una tendenza ottica che travalica la geometria dei cinetici per raggiungere un puro senso della luce (come in certe più recenti opere eseguite da Ennio Finzi, di sentire spazialista e di pura emotività espressiva), ma intriso, in Orler, di genuina fede cristiana.
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TAV. 96 Natale, 2004
Smalti su tela, cm 100x150 Firmato e datato in basso a destra: “Orler - ‘04” Al centro, in primo piano, è raf figurata la Madonna con il Bambino e alla sua sinistra San Giuseppe. A destra sono il bue e l’asinello; sul retro della grotta, in alto, a destra è l’angelo che annuncia ai pastori la nascita di Cristo; a sinistra i tre re Magi seguono la cometa, raffigurata come stella di Davide a sei punte. Un’altra opera dove è impiegata essenzialmente la vernice data a spruzzo, che contribuisce a rendere evanescente la scena. La luce si incentra tutta nel gruppo della Madonna con il Bambino, nei vibranti toni del bianco, del rosso e del giallo, mentre San Giuseppe diviene quasi una figura a corollario, nella cromia blu che si ‘mimetizza’ nel nero della grotta. Tutta la tela si basa principalmente nel tono blu della notte santa che, in un fondo da presepe si irradia di più tenue luce lunare, nelle diafane immagini bianche della stella e dell’angelo. La gestualità sfocata della pittura a spruzzo trova un contrappunto nelle nere e nitide pennellate della grotta, mentre la serie di curve irregolari, delineate a sinistra e le macchie e scolature a destra, nelle gradazioni dal nero al blu, ci restituiscono una luminosa profondità di campo di onirica e simbolica bellezza.
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TAV. 97 Per la fuga in Egitto , 2004
Smalti e olio su tela, cm 100x150 Firmato e datato in basso a sinistra: “’04 Orler” In primo piano è Maria con il Bambino, che cavalca un asino, mentre San Giuseppe tiene le briglia; in lontananza ci sono altre figure a cavallo con le some; sullo sfondo alte montagne innevate. L’immagine della Madonna con Bambino, restituitaci nei toni caldi del rosso, è racchiusa entro una forma a mandorla, che ci richiama la simbologia della Maiestas Domini (cioè del Cristo trasfigurato), ma anche della Regina del cielo, Maria. Tale figura, che ricorre spesso nell’arte medievale, sta a indicare l’inclusione di un contenuto prezioso in un guscio duro e impenetrabile e pure l’embrione umano racchiuso nell’utero. Così, il Cristo e la Madre, raccolti entro quelle stesse vesti vermiglie, contrastano con il freddo dell’alta montagna che li circonda, sottolineando, ancor più, il senso di mistica protezione e di calore materno. Anche in questo caso, San Giuseppe, negli stessi toni blu, neri e verdi dell’asino e delle figure in lontananza, fanno quasi da contorno alla mandorla divina. La vernice a spruzzo impiegata nelle montagne, candide di neve e nelle nubi rosacee di un sereno tramonto, stagliantisi nell’azzurro del cielo, richiamano, più che il paesaggio mediorientale, brullo e arido, le Alpi così vicine e amate da Orler e forse anche certe realtà (anche spirituali) tibetane. Interessante pure il contrasto fra il monte sulla sinistra, in oscurità, e la luminosità delle vette sullo sfondo.
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TAV. 98 Il Nazareno, 2004
Smalti e olio su tela, cm 150x100 Firmato e datato in basso a destra: “Orler / ‘04” La tela raf figura Gesù con le mani incrociate, vestito di bianco e di rosso, mentre nel cielo a sinistra compare un pallido sole. Pure quest’opera si basa principalmente sulla tecnica della vernice data a spruzzo, che fa emergere la figura di Cristo, dominata dalla tradizionale veste rossa, sul verde paesaggio retrostante e sul cielo, improntati da un tono di nebbia evanescente. A differenza di altri quadri, il volto del Salvatore è sensibilmente caratterizzato nei suoi tratti anatomici ed il suo sguardo fisso e profondo rammenta la ieratica staticità della pittura bizantina. La decisa pennellata gialla, che perimetra a sinistra la figura, crea un alone sacro all’immagine, che pare sfumare in basso in una pura essenza eterea e spirituale, a differenza del busto che, nel suo rosso fiammeggiante, rimanda alla dimensione dell’amore e alla natura umana di Gesù. La figura è definita da un disegno morbido, senza asprezze o sperimentalismi: nello sguardo e nella postura si coglie il senso amoroso e salvifico del Salvatore. Pur limitandosi al solo tratto di contorno, Orler riesce a dare volume e profondità alla raf figurazione, per una composizione che ha un certo sapore classico o, comunque, tradizionale. Del resto, il colore non ‘riempie’ la figura, ma viene steso con grande libertà, a macchie e striature, con cambio delle cromie (dal rosso al blu) senza corrispondenza con la realtà naturale: le chiazze di colore sono tutte armonizzate proprio sull’azzurro, sul rosso e sul bianco, per suggerire ulteriormente un clima di sof fuso sentimento.
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TAV. 99 Gesù con la Madre , 2004
Smalti e olio su moquette, cm 80,30x90,50 L’opera è divisa sostanzialmente in due parti con la Madonna e Gesù che riempiono totalmente il campo. La figura di Maria a sinistra con la testa avvolta in un manto celeste, è rappresentata nei toni caldi del rosa, del bianco e del rosso, mentre Gesù, sulla destra, ci è restituito nelle più fredde tonalità dell’azzurro e del bianco. Le due immagini ci sono rese attraverso solide volumetrie quasi scultoree e morandiane, mentre l’espediente di farci vedere Cristo contemporaneamente di fronte e con il profilo laterale rimanda all’invenzione picassiana. Le superfici dipinte con rapide pennellate di colore sfrangiato e sfumato, la fisionomia stretta e allungata, dominata dai piccoli e fissi occhi e dal lungo geometrico e naso, richiamano alla mente anche opere con le ‘maschere’ degli Anni Venti e Trenta di Paul Klee, come Senecio (1922) o la Maschera della paura (1932), non caricate, però, di ironia né di angoscia. Le linee curve e spezzate, gli stessi colori bruni e ocra sgorganti dal blu e dal rosso scuro della moquette di fondo, che definiscono Maria, come i toni freddi e mistici di Cristo, popolano l’iconografia di questa opera orleriana, dove le teste allungate, contratte in impercettibili smorfie di velato dolore, giocate su una simmetria della composizione, con la frontalità delle figure rappresentate, donano all’insieme un tono di solenne e sacra ieraticità. L ’opera ci fa venire in mente anche qualche figurazione della Transavanguardia ed in particolare di Mimmo Paladino, sebbene in un contesto sensibilmente diverso per le concezioni sottese rispetto ad Orler .
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TAV. 100 Studio per Maria con Gesù , 2004 Smalti su tela, cm 100x70 Firmato in basso a destra: “Orler”
La tela si incentra sulla consueta immagine della Madonna con il Bambino. Sullo sfondo alcune schematiche montagne ed un vasto cielo azzurro su cui risplende un luna piena, color rosso arancio, dominata da toni dorati. Tutta la tela è incentrata sulla grande figura della Vergine con Gesù, resa con la tipica ampia e flessuosa pennellata orleriana, nelle tonalità calde del giallo, del rosa e di un verde fortemente diluito; il groviglio, in un certo senso informale, di pennellate alquanto brevi rappresenta, possiamo dire, una dilatazione dei corti colpi di pennello, impostati su pochi toni fondamentali (rossi, gialli, verdi e blu) giustapposti per un perfetto equilibrio, tipici dell’Espressionismo fauve di André Derain, l’amico e compagno di Matisse. Orler dà prova di una sapiente miscela fra questo uso del colore, libero e ricco di fantasia, ed il controllo della forma; in un certo senso egli sente il bisogno, fra i tanti movimenti d’avanguardia che si moltiplicano ovunque, di tornare indietro alle radici della figurazione, mediata dall’arte cristiana antica, riscoperta in parte dalla lezione delle icone russe. Il blu ed il nero, che definiscono le campiture delle montagne sul retro, tornano ad essere presenti all’interno delle figure, così da renderle quasi una trama di stoffa sgranata ed inserendo un senso di astrazione nella sua pittura figurativa. Il rosso della sfera lunare, che si riflette sulla cima dei monti, diviene protagonista assoluta di quel monocromo blu del cielo notturno, imprimendogli un significato di sacralità cosmica.
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TAV. 101 Il bacio di Giuda 1 , 2004
Smalti e su tela, cm 100x150
“Mentre [Gesù] parlava ancora, ecco Giuda […] e subito, accostatosi a Gesù […], lo baciò (Mt. 26, 47; 49)
Il quadro rappresenta i due volti di Cristo e di Giuda, quest’ultimo nell’atto di baciare il Salvatore e tradirlo. La scena è liberamente ispirata alla Cattura di Cristo , dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Le due figure, rese ancora una volta prevalentemente con la tecnica della vernice a spruzzo, sono vedute in una visione quasi speculare: ambedue contornate da un’aureola dorata, con capelli e barba castani scuri. I toni freddi (azzurro, verde e marrone) paiono sottolineare la drammaticità del momento e lo sguardo intenso e penetrante di Cristo si incrocia con quello del traditore, veduto in tutta la sua umanità, senza sottolineature di condanna. Anche quest’opera pare richiamarsi al tema, ripreso dalla pittura tardo medievale, del cammino della salvezza dell’uomo ma con una sostanziale fiducia nell’umanità. Non a caso la dimensione umana pare sottolineata proprio da quella simbolica figura a cuore nella quale sono inserite le due teste; un accenno alla passione e morte, invece, sembra dato da quelle uniche pennellate in rosso alla base della testa del Cristo. Tutta la tela si incentra sui due personaggi e il breve paesaggio che li circonda è solo un’eterea presenza di soffusi sprazzi di colore.
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TAV. 102 Il bacio di Giuda 2 , 2004
Smalti su tela, cm 60x180 Firmato e datato in basso a destra: “Orler - ‘04” A differenza dell’opera precedente, basata su toni freddi e su figure evanescenti, questa tela si incentra su tonalità calde e luminose (giocano un ruolo fondamentale il giallo ed il rosso) e su una più definita raf figurazione delle fisionomie, rese con poderosi tratti neri, secondo la più tipica tradizione espressionista. Pur riprendendo la medesima composizione, con gli sguardi l’uno fisso nell’altro, i due volti si diversificano profondamente: la solenne ieraticità contraddistingue Cristo, Giuda, invece, ha i tratti tipici di un levantino, con il collo tornito e assai allungato, che imprime una tridimensionalità scultorea alla figura, resa ancora più drammatica dall’uso delle pennellate rosse, che si mescolano a quelle nere della barba e ai crespi capelli. L ’incarnato verdastro, richiamo alla tecnica medievale (qui reso attraverso una campitura verde sulla quale è spruzzata vernice bianca), trova un contrappunto nella violenta luminosità dorata ed astratta dello sfondo, dove campeggiano gestuali pennellate bianche. La scena si accende nel rosso dell’abito di Cristo, che si distende simbolicamente a lambire Giuda, quasi a significare che la redenzione di Gesù si estende anche a lui.
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TAV. 103 Ecce Homo, 2004
Smalti su tela, cm 80x60 Firmato e datato in basso a sinistra: “Orler ‘04” “Gesù dunque uscì fuori, portando la corona di spine e il manto di porpora. E Pilato disse loro: Ecco l’Uomo” (Gv. 19, 5).
La tela è interamente dominata dal testa di Cristo, coronato di spine, con il volto tumefatto e sanguinante. Entro una campitura astratta, incentrata sulle tonalità del rosso e dell’arancione (colori caldi e vivi, che rimandano al sangue e alla tunica di porpora del racconto evangelico), vi è raffigurato il volto di Gesù, allungato e con gli occhi abbassati. Gli schizzi di vernice rossa e le colature rendono perfettamente il senso di violento realismo con il quale Orler interpreta la drammatica scena. La fisionomia del Cristo è resa attraverso brevi e rapidi tocchi di colore nero a definire le ciglia, la bocca e le narici, mentre il lungo naso ebraico è restituito mediante un’unica pennellata rosso sangue. L ’opera nasce dalla necessità di af francarsi dalla rappresentazione oleografica tradizionale e liberare tutto il potenziale espressivo per mezzo di un’esasperato cromatismo e di una ‘brutale’ semplificazione delle forme. Le leggi prospettiche, come nell’Espressionismo tedesco, che può essere preso a lontana matrice dell’opera orleriana, l’esatta restituzione della fisionomia e dei colori naturali perdono la loro importanza, in una compenetrazione spirituale della materia. Inoltre, il cammino alla ricerca parossistica della conoscenza dello spirito fa sì che la componente espressiva si unisca all’astrazione del fondale in una simbiosi perfetta.
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TAV. 104 Per la Deposizione , 2004
Smalti e olio su tela, cm 100x150 Firmato e datato in basso a destra: “Orler ‘04” Il grande olio è sostanzialmente quadripartito in altrettante fasce policrome orizzontali: in primo piano, la figura di Gesù Cristo già deposto dalla croce e avvolto nelle bende e nel sudario bianco; sul retro, si elevano le tre Marie, piangenti sul corpo del Salvatore, con vesti blu e con le teste ricoperte da un velo rosso fiamma, colore che prosegue nel paesaggio collinare del fondo; in alto, infine, il cielo azzurro con tratti di splendente rosa arancio. Tutta la tela sembra seguire un armonico movimento vibratorio, come onde di mare, da sinistra verso destra, in direzione della testa di Cristo, cioè, simbolicamente, il moto di tutta l’umanità che nella Storia anela al suo Salvatore. Di grande ef fetto quei colori disposti a fasce (nel cielo, nelle colline e nelle Marie), che non rispettano le figure ma seguono un loro autonomo moto musicale (si osservi il rosso che dai veli e dalle teste passa senza soluzione di continuità a definire il paesaggio retrostante). Interessante anche la rappresentazione di Gesù quasi come una mummia egiziana (evidentemente dedotta dalla cultura bizantina e ortodossa) con nette pennellate nere e bianche sul fondo bianco-celeste, steso con un pigmento assai diluito. I ‘picchi’ che stanno a definire due dei corpi delle Marie hanno realmente il senso di onde che si infrangono sul Salvatore, le cui creste si accendono di spuma vermiglia e tutta l’opera assume i toni orchestrati di una coinvolgente e romantica sinfonia.
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TAV. 105 Maternità 1, 2004
Smalti e olio su tela, cm 53x55 Firmato e datato a destra, in posizione mediana: “04 / Orler” Possiamo vedere la Madre nell’atto di essere abbracciata dal Figlio, su un fondo astratto, color grigio e celeste.
Questa è la prima di una consistente serie di Maternità che Orler ha dipinto nel 2004. I due volti ci sono resi attraverso le sole volumetrie, ma senza alcun connotato anatomico, mentre ai capelli biondi del figlio corrispondono quelli lunghi della madre, di un irreale colore viola, formanti quasi un’aureola o un velo sulla testa. L’equilibrio dell’opera è tutto giocato su quelle piccole braccia che, definendo una porzione di cerchio, costruiscono un’unica volumetria di madre e figlio, in simbolica simbiosi. In un certo senso quest’opera di Orler sviluppa alcune idee che erano già state tipiche del Romanticismo, non solamente per ciò che riguarda l’incremento estatico dell’autoconsapevolezza dell’artista di fronte al mistero della vita e della religione, ma anche in relazione ad una certa decodificazione simbolica della realtà, alla ricerca di una sorta di principi metafisici e, in ultima analisi, di un ordine cosmologico, in una fideistica dimensione che va ben oltre i limiti del contingente, in cui viene annunciata un’autentica palingenesi della creatività non artefatta. Ancora una riprova dell’onestà intellettuale ed artistica del maestro.
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TAV. 106 Maternità 2, 2004
Smalti e olio su moquette, cm 84x94 Firmato e datato in basso a destra: “Orler · ‘04”
Quest’altra Maternità orleriana dai colori caldi e profondi, unisce con ampie pennellate, definenti una porzione d’ellisse la figura della Madre a quella del Figlio, ancora una volta in un unicum formale e concettuale. Ogni pennellata di colore puro (celeste, giallo oro, blu, viola e rosso) viene a rappresentare un elemento (il velo di Maria, i capelli, le braccia del Bambino) e tale scomposizione si ripete, con accenti postcubisti e picassiani, nel volto della Madre, cosicché si assiste ad una sorta di scomposizione diedrica della luce. Riferimenti a novecentismi classici si ritrovano anche nel volto di Gesù (dal Bambino, dipinto da Paul Klee nel 1933 a II Sogno di Pablo Picasso del 1932), ma l’intera opera, dipinta su quella moquette rossa, che contribuisce a dare un senso di calda intimità alla rappresentazione, assume un vorticoso dinamismo di forme ed af fetti che coinvolge l’osservatore moderno in una meditazione atemporale. Quasi un fantastico gioco nel quale i due personaggi ‘popolano’ interamente lo spazio, trasfigurato dall’artista, dando vita ad una melodiosa musica danzante, carica di colori e di allegorie, segnando una sorta di transizione tra la figurazione e l’astrattismo; uno squarcio di puro lirismo, commovente canto d’amore che si oppone sommessamente eppure in modo profondamente umano (e divino) alle violenze del mondo quotidiano.
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TAV. 107 Maternità 3, 2004
Smalti e olio su tela, cm 52,5x55 Firmato e datato in basso a sinistra: “’04 / Orler” In questa ulteriore variante di Maternità, tutta giocata sul rosso delle vesti e sul blu del fondo, nel quale splende una velata luna piena, si accentuano quei toni di ritorno al figurativo così cari a Orler. Anche in questo caso i volti sono resi senza alcuna connotazione fisionomica, ma ciò nonostante emer ge forte la tenerezza del Bambino che si rivolge alla Madre. Tra deformazione e astrazione, l’opera permane invasa di un candore patinato, in una naturalezza spontanea e quasi primitiva: l’af fetto primordiale fra la Madre e il Bambino. L’impulsività dell’atto creativo, il linguaggio pittorico, generalmente irrequieto e carico di tensione esplosiva, tuttavia, si stempera qui in un fare più riflessivo di calcolato equilibrio, di armonia tra sensazione e forma, di controllata estaticità; le nervose pennellate, tipiche dell’artista, in questo caso si mitigano, addolcendo le figure e omogeneizzandole, fornendo loro una forma pittorica mediata, calma e, in un certo senso, monumentale, dove trova un porto l’indole tormentata dell’uomo. Tuttavia rimane evidente l’esuberanza, l’ardore e il fervore orleriano, volendo riportare l’arte alle fonti semidimenticate del più intimo ed elementare sentire, partendo da un sentimento genuino e privo di pregiudizi estetici. L’armonia di vita ed arte diviene paradigmatico scopo della sua stessa esistenza, dove la metamorfica pennellata dà espressione ad ogni vibrazione interiore. La morbida veemenza assunta dal suo linguaggio formale, nelle sue spezzate pennellate, dalla consistenza di linee di forza, diviene un ef ficace veicolo di dinamismo visuale in un’ideale armonia naturale.
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TAV. 108 Maternità 4, 2004
Smalti e su tavola, cm 69,60x35 Firmato e datato in basso a destra: “’04 / Orler”
L’ultima delle Maternità presentate è giocata tutta sulla monocromia dell’azzurro (con riferimento simbolico a Maria), dove gli apporti neri e bianchi definiscono le figure e i punti in luce. L’allungata immagine della Vergine con la testa lievemente reclinata a sinistra, verso il Bambino che si aggrappa a Lei, ha una monumentalità scultorea antica ed una sorta di staticità che, anche nel lungo e tornito collo, rimanda contemporaneamente a certa statuaria medievale (ma si veda anche la pittura senese del Quattrocento) e ad opere di Modigliani. L’essenzialità che sta alla base dell’opera, l’impianto scultoreo di Maria è sottolineato dall’uso monocromatico, il solo azzurro; la linea nera, quasi incisa, sinuosa e continua, che sintetizza forme arcuate, scioglie, tuttavia, questo serrato impianto, linea che riassume tutto il morbido trapasso dei volumi pieni della figura, linea musicale che ricorda anche certe Madonne senesi. I caratteri fisionomici del volto, potentemente volumetrico, sembrano distillati da Orler in pochi elementi descrittivi, inseriti nelle forme pure ed essenziali con le quali rende la testa, il collo e il busto della Vergine. La sintetica volumetria degli elementi della figura viene rinforzata plasticamente nel volto, nel collo e nel seno, dove i tocchi bianchi e neri sulla carnagione notturno lunare sbalzano la materia compatta della pittura. Un inno aperto alla forma che esalta fino ad una piena partecipazione dell’anima. Queste ultime opere sono il tentativo di Orler di ripercorrere con nuovo vigore il cammino dell’arte sacra, secondo i canoni e i dettami della Chiesa contemporanea.
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I quadri biblici di Davide Orler DI
RENATO LAFFRANCHI
Pare che il grande Rouault negli ultimi anni di vita si mettesse sulla porta delle gallerie dove esponeva i suoi quadri domandando ai visitatori se fossero o no credenti; e a quelli che non lo erano dicesse che non era il caso che entrassero. Il mio amico Davide, che mi ha raccontato la cosa, credo abbia la tentazione di fare lo stesso. E forse non avrebbe poi tutti i torti. Le sue ultime opere, quelle bibliche esiguamente presentate in questo volume nelle quali egli vede - e vedo anch'io - il termine e il frutto di tutta la sua ricerca e la sua fatica di uomo e di pittore, sono di quelle che si sottraggono a una attenzione che cerchi puri valori formali, diciamo artistici, perchÊ propongono suggestioni spirituali pienamente avvertibili solo se la mente ha conoscenza e memoria delle cose di Dio, se il cuore è capace di riconoscere nelle immagini suggerite i personaggi, gli eventi e le storie che raccontano i Libri di Dio. Quando lo conobbi molti anni fa fui af fascinato, e anche un po' sconcertato, dalla sua figura di grosso vichingo, dalla irruenza di una passione che si incorporava coraggiosamente in opere dalla consistenza materica quasi brutale, nelle quali l'indignazione davanti alle ingiustizie e la compassione alle sof ferenze degli uomini, alle tragedie, alle pene dei poveri, si trasformavano in gagliardi canti d'amore quando dipingeva la severa bellezza delle sue montagne e in una sollecitudine di protezione quando dipingendo le case degli umili applicava addirittura delle tegole di assi sulle tele, quasi a rinforzarne i tetti, come farebbe un gigante buono. Ci perdemmo per anni, cosÏ non lo seguii per le molte strade tenta-
La creazione di Eva, 1999, olio su juta, cm 95x95.
te, nelle diverse esperienze di cui le opere raccolte in questo volume ci informano. Lo ritrovai andando ogni tanto a vedere le sue icone, incantato e frastornato come un Lazzaro affamato al banchetto di un re. Non meno forte e fedele a se stesso lo ritrovai, ma come rassicurato e addolcito da una consapevolezza piena di luce, esperto del Mistero, convinto di Dio, edotto delle Sante Parole.
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La settima piaga: la grandine, 2000, olio su juta, cm 95x95.
Annunciazione, 1999, olio su juta, cm 95x95.
Così quando gli portavo gli amici dicevo loro che li portavo a incontrare un profeta. Ma non sapevo in quale fatica si stava spendendo con la strenua dedizione di un posseduto; non avevo visto queste opere nate dalla Bibbia e dedicate alla Bibbia che recentemente mi sono venute addosso improvvise nel suo studio pieno di tele, di lampi, di apparizioni - così nuove, così numerose, così convincenti da darmi la sorpresa, la certezza e l'emozione di una rara esperienza dello spirito. Poiché il vichingo è davvero diventato un profeta. E solo chi conosce la Bibbia e la prende sul serio (ecco Rouault su quella porta) può capire che cosa intendo, e pensare con me a quegli uomini ostinati, dif ficili, fiammeggianti, severi, violenti a volte - se Eliseo faceva mangiare dei monelli dall'orsa - e insieme dolcissimi. Uomini fissati sulla Parola, che non si curavano d'altro che della Parola e non avevano altro da dare agli uomini che la Parola. Poiché così Davide è diventato. E credo anche di sapere come la trasfigurazione è
awenuta, quale cammino ha portato questo pittore, quest'uomo, a questa nuova assolutezza, a questa riduzione ad unum delle sue visioni, a questo modo di dipingere così noncurante di quel che preoccupa di solito i pittori, qual è la sorgente della luce che vedo nei suoi occhi affaticati. Egli ha vissuto una avventura singolare, che io gli invidio: la sua lunga immersione nello spirito di quell'arte che chiamiamo bizantina e che dovremmo chiamare semplicemente cristiana. Dico immersione ma dovrei dire sprofondamento, perché è stato per lui come un perdersi, come un trovarsi fuori strada, come un perdere la ragione; come è di tutte le esperienze radicali dell'anima. Poiché quel suo innamoramento avventato, intemperante, totalitario per le icone bizantine aveva davvero della follia, come sono folli le avventatezze di coloro che si lasciano soffiare via dallo Spirito. Era il suo rischio, fu la sua passione e il suo dono. Guardandole, quelle icone, e riguardandole, adattando poco a poco il suo cuore a quel loro fascino un po'
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La strage degli innocenti, 1999, olio su juta, cm 95x95.
Il buon samaritano, 1999, olio su juta, cm 95x95.
sconcertante, imparando a venerarne la grazia segreta, lasciandosi illuminare e poi accendere da quel chiarore modesto, ascoltandone le parole silenziose - facendo di quell'inverosimile reame la sua dimora - è diventato capace di vederle per quello che sono: non oggetti di un'arte singolare fra le molte arti dell'uomo, ma "segni" quasi sacramentali della Verità. Della verità del divino e della verità dell'uomo e della storia, delle cose e della natura. Come maestre del dipingere e prima ancora del sentire. Come testimonianze discrete e convincenti della Presenza. Imparato questo - e Dio volesse che tanti artisti e tutti gli uomini d'oggi avessero almeno il sospetto di queste possibili esperienze dell'anima - non poteva Davide non dipingere come ora dipinge. Non come un agiografo bizantino, poiché c'è ben poco dello spirito di quell'arte nella produzione dei facsimili diventati di moda, delle copie che riempiono le botteghe della cosiddetta arte sacra, ma come un vero
pittore cristiano. Come un pittore, cioè, che ha fissato lo sguardo sulle cose di Dio, sulle storie di Dio, sulle storie degli uomini di Dio, sulle aggressioni della Nequizia e sulle battaglie del Bene e quelle cose e tutte le cose vede ormai nell'unica Luce, e ce le racconta come le racconta la Bibbia, dove le ha riscoperte e imparate. Non guardando e rifacendo le forme delle sue icone ma perdendosi nello spirito che le informava, facendosi obbediente alla “necessità” che le detta, che non è quella di uno “stile”, ma di una condizione dell’anima; e grazie a questa obbedienza è diventato pittore "biblico", pittore cristiano. Davide non copia le icone, perché le ha capite troppo bene. Possiamo riconoscere dei ritmi, dei movimenti, dei rapporti, trovare dalle rispondenze, dei riferimenti, delle indicazioni succinte come le annotazioni di un coreografo che or ganizza una danza, ricordandoci l'essenziale musicalità delle icone. Ne riconosceremo il rigore iconografico nella disposizione e nelle attitudini delle figu-
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L’ultima cena, 1999, olio su juta, cm 95x95.
Ecce homo, 1999, olio su juta, cm 95x95.
re, quando disposizione e attitudini sono essenziali ai significati; ritroveremo il compendio parsimonioso dei racconti. Ma sotto l'estrema semplificazione compositiva, sotto l'esatta fedeltà delle citazioni, sotto qualche apparente conformità che pare estinguere l'antica irruenza del mio vichingo, astringerne la fantasia, quella irruenza rimane, anche se come domata, la fantasia è tutta libera, la passione evidente; la pietà, la rivolta, la compassione e la rabbia, la denuncia, la tenerezza e il perdono cantano insieme un grande canto di Amore. Ho negli occhi una Annunciazione dove le lievi vibrazioni di luce, l'incanto silente delle parole di Luca traspaiono quasi immateriali dalla tela, come venendoci dall'Altrove. Penso all'angoscia così umana del Signore che si stringe le braccia infreddolito dalla paura nella notte senza amici del Getzemani. Al Suo corpo sfinito deposto sulla terra che Gli ha bevuto tutto il sangue. Alla Puerpera Santa distesa (proprio come nei bizantini) in un rosso che è regale e sanguinoso insieme. Penso a quella Pesca sul Lago dove le onde scintillano
nel vento sotto un cielo festoso e mattutino come su un mare greco di Sicilia. Penso ai profeti incendiati e drammatici, agli angeli folgoranti o quasi invisibili, agli Ospiti misteriosi sotto la tenda di Abramo, alle uccisioni, alle nozze, agli amori che ci racconta la Bibbia e che Orler dipinge. Opere che, pur presenti in numero limitato in questa sede, meriteranno comunque una congrua presentazione, poiché io credo davvero che questo pittore singolare debba essere proposto a quanti cercano con cuore sincero il senso e il ministero dell'arte, alla Chiesa oggi tanto confusa fra la legittimità del contemporaneo e il fascino del passato, perché il contemporaneo non sia come è spesso la deludente testimonianza di un vuoto e la lezione del passato non si riduca a una riesumazione senza vita. E tra le pitture qui pubblicate, per le quali la scelta è stata dif ficile, penso alla immediatezza con cui ci si impongono le immagini, alla fedeltà dei racconti, al variare dei colori, a certi turbinii di venti e di fuochi, di castighi e di assunzioni, alle tempeste notturne, alle quie-
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Crocifissione, 1999, olio su juta, cm 95x95.
Ascensione, 1999, olio su juta, cm 95x95.
ti pastorali, agli abbracci gagliardi, alla pietà dei soccorsi, a Mosè che apre come un vento le acque, agli sgangherati pinnacoli di Babele, alla inesorabilità delle piaghe divine, alla felicità della gloria, a questa vera Bibbia
dei poveri che Davide ha redatto per noi, a queste pagine dell'alfabeto di Dio che invita a leggere e a imparare, noi ormai analfabeti e smemorati delle Sante Parole.
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The Biblical Paintings of Davide Orler RENATO LAFFRANCHI
Apparently, towards the end of his life, the great Rouault used to stand at the door of the gallery where his pictures were on show and ask visitors whether they were believers or not; he would then tell the non-believers not to bother going in. I think that my friend Davide, who told me this, was tempted to do the same. And perhaps it would not have been so wrong to do so. In his most recent works, the biblical pictures, of which only a few appear in the present volume, he saw - and I share his view - the end product of all his research and ef forts both as a man and as an artist. These paintings are far-removed from those that focus on purely formal, supposedly artistic values; rather , they offer spiritual suggestions which can only be fully recognised by those whose minds hold the knowledge and memory of God's things, if the heart is capable of recognising in the images portrayed the characters, events and stories narrated in the Books of God. When I first met him, many years ago, I was charmed, but also a little disconcerted, by the appearance of this great Viking and the unruliness of a passion courageously embodied in works of an almost brutal nature. Indignation in the face of injustice and compassion for the suf fering of mankind, tragedies and the plight of the poor were transformed into vigorous songs of love when he painted the austere beauty of his mountains and into caring protection when, in depicting the houses of the common people he even applied wood shingles to the canvas, as if, like a friendly giant, he wanted to strengthen the roofs. We lost touch for many years and so I did not follow him along the many paths he tried, through the various experiments which the works collected in this volume bear witness to. Every now and again I would visit him to see his icons and find him enthralled and dazed like a starving Lazarus at a king's banquet. I found him as strong and true to himself as he ever was, but now reassured and softened by a luminous awareness, expert in the Mystery, a firm believer in God, acquainted with the Holy Word. So when I introduced him to friends, I would tell them
they were meeting a prophet. But I did not know where he was putting all his ef forts with the dedication of a man possessed; I had not seen these works arising from the Bible and devoted to the Bible which recently almost fell on top of me in his studio, crammed with canvases, flashes, apparitions - things new, things numerous, things so convincing as to elicit the surprise, certainty and emotion of a rare spiritual experience. Because theViking really has become a prophet. And only those who know the Bible and take it seriously (this is where Rouault comes into the picture) can grasp my meaning, and share my thoughts about those men, stubborn, difficult, fiery, severe, even violent a times - Elisha let the bear eat the boys who mocked him - yet, at the same time, tender; men fixed on the Word, who thought of nothing but the Word and had nothing else to give mankind but the Word. Because this is what Davide has become. And I also believe I know how this transfiguration came about, which path brought this painter , this man, to this new absoluteness, this reduction ad unum of his visions, to this way of painting, so heedless of what painters usually concern themselves with. I believe I know the source of the light I see in his weary eyes. He has experienced something quite unique, a long immersion in the spirit of that art which we call Byzantine and which we should simply call Christian, and I envy him for it. I use the word immersion, but perhaps I should say absorption, because it was as if he had lost himself, lost his reason, gone of f the rails, something shared by all the radical experiences of the soul. Because his reckless, unrestrained, totalitarian love for Byzantine icons really did contain elements of folly , like the recklessness of all who let themselves be wafted away by the Spirit. It was the risk he took, his passion and his gift. By continually observing and re-observing those icons, he adapted his heart to their rather disconcerting charm, learning to revere their secret grace. He let himself be illuminated and then set alight by their modest glimmer, listening to the silent words; he made of that unlikely kingdom his dwelling place and, by so doing, was
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able to see the icons for what they really were: not merely as objects of one art amongst the many arts of man, but as almost sacramental "signs" of the Truth, the truth of the divine and of man and history, of things and nature. Masters of painting, but above all, masters of feeling; discreet, yet convincing testimonies of the Presence. Having gained this knowledge - and God knows it would be a good thing if more artists and the whole of mankind today had at least an inkling of this spiritual experience - Davide could not help but paint as he now does; not like a Byzantine hagiographer, since there is little of the spirit of that art in the production of fashionable facsimiles, mere copies that line the shelves of boutiques selling so-called sacred art, but like a true Christian painter. He paints like a painter who has fixed his gaze on the things of God, on God's stories, on the stories of men of God, attacks by the forces of Evil, and the battles of the forces of Good. These things and indeed all things are now seen by him in the one Light and he tells them as they are told in the Bible, where he himself discovered them. He has become a "biblical" painter not by observing and reproducing the forms of these icons, but by losing himself in the spirit which informs them, obeying the "need" dictated to him, which is not that of a particular "style", but a condition of the soul; through this obedience he has become a Christian painter . Davide does not merely copy the icons because he has grasped their true significance only too well. We recognize rhythms, movements, relations; we find correspondences, allusions and indications as concise as a choreographer's notes, which remind us of the fundamental musicality of the icons. We see the iconographic rigor of the arrangement and attitudes of the figures, so essential to meaning; we find the parsimonious compendium of the stories. But beneath the extremely simple composition, beneath the accuracy of the citations, beneath the apparent conformity which seems to extinguish the old impulsiveness of my Viking, stifling his imagination, that impulsiveness remains. Though it may seem tamed, his imagination is free; his passion, evident.
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Piety, revolt, compassion and rage, denouncement, tenderness and forgiveness sing together a great song of Love. Before my eyes I seem to see his picture Annunciazione, where the slightest vibrations of light, the silent charm of the words of Luke come shining immaterially out of the canvas, as if from Beyond. I think of the almost human anguish of our Lord as he clasps his arms, cold and afraid, during that friendless night in the garden of Gethsemane, of His exhausted body lying on the earth that had soaked up all His blood, of thePuerpera Santa lying (in the Byzantine manner) in a shade of red, both regal and bloody at the same time. I think of the Pesca sul Lago where the windblown waves sparkle under a joyful early morning sky , like the Grecian waters of Sicily. I think of the fiery, dramatic prophets, the dazzling or barely perceptible angels, the mysterious guests in Abraham's tent, the killings, the nuptials, the loves told to us by the Bible and painted for us by Orler. These works are not to be found here but they nevertheless deserve a fitting presentation, because I firmly believe that this unique painter should be made available to those who seek, with a heart sincere, the true meaning and teaching of art. These paintings should be seen by the Church, which is nowadays in such confusion between the legitimization of the present and the fascination for the past, lest the present be, as it often is, a disappointing testimony to an empty void and the lessons of the past, nothing more than a lifeless exhumation. Among the pictures published in this volume - and the choice was difficult - I think of the immediacy of the images, the faithfulness of the narrative, the variety of colors, the turmoils of wind and fire, punishments, assumptions, nocturnal tempests, quiet pastorals, vigorous embraces, the merciful rescues, Moses dividing the waters as the wind would, the ramshackle pinnacles of Babel, the relentlessness of the divine plagues, the joy of the glory. I think of this Bible of the poor which Davide has given us back, these pages of God's alphabet which invite us to read and learn; we who are now illiterate and for getful of the Holy Writ.
Frammenti d’arte e di vita di DAVIDE ORLER
Un bambino è mondo in potenza; il suo animo, il suo carattere, le sue attitudini, tutto è già scritto in lui prima ancora che il tempo ne dia prova nella vita adulta. Sono un montanaro, ma la mia anima l’ho trovata a Venezia. L’ho capito subito. Ero poco più che un bambino, ma con la mia ostinazione e con quell’entusiasmo che viene dall’età, sono diventato parte di essa, l’ho vissuta, amata e rappresentata nei miei quadri a costo di mille sacrifici... Non avevo che quindici anni quando sono scappato di casa dal mio paese di Mezzano di Primiero per vedere la città dei miei sogni, la città costruita sull’acqua di cui tanto avevo sentito parlare da amici e conoscenti, da poeti e pittori innamorati, come dovevo esserlo io, dell’arte e della cultura che Venezia emanava. Quando ripenso a quei giorni mi commuovo ancora. Era l’inverno del ’46 allorché con solo pochi spiccioli in tasca a senza amici su cui fare af fidamento lasciai il mio paese per Venezia: era una vera pazzia, ma dovevo farlo e partii ugualmente. Dopo appena una settimana, non mi restavano che i soldi per il biglietto del treno di ritorno; dovetti tornarmene a casa. Le ultime notti, ben ricordo, le avevo passate all’addiaccio su quelle gelide panchine sotto i portici di Palazzo Ducale o, solo e indisturbato, nel pontile dei Giardini dove di notte il vaporetto non si fermava. Avevo perso quella sfida ma avevo guadagnato una seconda patria; sapevo che Venezia sarebbe stata un giorno la mia città per sempre. Sono il primogenito di quattro fratelli: Cesare, Carolina e Ermanno. I miei genitori, Giulia e Giuseppe, erano nati a cavallo del secolo, nel 1900 e nel 1899. Mio padre me lo ricordo come un uomo molto forte tanto di
Davide Orler nel suo studio a Favar o Veneto (primavera 2005).
carattere quanto di costituzione. Era figlio di un minatore, aveva respirato sin da piccolo la fatica e la durezza della vita in montagna. Spesso, dopo il lavoro in miniera, vedeva partire il padre nella notte per attraversare il confine con le gerle cariche dei contrabbandieri. Il contrabbando alla fine dell’Ottocento era quasi un mestiere nelle valli del Primiero. Dava ai valligiani la possibilità di guadagnare qualche soldo in più oltre al misero salario o ai proventi dei campi. I suoi fratelli avevano tentato la fortuna emigrando in America senza successo: uno era morto laggiù in un incidente e l’altro tornò al paese molti anni dopo a mani vuote. Anch’egli, come i fratelli, era andato in Germania a trovare lavoro, lasciando mia
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a convalescenziario per reduci di guerra. A noi era af fidato il pascolo delle vacche che il proprietario teneva per approvvigionare l’alber go di latte e, all’occorrenza, di carne fresca. Mia madre invece, sensibile e intelligente, raffinata pur avendo una cultura elementare, era casalinga e, come da tradizione a quei tempi, aveva seguito sotto il dominio austriaco un corso di cucito. Così oltre all’aiuto che dava a mio padre nei campi o nella conduzione della stalla, faceva per le donne del paese qualche lavoro di sartoria (molto abile nel ricamo, avendo segui-
Con l’amico d’infanzia Enrico Zeni, a Mezzano di Primier (1948).
o
madre, Giulia Schweizer, sola ad accudire i figli. Dopo qualche anno con nostra grande gioia mio padre fece ritorno. Da allora non si mosse più da Mezzano: era rimasto anche lui deluso dal mondo e aveva deciso di vivere nella sua amata terra. Da gran lavoratore qual era alternava il lavoro nei campi con quello al mulino del paese. Allo stesso tempo doveva pensare al pascolo dei suoi animali e alla gestione della stalla che aveva acquistato al ritorno dalla Germania. Io insieme a Cesare, mio fratello, dopo la scuola e durante l’estate facevamo i pastori su nelle malghe. Il più delle volte però la nostra paga era solo una forma di formaggio o un paio di salami da portare a casa. Era la fine degli anni ’30, la vita in paese era difficile per tutti. I campi, il bestiame, la lavorazione del latte, erano l’unica risorsa disponibile. Ricordo che da quando avevo nove anni sino forse a quattordici, passai il mio tempo libero, dopo scuola, a malga Tognola e malga Val Piana. Il mio mondo era la montagna. Per un certo tempo lavorai persino come aiutante formaggiaio. Poi nel ’43 e nel ’44 mio padre portò me e Cesare a lavorare presso l’Hotel Dolomiti di San Martino di Castrozza, proprio in quell’albergo che avrà tanta parte nella mia futura vita d’artista (negli anni della guerra i Tedeschi avevano trasfomato i tre alberghi di San Martino in un convalescenziario per gli uf ficiali dell’ Afrikakorps, reduci dal Nordafrica). Un luogo fascinoso che ancor oggi m’investe di nostalgia per quei tempi lontani. Allora era adibito 298
A bordo del dragamine "Fiordaliso" (Messina, estate 1952).
Sul dragamine "Fiordaliso" (Messina, 1952).
to un corso di merletto fatto a tombolo nelle scuole austriache, aveva realizzato preziose tovaglie da chiesa, lavorandovi per anni). Aveva uno spirito altruista e intraprendente. Fu lei a proporre a mio padre di affittare qualche stanza della casa a chi ne aveva bisogno. Per quanto poco potesse chiedere di affitto era pur sempre qualcosa in più per la famiglia, diceva. A quattordici anni per un po’ feci lo scalpellino in Val Noana, la valle che costeggia le Vette di Feltre fino al Passo Finestra. Avevo fatto anche il corso per imparare a tagliare la pietra. Pietra che poi diventava materiale da costruzione impiegato un po’ ovunque per fabbricare case, ponti, strade. La cosa più divertente era proprio incidere il mio nome sui sassi e abbozzare facce, figure e disegni di ogni tipo, sensazioni che mi porto dentro
ancora oggi. Poi, nel ’47, ebbi un brutto incidente: lavoravo insieme ai tagliaboschi all’arrivo della teleferica in Val Noana quando venni travolto da un grande tronco di una catasta. Il colpo mi tolse il respiro, caddi a terra schiacciato dal legname. I miei compagni accorsero immediatamente spaventati: in attesa dei soccorsi, ricordo che accesero un fuoco per riscaldarmi temendo il peggio. Poi in ospedale mi dissero che avevo tre costole rotte e che sarei dovuto rimanere a letto per due mesi se volevo riprendermi. Per un ragazzo come me, abituato a vivere all’aria aperta, non fu facile sopportare quei mesi di convalescenza. Di quei tempi ricordo ancora scolpita nella mia mente la morte di Vincenzo Zugliani, un ragazzo poco più grande di me, fratello di Donato, mio coetaneo e compa-
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A Palazzo Carminati (Venezia, 1960 circa).
gno di giochi. Stavano costruendo la galleria dopo il ‘Bus de la Vecia’ quando vi fu un crollo improvviso. Alcuni operai rimasero feriti. Vincenzo, che lavorava con loro, aveva però avuto la peggio. Io ero lì a poca distanza quando accadde il fatto e, una volta arrivato sul posto, vidi che era ormai moribondo: lo avevano appena estratto dalle macerie. Lo accompagnai in quegli ultimi momenti, parlandogli di Dio; cercavo di rassicurarlo in qualche modo. Ciò che ricordo è che insieme a me Vincenzo pronunciò una preghiera sino all’ultimo istante. Non era religioso ma con quelle parole riuscii forse a convertirlo o almeno ad avvicinarlo a Dio. A Mezzano di Primiero, terminate le scuole dell’obbligo, conobbi negli anni dell’immediato dopoguerra Riccardo Schweizer e con lui un ristretto gruppo di amanti dell’arte e della cultura, un piccolo cenacolo di intellettuali ansiosi e curiosi di esplorare quei nuovi fermenti che si facevano lar go in Europa. Fu proprio Schweizer, che abitava a pochi passi da casa mia, che mi introdusse nel difficile mondo dell’arte moderna. Aveva sei anni più di me e, cosa meravigliosa, frequentava la scuola dell’Accademia delle Belle Arti a Venezia: in una parola il centro dell’arte per qualsiasi giovane aspirante pittore. Nacque così un sodalizio ed un’amicizia che ci accompagnerà tutta la vita. Insieme a lui conobbi anche Zoltan Rakosi, uno scrittore e poeta ungherese fuoriuscito, a cui la mia famiglia dava ospitalità per arrotondare il
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magro salario di mio padre, che conduceva il mulino del paese. Rakosi era innamorato dell’Italia e di Venezia in particolare, dove poi riuscì ad avere la cattedra di lingue all’Università di Cà Foscari. Di quegli anni ricordo anche alcuni brevi incontri davanti al fuoco con Bruno Saetti, che veniva ogni tanto dalle nostre parti per riposarsi e per trovare il suo allievo Schweizer con cui amava discutere le nuove tendenze dell’arte moderna: confronti e scambi di idee a cui io, poco più che ragazzo, assistevo ammaliato. Il grande passo lo feci all’età di diciott’anni. Era finalmente arrivato anche per me il momento delle decisioni importanti; mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti a Venezia. Un sogno, quello dell’Accademia, che però non si sarebbe mai realizzato in pieno. Sapevo infatti che di lì a poco avrei dovuto partire per il servizio militare. Così in quel 1949, per evitare di essere trasferito negli alpini e soprattutto per amore del mare, anticipai la chiamata di leva arruolandomi volontario in Marina pur sempre con la speranza di poter finire un giorno gli studi. A quei tempi la ferma era di otto anni più uno di addestramento. Lasciai così con rammarico Venezia e l’Accademia, cui tanto avevo aspirato. Soltanto poi, con gli anni, mi convinsi che non c’era nessun percorso obbligato dell’arte, capii che creatività e originalità non avevano bisogno di maestri. Dopo il primo anno di addestramento a Taranto il resto della ferma lo passai imbarcato, prima sui dragamine, poi su corvette in servizio di pattuglia. Il compito che avevamo era quello di bonificare dalle mine dell’ultima guerra i mari italiani, soprattutto quelli siciliani e l’Adriatico. Furono anni intensi che mi diedero la possibilità di conoscere l’Italia, soprattutto il Sud, carico di colori e di quella luce intensa, così diversa da Venezia e dalle mie montagne del Trentino. Fortunatamente il nostro compito comportava lunghi periodi di stazionamento nella stessa zona e avevamo la possibilità di scendere a terra e stabilirci per qualche tempo nei porti che man mano andavamo a bonificare. Fu allora che sentii in me il desiderio irrefrenabile di dipingere. Dipingere seguendo il mio istinto, la mia passione, senza maestri e senza Accademie. Quello che vedevo e quello che sentivo lo
Nello studio di Palazzo Carminati a Venezia (inverno 1960).
traducevo di getto nella tela, senza ripensamenti, senza compromessi, alternando il lavoro a bordo con i miei pennelli, con il mio concetto di pittura. Tanto forte era il bisogno di dipingere di quegli anni che nulla poteva fermarmi. Ricordo quanto fosse difficile persino reperire le tele per i miei quadri ed ebbi l’idea di prendere le lenzuola delle amache e cucirle insieme per farvi un’unica grande opera a cui diedi il titolo di Mezzano. Ma non volevo solo dipingere, così lontano e distaccato dal mondo dell’arte com’ero, sentivo anche il bisogno di osservare e fare confronti, di vedere cosa stesse succe-
dendo in Europa e nel mondo in quel momento. Per questo non esitai mai ad usare le brevi licenze per visitare musei e gallerie, a costo di tornare stremato e af famato dopo giornate interminabili passate in treno o in traghetto. Per più di un anno fummo impegnati nella bonifica dello Stretto di Messina, le coste siciliane, le Egadi e Vulcano. Nelle lunghe pause tra un’uscita in mare e l’altra racconta ancora Orler - mi rifugiavo nella mia piccola casetta di Contesse, alle porte di Messina, che avevo preso in af fitto e usavo come studio. Lì nacquero gran parte dei miei quadri siciliani. Il calore di quella terra, i volti della gente, i fatti grandi e piccoli di ogni giorno, erano per me fonte inesauribile d’ispirazione. Come se ogni singolo fatto, ogni singolo sguardo, racchiudesse in sé tutto quel mondo in un tutt’uno indissolubile che dovevo in qualsiasi modo trasfigurare nelle mie tele con pari forza, con pari violenza. A quel periodo risalgono, tra gli altri, Terremoto a Salina , Stromboli, La vecchia siciliana e Scontro siciliano (ispirato ad un grave incidente stradale riportato dalle cronache locali, di cui ero stato testimone) e ancora Recupero degli alluvionati di Salerno. Quest’ultimo quadro mostra lo straziante recupero delle salme trascinate in mare durante l’alluvione di Salerno del 1953. Dopo alcune segnalazioni di pescherecci fu assegnato alla nostra nave il compito pietoso del recupero; uno strazio che non potrò mai dimenticare, con i corpi deformati da giorni di permanenza in acqua, gonfi e irriconoscibili. Gran parte della ferma in Marina si risolse così in un continuo peregrinare da un porto all’altro del Mediterraneo e poi, negli ultimi due anni, tra Napoli e La Spezia dove divenni istruttore presso il comando Maridepo. Vinsi alcune gare di tiro con la pistola e col moschetto, ma il mio sport preferito a quei tempi era il canottaggio. Ero capo voga e poco ci mancò che partissi anch’io per le Olimpiadi di Melbourne. Fui l’allenatore di Arrigo Menicucci, che conquistò la medaglia d’oro nella specialità otto-con. Purtroppo Menicucci morì tragicamente a Melbourne in un incidente stradale. Svaghi a parte, la pittura rimaneva sempre al primo posto nella mia vita. Come avevo fatto a Messina, anche a La Spezia riuscii a trovare un posto per dipingere.
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Gentilmente il comandante mi concesse l’uso della prigione, utilizzata saltuariamente per rinchiudervi i venezuelani ubriachi che a La Spezia seguivano i corsi della nostra Marina. Allora dipingevo persino sulle vecchie carte nautiche che il comando a mano a mano sostituiva con quelle più aggiornate. Fu proprio qui, a La Spezia, in quei due ultimi anni di ferma, che maturò in me una profonda e salutare crisi religiosa che dallo gnosticismo e panteismo esistenziale riportò in me i valori religiosi che avevo assorbito da bambino e che adesso trovavo suffragati da una nuova ener gia, più convinta e più radicata. Da qui partì la mia predilezione per i temi religiosi, visti, vissuti e sperimentati nell’arco di tutta una vita nelle forme e nei materiali più moderni e disparati: dalla tela al disegno su tessuto, dalle ceramiche alla scultura in ferro. Ebbi la convinzione e il presentimento che il filone religioso, ormai abbandonato perché considerato relegato al passato, avrebbe potuto riscattare l’arte moderna vista da molti, purtroppo, come mero esperimento creativo, gioco d’assurdi e di stravaganze ritenuti dai più inconciliabili con la spiritualità dei temi religiosi cristiani. Tempo dopo feci mie le parole di Paolo VI: “Non è possibile che l’arte moderna non possa servire all’arte sacra!”. E venne il 1958. Fu quello l’anno di svolta nella mia vita di pittore. Avevo terminato nell’autunno del ’57 i miei nove anni di ferma e feci la scelta più naturale: tornare a Venezia, stavolta per rimanerci. L ’eredità che mi lasciava la Marina era la scoperta di un mio nuovo modo di essere, di dipingere e di vedere il mondo. Essa mi permise di maturare la mia pittura, uscendo così definitivamente dal mondo naïf che mi aveva accompagnato fino allora. La Marina era stata la mia Accademia di Belle Arti. Sbarcavo a Venezia con un bagaglio voluminoso: oltre settanta quadri, lavori di diverso tipo e di tecniche diverse. La situazione a Venezia, in quel 1958, era ben cambiata. La città era diventata nel giro di pochi anni un centro artistico attivo: forse il più vivace in Italia. La Biennale era assurta ai massimi fastigi e indicava perentoriamente la strada all’avanguardia (il primo premio andò al pittore americano Tobey e allo scultore spagnolo Chillida). La Fondazione Guggenheim attirava pub-
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Nello studio del conte Bellati a Venezia, con Riccardo Schweizer e il fratello Willy (1959).
blico cosmopolita. Le grandi mostre d’arte antica del Comune si alternavano a quelle contemporanee di Palazzo Grassi. A Venezia operavano maestri come Guidi, Carena, Saetti, Cadorin, Cesetti, Viani, oltre a Santomaso, Vedova e Pizzinato. I fermenti spazialisti si imponevano. Insomma, avevo la possibilità di essere informato, di fare incontri e di stabilire amicizie. Anche le gallerie d’arte funzionavano: dal Cavallino alla Santo Stefano alla San V idal. La Fondazione Bevilacqua La Masa attirava i giovani (in quel 1958 fu Alberto Gianquinto ad ottenere il primo premio). La generazione dei vecchi “lagunari” (i Mori, i Novati, Dalla Zorza) era stata praticamente sostituita dai giovani emer genti: Barbaro, Borsato, Paolucci, Licata, Gianquinto, Zotti, Gambino, Magnolato e tanti altri. Entrai ben presto in questo fecondo crogiolo, in cui si scontravano le nuove poetiche neorealiste, neoespressioniste, astrattiste e informali. Senza perdere tempo riuscii a esporre i miei quadri a San Vidal, grazie anche all’invito di Carena che allora
era presidente dell’U.C.A.I. Subito dopo, visto il successo di questa prima mostra, fui invitato ad esporre alla Bevilacqua La Masa . Anche qui fui gratificato con il miglior riconoscimento della critica e ricevetti dalle mani di Diego Valeri, presidente della giuria, l’ambitissimo premio di una borsa di studio della durata di quattro anni a palazzo Carminati. Con i pochi quattrini che avevo guadagnato in Marina non sarei certo riuscito a mantenermi a lungo a Venezia; quella borsa di studio con cui mi si garantiva l’alloggio gratuito, mi ha dato la possibilità di continuare a dipingere nella città che amavo. Sempre in quell’anno, il 1958, ebbi la ventura di fare una mostra all’Hotel Dolomiti di San Martino di Castrozza. La mia fortuna fu che a San Martino in quei giorni vi fosse in vacanza un membro della commissione di critici del museo di Antibes, uno dei musei più all’avanguardia in Europa nel campo dell’arte moderna, divenuto in breve tempo famoso per le bellissime sale dedicate a Picasso. Casualmente vide la mia mostra e ne rimase subito entusiasta, tanto che volle presentarmi a Dor de la Souchère, noto critico d’arte francese e conservatore del museo. Ne venne fuori dopo pochi mesi una stupenda mostra (alla quale partecipò, grazie alla mia intermediazione, anche Schweizer) e forse uno dei miei più grandi successi. La critica francese fu prodiga di elogi per me, definendo i miei quadri, fatti con grandi sacrifici e con una povertà di mezzi assoluta, la migliore opera moderna di impianto naïf del momento. Esporre nel prestigioso museo d’Antibes, proprio nel “tempio” di Picasso, è stato per me un’emozione e un vanto, oltre che un fortunatissimo lancio internazionale negli ambienti dell’arte moderna. In effetti allora la Costa Azzurra era, quasi sostituendo Parigi, il centro dell’arte contemporanea. Non vi risiedevano soltanto Picasso, Matisse e Chagall: c’erano molti giovani che tentavano il successo, tra cui Stäel. Gli artisti cercavano nel sole del Sud la forza dei colori e dei sentimenti. Era l’ultima stagione dell’Astratto-Informale. Proprio nel museo di Antibes, proteso verso il mare, Picasso aveva dipinto i suoi quadri più felici, intinti di azzurro anche quando rappresentavano nature morte. Anche molti pittori italiani (tra cui lo stesso Guttuso) erano attirati da quel milieu artistico-mondano. Soltanto
A Palazzo Carminati (Venezia 1960).
a partire dal 1964, con l’arrivo clamoroso della Pop Art in Europa, il clima sarebbe cambiato. Ma io ero arrivato sulla Costa Azzurra nel periodo più intenso e fecondo e ben si può capire la mia soddisfazione nell’esporre proprio al Museo di Antibes. Oltretutto la mia era una pittura controcorrente. Ricordo quei tre mesi della mostra, da maggio a luglio, come i momenti più intensi e turbinosi della mia vita d’artista. L ’ambiente ef fervescente della Costa Azzurra in quel 1958 aveva in sé il lievito di un’epoca. Ricordo all’inaugurazione della mostra Jean Cocteau, Paul Eluard e Jacques Prevert, assieme a un folto pub-
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Nello studio a Palazzo Carminati di Venezia (inverno 1960).
blico mondano di amanti dell’arte d’avanguardia, di pittori, poeti e ricchi industriali, tutti in vacanza in quell’angolo di Francia. Anche i grandi maestri, considerati già allora come una specie di ‘semidei’ intoccabili, abitavano sulla Costa Azzurra: il grande Picasso nella sua magnifica villa “La Californie” e Marc Chagall a Saint Paul de Vence, vicino alla famosa cappella di Matisse. Io e Schweizer , giovani e bramosi di immer gerci in quell’ambiente vorticoso, riuscimmo a trovare il modo di far visita a Picasso. L ’occasione venne dal veneziano
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Egidio Costantini, che doveva incontrare il grande maestro per sottopor gli i suoi progetti di sculture in vetro e che accettò che lo accompagnassimo. Da qualche tempo a Venezia Costantini aveva avuto l’idea, a dire il vero originale, di fare eseguire dai grandi artisti del suo tempo bozzetti da volgere poi in vetro nelle fucine di Murano. Si sa che Costantini aveva ottenuto da Picasso, nel loro primo incontro, il permesso di realizzare in vetro un suo bozzetto. Io stesso vidi la meraviglia e quindi la soddisfazione del grande artista quando si trovò tra le mani l’inedita scultura. Accettò anche l’invito a firmare l’opera, ma al momento (ben mi ricordo la scena) non sapeva come firmare sulla superficie del vetro. Allora chiese a Françoise Gilot, la sua compagna, di dar gli il rossetto. Lo vidi tracciare appunto la sua firma col rossetto sul vetro... A parte ciò, nulla di memorabile successe in quel breve incontro; ma era l’esserci stati che contava, il privilegio di aver visto Picasso, nella confusione indescrivibile del suo studio, con i quadri sparsi dappertutto: lui istrionico, indocile e indomabile mentre osservava i vetri di Costantini. Tre mesi memorabili, ma anche di grandi sacrifici: un panino al giorno doveva bastare a sfamarmi. Persino la spedizione dei quadri ad Antibes era diventata un problema. Non avevo denaro a suf ficienza e fui costretto a ricorrere ad uno zio di Mezzano, Michele Schweizer, che per aiutarmi dovette vendere una vacca. Dopo questa parentesi francese tornai a Venezia per continuare il mio lavoro a palazzo Carminati, dove insieme a me avevano l’alloggio e lo studio molti altri pittori emergenti del tempo: Borsato, Barbaro, Gianquinto, Licata, Finzi, Boldrin ed altri, tra cui lo stesso Schweizer. Di quegli anni ricordo le mostre in giro per Venezia, le serate con gli amici pittori, ma anche la fame: sì, quella vera, perché se anche avevo l’alloggio gratuito tutto il resto dovevo pagarlo di tasca mia e a quei tempi non era facile per un giovane come me sopravvivere di sola arte. Ma, come si usa dire, il bisogno aguzza l’ingegno e trovai una soluzione anche a questo. Conobbi Arturo Deana, proprietario del famoso ristorante La Colomba e nel contempo grande appassionato d’arte. Arrivammo subito ad un accordo: un mio quadro per cinquanta pasti. Non potrò mai dimenticare l’apprensione con cui mi accingevo a dipingere certi quadri che dove-
vano letteralmente provvedere al mio sostentamento. Ma a poco a poco cominciai ad essere conosciuto negli ambienti artistici, sia a Venezia che fuori, e iniziai a vendere i primi quadri. Mandai le mie opere ad un concorso d’arte sacra a Bologna dove vinsi uno dei premi della giuria, alla Quadriennale di Roma (1963) dove vinsi la medaglia d’oro, al Premio Sassari (dove ricevetti il 1° premio con la Processione sar da) ed ancora alla Fondazione Bevilacqua La Masa, dove nel 1963 la giuria, presieduta dal professor Pietro Zampetti - e fu per me un avvenimento importante - mi assegnò il primo premio ex aequo con Vincenzo Eulisse. Verso la fine degli Anni Sessanta sentii il bisogno di dare sfogo alla mia creatività attraverso qualcosa di completamente nuovo: le ceramiche, la scultura e la composizione astratta su ferro. Proprio durante un’esposizione di mie ceramiche conobbi Carlo Scarpa, già allora famoso per le sue architetture e per il suo insegnamento all’Università, che volle acquistare una mia scultura fatta con un ciottolo di porfido della Val Noana. Come mi disse poi, l’aveva piazzata a completamento di una sua fontana, proprio nel mezzo, quasi a sembrare un annegato a fior d’acqua. Sperimentare e lavorare sempre: questo era ed è tutt’ora il mio motto, malgrado le incertezze che ogni tanto mi colpivano. Un giorno, per una crisi alla Rouault, gettai in acqua nel canale di San Vio a Venezia, nei pressi dell’Accademia, un carico di cinquecento ceramiche. Di questi lavori adesso rimane solo il ricordo in alcune fotografie dell’esposizione avvenuta alla Bevilacqua La Masa. Tra i tanti lavori di quegli anni ricevetti anche l’incarico dal conte Valerio Bellati, conosciuto durante una mostra alla Bevilacqua, di af frescare nella sua casa la sala da pranzo con il caminetto. Di quei giorni ricordo il freddo, la fatica e l’acqua alta che puntuale entrava nella stanza a piano terra che il conte aveva messo a mia disposizione come studio. Nei primi Anni Sessanta ritrovai, nel cenacolo di artisti di Palazzo Carminati, Tancredi. Tra noi v’era un’amicizia di vecchia data: c’eravamo conosciuti qualche anno prima, proprio perché quasi paesani e attratti dalla stessa passione, seppur in modo diverso, per l’arte e la pittura.
Il fratello padr e Cesar e Orler, missionario in T anzania (primi Anni Novanta).
Mi ricordo ancora i tempi quando mi passava le sue tele dipinte e poi scartate per uno guizzo d’ira e di rifiuto. Il nostro patto era che io avrei potuto usarle per dipingerle sul retro a condizione che coprissi la sua pittura abbozzata. Tra le tante tele di quegli anni che conservo deve essercene ancora qualcuna che porta quei segni e quelle macchie sul retro, più o meno cancellati. Agli inizi degli Anni Sessanta, comunque, Tancredi era già un artista di fama. I suoi quadri stavano prendendo la via di tutte le più importanti gallerie del mondo. La sua notorietà improvvisa, merito principalmente della sua stretta relazione con Peggy Guggenheim, gli dava un’aria di superiorità verso di noi che ‘campavamo’ grazie al premio della Bevilacqua La Masa. Un giorno mi propose di
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Davide Orler (in piedi, al centr o) e Riccardo Schweizer (a destra, seduto sul muricciolo), di fr onte all’ingresso del Musée Picasso ad Antibes (settembre 1958).
mostrare i miei quadri a Peggy Guggenheim e io naturalmente accettai. Era un’occasione che non potevo lasciarmi sfuggire; c’erano schiere di pittori che ambivano ad entrare nel suo entourage. Così, per un certo tempo, feci parte anch’io di quell’ambiente eccentrico e internazionale di Palazzo Venier dei Leoni. I miei quadri piacevano a Peggy e facevano bella mostra di sé tra le opere dei più famosi pittori e scultori di quegli anni, da Calder a Pollock, da Max Ernst a Picasso. Purtroppo, all’improvviso, tutto sfumò a causa di incomprensioni su alcune sue proposte da me disattese. Allora la casa di Peggy Guggenheim - quel Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande, da lei acquistato in occasione della Biennale del 1948 - era un andirivieni di artisti. Lei era curiosa di tutto, anche se preferiva l’arte
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astratta dal sapore surreale, dominando su tutti la gestualità parossistica di Pollock. Tancredi era il veneziano preferito dall’eccentrica mecenate americana (e dalla figlia Pegeen), che era considerato il pittore ‘nuovo’, già ben noto alla critica. È significativo il fatto che, prima del deplorevole ‘incidente’che troncò i nostri rapporti, la Guggenheim dimostrasse stima e interesse per la mia pittura, così diversa dai modi astratti che allora, nel momento del rigoglio delle poetiche informali, stavano diffondendosi a Venezia come in tutt’Italia. In quegli anni pensai più volte di stabilirmi a Parigi, come avevano appena fatto Licata e molti altri, seguendo la moda e la fortuna nella capitale francese. Parigi allora era il centro della cultura, era il ritrovo e il luogo di confronto di tutti i maggiori letterati e artisti del
tempo. Così, nell’estate del 1959, partii anch’io e per alcune settimane mi stabilii a Parigi. Purtroppo, però, non riuscii mai a trovare quella città aperta e sperimentatrice, capace di accogliere ogni forma d’arte e pensiero, di cui tutti parlavano. Anzi, quel mondo caotico e individualista invece che ispirarmi mi sof focava, mi opprimeva. Decisi, così, di tornare a dipingere nella mia amata Venezia, protetto e perfettamente a mio agio nelle familiari stanze di palazzo Carminati, almeno fino a quando non sarebbe terminato il periodo della borsa di studio nel 1962. Ecco che proprio allora una nuova prospettiva si aprì: nel ‘62 mio fratello Ermanno era sul punto di tentar la fortuna emigrando in Australia. Al che, io gli proposi, ben conoscendo la sua grande manualità, di aprire in città una bottega per la produzione di tele e telai. Paradossalmente, in quegli anni a Venezia, città d’arte per antonomasia, mancava un negozio che rifornisse i pittori della materia prima. Materia prima che invece nelle nostre valli in Trentino si trovava facilmente e a poco prezzo. L ’idea si dimostrò subito un successo: in breve tempo il negozio in campo Santa Maria Mater Domini divenne il punto di riferimento per tutti i pittori veneziani ed io mi trasferii insieme a lui in un appartamento proprio sopra il negozio, che diventò poi il mio studio dal 1962 in poi. A volte capitava che molti pittori senza un soldo chiedessero a mio fratello una tela nuova in cambio di un loro quadro, un loro bozzetto: cose a volte di poco conto, a volte preziose e raf finate. È così che, stando accanto a mio fratello, ma continuando sempre a dipingere, potei assistere da vicino all’evolversi della pittura di quegli anni, vedendo crescere a poco a poco quella strana galleria privata che aveva messo su nel retrobottega. Erano in molti, allora, i pittori che lasciavano qualche loro opera in cambio di nuove tele e telai, quasi che la tela bianca cui anelavano fosse certamente destinata a superare quella che consegnavano a mo’ di baratto. Ricordo Giuseppe Gambino, Renato Borsato, Carlo Hollesch, ma anche lo stesso Virgilio Guidi. Felice Carena spesso ci dava qualche suo disegno, più per simpatia che per bisogno. A Carena mi legava una profonda amicizia, quale poteva essere tra allievo e maestro, fondata sulla stima e riconoscenza per
Orler nel suo studio a Favaro Veneto (20 marzo 1971).
tutto quello che aveva fatto per me e per la mia pittura: un rapporto durato fino agli ultimi giorni della sua vita, cioè fino al 1966. Ma l’episodio più curioso che ricordo di quegli anni fu il salvataggio dei quadri del Museo di Cà Pesaro. Il 4 novembre 1966, giorno della funesta mareggiata che sommerse Venezia, Guido Perocco, allora direttore del Museo d’arte moderna di Cà Pesaro, chiamò allarmato
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Orler con i figli Stefano e Michele (maggio 1976).
me e mio fratello perché accorressimo immediatamente a salvare dall’alta marea le opere custodite nei magazzini del pianterreno del museo. Quella mattina recuperammo forse una cinquantina di opere tra quadri, cartoni e tele: da Gino Rossi a Fioravante Seibezzi e tanti altri tra i quali anche, se non mi sbaglio, il famoso Rabbino di Chagall. Erano le ultime acquisizioni del museo e, anche se molte tele erano già state lambite dall’acqua quando arrivammo, Perocco ci fu sempre riconoscente per il nostro aiuto. Quella per me è rimasta un’esperienza straordinaria, come uomo e come pittore. Sempre di quegli anni ricordo con nostalgia Virgilio Guidi. Lo vedevo spesso dipingere a Palazzo Ducale le sue celeberrime marine, proprio dal fondo del loggiato sul molo. Un giorno, amichevolmente, si fece avanti per cedermi il suo posto; parlammo a lungo della nostra amata città, della pittura, della luce e bellezza che la laguna emanava e che da quel punto si riusciva a coglie-
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re mirabilmente. Ero allora costantemente immerso nella pittura. Frequentavo gli studi di artisti come Campigli, Cassinari, i fratelli Bueno, Guttuso, oltre naturalmente a Carena, Cesetti, Music, Cadorin e tanti altri veneziani. Un volta ricordo andai a trovare Guttuso nel suo studio a Velate. Avevo portato con me una piccola tela di Picasso, Il pittore e la modella . Quando Guttuso la vide, se ne innamorò immediatamente, la voleva a tutti i costi, ma io allora non avevo nessuna intenzione di ceder gliela. La trattativa fu tanto lunga ed estenuante che finì in una ubriacatura, tra la disperazione di sua moglie Mimise. Andò a finire che accettai di scambiarla con alcune sue opere, anche se poi, anni dopo, capii che avrei fatto meglio a non cedere alle lusinghe di un’artista cocciuto e determinato, invaghito pazzo di Picasso, ma allo stesso tempo un amico, qual era per me Guttuso. Gli anni Sessanta per me furono molto intensi, in una città che era ancora al vertice dell’arte contemporanea. Assistetti, ad esempio, al trionfo della Pop Art alla Biennale del 1964; vidi e frequentai ambienti come Palazzo Grassi, dove esponevano artisti stranieri di vaglia, quali Max Ernst, Joan Mirò e i maestri del gruppo “Cobra”, soprattutto Jorn e Appel. Ogni due anni le Biennali erano un autentico avvenimento, ma non mi sentivo partecipe di una situazione che andava evolvendo (lo capii presto) verso un malessere generale. Con costernazione fui presente allo ‘sconquasso’ del Sessantotto, specie quando non soltanto i gruppi eversivi ma anche molti artisti volevano la fine della Biennale (“Biennale dei padroni, bruceremo i tuoi padiglioni”). Vi furono manifestazioni clamorose e cariche della polizia. Tutto questo lasciò il segno. Due anni dopo, nel 1970, prevalse la moda Optical Art e percettivista, con l’apparizione sconcertante degli happenings. Malgrado tutto, continuai a dipingere e, proprio in reazione al dilagante vuoto estetismo, mi dedicai alle tematiche impegnate: soprattutto a quelle religiose. Pur abitando io sempre a Venezia, quegli Anni Sessanta furono cadenzati da un ritmo serrato di mie mostre in Italia e all’estero. Oltre alle oramai familiari Bevilacqua La Masa e San V idal, partecipai a Roma ancora alla Quadriennale, a Milano alla Biennale e poi
fui presente a Novara e Vercelli, tanto per citare qualche luogo. Mi ricordo una mostra in particolare: quella fatta nel ’64 in una famosa galleria di via Montenapoleone a Milano, dove ho esposto insieme al tedesco Wols, il grande precursore dell’arte astratta. In quell’occasione capitò là anche Fontana e parlammo a lungo su cosa e come dovesse focalizzarsi l’arte moderna. Ci demmo appuntamento a piazza San Fedele per quella che doveva essere un’interessante chiacchierata, uno scambio di idee a tutto campo. Finì, invece, con una baruf fa memorabile, quando mi disse che, secondo lui, era definitivamente morto il mio modo di dipingere e soltanto la sua pittura aveva un futuro, solo l’astrattismo era il nuovo concetto che faceva fare un ‘balzo in avanti’all’arte contemporanea. In quell’epoca non potevamo essere più distanti: io ancora convinto del valore indissolubile del figurativo e lui totalmente proiettato nelle sue tesi assolutiste dell’astrattismo. Devo dire che allora la mia pittura, agli occhi del pubblico milanese, raf finato e desideroso del nuovo ad ogni costo, appariva come fuori tempo solo per il fatto che percorreva il solco della tradizione figurativa. Appariva, forse, fin troppo sanguigna, quasi primitiva se messa accanto ai Fontana e ai Burri che furoreggiavano allora. In quegli anni Milano stava sostituendo Venezia come centro più attivo in Italia per l’arte contemporanea: si capisce come Fontana volgesse le spalle alla ‘vecchia’ pittura figurativa. Era in corso un vero e proprio conflitto tra figurativi ed astrattisti. A Milano il pubblico borghese era sempre vicino ai Guttuso, Sassu, Migneco, Cassinari; ma la critica più avanzata, capeggiata da Franco Russoli, faceva ‘ponti d’oro’ ai giovani sia dell’Informale, sia del cosiddetto Realismo esistenziale. Prevaleva, in ogni caso, una pittura intellettualistica e sofisticata: proprio il contrario di quella spontaneità, magari grezza ma autentica, di cui mi facevo portavoce. Non solo: ma la sparuta pattuglia dei Neodadaisti, con in testa Piero Manzoni, stava aprendo le porte a un modo tutto diverso di dipingere. A Milano c’era anche un altro pittore ‘montanaro’, Fiorenzo Tomea: le sue maschere e le sue candele sembravano far parte di un altro mondo. Certo la mia pittura non poteva emer gere in quel contesto culturale, dominato da un certo snobismo.
Esposizione personale alla Bevilacqua La Masa (inverno 1960).
Nel 1967 mi sposai a Venezia. L’avvio della famiglia fu per me un fatto importante (tanto che alla fine avrò ben otto figli, tutti a me assai legati). Continuavo a dipingere indefessamente, anche se abbandonai l’attività espositiva. Evidentemente c’era in me un disagio per le nuove tendenze formalistiche che allora dilagavano, compreso l’avvento della Pop Art in Italia dopo il 1964, fino al Neodadaismo e all’Arte Optical e Concettuale. Come poteva adattarsi al nuovo corso un artista come me, pieno di fervore espressivo? Va a finire che, quasi per contrappeso, accentuai i miei motivi di arte sacra. Sulla scia di quella specie di crisi religiosa che aveva avuto a La Spezia durante il servizio militare, si moltiplicarono i quadri con episodi biblici: si parte da Caino e Abele e si arriva alla realizzazione di tutti i cinquantasei miracoli del Vangelo. Soprattutto negli anni tra il 1976 e il 1979 i temi religiosi mi impegnano a fondo. Qui si verificò il passaggio, pur graduale, dalla pittura alla scultura. Nascono le molte sculture: assemblaggi vari di materiali di recupero come legni, corde e mosaici. Sono opere sempre figurative nel fondo, ma tese ad una modernità forte, realizzate talora con la saldatura di lamiere e pezzi di ferro. È una produzione nel comples-
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so molto vasta: praticamente ancora sconosciuta al pubblico. Questa attività artistica esce anche, in certe occasioni, dai confini italiani, come quando realizzai una serie di af freschi nel Transvaal (1972) e in Tanzania (1978), dove mio fratello, padre Cesare Orler , era missionario. La curiosità culturale mi spinse anche in paesi lontani, come l’Iran e la Palestina. Nel frattempo un fatto straordinario avvenne nel 1965: qualcosa che da quel momento mi influenzerà per tutta la vita. In città capitò una compagnia teatrale del Bolshoi di Mosca per una serie di spettacoli al teatro la Fenice. Uno di questi giovani attori, una sera, dopo uno spettacolo, mi chiese se fossi interessato ad un af fare. D’un tratto tirò fuori da un panno lacero un’icona. Fu quella, per me, una folgorazione. Rimasi subito colpito da quella delicata immagine bordata d’oro. In quel momento mi tornò alla mente un episodio straordinario che vissi da ragazzo a Mezzano. Era appena finita la guerra e una donna del paese mi mostrò una minuscola icona, miracolosa - mi disse - proveniente dall’Ucraina. Aggiunse anche che grazie a quella suo figlio era stato uno dei pochi a scampare alla campagna di Russia e a fare ritorno a casa. Gliel’aveva donata una vecchia contadina ucraina nei giorni terribili della ritirata. Quella mamma devota con le sue semplici parole mi aveva fatto capire il significato recondito dell’icona: non un semplice oggetto devozionale, ma l’immagine terrena del Divino, la porta di una nuova, sacra dimensione spirituale. Da quel primo fatidico incontro era rimasto in me, assopito sino a quel momento, un senso misterioso di incanto e fascino. In quelle particolarissime tavolette dall’alone miracoloso, mostratemi dal ballerino del Bolshoi, v’era un’altra dimensione del dipingere, non più come espressione della personalità dell’uomo ma come puro, perfetto atto di devozione. Tutto questo era qualcosa di molto lontano da qualsiasi concetto di arte cui ero abituato in quegli anni, ma allo stesso tempo suscitava in me una forza magnetica irresistibile: forse la stessa che aveva scioccato Matisse durante il suo viaggio in Russia agli inizi del secolo e nella quale af fondano le radici di Chagall, fino all’ultima sua produzione pittorica, le grandi raffigurazioni della Bibbia, ora raccolte nel
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“Musée National Message Biblique”, sulle colline di Cimiez, presso Nizza. Dopo l’acquisto di quella prima icona e grazie ai suggerimenti dei giovani attori del Bolshoi riuscii, non senza dif ficoltà, ad entrare in contatto con le famiglie russe di fuoriusciti sparse in tutta Europa. Intrapresi, così, la strada del collezionismo attraverso numerosi viaggi soprattutto in Germania, a Berlino, Düsseldorf, Monaco e successivamente in Francia, dove viveva l’altra numerosa comunità russa. Ricordo ancora oggi, nonostante siano passati oltre trent’anni, gli incontri straordinari con questi personaggi sospesi tra due mondi, pieni di nostalgia per la patria perduta e nello stesso tempo alle prese con i problemi, anche finanziari, che la vita imponeva loro in un’Europa in pieno boom economico. Fra questi incontri forse il più importante e toccante fu quello con Efim Zolotyrskij, primo violino della Filarmonica di Berlino. Era scappato con la sua famiglia poco prima della Rivoluzione d’Ottobre, caricando in fretta tutto quello che di prezioso poteva essere trasportato sul treno. Riuscì, così, a salvare l’immensa collezione di icone antiche che la sua famiglia aveva raccolto in generazioni. Un patrimonio eccezionale, arricchito anche successivamente attraverso le sue conoscenze negli ambienti ortodossi, sia in Unione Sovietica che all’estero. In quell’appartamento di Berlino c’erano più di cento icone che abbracciavano cinque secoli di storia a partire dal Quattrocento. Provenivano dai grandi centri di culto e di produzione, come Mosca, Voronez, Smolensk, Novgorod, ma anche dai più sperduti villaggi della sterminata Russia asiatica; salvate a fatica dai fuoriusciti, trafugate, scampate alla distruzione comunista o tenute nascoste per anni avvolte in cenci in sof fitte o sotto i pavimenti di case rurali. Pur continuando nella pittura, stavolta con una rinnovata attrazione per i soggetti religiosi, le icone divennero per me la passione più intima. Sin dalla fine degli Anni Ottanta iniziai a pensare di creare un museo per le mie icone: non sopportavo l’idea che il tempo e le vicissitudini avrebbero finito per disperdere tutto. Ma, come si sa, un museo richiede un cospicuo finanziamento e degli sponsor che credano nel progetto, cosa tutt’altro che facile da trovare per una
forma d’arte, l’icona, che da noi ha avuto un pieno riconoscimento solo recentemente. Il mio sogno era di crearlo a Venezia. Volevo che fosse Venezia a ricevere questo mio ‘dono’ e per anni ho cercato una via in questo senso. Un museo di icone le spettava di diritto per eredità storica e culturale, in nome degli antichi legami con Bisanzio e con l’Oriente. Purtroppo, in laguna non trovai altro che porte sbarrate e il diniego delle istituzioni cittadine. A salvarmi fu la mia vecchia amicizia con i fratelli Bazoli. Conobbi Giovanni e Luigi già nel lontano 1958 alla mia mostra all’Hotel Dolomiti a San Martino, dove stavano trascorrendo le vacanze estive con la famiglia. Giovanni era un formidabile alpinista: ricordo che aveva appena scalato il Cimon della Pala quando mi venne a trovare in galleria e allacciammo, assieme a Luigi, una profonda amicizia che dura ancor oggi, uniti dall’età e dalla grande passione per l’arte. Furono loro, in un certo senso, i miei primi collezionisti e acquirenti. Tutto questo molto prima che Giovanni diventasse l’importante manager a capo del Banco Ambrosiano e, ultimamente, direttore della prestigiosa Fondazione Cini. Negli Anni Ottanta fu Luigi a spingermi a fare una grande mostra dei miei quadri a Brescia. E fu ancora lui più tardi che, ‘convertito’ da me alle icone, si prodigò per la realizzazione del museo. L ’intervento di Giovanni fu risolutore. Dopo alcuni mesi di dif ficili trattative economiche e diversi incontri con le autorità cittadine, finalmente nel 1997 a Palazzo Leoni Montanari a Vicenza ha preso vita il museo delle icone della collezione Orler, ultima definitiva tappa dopo varie mostre itineranti. Tornando ora a parlare della pittura, la creazione del museo delle icone a Vicenza mi ha dato una maggiore serenità e una nuova ener gia per continuare a dipingere e pensare finalmente a una mia grande antologica. Grazie nuovamente all’aiuto di Giovanni Bazoli, la Banca Intesa, con un gesto che io intendo quale debito di riconoscenza per la cessione delle mie icone al museo di Vicenza, ha già dato il suo patrocinio ad una esposizione itinerante di mie opere. Si è aperta a Bassano nel 2003 e dovrebbe proseguire in altre città. Dopo l’esposizione fiorentina sarà una grande soddisfazione vedere riunite anche in ulteriori mostre, presso altre sedi, tutte le mie opere più significative: dal Figurativo di impronta naïf
Davide Orler nel suo studio a Favar o Veneto.
dei tempi della Marina all’Espressionismo picassiano di fine Anni Cinquanta, dalle sculture neoprimitiviste in ferro o in legno degli Anni Settanta, sino ai soggetti religiosi su vari materiali di questo ultimo periodo. Sarà il completamento del mio lungo travagliato cammino nell’arte di mezzo secolo: un’eredità che lascio in custodia ai miei figli perché possano preservarla e valorizzarla nel futuro. Quasi un testamento artistico e spirituale Il percorso dell’arte, in particolare dell’arte cristiana, che ha cercato di trasmettere e tradurre quel dialogo che Cristo stesso volle infondere all’intera umanità, non poteva e non può che girare attorno ai vari soggetti storici, interpretandoli. Iniziando dalle più lontane fonti bibliche e giungendo ai Vangeli, dalle catacombe in poi l’arte cercò un nuovo linguaggio. L ’arte stessa tentò più volte di aprire la porta per arrivare al mistero divino, ma senza dare che qualche flebile intuizione di esso, rima-
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nendo spesso un balbettio dell’uomo che tenta di sviscerare quel mistero stesso, quella poetica che, una volta raggiunta potrebbe giustificare gli sforzi dell’artista. È questo, quindi, il compito dell’arte: tentar di tradurre quel messaggio che ci potrebbe condurre al mistero della contemplazione, esponendoci a quelle luci ‘taboriche’ che, in certi momenti, hanno raggiunto vette alte nell’iconografia occidentale e orientale. Dopo il Rinascimento lentamente l’arte perde sempre più quell’intima spiritualità che nutriva la Chiesa dei primordi. Agli inizi del Novecento, tutto sfociò in quell’assoluta libertà di frantumare e dimenticare ogni canone che potesse servire al proseguimento della strada intrapresa in passato. L’arte ha acquisito nuovi linguaggi, ma tutti rivolti all’arte per l’arte, ma senza il supporto per il quale essa avrebbe dovuto servire, quindi come una nuvola in balia del vento, fine a se stessa, farneticante nella pretesa di spiegare tutto e creare valori. E in ultima analisi, autentiche frodi che concorrono solamente a sorreggersi a vicenda in questa pseudoarte. Tutto ciò spinse Paolo VI nel 1964 a indirizzare quella lettera agli artisti, invitandoli a porre il loro operato al servizio dell’uomo e della Chiesa. Le nuove istanze artistiche devono essere rafforzate ed integrate, coniugando quanto è stato fatto nel passato, con le idee promosse dal Papa. La libertà assoluta di accogliere qualsiasi forma di religiosità, in una sorta di sincretismo religioso, non può che condurre ad un panteismo dissacrante, fine a se stesso, al trionfo della materia sullo spirito, sostituendosi ai veri ideali e valori che debbono essere perseguiti. Pochissimi artisti percepirono il pericolo e il baratro che l’arte aveva scavato agli inizi del Novecento, percorrendo una propria strada, priva di quel significato e di quella realtà spirituale verso cui deve tendere ogni sforzo umano. George Rouault fu il primo a capire ciò, avendo il coraggio di distruggere le vecchie opere e iniziare così una pittura di carattere esclusivamente religioso; lo stesso Marc Chagall af frontò temi biblici, influenzato forse dall’arte sacra russa, dopo aver trattato anche temi pro-
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fani e proseguì fino alle splendide realizzazioni nella cappella di Saint Paul de Vence. Lo stesso Matisse era stato folgorato dalla spiritualità delle icone; Felice Carena, nel suo periodo veneziano propose nelle ultime deposizioni un profondo pathos, carico di sofferenza e di amore per l’umanità crocifissa del Figlio di Dio. Infine, quella miriade di illustri santi monaci che, nel silenzio e nella preghiera, trasmisero all’umanità le loro invocazioni ‘scritte’ con le icone, icone così bistrattate, odiate e vilipese da quei funesti regimi, nefasti per l’umanità e che, purtroppo ancora in parte perdurano. Eppure, sebbene in forme diverse quell’orrenda iconoclastia atea e materialistica è, in fondo, riproposta ancor oggi in varie sedicenti forme d’arte e quel messaggio lanciato da Paolo VI, di rinnovarsi cioè nel vero mistero cristiano, è completamente ignorato e disatteso. Paul Gauguin, in una sua tela di Tahiti, si poneva il quesito esistenziale della vita dell’uomo e oggi, in quasi tutta la pittura contemporanea siamo sempre allo stesso punto o forse in una condizione peggiore, ignorando testardamente che tale domanda e la sua risposta se l’erano posta e avevano risolto il dilemma i primi cristiani con gli af freschi e i graf fiti delle catacombe. I popoli antichi dagli Egiziani ai Greci, dagli Etruschi ai Romani, a loro modo, erano stati assai più onesti e sinceri, esprimendo in pittura quel senso della vita in cui credevano. Noi abbiamo, invece, preteso che la materia da sola giunga a vette sublimi. Tutto ciò ovviamente presuppone una fede e un credo, bisogna aver prodotto in noi una rivoluzione interiore, mediante una crisi salutare e risolutiva che elimini ogni nostra negazione e ogni nostra primordialità bestiale, ritornando ai colloqui-preghiera quotidiani e notturni con le fonti eterne della vita, della nostra essenza tutto e del nostro fine, assolutamente certo e preciso. Tutto ciò che è estraneo a questo non è che una dispersione di ener gie preziose, rivolte a quei lidi spesso funesti, o comunque inutili che, come un falò distruggono lo spirito, così importante e ricco da poter cantare ed esaltare in eterno quel “motor che move il sole e l’altre stelle”.
Nota biografica Davide Orler nasce a Mezzano di Primiero, in Trentino, il 16 febbraio 1931. Autodidatta, si interessa di pittura fin da ragazzo insieme all'amico Riccardo Schweizer, più vecchio di lui di sei anni, che lo introduce nel «difficile mondo dell'arte moderna», come scrive l'artista stesso nella memoria-intervista redatta insieme a Martino Rizzi. Nel 1946, a soli quindici anni, lascia il paese natale per recarsi a Venezia, città dei suoi sogni: il brevissimo soggiorno di una settimana sarà suf ficiente a raf forzare la sua intenzione di trasferirvisi, appena possibile, per dedicarsi alla pittura. A diciotto anni, «per evitare di essere trasferito negli alpini e per amore del mare», si arruola volontario in Marina, ove resterà per l'anno di addestramento e per tutti gli otto anni regolamentari della ferma, cioè fino al 1957, imbarcato sui dragamine e su altre imbarcazioni in servizio di pattugliamento nei mari italiani, soprattutto nello Ionio e nel Canale di Sicilia. Nascono in questi anni i primi importanti paesaggi di Mezzano, altri scorci paesaggistici influenzati dalla luce e dai colori del Mediterraneo, roventi tele che registrano personaggi e vicende quotidiane (Stromboli, Vecchia siciliana) ed anche incidenti e tragedie che colpiscono a fondo il giovane ( Terremoto a Salina , Il recupero degli alluvionati a Salerno). Frutto fors'anche di questa dolente attenzione per il dolore dell'uomo, matura nell'artista un profondo travaglio spirituale che lo riavvicina alla religione e lo spinge verso l'arte sacra, filone espressivo che egli coltiverà negli anni successivi, dedicando un'attenzione particolare alla figura dell' Ecce Homo e del Cristo morto, fino a giungere alle rasserenate "visioni" vetero e neo-testamentarie degli ultimi dieci anni. Nel 1957, terminato il servizio nella Marina, Orler si stabilisce a Venezia, dove già nel marzo precedente ha tenuto la sua prima personale alla Galleria San Vidal. La sua opera riscuote immediato interesse nel vivacissimo ambiente artistico della Venezia di quegli anni, caratterizzato dalle ricche Biennali, dalla presenza di collezionisti e mecenati come Peggy Guggenheim e dalla continua attività di gallerie e associazioni come l'Opera Bevilacqua La Masa. Presso la sede di quest'ultima si tiene in novembre la seconda mostra dell'artista che espone 240 ceramiche, ben presto ripudiate e gettate in mare come atto di totale rifiuto. La personale gli vale in premio l'assegnazione per quattro anni di uno studio a Palazzo Carminati, dove già lavorano molti fra i più promettenti artisti veneziani. A questo periodo che può essere definito "picassiano" (valgono a dimostrarlo fra tante opere i Collages del I956, fa appunto seguito un profondo ripensamento che nell'estate del 1958 porta il giovane artista a mutare il suo linguaggio, cercando di riallacciarsi alle sue radici culturali per dar vita a una pittura figurativa in bilico fra
la descrizione minuziosa, analitica del paesaggio e dei suoi abitanti ed una dimensione di sogno in cui la realtà assume i colori della fiaba. Nell'autunno del 1958 l'artista trentino, grazie all'invito dei curatori, tiene una personale con le sue nuove opere al Musée Picasso di Antibes. È per Orler l'occasione per far conoscere il proprio lavoro in ambito internazionale e per incontrare alcuni fra i maggiori protagonisti della vita artistica e culturale del periodo, dallo stesso Picasso a Germaine Richier , da Jean Cocteau a Jacques Prévert. Si tratta di un'esperienza estremamente importante e formativa per il ventisettenne pittore che negli anni immediatamente successivi, rafforzata la fiducia in se stesso e nei propri mezzi espressivi, continua a dipingere con entusiasmo e a esporre i risultati del suo lavoro in continue mostre personali a Venezia, Novara, Vercelli, Brescia, alla Biennale d'Arte Sacra dell'Antoniano di Bologna, alla Biennale di Milano e alla Quadriennale di Roma. Lasciato l'atelier di Palazzo Carminati, nel 1962 il pittore apre con il fratello una bottega di tele e telai in Campo Santa Maria Mater Domini, bottega che diviene ben presto per gli artisti veneziani luogo di incontro e di scambio di opere, tanto che i fratelli Orler diventano anche un punto di riferimento per molti amici pittori, dei quali prendono a collezionare e a commerciare i lavori. Nel 1963 Orler si aggiudica ex aecquo con Vincenzo Eulisse il Primo Premio per la Pittura all'Opera Bevilacqua La Masa e in tale occasione la Galleria d'Arte Moderna di Ca' Pesaro gli acquista un grande dipinto dello stesso anno, Funerale a Mezzano. Mentre si ripetono anche i viaggi e i soggiorni in Italia meridionale e soprattutto nell'amata Sicilia - nel 1964 e nel 1970 Orler è ancora a Palermo, Sciacca e a Stromboli - nel 1965 inizia in lui quella passione per la pittura russa di icone che lo porterà a diventare anche un appassionato collezionista del settore. A causa di questo allar gamento (che è anche un mutamento) di interessi, il pittore continua a dipingere soprattutto per sé nel suo nuovo studio di Favaro Veneto, senza più curarsi di mostre e premi, e senza più aspirare a una presenza significativa sulla ribalta artistica nazionale. La sua produzione si mantiene però costante con sperimentazioni di tecnica e linguaggi diversi: dalla ripresa del collage nel 1968-1972 - con inserti nei dipinti a olio o acrilico di particolari di pitture bizantine e altomedievali - agli assemblaggi con materiali di recupero dei primi anni Settanta (ciclo degli Inquinamenti); dalla pratica della decorazione a fresco in chiese del Transvaal in Sudafrica, nel 1972, e della Tanzania, nel 1978, alle sculture in ferro della fine degli anni Settanta. Negli anni '90 Orler pare ritrovare una nuova giovinezza creativa con il ciclo de La Bibbia , un centinaio di dipinti dedicati al Vecchio e al Nuovo Testamento, e con la recente serie dei Miracoli.
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Biographical Notes Davide Orler was born in Mezzano di Primier o near Trento on February 16th 1931. A self-taught artist, his inter est in painting began as a boy together with his friend Riccar do Schweizer, six years his senior, who introduced him to the «difficult world of modern art», as the artist himself writes in the memoir -interview he compiled with Martino Rizzi. In 1946, when he was only I5 years old, he left his native village for Venice, the city of his dreams. His stay there actually lasted only one week, but even this was enough to str engthen his intention to move there as soon as possilole to devote himself to painting. At the age of 18, «to avoid the Alpine regiment, but also because I loved the sea», he enlisted in the navy , where he r emainedior a year of training and all eight years of the enlistment period, until 1957. He served on minesmeepers and other craft patr olling Italian coastal waters, especially the Ionian Sea and the Straits of Messina. These years pr oduced the first important landscapes of Mezzano, other landscape views influenced by the light and colors of the Mediterranean and intense works r ecording everyday characters and events ( Stromboli, Vecchia siciliana), as well as accidents and tragedies which made a str ong impr ession on the young artist (Terremoto a Salina, I1 recupero degli alluvionati a Salerno ). Perhaps as a r esult of this painful attention for the sorr ows of mankind, the artist thr ough a period of deep spirituval awakening, which drew him closer to religion and propelled him toward sacred art, an expr essive theme which he developed in the years that followed. He focussed particularly on the figur es in Ecce Homo and Cristo morto, before arriving at the consoling "visions" of the Old and New Testaments he has painted over the last ten years. When his military service was over, in the autumn of 1957, Orler settled in Venice, where in March of the same year, he had held his first personal exhibition at the San V idal gallery. His works immediately roused a certain amount of interest in the lively artistic environment of contemporary V enice, characterised by the rich Biennale, the presence of collectors and art patrons, such as Peggy Guggenteim, and the constant activity of galleries and associations like the Bevilacqua La Masa Foundation, wher e Orler's second exhibition was held in November . The artist exhibited 240 ceramic pieces, which he later r epudiated, throwing them into the sea in an act of total r ejection. However, the exhibition won him a four -year scholarship of a studio in Palazzo Carminati, wher e many of the most promising Venetian artists worked. This may be defined as his “Picasso” period, as testified by the Collages of 1956, among many other works. In the summer of 1958, as a r esult of pr ofound reflection, Orler changed his artistic language, attempting to contact his cultural roots to produce figurative art which balances a detailed, analytic description of the landscape
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and its inhabitants with a dr eam-like dimension in which r eality takes on the colors of folktales. In the autumn of 1958, Orler was invited to exhibit his new works at the Musée Picasso in Antibes by the curators. It was his opportunity to r eveal his art to an international public and meet some of the gr eatest protagonists of the artistic and cultural life of the time, including Picasso himself; Germaine Richier , Jean Cocteau and Jacques Prévert. For the twenty-seven-year -old painter, it was an extr emely significant formative experience which confirmed his faith in himself and in his means of expr ession, enabling him to continue to paint with great enthusiasm and exhibit the fruits of his labour in a series of personal exhibitions in V enice, Novara, Vercelli, Brescia, at the Biennale d'Arte Sacra dell'Antoniano in Bologna, at the Biennale in Milan and the Quadriennale in Rome. Once the scholarship finished, Orler left his studio in Palazzo Carminati and, together with his brother, opened a shop supplying frames and canvases in Campo Santa Maria Mater Domini in 1962. The shop was soon a place for Venetian artists to meet and exchange works, and the Orler br others became a point of r eference for many painterfriends, whose works they began to collect and trade. In 1963 Orler shar ed the Bevilacqua La Masa Foundation's First Prize for painting with Vincenzo Eulisse and on that occasion the Ca' Pesaro Gallery of Modern Art bought Funerale a Mezzano , a large picture he painted in the same year. On a number of occasions, he returned to visit the South of Italy and particularly his beloved Sicily, going back to Palermo, Sciacca and Stromboli in 1964 and 1970. In 1965, an enthralling passion for Russian icon painting was kindled in Orler , which also led him to become a collector of the genre. With this br oadening of inter est and change of dir ection, Orler continued to paint mainly for himself in his new studio in Favar o Veneto, with little r egard for exhibitions and awar ds, and without aspiring to the national artistic limelight. Nevertheless, he kept producing as much as befor e, experimenting with various techniques, including: a r enewal of collage from 1968-1972, with inserts of details from Byzantine and late medieval paintings in oil and acrylic pictures; assemblages with waste material in the early I970s (the Inquinamenti cycle); fresco decoration in chur ches in Transvaal in South Africa, (1972) and T anzania, (1978); and finally ir on sculitures at the end of the 1970s. In the I990's Orler found new cr eative zest with the cycle La Bibbia, a hundred or so paintings on themes from the Old and New Testaments, and the recent series of Miracoli.
Brevi note storiche sulle due sedi della Mostra fiorentina di GIAMPAOLO TROTTA
Il Palagio dei Capitani di Parte Guelfa L’antico complesso architettonico sor ge nel centro storico fiorentino, non distante da Ponte Vecchio, ai margini del medioevale Gonfalone della Vipera, facente parte del Quartiere di Santa Maria Novella. Sostanzialmente è costituito dal Palagio dei Capitani di Parte Guelfa vero e proprio, dalla sede trecentesca dell’Arte della Seta e dall’ex chiesa di San Biagio, anch’essa di origine medioevale (talvolta erroneamente identificata con l’originaria e vicina chiesa di Santa Maria sopra Porta, di più antica fondazione, qui traslata solo dopo che la prima costruzione fu distrutta da un incendio). La prima sezione della presente mostra, dedicata al pittore Davide Orler, occupa tre ambienti del Palagio di Parte Guelfa: il maestoso Salone del Brunelleschi, la Sala del Camino e la Sala dei Drappeggi, collegante il primo alla seconda. Originariamente i Capitani di Parte Guelfa, istituiti dopo la definitiva vittoria sulla Parte Ghibellina nel 1265, si riunivano nella rammentata chiesetta di Santa Maria sopra Porta, ma nel 1267 furono acquisiti i primi lotti per erigere un’opportuna ed autonoma sede, là dove vennero abbattute le case e le torri dei ghibellini Lamberti. La primitiva costruzione, ampliata dopo un vasto incendio che devastò la zona nel 1304, nel 1319 era costituita da un edificio con tre botteghe al pianterreno (caratterizzate dai consueti accessi a fornice centinato, in conci di pietra forte) e, superiormente, con la sala e l’ambiente del “Messo de la Parte” (“chasa chon volta
L’antica chiesa di San Biagio e il Palagio di parte Guelfa (sulla destra) nel quattrocentesco Codice Rustici.
nuovamente facta”). In stato avanzato nel 1322, nel 1324 verrà ultimato il nuovo “ambiente per farvisi entro i Consigli de la Parte”, con due ulteriori botteghe terrene, edificando un lotto già di Messarione de’ Guidi: “una grande, e bella Sala, chon belle, e doppie panche, et aringhiera, ed è tutto in volta, chon uno chonsigliatoio da lato o sacrestia”, che occupa porzione di un precedente chiasso, verso Oriente. Prospiciente la piazzetta di Santa Maria sopra Porta, a Nord, si trovava “una grande e bella schala di pietra choperta di uno bello tetto”. Tale scala esterna, di accesso al primo piano del severo palazzo merlato, ci è documentata dal Codice di Marco Rustici, del 1448 circa. La facciata, con una grande bifora gotica (in parte ricostruita nel Novecento), verrà decorata con un af fresco di Gherardo Starnina (1354 circa - ante
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L’odierna Sala del Camino, in antico Sala del Consiglio della Parte Guelfa.
Il Palagio di Parte Guelfa veduto dall’omonima piazzetta; sulla sinistra è l’ex chiesa di San Biagio.
1413), risalente al 1406, non più esistente e che rappresentava San Dionigi e la città di Pisa espugnata dai Fiorentini. Internamente, la sala principale (attuale Sala del Camino) era stata affrescata da Giotto (1267?-1337), ma anche tali pitture murali, purtroppo, sono andate distrutte. L’ampliamento in direzione di via Por Santa Maria (“in sul canto di Terma e di Capaccio”) si ottenne con l’addizione di due susseguenti corpi di fabbrica. Il primo, rivolto a Sud, lungo l’antica via delle Terme, e destinato alla cancelleria, fu eseguito tra il 1415 circa ed il 1426; i lavori, dopo una breve interruzione attorno al 1423, erano ripresi nel 1425. Innalzato su precedenti costruzioni acquisite nella seconda metà del Trecento (1359/1377), è qualificato da una fronte scandita da quattro assi di finestre centinate, aperte in una muratura
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inferiormente a filaretto in conci di pietra forte e superiormente disegnata con finti conci a graf fito. La seconda fase di ampliamento inizia il 16 marzo 1430, con la demolizione di alcune case contigue, verso Oriente, e nei documenti del 1431 si parla già del “Palagio e muramento nuovo”, che comporterà anche la demolizione di un breve tratto del corpo di fabbrica ristrutturato pochi anni prima. Il gran salone fu commissionato a Filippo Brunelleschi (1377-1446), secondo la biografia dell’architetto scritta da Antonio Manetti, ma inizialmente, prima dell’intervento brunelleschiano, vi aveva lavorato Francesco della Luna (1373 - post 1440), edificando il piano terreno o parte di esso, isolato su tre lati (quelli meridionale, orientale e settentrionale). A lui dobbiamo, verosimilmente la colonnina posta in angolo tra via delle Terme e via di Capaccio, tipologicamente
La Sala cosiddetta “dei Drappeggi”, collegante il settor e tr ecentesco a quello quattrocentesco.
La Sala delle Udienze.
ancora propria dell’architettura due-trecentesca. Divergenze con la committenza condussero alla sostituzione di Francesco della Luna con il Brunelleschi, ma ciò attorno alla metà degli anni Trenta (forse dopo che era rientrato trionfalmente a Firenze Cosimo il Vecchio, nel 1434) e non, come è stato spesso ripetuto, verso il 1418/1420. Non è dato sapere se nell’af fidamento al Brunelleschi abbia giocato la sua amicizia con l’umanista Leonardo Bruni, che nel 1419 aveva redatto i nuovi statuti della Parte. Il piano superiore brunelleschiano, il cui prospetto maggiore, realizzato in un liscio bugnato, presentava quattro assi di imponenti finestre centinate (interiormente riquadrate entro una cornice rettangolare), mostrava per la prima volta, al di sopra di una trabeazione marcadavanzale d’ordine ionico, grandi lesene angolari nella
facciata rivolta ad Est (i “pilastri piani di fuori”, come li definisce il Manetti), antiquæ elegantiæ che l’Umanesimo desumeva dall’antichità classica e segnatamente da quella romano-imperiale. Un terzo pilastro è ripetuto anche nel prospetto meridionale, a definire l’angolata (il quarto forse non è dovuto al progetto originario brunelleschiano). Sostanzialmente, l’edificio si può considerare il prototipo del palazzo rinascimentale, insieme all’altro, sempre brunelleschiano, ideato per Luca Pitti; il nostro, però, più vicino a quello che sarà il palazzo edificato per Bernardo Rucellai da maestranze rosselliniane su progetto di Leon Battista Alberti, influenzerà maggiormente la tipologia residenziale signorile del Cinquecento. La Sala Nova è illuminata da sei ampi finestroni centinati (quattro rivolti ad Est e due a Sud), sormontati da
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Veduta della Sala Nova, posta in angolo tra via della T erme e via di Capaccio; all’estr ema destra si nota la sede dell’Arte del la Seta (da BENZI, BERTUZZI, 2001/2002).
grandi oculi circolari (mai conclusi dal Brunelleschi), destinati, secondo il parere di taluni storici, ad accogliere bassorilievi in terracotta invetriata (ma, forse, finestre circolari che si dovevano aprire in corrispondenza della volta a botte interna, mediante il raccordo di unghie). Il cantiere non era ancora giunto al termine nel 1446, quando il Brunelleschi morÏ. Solamente dopo la sua morte si mise mano all’interno del salone al primo piano (oggi Salone del Brunelleschi), alto quasi dodici metri e qualificato da sedici alte ed elegantissime lesene corinzie in pietra serena (cinque lungo i lati maggiori, tre su quelli minori), con il fusto scanalato e rudentato, che scandiscono, mediante il loro ordine gigante, le bianche superfici; nel 1452 lavorava a tali lesene lo scultore e bronzista Maso di Bartolomeo (m. 1456), attivo nella bottega di
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Michelozzo e a Urbino e che, in quello stesso anno, lavorava nel palazzo dei Medici in via Lar ga (odierna via Cavour) e alla SS. Annunziata. Forse il salone avrebbe dovuto essere concluso da una trabeazione che corresse sopra le lesene, sovrastata dalle finestre circolari e sulla quale si impostasse una volta a botte con lacunari, di tipo termale romano-imperiale, richiamandosi alle tipologie antiche del tempio, della basilica e della curia, care a Leon Battista Alberti (1404-1472), che proprio nel 1452 ultimava il suo De re aedificatoria ed aveva ispirato il tempietto di San Miniato al Monte (dove avevano lavorato, nel 1451, lo stesso Maso di Bartolomeo, a contatto con maestranze albertiano-rosselliniane). Le citazioni spaziali provengono, inoltre, dalla basilica termale romano-imperiale e segnatamente da quella di Massenzio (ma nel Quattrocento ritenuta un tempio),
In alto: la fronte del Palagio, rivolta veso via di Capaccio; sotto: particolare del prospetto della Sala Nova e dell’ordine interno.
Scorcio del prospetto del Palagio su via di Capaccio.
come pure dall’architettura che compariva rappresentata a bassorilievo in alcune urne classiche. Un portale architravato ionico ( more antiquitatis ), presente nel salone, fu sormontato da una lunetta raf figurante la Madonna con il Bambino tra due angeli , di Luca Della Robbia (1399/1400-1482), altro socio nella bottega di Michelozzo e “chompagno” di Maso. Anche gli ambienti trecenteschi vennero ristrutturati e la Sala delle Udienze dei Giudici Conciliatori e il piccolo ‘Consigliatoio’ ricevettero importanti opere, come l’elegante portale marmoreo (con ante rivestite di bronzo dorato da un lato - di ambito ghibertiano - e ad intarsio ligneo raf finatissimo dall’altro), talvolta attribuito a Benedetto da Maiano (1442-1497) e recante il bassori-
lievo con la Trinità, opera di Donatello (1386?-1466), ed un lavabo, oggi andato perduto. In seguito, però, l’edificio non sarà mai ultimato, a causa del decadere del potere e dell’autonomia dei Capitani di Parte di fronte all’egemonia dei Medici, oramai indiscussi e assoluti signori di Firenze. Nel 1558 la porzione dell’edificio con il salone quattrocentesco fu concessa dal Granduca Cosimo I al Monte Comune (Monte di Pietà). Nel 1559 Gior gio Vasari (1511-1574) riadattò questo settore a sede degli archivi del Monte Comune: a lui dobbiamo il grandioso sof fitto a lacunari del salone stesso, lo scalone a due rampe per il nuovo collegamento (compreso il portale di accesso dalla strada) e la loggetta esterna angolare, rivolta verso 319
Progetto di r estauro e di integrazione del Palagio di Parte Guelfa elaborato da Guido Car occi e da Giuseppe Castellucci (Archivio del Museo di “Firenze com’era”).
Il Palagio di Parte Guelfa come si presentava dopo le distruzioni operate dai T edeschi nell’agosto del 1944 (Ar chivio del Museo di “Firenze com’era”).
via di Capaccio. Il settore medievale continuò ad ospitare gli uffici della Parte Guelfa. Soppressa la Magistratura di Parte nel 1769, dopo la realizzazione di una nuova scala nel 1770, dal 1781 il palazzo divenne sede della Comunità di Firenze, voluta dal Granduca Pietro Leopoldo, Comunità che vi fu ospitata fino al 1846. Dopo alterne vicende e varie destinazioni d’uso, nel 1880 l’intero complesso fu dato alla Compagnia dei Pompieri e solamente tra la fine dell’Otto e gli inizi del Novecento fu oggetto dei primi studi monografici (da parte dell’“Associazione per la Difesa di Firenze Antica”, nonché di Jodoco Del Badia nel 1902 e di Cornelius Von Fabriczky nel 1904), in vista anche di un suo recupero. Nel 1921-1922, infine, fu restaurato dall’architetto comunale Alfredo Lensi, che ricostruì in stile la scala esterna (la lunetta sopra la porta
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di ingresso è del Giovannozzi e sostituì un originario affresco di Giotto). Nella Sala del Camino (il trecentesco salone principale) la cappa fu decorata con lo stemma recante l’aquila di Parte Guelfa, mentre le capriate vennero ‘ripristinate’ e dipinte. La Sala dei Drappeggi, rimaneggiata nel Primo Quattrocento, ebbe, invece, il sof fitto dipinto a foggia di broccato rosso e oro. Altri ambienti significativi, restaurati in stile, furono la Sala delle Udienze (con il sof fitto a cassettoni recanti soli dorati e con le pareti decorate con gigli d’oro su fondo azzurro) e il Consigliatoio. Il complesso subì gravi danni in conseguenza delle mine tedesche che nel 1944 fecero saltare in aria buona parte degli edifici di via Por Santa Maria. Restaurato dopo la guerra (negli Anni Cinquanta) e poi nuovamente nel 1992, fu parzialmente danneggiato dalla bomba
L’odierno Salone del Brunelleschi, antica Sala Nova quattr centesca (foto di Marco Rabatti).
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Portale della Sala Nova con la sovrastante lunetta di Luca Della Robbia (foto di Marco Rabatti).
Alfredo Lensi, pianta pr ogettuale per la nuova scala esterna, 1921 (Archivio dell’Ufficio Belle Arti del Comune di Firenze).
posta dalla mafia in via dei Geor gofili, il 27 maggio 1993. Attualmente, alcuni degli ambienti (Sala del Camino, Sla dei Drappeggi e Salone del Brunelleschi) sono impiegati dal Comune di Firenze per varie manifestazioni a carattere culturale, compresi mostre d’arte contemporanea ed importanti convegni. Il palazzo è anche sede dell’istituzione del Calcio in Costume Fiorentino.
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La chiesa ed il Museo Diocesano di Arte Sacra di Santo Stefano e Santa Cecilia al Ponte Vecchio Non distante dal Palagio dei Capitani di Parte Guelfa, ad Oriente di via Por Santa Maria, sor ge la chiesa di Santo Stefano, che ospita la seconda sezione della mostra dedicata a Davide Orler (chiesa, cripta e chiostro). L’edificio sacro è di antica origine: documentato già nel 1116 (quando ne era priore Rambaldo), la sua fondazione risale verosimilmente al 969 ( Ecclesia Sancti Stephani ad claustrum ovvero detta in seguito ad pontem veterem - anche de capite pontis - o ad portam ferream, dalla vicinanza all’antico ponte sull’Arno e alla porta urbana di Santa Maria, corrispondente a quella decumana d’età romana); aveva un impianto basilicale a tre navate, suddivise da colonne marmoree, ed era disposto secondo la consueta direzione Est-Ovest, con l’abside rivolta verso Oriente. La chiesa era anche detta Santo Stefano de’ Lamberti, dal nome della rammentata famiglia ghibellina che fece numerose elargizioni in suo favore e forse ne fu patrona. Ricostruita ad unica navata ed ampliata a partire dal 1233 circa per volere del priore Fede (i lavori, però, si protrassero almeno fino agli anni Sessanta ad opera del priore Orlando e, forse, sino agli inizi del Trecento), della precedente fase romanica della chiesa permane la porzione inferiore della facciata a filaretto, qualificata dai due portali laterali, sormontati da eleganti bifore, con le colonnine e le ghiere degli archetti in marmi bicromi. Il settore superiore della facciata, con tre ampi finestroni e un coronamento ad archetti ciechi, ed il bel portale centrale (in marmi bianchi di Carrara e verdi di Prato) risale all’ultima fase gotica del cantiere medioevale (la parte di destra è stata ricostruita dopo i danni subiti durante la Seconda Guerra Mondiale). Ancora esiste, lungo la parete longitudinale sinistra della chiesa, una cappella con pilastri in pietra forte, i cui capitelli a foglie d’acanto, però, sono stati ampiamente restaurati in epoche recenti. Il tetto a capriate, già datato al 1273, dovrebbe, invece, risalire ad un secolo più tardi, voluto dal priore
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La facciata della Chiesa di Santo Stefano al Ponte.
Ubaldino di Bonamico (m. 1400), in seguito vescovo di Cortona e poi Arcivescovo di Sassari. Del tardo Quattrocento è l’af fresco con Tobiolo e l’angelo, un’opera di ambito ghirlandaiesco, recentemente riscoperta in un ambiente, a sinistra della navata e costituente in origine porzione di un chiasso. al XVI secolo (1568?) risale la costituzione, in alcuni ambienti della canonica e poi convento, della Compagnia di San Luca, che radunava numerosi artigiani e orafi della zona. La cappella si trovava ubicata parallelamente al vicoletto Marzio, con l’altare presso la parete rivolta verso via D. Girolami e l’Arno (ancora esiste, all’interno di moderni ambienti, ricavati nell’ex aula dopo la soppressione settecentesca).
Una delle bifore romaniche nella facciata della chiesa.
In alto a destra: l’interno della chiesa come si pr esenta attualmente. Di lato: l’interno della chiesa prima degli ultimi r estauri che hanno riportato in luce il loggiato in alto, a destra del pr esbiterio.
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Sopra: scorcio dell’interno in direzione del presbiterio. A sinistra: particolare con il doppio ordine corinzio nella parete longitudinale destra; all’interno è la mostra dell’or gano. Sotto: scorcio dell’interno in direzione della controfacciata, con gli altari laterali cinquecenteschi.
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Scorcio del presbiterio con il coro retrostante.
Un altro scorcio del presbiterio in direzione della cappella laterale destra.
Alla seconda metà del Cinquecento sono databili anche gli altari frontonati laterali, lungo la nave, ancora esistenti (quattro a destra, tra i quali quello della Compagnia di San Luca, e tre a sinistra, tra i quali quello della famiglia Gucci Tolomei) e le due porte laterali, che immettevano una nel chiostro ed una nel lungo corridoio conducente a via Lambertesca. Originariamente gli altari erano dodici, dei quali due in controfacciata; quelli più prossimi al presbiterio erano stati realizzati nel 1576 (altare di destra, del SS. Crocifisso, di patronato di
Giovanni di Domenico Mori) e nel 1605 (altare della Madonna della cintola). Nel 1585 la chiesa, che costituiva una prioria, fu concessa agli Agostiniani della Congregazione di Lecceto. Tra il 1631 ed il 1641, quando era Granduca di Toscana Ferdinando II, il marchese Anton Maria Bartolommei (il cui palazzo sor geva nei pressi, in via Lambertesca) iniziò la ricostruzione dell’interno, già ideato nel 1630 (la prima pietra fu posta il 13 dicembre 1631).
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In alto a sinistra: scorcio della cupola del presbiterio e , a destra, di quella della cappella laterale. Sopra e sotto: due vedute del coro. Di lato a sinistra: un particolar e del soffitto ligneo a lacunari del coro.
Nel 1635 si lavorava al piano interrato, al di sotto del presbiterio (prevalentemente opere di consolidamento) e alle demolizioni dei precedenti edifici, che si protrassero fino al 1636. In quello stesso anno fu eretto il campanile e Luca Landucci ci ricorda che nel cantiere di Santo Stefano allora “era già stata ultimata quella parte del coro con l’abside presso l’altar maggiore”. Verosimilmente in quell’anno si ebbe una variazione al progetto originario, o, forse, ma a nostro avviso meno probabilmente, un cambiamento dell’architetto che
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In alto a sinistra: un particolare scultoreo, raffigurante una testa di cherubino, in uno degli scranni del cor o. Sopra: una veduta della cripta.
A sinistra: scorcio delle volte di copertura della cripta secentesca.
ipoteticamente affiancava il Bartolommei. Tale progetto iniziale (del quale si è conservata una pianta) prevedeva una nuova zona presbiteriale con tre cappelle (dietro quella maggiore era posto il coro) e due ulteriori cappelle alle testate del transetto. Nel 1637 si lavorava alle fondazioni di quella parte del coro non ancora eseguita (o modificata) e si realizzava l’andito di lato alla chiesa, verso il convento (ciò che comportò l’eliminazione delle cappelle inizialmente previste a conclusione del transetto). Nel 1640 furono iniziate a mettere in opera le membrature architettoniche della cripta e nel ‘41 quelle della superiore cappella maggiore ad opera dello scalpellino Benedetto Betti e dei suoi compagni. Dopo tale data si ebbe un rallentamento nelle opere del cantiere, forse in
conseguenza della morte del Bartolommei. Architetto della “fabbrica” fu lo stesso Bartolommei, coadiuvato in parte dall’ingegnere Andrea Arrighetti (1592-1672), almeno per quanto concerne il convento (dal 1639, ma forse sin dal 1637, se non già nel 1634). L’Arrighetti fu amico e seguace di Galileo Galilei, stimato da Torricelli e da Viviani, membro dell’Accademia della Crusca fin dal 1613. Il settore absidale, con la cripta e la parte presbiteriale, compresa la cappella del fonte battesimale sulla destra, venne ultimato solo nel 1655 dagli eredi del marchese Bartolommei, Andrea di Mattia, Giovan Battista e soprattutto il figlio Girolamo (quest’ultimo letterato e autore di un poema in gloria di Amerigo 327
Veduta del portico del chiostro; sulla parete a sinistra sono visibili le lapidi sepolcrali provenienti dalla chiesa.
Scorcio del corridoio dell’ex convento, oggi facente parte del Museo Diocesano di Arte Sacra.
Vespucci), mentre fu amministratore della fabbrica Filippo Baldinucci, verosimilmente il noto biografo di artisti toscani ed egli stesso architetto. Gli eredi ripresero il cantiere, dopo la morte di Anton Maria, ad iniziare dal 1649, e nei cinque anni seguenti misero in opera i pietrami del presbiterio e il grande solaio ligneo del coro (mai dorato), ma non venne realizzato il settore sinistro, con la terza cappella verosimilmente destinata all’Eucarestia, che avrebbe dovuto sorgere su un’area verde posta tra la chiesa e il palazzo Bartolommei (una finestra edicolata, già realizzata per tale settore, verrà reimpiegata, a fine Ottocento, come edicola al di sopra dell’altare nella cappella posta lungo la navata, a sinistra). Sempre a sinistra, e specularmente rispetto alla mostra dell’or gano che si trova sulla destra, fu realizzato il balcone cui si aveva accesso direttamente dal palazzo e dal quale i membri della famiglia Bartolommei ascoltavano la messa. A partire almeno dal 1650 lavorò alla “fabbrica” Ferdinando
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Tacca (1619-1682), per l’ultimazione dell’altar maggiore in marmi e pietre dure, già ideato da “Arigucci” (cioè l’Arrighetti?) nel 1634 (talvolta è stato detto che abbia operato qui anche il padre di Ferdinando, Pietro Tacca, ma la notizia non è attendibile). Il maestoso e scenografico presbiterio, quasi un fondale teatrale, innervato di un doppio ordine architettonico corinzio in pietra serena, si basa sulle figure geometriche del quadrato, del rettangolo, dell’ottagono e del dodecagono, che generano, questi due ultimi, le sezioni delle paraste del coro e delle colonne nella cripta, gli archi, gli oculi e le cupole (del presbiterio e della cappella del fonte battesimale), nonché le nicchie della splendida cripta e le membrature architettoniche (compresa la lanterna) nel corridoio del contiguo convento, che dava diretto accesso al presbiterio e al coro. I segmenti (un semidodecagono con sette lati) sostituiscono le linee curve degli archi, mentre le paraste del coro pre-
Scorcio della scalinata buontalentiana, proveniente dalla chiesa di Santa Trinita.
L’altare maggior e del Giambologna, pr oveniente dalla chiesa dello Spedale di Santa Maria Nuova.
sentano, desuetamente, dei fusti con una scacchiera a rilievo, nella quale compare il giglio presente nello stemma araldico dei Bartolommei (tre gigli e una scacchiera dorati su fondo rosso), e alti capitelli con triplice ordine di foglie d’acanto, latamente ispirati ad esempi medievali. Tale architettura, assolutamente unica a Firenze, ereticamente eterodossa ed anticlassica, costituisce uno dei più significativi esempi di esuberante originalità barocca in Toscana, dove le mutazioni anamorfiche sono pregne di una fortissima componente simbolica, cabalistica e iniziatica (basata sui numeri ‘magici’, esoterici e sacri del 3, del 7 e del 12), e le varie cupole a pianta poligonale, in un serrato rapporto proporzionale e di concatenazione con le altre membrature architettoniche, creano un criptico universo che pone al centro Cristo, sole mistico, come è al centro dell’universo conosciuto il sole, in una visione copernicana e galileiana cara al Bartolommei e all’Arrighetti.
Imponente anche il coro, con il rammentato sof fitto ligneo a profondi lacunari del 1650-1651, opera del legnaiolo Jacopo Santi, che si ispira direttamente ad esempi iberici, come del resto l’intera architettura si richiama a prospetti di edifici sacri spagnoli, vicini al sentire ‘controriformato’ degli Agostiniani Riformati e ben noti al Tacca. Nel 1783 i Canonici Regolari Agostiniani furono trasferiti nel convento di Sant’Agostino e di Santa Cristina sulla Costa e alla chiesa di Santo Stefano (ridotta a chiesa parrocchiale) fu unito il titolo della soppressa chiesa di Santa Cecilia (23 novembre 1783); l’edificio venne riconsacrato nel 1787. Tuttora esiste la Cappella degli Orafi, prospiciente il chiostro, già costituente la cappella della ricostituita Compagnia di San Luca e del SS. Sacramento, af frescata attorno al secondo decennio dell’Ottocento, contigua alla quale era l’ambiente di Compagnia, forse già refet-
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Giotto, Madonna con il Bambino e angeli , proveniente dalla chiesa di San Giorgio alla Costa, antica chiesa dell’Oltrarno fiorentino.
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torio del convento agostiniano. La finestra della cappella è una moderna ricostruzione dell’architetto Raf faello Fagnoni (1901-1966), risalente al 1931. L’altare maggiore fu ricostruito nel 1836; in seguito la chiesa fu profondamente restaurata ed in parte manomessa. Negli anni 1894-1895 l’architetto Luigi Del Moro (1845-1897) rimosse l’altar maggiore di una sessantina d’anni precedente e lo pose nella rammentata cappella lungo la navata, a sinistra. Al suo posto fu collocato l’attuale altar maggiore, proveniente dalla chiesa di Santa Maria Nuova, opera elegantissima del Giambologna (1529-1608), risalente al 1591, fronteggiato dalla splendida e movimentata scala manierista, tolta dalla chiesa di Santa Trinita, opera, invece, di Bernardo Buontalenti (1536-1608). L’edificio subì gravi danni nell’agosto del 1944, in seguito alle mine fatte saltare dai Tedeschi in ritirata, e nel gennaio 1947 vi furono esposti i 22 progetti presentati al concorso per le ricostruzioni attorno a Ponte Vecchio. La chiesa patì altri danni con l’alluvione del 1966 e con la bomba di via dei Geor gofili nel 1993, ma ogni volta è stata scrupolosamente e amorevolmente restaurata. Tra le principali opere d’arte custodite nella chiesa rammentiamo il paliotto bronzeo già per l’altar maggiore, di Ferdinando Tacca (1656); l’ Apparizione della Vergine a San Lor enzo, di Matteo Rosselli (sec. XVII, secondo altare di destra, già dedicato a Santo Stefano); la Morte di Santa Cecilia , di Francesco Curradi (1641 circa); un Crocifisso ligneo della fine del Quattrocento (quinto altare di destra); La Vergine con Sant’Agostino e Santa Monica, di Santi di Tito (post 1585, quinto altare di sinistra); una Madonna con il Bambino, del secolo XV (terzo altare di sinistra); inoltre vi era la statua di Santo Stefano, di Giovanni Gonnelli, detto il Cieco di Gambassi (1650 circa), purtroppo andata distrutta nel 1993. Le opere più recenti di Davide Orler (risalenti al 2004) sono esposte, invece, nel contiguo chiostro del Museo Diocesano di Arte Sacra. Quest’ultimo, aperto nel 1995 in parte degli antichi ambienti dell’ex convento (comprese la cappella del Santissimo Sacramento, eretta nel 1568, e la sede precedentemente rammentata
Maestro di Santa Verdiana, I Santi Martino, Giovanni Battista e Lorenzo, tavola pr ovrniante dalla chiesa di San Martino a Terenzano, nei dintorni di Firenze. Crocifisso trecentesco su tavola, pr oveniente dalla chiesa conventuale di San Pietro a Monticelli, presso Firenze.
della Compagnia degli Orafi o di San Luca, nonché quella che forse era l’originaria sagrestia della chiesa), conserva importantissime opere d’arte. Tra esse non possiamo dimenticare le due sculture lignee trecentesche di Mariano d’Agnolo Romanelli, raffiguranti L’Arcangelo Gabriele e Maria Annunziata; il Crocifisso su tavola del ‘Maestro del Crocifisso di San Quirico’ (sec. XIV); il reliquiario di Sant’Andrea (1373); la statua marmorea della Madonna con il Bambino , di Nino Pisano (sec. XIV) e, soprattutto, la superba serie di tavole a fondo oro, del Due, del Tre e del Quattrocento: la Madonna in trono con il Bambino e angeli , di Giotto (1290/1295), proveniente da San Gior gio alla Costa, fra
le opere sicuramente più importanti del museo; un San Giovanni Battista e un San Cristoforo, del Duecento; la Madonna in tr ono, di Corso di Buono (sec. XIII); San Dàmaso I , del ‘Maestro di Montefloscoli’ (sec. XIV); l’Incoronazione di Maria , San Tommaso d’Aquino e la Madonna con il Bambino , di Giovanni del Biondo (sec. XIV); quattro statue lignee della bottega dell’Orcagna (sec. XIV); San Pietro, di Jacopo di Cione (sec. XIV); San Pietro martire, del ‘Maestro del Trittico Horne’ (sec. XIV); San Giovanni Battista, San Lor enzo e San Martino, del ‘Maestro di Santa Verdiana’ (fine del XIV secolo); un ulteriore polittico trecentesco raf figurante la Madonna e Santi; la Crocifissione tra santi, di Cenni dei
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Santi di Buglione (?), Madonna adorante il Bambino , facente parte del Pr esepe proveniente da Camoggiano, in pr ovincia di Firenze.
Filippo Lippi, Cristo in pietà.
Francesco (fine sec. XIV- inizi XV); l’Annunciazione ed il polittico di Gàliga, del ‘Maestro della Madonna Straus’ (fine sec. XIV - inizi XV); tre ulteriori Madonne con il Bambino, tre-quattrocentesche; il trittico di Lorenzo di Niccolò Gerini (1402); San Giuliano di Masolino da Panicale (1420 circa); la predella di Quarate, di Paolo Uccello (1433/1434); una Madonna con il Bambino neobizantina, del Quattrocento; una
Madonna dell’umiltà (sec. XV); i Santi Donato Vescovo, Lucia e Maria Maddalena , di Bicci di Lorenzo (sec. XV); La predella e la Madonna con il Bambino , di Domenico di Michelino (sec. XV); l’ Annunciazione, di Bicci di Lorenzo (sec. XV); la Croce di Parri Spinelli, sempre del XV secolo; il trittico di Filippo Lippi, raffigurante Christus Patiens e i Santi Gir olamo e Alberto da Vercelli; .
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Inoltre rammentiamo il Presepe in terracotta di Camoggiano, forse opera di Santi di Buglione (secc. XV-XVI), già nella nicchia lungo la parete longitudinale destra della chiesa; la Vergine in trono, del ‘Maestro del Tondo Bor ghese’ (1511); la Sacra conversazione , di Michele di Ridolfo del Ghirlandaio (se. XVI); L’incontro del servo di Abramo con Rebecca al pozzo, di Santi di Tito (1602); un Ecce Homo, di Carlo Dolci (sec. XVII), e il busto di bronzo del Beato Davanzato , di Pietro Tacca (1630 circa); la statua lignea di San Tommaso di Villanova, di Raniero Baldi (metà del secolo XVII), già di pertinenza della chiesa; il busto d’argen-
to di San Cr esci, di Bernardo Holzmann (fine secolo XVII - inizi del XVIII). Una parete del portico nel chiostro, dove ha sede la mostra orleriana, è rivestita di pregevoli lastre sepolcrali (comprese tra il 1303 ed il 1772), rimosse dalla chiesa e da altri edifici sacri del centro storico, andati distrutti, e qui murate nella seconda metà dell’Ottocento; nel chiostro sono presenti anche un pozzo ed una graziosa fontana a muro del 1639.
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Alcune postille all’allestimento della mostra di GIAMPAOLO TROTTA Progettazione: Dott. Arch. Giampaolo Trotta (membro dell’International Council on Monuments and Sites - Paris), con la collaborazione del Dott. Arch. Lapo Galluzzi
La mostra fiorentina sulle opere di Davide Orler è stata allestita in due dif ferenti sedi, corrispondenti alle altrettante sezioni principali della mostra stessa, sedi comunque vicine tra di loro e gravitanti specularmente sull’asse stradale di via Por Santa Maria, che conduce al Ponte Vecchio. La prima sezione (Le rotte dell’animo), che raccoglie i dipinti orleriani a carattere non religioso, ha trovato collocazione nel ‘laico’ Palagio dei Capitani di Parte Guelfa, e segnatamente nelle tre sale monumentali, del Camino, dei Drappeggi e Brunelleschi. L ’allestimento è stato realizzato mediante lineari pannelli di m 2,50x1,00, rivestiti in stoffa ignifuga color grigio, che riprende il colore della pietra serena, propria delle membrature architettoniche quattrocentesche (paraste e portali), e nel contempo non invadono con violenza lo spazio e non prevaricano né l’architettura né le opere pittoriche esposte. I pannelli sono disposti perimetralmente senza soluzione di continuità, creando degli inviti (nella sala del Camino) e movimentando il perimetro con piccole sottosezioni disposte a pettine decrescente (nel salone del Brunelleschi). Nella sala del Camino è stata allestita la prima sottosezione ( Gli anni tormentati della formazione e della ricerca di una propria identità di vita ed artistica, 1952-1958 : opere nn. 1-20). Nella sala intermedia dei Drappeggi vi è la seconda sottosezione (La serenità conquistata, 1959-1970 : opere nn. 21-43); nel salone del Brunelleschi si trovano la terza, quarta e quinta sottosezione (La parentesi careniana, 1966-1970; Verso nuove sperimentazioni, 1970-1992; Le oper e
Il centro storico di Firenze nella pianta di Giuseppe Pozzi, risalente al 1855. Legenda: 1. Il Palagio dei Capitani di Parte Guelfa; 2. la chiesa e l’ex convento di Santo Stefano al Ponte.
recenti, 1994-1997: opere nn. 44-62). Inizialmente, ad accogliere i visitatori all’ingresso della mostra, era stata prevista un’istallazione tridimensionale, composta da tre elementi, desunti dal quadro La città sul mare, del 1964, una tela raffigurante in modo astratto un’ideale città mediterranea, con riferimenti a edifici e volumetrie urbane proprie dell’Italia Meridionale ed Insulare e di alcune isole greche, quadro
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Nella pagina a fronte: pianta progettuale dell’allestimento della mostra nel Palagio dei Capitani di Parte Guelfa. Sopra: ingrandimento della medesima planimetria, corrispondente alle tr e sale del Palazzo con le oper e esposte di Davide Orler.
che è stato assunto ad ‘icona’ di questa sezione dedicata alle ‘rotte dell’animo’ (con riferimento alle esperienze esistenziali ed artistiche di Orler nel periodo in cui, come ricorda Giovanna Fozzer, nella sua vita entrò il mare). La volumetria sezionata di un edificio con porta e sovrastante finestra a feritoia, concluso dalla porzione di un tipico tetto a più falde italiano, quella con una finestra circolare a foggia di oblò, conclusa da drappeggi e tende che rammentano i panni alle finestre del Meridione, ed infine il cono al di sopra di un basamento, che ci richia-
ma le forme di una vela, sono state tutte e tre desunte dal quadro orleriano, restituendole, tridimensionalmente e coerentemente all’opera, nelle forme architettoniche del Cubismo, con riferimenti anche al Futurismo e al Razionalismo di Le Corbousier (conosciuto da Orler negli Anni Cinquanta). L ’opera, che avrebbe dovuto essere dipinta con vivaci colori dallo stesso Orler e che per motivi di tempo non si è potuta approntare per la mostra fiorentina, verrà realizzata in occasione di una futura esposizione.
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Sezione trasversale in corrispondenza, a partire da sinistra, del Salone Brunelleschi, della Sala dei Drappeggi e della Sala del Camino, con l’allestimento predisposto per la mostra.
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Sezione longitudinale del Salone Brunelleschi.
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Particolare in pianta e sezione-prospetto della prevista installazione ispirata al quadro orleriano La città sul mare, del 1964. Alla pagina seguente: pianta e sezione del complesso di Santo Stefano al Ponte, con l’allestimento della seconda sezione della mostra dedicata a Davide Orler.
La seconda sezione ( I sentieri dello spirito ), che aduna le opere pittoriche a carattere religioso, è allestita, invece, nel complesso dei Santi Stefano e Cecilia al Ponte. Le prima sottosezione ( La grande parabola r eligiosa della vita, 1961-1967 : opere nn. 63-70) si trova nella chiesa ed ha come supporto pannelli analoghi a quelli rammentati della prima sezione, rivestiti anch’essi di stof fa ignifuga grigia, che riprende il colore delle membrature cinque-secentesche dell’edificio sacro. Le otto opere sono state collocate in corrispondenza di altrettanti altari laterali, lungo le pareti longitudinali di
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destra e di sinistra. La seconda sottosezione (Folgorazione e intuizione sui sentieri di una personale Transavanguardia, 1996-2001: opere nn. 74-92) è stata allestita nella cripta secentesca, con pannelli simili, ma alti solo m 2,00, disposti perimetralmente ed anche in questo caso senza soluzione di continuità. La terza sottosezione ( Le oper e r ecenti, 2004 : opere nn. 93-108), infine, è esposta nel portico del chiostro del Museo Diocesano di Arte Sacra, medante pannelli simili, disposti a zig zag lungo la parete longitudinale.
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Sopra: progetto di installazione-portale ispirato al quadro La città sul mare di Davide Orler. Sotto: Fortunato Depero, Progetto di portali, 1930 (Rovereto, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto e Trento). Nella pagina a fianco: pianta e sezione della cripta di Santo Stefano al Ponte, con l’allestimento della mostra orleriana.
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Giampaolo Trotta, Primo bozzetto progettuale per l’installazione orleriana della Città sul mare, tecnica mista e collage su carta, 2005
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Bibliografia / Bibliography
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Elenco delle opere in esposizione List of Works in the Exposition SEZIONE DI PALAGIO DEI CAPITANI DI PARTE GUELFA: LE ROTTE DELL’ANIMO 1.
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Gli anni tormentati della formazione e della ricerca di una propria identità di vita ed artistica (1952-1958). Omaggi a Rousseau, Matisse, Munch e Picasso tra idealismo ‘primitivo’, furore espressionista e travaglio esistenziale Figura, 1952 Olio su faesite, cm 37x28 La guerra, 1954 Olio su tela, cm 62x81 Ritratto di Giovanni Orler, 1954 Tecnica mista su compensato, cm 109x90 Ballerina, 1954 Tecnica mista su faesite, cm 118,5x64 Il recupero degli alluvionati a Salerno, 1955 Tecnica mista su compensato, cm 84x122 Dopo l’alluvione, 1955 Olio su faesite, cm 127x250 Le stagioni - Estate, 1955 Tecnica mista su tavola, cm 109,5x161 Colline di La Spezia II, metà Anni Cinquanta Olio su faesite, cm 48x64,5 Figura sdraiata, 1956 Smalto su carta, cm 69,5x104,5 Figura al balcone 1, 1956 Olio su carta, cm 103x70 Figura al balcone 2, 1956 Smalto su carta, cm 104,5x70 Ritratto di zio Micel, 1956 Tecnica mista su carte, cm 93,5x70 Ritratto, 1956 Tecnica mista su carta, cm 83,5x73,5 Dama in poltrona, 1956 Collage, cm 29x21 Crocifissione, 1956 Collage, cm 29x 20,5 Notturno alla finestra, 1956 Collage, cm 29x20,5 Donna in poltrona, 1956 Collage, cm 29,5x21
16 17 18 19 20
Due donne al balcone, 1956 Collage, ciascuno di cm 29,5x20,5 Paesaggio a Mezzano, 1958 Olio su faesite, cm 85x125 Notturno invernale a Mezzano, 1958 Smalto su compensato, cm 106x118 Lo Studio, 1958 Olio su tela, cm 84x123 Mio Padre, 1958 Olio su tela, cm 125x83,5
2.
La serenità conquistata (1959-1970). Intimismo romantico e pace spirituale.
21
Maternità, 1959 Olio su cartoncino, cm 70x50 Uomo a letto che legge, 1959 Olio su tela, cm 100x77 Ritratto di Maria Grazia, 1959 Olio su carta, cm 77x62,5 Nonna e nipote, 1960 Olio su tela, cm 59x45 A Chioggia, 1961 Olio su tela, cm 100x73,5 Burano, 1961 Olio su tela, cm 70x100 Ritratto di Ermanno, 1961 Olio su tela, cm 100x70 Ritratto di Papà, 1961 Olio su tela, cm 100x69,5 Notturno a Venezia, 1962 Olio su tela, cm 90x50 Natura morta con fiasco, 1963 Olio su tela, cm 60x90 Sedia e scopa, 1963 Olio su tela, cm 80x60 Gamba. Il pittore mancino, 1963 Olio su tela, cm 95x70 Ritratto di donna, 1963 Olio su tela, cm 80x54
22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33
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3.
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La casa di zia Giuliana e ‘tabià’ dei Vetoreti, 1963 Olio su tela, cm 70x100 La città sul mare, 1964 Olio su tela, cm 142,5x203,5 Terremoto, 1964 Olio su tela, cm 143x204 L’impiccato, 1964 Olio su tela, cm 140,5x190 La famiglia pompeiana, 1965 Olio su tela, cm 90x70 La cena, 1965 Olio su tela, cm 100x120 La montagna incantata, 1965 Olio su tela, cm 97x100 Fiori e paesaggio, 1966 Tecnica mista su panforte, cm 40x59,5 Cavoli, cachi, pannocchia e mele, 1969 Olio su tela, cm 80x120 La zingara, 1970 Olio su tela, cm 70x50 La parentesi careniana (1966-1970). Tetragona e corale epica umana nella vita, nelle tragedie e nel lavoro
Verso nuove sperimentazioni (1970-1992). Tra Pop Art e Nouveau Réalisme
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Ritratto di mio figlio Gabriele, 1970 Olio su tela, cm 45x35 I campi dallo studio, 1971 Olio e sabbia su tela, cm 61x71 Campi dallo studio a Favaro, 1971 Olio e sabbia su tela, cm 70x100 Paesaggio sul mare, 1971 Olio su stoffa, cm 50x70 Notturni tropicali, 1971 Collage e olio su tela, cm 100x150 Tavolo di pittore, 1972 Tecnica mista su tela, cm 60x80 Campi dall’aereo, 1972 Tecnica mista su tela, cm 130x200 Lo stregone e la capanna, 1972 Tecnica mista su tela, cm 60x80
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Tavolozza, 1974 Tecnica mista su tela, cm 80x60 Campi d’inquinamento, 1975 Tecnica mista su tavola, cm 80x100 Vetri (paesaggio con fiale), 1975 Tecnica mista su tela, cm 70x100
Bambola rotta, 1975 Tecnica mista su tela, cm 90x100 57 Legni, 1975 Tecnica mista su tela, cm 70x100 58-59 Sole nel vuoto, 1992 Tecnica mista, cm 100x82,5 56
5.
Le opere recenti (1994-1997). Ricerca di nuove frontiere e rivisitazioni dei grandi cicli passati.
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Figure in riposo, 1994 Smalti su tavola, cm 42x110 Paesaggio mediterraneo, 1996 Collage e smalti su tela, cm 94x192 Tavolo da lavoro, 1997 Tecnica mista su tavola, cm 100x100
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Pescatori a Trapani, 1970 Olio su tela, cm 70x50
4.
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SEZIONE DI SANTO STEFANO AL PONTE VECCHIO (ARTE SACRA): I SENTIERI DELLO SPIRITO 1.
La grande parabola religiosa della vita (1961-1967). Serenità francescana ed epica careniana.
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La morte di San Francesco, 1961 Olio su tela, cm 115x200 A Emmaus, 1961 Olio su faesite, cm 129x88 Caino e Abele, 1963 Olio su tela, cm 170x200 Deposizione, 1964 Olio su tela, cm 130,5x200 Le nostre infermità, 1964 Olio su panforte, cm 155x28 Ritratto marrone (Cristo), 1964 Olio su tela, cm 50x35
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Deposizione, 1965 Olio su tela, cm 142x203 L’attesa dell’uomo, 1967 Olio su tela, cm 195x140
2.
Dal profondo cosciente (1971-1972). Nuove sperimentazioni e simbologia antica.
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Omaggio a Gesù e a Cimabue , 1971 Collage su tela, cm 100x70 Ecce Homo con paesaggio di nubi , 1972 Tecnica mista su tela, cm 60x80 Pesci e uccelli bizantini, 1972 Tecnica mista e collage, cm 50x30
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Folgorazione e intuizione sui sentieri di una personale Transavanguardia (1996-2004). Luce e gesto negli spazi dello spirito. San Giorgio, 1996 Smalti su tela, cm 140x200 Al sepolcro, 1996 Smalti su tela, cm 121x200 Adamo, Eva e il serpente, 1996 Smalti su tela, cm 120x200 Deposizione, 1997 Smalti su tela, cm 140x200 Trasfigurazione sul Tabor, 1997 Smalti su tela, cm 100x150 Gesù con la Maddalena il mattino di Pasqua , 1997 Smalti su tela, cm 94x192 L’adultera, 1997 Smalti e olio su tela, cm 94x192 Trinità angelica, 1997 Smalti su tela, cm 120x205 La veglia, 1998 Smalti su tavola, cm 109x193 La tempesta sedata, 1999 Smalti su tela, cm 94x192 La donna vestita di sole, 2000 Smalti e olio su juta, cm 95x95 Il ricco epulone e Lazzaro, 2000 Smalti e olio su juta, cm 95x95 Mosè e il passaggio sul Mar Rosso , 2000 Smalti e olio su juta, cm 95x95 Gesù cammina sulle acque, 2000 Smalti su faesite, cm 85x75 Emmaus, 2000
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Smalti su faesite, cm 85x75 La pesca miracolosa, 2001 Smalti su faesite, cm 85x75 Guarigione della donna cananea 1, 2001 Smalti su faesite, cm 85x75 Guarigione della donna cananea 2, 2001 Smalti su faesite, cm 85x75 In croce, 2001 Smalti su tavola, cm 185x145 Omaggio a Giotto, 2004 Smalti su tela, cm 100x150 Cristo, 2004 Smalti su tavola, cm x Dalla Sindone, 2004 Smalti su tela, cm 150x100 Natale, 2004 Smalti su tela, cm 100x150 Per la fuga in Egitto, 2004 Smalti e olio su tela, cm 100x150 Il Nazareno, 2004 Smalti e olio su tela, cm 150x100 Gesù con la Madre, 2004 Smalti e olio su moquette, cm 80,30x90,50 Studio per Maria con Gesù , 2004 Smalti su tela, cm 100x70 Il bacio di Giuda 1, 2004 Smalti e su tela, cm 100x150 Il bacio di Giuda 2, 2004 Smalti su tela, cm 60x180 Ecce Homo, 2004 Smalti su tela, cm 80x60 Per la Deposizione, 2004 Smalti e olio su tela, cm 100x150 Maternità 1, 2004 Smalti e olio su tela, cm 53x55 Maternità 2, 2004 Smalti e olio su moquette, cm 84x94 Maternità 3, 2004 Smalti e olio su tela, cm 52,5x55 Maternità 4, 2004 Smalti e olio su tavola, cm 69,60x35
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Finito di stampare nel mese di aprile 2005 Printed in Italy, April, 2005