Q5_ il vuoto come dispositivo topologico

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Il vuoto come dispositivo topologico Ruben Baiocco, Giuseppe Biasi, Martino Tattara

Quando pensiamo ad un certo tipo di vuoto (=spazio non edificato) – o che noi pensiamo tale – non possiamo non pensarlo se non in relazione a ciò che invece dovrebbe essere – o rappresentare il pieno (lo spazio edificato). La relazione tra vuoto e pieno quando guardiamo la città, tanto alla sua scala territoriale quanto a quella del frammento urbano, non è semplicemnete riducibile alle note carte del bianco/nero. Identificare il bianco con il vuoto ed il nero con ciò che non lo è non sembra importante tanto quanto stabilire le sagome - l’una strettamente dipendente dall’altra - l’una risultante dall’altra, che si co-determinano dalla relazione tra ciò che è vuoto e ciò che pieno o tra ciò che è bianco e ciò che è nero. 96

Stiamo parlando quindi di un’idea di forma attiva capace di creare relazioni e che acquista forma e senso (sagoma) a partire dalla relazione che innesca. Potremmo dire persino che si tratta di una sorta di feed back dinamico. Così come nel tempo è cambiato ciò che nella città e nei territori viene comunemente identificato come vuoto, è mutato anche il vuoto stesso (ci sono differenti tipi di vuoto) e ciò che il vuoto può contenere (nel vuoto ci sono cose/aspettative di cose). Ad esempio in Europa il ruolo della campagna come sfondo visivo alla città compatta si è lentamente trasformato prima in quello di figura di confine con l’edificato e poi, inesorabilmente in una minuta interpenetrazione tra lo spazio aperto e il costruito : il vuoto si è modificato da “sfondo” a figura contenuta cambiando statuto e diventando, proprio alla luce del suo potenziale creativo, l’elemento discriminante nel progetto della città contemporanea. L’operazione progettuale in cui la disposizione dei pieni è fatta a partire dall’individuazione di differenti tipi di vuoto, ha un preciso significato: alla costruzione di uno spazio “vuoto” si è va assegnando un ruolo preponderante in quanto veicolo privilegiato di nuovi e di più tradizionali valori della convivenza e della cittadinanza. In una società dove è difficile configurare un sistema di valori stabile e universalmente condiviso al quale appellarsi, al vuoto si affida il ruolo di farsi contenente e contenuto della pluralità di valori ed immagini della e per la convivenza. Il vuoto come dispositivo progettuale ha quindi due possibili dimensioni, la dimensione morfologica e quella sociale. Dalla sovrapposizione di queste due dimensioni hanno luogo le topologie. Vi sono alcune esperienze prototipiche della kultur urbanistico-architettonica nelle quali si può leggere il variare delle modalità di questa sovrapposizione.


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1. Nel Plan Voisin (1925) di Le Corbusier il vuoto si costruisce attraverso la demolizione di una porzione di Parigi e costituisce una netta discontinuità tra la città antica e quella moderna. Il vuoto del Plan Voisin analogamente allo spazio verde della Ville Radieuse contribuisce a istituire quello che si potrebbe chiamare il concetto moderno dell’urbanità. Il carattere indefinito del vuoto si offre come una superfice-supporto per le attività condivise della “comunità” . Nel vuoto del Plan Voisin coesistono le quattro funzioni della città moderna: ma è la distanza fra i redents ed i grattacieli (residenza e lavoro) affidato il ruolo di stabilire il carattere degli edifici stessi (intesi come pieno) e a individuare il vuoto dove trovano posto le infrastrutture del tempo libero e della circolazione. Nella Settima Tavola della Ville Radieuse la città viene rappresentata attraverso la sovrapposizione di tre layers, mostrandone la loro compenetrazione: lo spazio edificato dei Redents, la circolazione soprelevata ed il vuoto – il grande parco urbano. Dal disegno si evince la rilevanza delle grandi superfici di spazio aperto nella costruzione dell’intera macchina urbana lecorbuseriana e a conferma di ciò è il conio del titolo della medesima tavola : “La Ville Verte”.

98 2. Se il Plan Voisin esprime la sua essenza progettuale a partire dal fatto che si tratta di un frammento, anche “iniettabile” dentro il più stratificato tessuto della metropoli o della città antica, il piano per Brasilia (1957) di Lucio Costa ribalta la medesima natura strutturante del vuoto alla scala di una città capitale da costruire ex-novo, fulcro delle trasformazioni di un’ampia porzione territoriale, che contempla come ambito l’intera regione del Distretto federale. Il vuoto nel progetto per Brasilia si fa carico di perpetuare la leggibilità della forma tanto alla scala della città quanto a quella della regione. A Brasilia preservare il vuoto significa preservare la forma. Pertanto, il vuoto tra il Plano Piloto e le città satelliti dislocate nella regione del Distretto federale è garantito nella sua integrità, istituendo vere e proprie “riserve naturali”. In modo analogo, il Plano Piloto diviene prescrittivo della “preservazione” alla scala urbana, non tanto degli edifici residenziali collocati all’interno delle superquadras, quanto del loro volume: in altri termini, ciò che s’intende mantenere intatto è lo spazio - il vuoto - che s’iscrive tra e dispone i pieni degli edifici. In questo senso il vuoto gioca un ruolo cruciale nel fornire compattezza e unitarietà non soltanto volumetrica alla forma della città. Infatti, il vuoto solido precipita sull’estesa superficie continua dove si decidono le sorti civili della città nuova, definendo modalità e tipi di movimenti, stabilendo connessioni e predisponendo il suolo affinché possano aver luogo ogni sorta di relazioni e di pratiche urbane: è un “vuoto abitabile”, cui si assegna il compito di istituirsi come spazio della coabitazione e dove la civitas sembrerebbe riconoscersi in un’adeguata rappresentazione come richiesto ad uno spazio eminentemente pubblico di una grande capitale che è anche città. Per tutto questo, l’essenza della forma urbana della città nuova di Brasilia è l’assenza o se si preferisce, il vuoto, edificio senza materia, vero monumento privo di monumentalità architettonica.


3. La planimetria del progetto della Grande Stoccolma di Sven Markelius (1952) richiama la figura della spugna e il concetto di porosità. Nel bilanciare la porosità con ciò che la limita, le isole abitate dell’arcipelago (le città ed i quartieri satelliti) assumono un peculiare carattere urbano entro uno spazio naturale preesistente concepito come un grande vuoto alla scala metropolitana. Inoltre, “come perle di una collana” , le città, che fanno parte di questo l’arcipelago, sono collegate mediante un sistema infrastrutturale di treni regionali. Occorre precisare che la singolare forma assunta da questa città-regione è dettata da una topografia del tutto eccezionale dell’arcipelago di Stoccolma. La sapienza del progetto si registra nella capacità di rendere abitabili gli estesi corridoi verdi che abbracciano e immergono come in fluido le dislocate concrezioni dei quartieri e delle città satelliti. Il vuoto della macrostruttura verde dell’arcipelago è, pertanto, concepito per essere utilizzato come un’infrastruttura sociale che organizza il modo in cui gli abitanti interagiscono e usano la miriade degli spazi con funzioni sociali e pubbliche distribuiti, secondo un in modo equo ed omogeneo per ogni “perla”. Un’omogeneità che si misura non nell’ quartiere, sia del centro che della periferia, è dotato di un proprio centro civico, che accoglie strutture scolastiche, religiose, commerciali e del loisir, e, in prossimità una zona industriale. Un sistema di spazi aperti continuo e interamente interconnesso: da ogni punto della città, fatta eccezione della città consolidata, si può raggiungere l’un l’altro percorrendo uno spazio verde. Gli spazi verdi (costituiti da orti urbani, attrezzature sportive, macchia vegetazionale) separano un quartiere dall’altro ed al contempo costituiscono un imponente rete di connessioni ecologiche responsabili dell’alta qualità ambientale e paesaggistica dell’intera città. Assumono all’interno di questo contesto assumono un ruolo determinante le attrezzature per sport ed il tempo libero: playgrounds sotto casa, campi sportivi, piscine all’aperto fra gli alberi, verde sportivo annesso alle scuole, costa libera per imbarcazioni da diporto, strade come corridoi verdi, parchi naturali di grande dimensione tra le città satelliti, o i vari nuclei urbani. 1. Nel piano per la new town di Milton Keynes (1970) la questione del vuoto è strettamente legata al principio di indeterminatezza. Il tentativo di mettere a punto una forma indeterminata della città si fonda sul presupposto che in un piano bisogna assegnare un ruolo all’imprevedibilità e all’incertezza sul futuro, predisporlo alla crescita e al cambiamento, tenendo in considerazione il fatto che le necessità, i desideri, gli interessi e i relativi stili di vita degli individui-abitanti-consumatori non sono più decifrabili a partire da un atteggiamento tecnocratico del planner e dell’architetto, né da una lettura politico-sociologica della società per classi e, quindi, mutevoli per definizione, nel tempo e fra le stesse diverse individualità. Così come non sono prevedibili i cambiamenti che investiranno la società nel suo complesso non lo sono neppure le forme che la città assumerà: pertanto predisporre una forma conclusa è tanto inutile quanto dannosa qualora vengano a limitarsi le possibilità per gli abitanti di modificarla e riorganizzarla, secondo il principio definibile del nonplan in cui si destina l’ultima parola nella definizione dello spazio abitato alla libertà di scelta degli individui di costruire il proprio ambiente di vita. Vi si possono riconoscere due modalità di intendere il rapporto fra pieno e vuoto.

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La prima riferibile propriamente al principio di indeterminatezza: al rapporto che la sua infrastrutturazione principale, attraverso il reticolo della cosiddetta polyfocal grid, cui si destina l’organizzazione dei sistema della mobilità dell’intera città a tutte le scale ed i vuoti che vi si aprono all’interno, destinati alla futura disposizione di funzioni ed usi del suolo. In tal senso Milton Keynes il pieno è il sistema di comunicazioni stradale automobilistico – come espressione delle libertà dello spostamento individuale – ed il vuoto è ciò che questo reticolo definisce in termini dimensionali – setttori di un chilometro quadrato – destinati in modo non predibile, ognuno ad un mix di usi del suolo. Il vuoto è in origine la campagna del Buckingamshire che diverrà in seguito un territorio settorializzato caratterizzato dalla dispersione insediativa. La seconda riguarda invece il vuoto inteso come infrastruttura verde. In tal caso l’ indeterminatezza dell’organizzazione interna dei settori –che diverrà in fase di realizzazione anche troppo determinata - ed il dispositivo del Parks System Layer, attraverso il quale s’intendeva individuare le aree pre-destinate a parco interconnesse fra loro in forma continua e discontinua hanno dato luogo a notevoli ambiguità fra obiettivi del progetto e risultati concreti. Al Parks System Layer si destina infatti il ruolo di preservare le macro-forme degli ambienti naturali presenti messe a sistema con quelle disperse sull’intera superficie della città e con quelle che avrebbero infrastrutturato i settori secondo alcune modalità prescritte dal piano: come ovvio il tutto tenuto insieme da infrastrutture di rango locale insieme a quelle urbane e regionali della polyfocal grid. L’obiettivo di questo dispositivo era quello di divenire un ulteriore sistema di relazioni controllate fra i diversi settori, per il suo potere di connettere e distanziare. Infatti esso avrebbe dovuto agiree come un sistema compatto e disperso allo stesso tempo che inframmezza la città e diversi settori che attraversa, stabilendo con essi diversi relazioni di carattere funzionale, di uso del suolo, ed in ultimo ma il più importante creando connessioni-disconnessioni e distanziamenti.

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In verità i caratteri dispersi e a bassa densità degli insediamenti rendono la grana dei pieni come piccolissimi coriandoli galleggianti in un mare verde – o di vuoto, neutralizzando il ruolo assegnato al sistema dei parchi di strutturarsi come innesto continuo e discontinuo fra i vari settori della città. La grana di Milton Keynes insieme al sistema dei parchi dimostrano invece la criticità assunta dalle distanze predisposte dal piano. L’apparente contiguità del vuoto acquisisce la dimensione di grandi elementi di disconnessione anche quando sono infrastrutturati con i percorsi lenti ciclo-pedonali delle redways. Nel caso di Milton Keynes, pertanto, il vuoto è un dispositivo che regola la maggiore o minore distanza tra le parti, intese sia come edifici che come interi quartieri. Ma proprio il distanziamento come dimensione del progetto urbanistico, legato al dispositivo del vuoto, ha acquisito a Milton Keynes una dimensione fortemente critica, d’interesse per l’estremizzazione assunta e per i futuri sviluppi. 2. A Melun-Senart (1987), nel tentativo di proteggere il paesaggio della campagna francese, il progetto avanza una struttura costituita da fasce di vuoto per la costruzione di una ville nouvelle . Seguendo una strategia concettualmente simile a quella proposta nel progetto per Berlino Arcipelago Verde (1973), la città è costruita intorno alla relazionetensione tra elementi da preservare e la costruzione di un insediamento che avrebbe dovuto esprimere un carattere di “genericità” . Ma contrariamente a Berlino Arcipelago Verde, il vuoto è qui preservato mediante la localizzazione al suo interno di tutte le funzioni pubbliche che sono state progettate dalla mano dell’architetto, dando luogo ad una sorta di intensificazione – programmatica ed evenemenziale - del vuoto. Le fasce di vuoto diventano l’interfaccia fra condizioni urbane differenti delle diverse parti di città e di territorio che intercettano e assumo il ruolo, non solo simbolico, di luogo della negoziazione fra i differenti attori della città. La complessità programmatica e la frammentazione delle attività all’interno del vuoto marcano il salto da un progetto moderno di vuoto (gli spazi per le attrezzature collettive di Stoccolma) e un progetto pensato per una società individualizzata contemporanea.

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Possiamo individuare delle discontinuità nell’uso del vuoto come dispositivo progettuale nel corso del Novecento? Un nitido scarto sembra emergere fra le diverse esperienze prototipiche che abbiamo individuato. Nel progetto contemporaneo infatti il vuoto è inteso come spazio negoziabile, in cui le distanze - fra gli oggetti, fra i corpi, fra i corpi e gli oggetti – sono anch’esse negoziabili. Questo scarto rappresenta la possibile conseguenza della necessità del progetto contemporaneo di assumere come paradigma stesso della sua attuabilità l’incertezza e la non predicibilità della trasformazione-evoluzione propria dei territori caratterizzati della dispersione degli insediamenti. Il carattere di questi territori contemporanei, riguardo a differenti sfere di dissoluzione riguardante funzioni e densità, non riflette più la più classica identificazione in zone funzionali, oppure la riflette solo apparentemente occultando le altre funzioni che vi avvengono: lo spazio è diventato multifunzionale. Una pluralità di attori organizza la propria vita in questi spazi in modo sincronico e parallelo. Il carattere di radicale individualizzazione dell’uso del territorio

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Il presente contributo riporta gli esiti del workshop svoltosi a Venezia presso il Dottorato di Urbanistica nei giorni xx agosto 2005. Gruppo di lavoro: Ruben Baiocco, Giuseppe Biasi, Marjan Sansen, Martino Tattara, Liesl Vanautgaerden

contemporaneo – sorta di wilderness della frontiera (urbana) contemporanea – va incrementandosi in misura paradonabile all’accelerarsi delle trasformazioni stesse del territorio, in cui innumerevoli layers continuamente prodotti vengono giustapposti l’uno all’altro secondo una ritmicità differente e progressivamente più incalzante. Attraverso questi processi d’accumulazione, via via sempre meno controllabili, di layers fra loro sempre più eterogenei, la condizione di abitabilità dei territori contemporanei diviene espressione dell’estrema frammentazione di tutti i differenti tempi individuali e della molteplicità degli usi. Il progetto in questi luoghi è riconosciuto come un veicolo per instaurare un processo di negoziazione mediante il quale trasformare il conflitto in dibattito. Nel creare spazialità differenti ed una molteplicità di scale di uso di tutti gli spazi vecchi e nuovi, piccoli e grandi, affollati e vuoti, il piano di Stoccolma tentava di affermare che i suoi abitanti avevano un’ampia varietà di cose piacevoli e meno piacevoli, facendo si che il vuoto diventasse dispositivo in grado di garantire una moltitudine di modi di vita. Ma nei territori contemporanei, in particolare quelli della dispersione, il problema di come vivere insieme si rappresenta ad una differente scale di riferimento in cui si enfatizza meno il carattere pubblico e maggiormente quello privato degli usi, anche quando è di natura collettiva, cosicché diviene ancor più importante la necessità di istituire spazi di negoziazione e di mediazione fra i differenti usi e attori del territorio. È esattamente nel tentativo di individuare quei dispositivi capaci di stimolare diversi gradi negoziazione che la nozione di vuoto può essere annoverata e reintrodotta fra le chances del progetto per la città europea contemporanea. Il vuoto, infatti, si costituisce come una sorta di localizzazione strategica in quanto spazio in grado di assorbire quella dispersione di funzioni, usi, significati della società individualizzata. Poiché non è dato di stabilire una volta per tutte le modalità spaziali del benessere individuale e collettivo – anche come forma possibile di convivenza – il vuoto, così come l’indeterminato, mantengono aperto, ampliando i margini, lo spazio di negoziazione – come negoziazione dello spazio – fra e per gli individui. In questo senso sembrano anche amplificare le possibilità per il progetto di perseguire l’obiettivo di garantire l’effettivo valore – collettivo- di ogni scelta individuale.

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