Antologica Sebaste 2014

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Salvatore Sebaste la critica sulla scia di Kairos Prefazione di Beatrice Buscaroli Presentazione di Angelo Bianco

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Progetto Jolanda Carella Si ringrazia l’Associazione culturale “La Scaletta” Matera la Fondazione Zètema Matera (Centro per la Valorizzazione e Gestione delle Risorse Storico-Ambientali) l’Associazione Culturale “La Spiga d’Oro” Metaponto

la Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea a Matera Per la collaborazione Beatrice Buscaroli Angelo Bianco Jolanda Carella Stampato presso la tipografia Disantis - Bernalda (MT) nel mese di luglio 2014 4


Prefazione

Disarmonie prestabilite Gesto e materia, segno e colore. Certo, la pittura di Salvatore Sebaste è, da tempo, la declinazione di queste relazioni. Relazioni che hanno fatto la fortuna, la gioia e i dolori di quanti si sono confrontati con quella cultura complessa, plurima che chiamiamo Informale. Una cultura che non rappresenta un movimento unitario facilmente circoscrivibile, quanto piuttosto un articolato ventaglio di espressioni e di stili, una nebulosa privata del tempo. Ma proprio all’interno di questa complessità Sebaste sembra aver ritagliato un percorso estremamente personale. La sua sperimentazione sulla materia, la sua raffinatezza nella pratica della composizione che si evidenzia tanto nell’esperienza grafica quanto nella progettazione editoriale, nel libro d’arte, costituiscono indizi molto significativi per comprendere l’originalità della sua interrogazione sulla forma, sul ruolo del segno, sulla potenza del colore. La critica più recente ha sottolineato come la pittura di Sebaste ondeggi tra un’evocazione di elementi naturali e uno sforzo di riportare in superficie elementi che oltrepassano la realtà immediata, capaci di far parlare l’inconscio. Intensità ed energia che traggono nutrimento dal confronto con le configurazioni mutevoli della natura, da una parte, e, dall’altra, un confronto serrato con quanto si manifesta come presenza inquietante, mistero, presenza che rientra in campo sotto un’altra veste, destabilizzando il sistema delle nostre attese. Ecco, penso che questo secondo aspetto, questo unhermlich, questo perturbante, questo rimosso che ritorna con forza ineludibile, costituisca la cifra, variamente declinata, della sua opera. Il fatto è che questo tratto perturbante e pervasivo non è un’eccezione, un’intrusione impropria, una melanconica suggestione, ma piuttosto una presenza costante, un contrassegno. E’ tutto ciò che suscita timore e spavento, che turba e angoscia, che ci inquieta, ma, proprio per questo, ci attrae. Ciò che avrebbe dovuto rimanere celato, segreto, invece affiora, ritorna, come una sorta di coazione a ripetere. Come accade in “La terra mi tiene”, sottile poesia di Rocco Scotellaro: “Lunga strada seppur deserta | dove puoi menarmi non vedo punto d’arrivo. | Scordarmi i vivi per ritrovarli | con tutto il peso che mi porto | della vita che m’è nata | i fiori son cresciuti la luce li accende. | Sradicarmi? la terra mi tiene | e la tempesta se viene | mi trova pronto. | Indietro | ch’è tardi | ritorno | a quelle strade rotte in trivi oscuri?” 5


E’ proprio la terra a trattenere il poeta, con la sua potenza arcana, e ad essa si torna, per quanto accidentate possano essere le strade che dobbiamo percorrere. LÏ, solo lÏ, brulicano quelle tensioni che possono farci recuperare un gesto primitivo. Un gesto che ci fa sentire nella nostra casa. Beatrice Buscaroli Bologna maggio 2014

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Presentazione Inter-Vis(i)ta ermeneutica / l’arte in dialogo

“Non c’è miglior modo per apprendere nozioni sull’arte che parlandone spesso con chi è bene informato al riguardo”. Andrè Fèlibien, Entretiens sur le vies et les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes, Parigi, Ed. Le Petit, 1672 – Provenienza Biblioteca Pubblica Bavarese, digitalizzazione 16 ott. 2009

“L’arte è una scusa per cominciare un dialogo”. Douglas Gordon I Greci parlavano di due tipologie di tempo: il kairos (il momento propizio) e il kronos (il tempo in evoluzione). L’arco di tempo coperto dai saggi e dagli articoli inclusi in questa pubblicazione va dalla fine degli anni ‘60 a oggi. Un lavoro di editing (egregiamente coordinato da Jolanda Carella), che permette di leggere questi testi come documenti storici, non solo per i contenuti ma anche per le consuetudini lessicali, che nel corso degli anni sono variate e che in questo contesto editoriale rappresentano cifre culturali del nostro passato prossimo. Proprio questo spazio temporale, che rimanda al concetto di kronos, ha sollecitato in me il ricordo di un libro: “Autoritratto” di Carla Lonzi, pubblicato nel 1969, testimonianza tra le più preziose sull’arte contemporanea italiana, che kairologicamente vado a risfogliare per quest’occasione. Il titolo “Autoritratto” rileva il ruolo attivo degli artisti nel parlare in prima persona di sé, dell’arte e del proprio stare nell’arte e nel mondo attraverso una serie d’interviste in cui, per la prima volta, la critica d’arte cede la parola all’artista ed è presente solo come voce fuoricampo, in una valida opera di divulgazione con una prosa accessibile e scevra da gerghi o terminologie tecniche. Una metodologia critica quella dell’intervista (del dialogon, come avrebbero detto i greci), che passa attraverso il metodo domanda-risposta, teorizzato da Socrate, messo per iscritto da Platone, usato da Galileo e da Leopardi, messo in discussione da Derrida. Insomma una delle forme classiche del pensiero occidentale, come l’olio su tela o la forma-sonata, tanto che lo storico dell’arte Heinrich Wölfflin nel 1940, ne sottolineava l’importanza per la comprensione del lavoro di un artista e delle sue idee: “Poiché chiunque abbia visitato lo studio di un artista, ha sperimentato il profondo iato esistente tra gli storici dell’arte e ‘l’esperto’ d’arte che lavora in questo luogo”. Con la metà degli anni ‘60 artisti come Carl Andre, Donald Judd o Robert Morris, per colmare la distanza da parte della critica nei confronti dei propri lavori cominciarono ad adottare la pratica dell’intervista come medium per colmare il vuoto discorsivo della critica, autoconcettualizzando il proprio lavoro e riflettendo in modo critico sulla propria produzione e sulla sua ricezione. Da quel momento gli artisti hanno cominciato a produrre anche parole invece di opere. 7


In questo quadro per parlare di Salvatore Sebaste (personalità poliedrica e innovatrice del linguaggio artistico in Basilicata, ed esempio di quella creatività in grado di fondere ideazione e vita quotidiana) mi sono servito del genere letterario dell’intervista, oggi perfettamente in sintonia nell’odierna società della conversazione (chat, facebook, twitter, …) che nutre devozione per qualsiasi forma di espressione pubblica. All’inizio del testo le domande dell’intervista avviano una riflessione condivisa che, in breve, cede il passo alla normale conversazione a più voci, e per questo ringrazio per la preziosa collaborazione Roberto Martino (Segretario generale della Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea) e Jolanda Carella (imprescindibile compagna di lavoro e di vita di Salvatore Sebaste), che mi hanno accompagnato nella realizzazione di questo dispositivo di scrittura che, rispetto al saggio o al discorso non è assertivo ma critico. Non dice verità presunte, ma propone punti di vista, in cui il pensiero procede per passi dialettici, per contraddizioni e soluzioni, capaci di ripensare e sovvertire i rapporti tradizionali tra lo sguardo critico e quello dell’artista, perché, come scrisse il filosofo Hans Georg Gadamer nel suo saggio “Linguaggio”: “Il dialogo è la principale forma di comunicazione!” Angelo Bianco Direttore Artistico Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea

Linguaggio e parola: all’origine di questo nostro incontro c’è la parola. Allora, prima l’opera o prima la parola? I miei segni e le mie forme inseriti sulla superficie sono gli oggetti che sostituiscono la parola, sono le cose che hanno la funzione di richiamarne altre. Quando mi trovo di fronte a una tela bianca affido a lei tutto il mio io, che ama vivere nella società e per la società; l’idea, risultato delle mie esperienze esistenziali, nasce all’istante o sviluppa lo schizzo di un tema precedentemente razionalizzato per la realizzazione dell’opera. Secondo Leibniz il linguaggio è la risposta che l’uomo dà alle cose, è la sua reazione di fronte ad esse, per cui nella parola è la risposta emotiva dell’uomo con l’incontro delle cose. Le cose vengono sempre dopo i loro nomi? L’uomo, che per primo assegna il nome a una cosa, è un artista che mediante un segno, un suono o un’immagine, riesce a tirarla fuori dal cosmo. Il linguaggio dell’arte secondo lei equivale a ciò che intendiamo come comunicazione? Certamente! La mia arte consiste nell’astrarre dalla realtà, in continua trasformazione, segni e forme con la funzione di comunicare le esigenze della società in evoluzione. Come si trova in questo contemporaneo affetto da un eccesso d’informazioni? 8


(ride) Bene: io vivo e ho vissuto intensamente ogni mio periodo storico, lanciando con le mie opere continui messaggi, tutti riconoscibili nelle forme e nei colori. Abbiamo fame di tutto, ma non conosciamo il tempo della pausa. La pausa dell’attenzione. Quanto è grave questo modo di vivere e cosa sta provocando questo materialismo dei bisogni e della non attesa, della non riflessione? Provoca una società priva d’ideali, che all’essere preferisce l’apparire. C’è molta confusione tra arte e bellezza, c’è un gran pubblico per la bellezza e uno piccolo per l’arte. Cosa ne pensa? Credo che tutto dipenda dall’educazione del singolo e della società. Dalla didattica applicata fin dalla tenera età. Siamo un popolo non educato all’arte, distratto da problemi esistenziali profondi che poco riesce a capire cosa succede nella società tecnologica e scientifica. Ecco perché la mia comunicazione artistica ha avuto sempre l’obiettivo di educare. Il suo difetto più intrigante? (Ride) Il fare arte! La sua è una pittura in cui le tecniche gestuali sono preponderanti, tanto da essersi interessato anche al graffitismo di matrice americana attraverso il suo rapportoscambio con artisti come A One. Verso quale grammatica gestuale stiamo andando incontro? I segni sono stati di vitale importanza per l’evoluzione umana, segni che hanno investito tutti i campi della vita dell’uomo. Il comportamento segnico è proprio della natura umana e anche il contemporaneo riposa su segni e sistemi di segni strutturati. Oggi ci troviamo davanti all’urgenza di eliminare l’eccesso di segni e significati: mi dica, se dovesse fare un piccolo elenco di realtà, codici da cancellare, da bandire da dove vorrebbe incominciare? Penso di aver vissuto la mia esperienza estetica sotto il segno di due costanti: a) concentrandomi e riflettendo sui miei procedimenti e sulle mie funzioni mentali ripudiando l’estetica con l’eliminazione dell’oggetto d’arte così come succede nell’arte concettuale; b) osservando il mondo, … penetrando in esso per modificarlo. Com’è la sua giornata tipo? Pensa molto all’arte? A me hanno insegnato che l’artista deve lavorare ogni giorno perché il lavoro costante diventa ricerca. Adesso che ho sospeso la mia attività di docente nella scuola, ogni mattina mi reco allo studio e lì disegno, dipingo, elaboro sculture, mentre dedico il pomeriggio alla ricerca e alla lettura. 9


Il tempo a cosa serve? A fare quello che ci piace fare, ma sempre nel nostro ambiente sociale. Che cosa è il silenzio? Il rimpianto e il rimorso. Ne ha qualcuno? Forse quello di non essermi trasferito da Bernalda a Bologna o a Milano in giovane età, per potermi inserire nel contesto comunitario e artistico di quel mondo, più ricco di stimoli, col quale avrei voluto confrontarmi continuamente. Ma mi chiedo: Se mi fossi trasferito in una grande città, avrei realizzato tutto quello che ho concretizzato nella mia vita? In tutte le mie opere sono evidenti i riferimenti culturali e artistici della Basilicata dall’elemento paesaggistico alla tradizione agricolo-pastorale, al carattere divinatoriosacrale, al retaggio favolistico-fascinatorio e alla tradizione classica, soprattutto della Magna Grecia. Mi sono convinto che nella società multimediale non esiste un’arte lucana o un’arte lombarda: esiste solo l’arte, e l’artista non può rimanere legato alla storia della sua regione, ma frequentare ambienti qualificati, stabilire rapporti con strutture culturali diverse in Italia e nel mondo affrontando sacrifici e a volte anche umiliazioni. Io ho formato la mia esperienza artistica visitando importanti gallerie e musei dell’Italia e dell’Europa, partecipando a numerose manifestazioni artistiche nazionali e internazionali e frequentando importanti ambienti culturali e artistici. Che cosa vuol dire avere consapevolezza di sé in un mondo che muta continuamente e dove anche la parola “contemporaneo”, forse non ha più alcun significato “attuale”? (Sorseggiando il caffè) Solo l’artista è in grado di affrontare l’attualità! Scelte razionali e contingenti, scavi psicologici, percezioni della realtà che mi circonda, offrono la mia rivelazione del momento storico in ogni opera elaborata con gesti, segni, colori e forme. Si sente schiavo delle parole? Affatto! L’emozione più magica della sua vita davanti ad un’opera d’arte che lei ritiene emblematica. La sua riscoperta: immagina di tornare a casa e di osservare tua moglie. Se noti in lei sempre le stesse caratteristiche, gli stessi atteggiamenti, vuol dire che non la ami più, perché l’amore verso una persona o un oggetto è sempre ricco di nuove scoperte e di nuove emozioni. Lo stesso succede quando mi trovo di fronte ad un’opera d’arte. Ogni volta che la rivedo, scopro sempre nuove suggestioni o noto particolari che prima di allo10


ra mi erano sfuggiti: ecco perché non mi stanco di visitare più volte il medesimo museo. Esistono collezioni sul libro d’artista in alcuni tra i più importanti musei del mondo: Victoria and Albert Museum, Tate Gallery, il museo Wesemburg di Brema, la Bibliotheque Nationale de France di Parigi, la New York Public Library e lei stesso ha partecipato a importanti mostre internazionali (“The artist and the book in 20th-century Italy” al Moma di New York e poi al Guggenheim di Venezia). Parte importante del suo impegno in campo artistico-culturale l’ha dunque dedicato all’editoria collaborando con numerosi scrittori e poeti. Come giudica questo suo impegno nella produzione editoriale? Gli scrittori e i poeti m’insegnano a sognare. Sono incuriosito dal connubio tra la sua formazione artistica e il suo impegno in ambito didattico come docente di materie artistiche. Mario Trufelli in uno scritto cita i suoi studi sui grafismi infantili e rupestri. Come e quanto ha contribuito quest’impegno didattico al suo lavoro? Come docente di materie artistiche mi sono sentito sempre educatore e, come tale, ho condotto i miei allievi all’educazione all’arte, alla lettura dell’arte. Il mio lavoro non si è mai limitato a far disegnare i ragazzi, ma le mie lezioni, “discorsi semplificati sulla storia dell’arte”, appassionavano e rendevano l’informazione più accattivante per i ragazzi stessi. Ho condotto anche attenti studi sulla psicologia delle forme e sui grafismi infantili a diretto contatto con gli alunni della Scuola Materna e Primaria: mi accorgevo che subito sui fogli di carta i ragazzi elaboravano segni che emergevano meravigliosi e si traducevano attimo dopo attimo in forme organizzate. Nella mia attività artistica a volte l’idea di una composizione o di una struttura è scaturita proprio da una di quelle forme. La sua produzione è intrisa di Magna Grecia. Quanto è importante per un artista contemporaneo il rapporto con l’arte del passato. Per me artista contemporaneo lucano, la Magna Grecia non è solo il passato, ma è la certezza delle origini, è la civiltà, è la coscienza e conoscenza della nostra memoria, in continuità col presente e col futuro; è un’opportunità di sviluppo per migliorarci. L’arte contemporanea ha ancora un valore etico e morale nella società globalizzata? (Ride) Certamente! Quanto è importante l’attenzione per un artista? Lo scopo delle mie opere è di concentrare l’attenzione, non sulle reazioni intellettuali e sentimentali, ma sulla realtà in sé, che è quella eternamente mutevole e indefinibile, qualcosa che chiamo vita, la quale è crescita continua e non si ferma mai per consentirci di incasellarla in un rigido sistema intellettuale. Io ho avuto molti momenti di ricerca artistica. Sono passato dal figurativo alle tele bianche, dalla pittura gestuale all’informale 11


(solo per citare alcune fasi del mio lavoro), convinto che l’arte deve tener conto anche della tecnologia accompagnata dalla conoscenza scientifica. Io ho vissuto ogni mio periodo storico intensamente, ma tutte le mie opere hanno come contrassegno, un comune denominatore che le rendono sempre riconoscibili sia nelle forme sia nei colori. Crede necessario, parlando di arti visive, aggiungere alla parola “arte” la parola contemporanea? Sì, perché l’arte contemporanea è quella che rispecchia la realtà sociale dei nostri giorni, che spesso è accettata per sentito dire e non perché sia veramente capita. Leonardo Sinisgalli in suo scritto associa il suo lavoro a Prampolini, Schwitters, Burri e Dubuffet. Ha lavorato con Ernesto Treccani, Joseph Beuys, Ortega, Mino Maccari, Pietro Consagra, e tanti altri artisti protagonisti di un clima culturale particolare. C’è un artista che avrebbe voluto conoscere da vicino e parlarci?

Durante la mia formazione ho conosciuto e frequentato tanti artisti importanti, tra cui Lucio Fontana, ma mi sarebbe piaciuto avere contatti diretti soprattutto con Alberto Burri e con Piero Manzoni. Oltre alla produzione pittorica ha praticato anche la realizzazione di forme tridimensionali che mirabilmente Massimo Guastella ha definito come “spazi extrapittorici”. Quali sono i medium che più si avvicinano alla sua ricerca e alle sue attese? Tutti! Dipende dai progetti. E sui titoli delle sue opere. Può parlarcene. L’aspetto informativo e comunicativo delle mie opere è legato ai miei segni, trasmettitori di significati più o meno specifici. Penso alla Semiologia, scienza che studia i segni. Essa identifica nelle varie sfere della comunicazione codici che permettono di trasmettere messaggi più o meno traducibili in altri sistemi di comunicazione. L’artista, che alla propria opera dà un titolo, suggerisce allo spettatore un tipo di messaggio condizionante e non stabilisce un codice di comunicazione spontaneo tra sé e il fruitore, poiché il titolo inquina il messaggio dell’opera che, già di per sé, è attiva e significante. Nei primi anni della mia esperienza artistica ero solito dare i titoli alle mie opere e notavo che con esse non si stabiliva una comunicazione in maniera spontanea perché generavano messaggi pertinenti al titolo e non davano al pubblico la possibilità di avvicinarsi a esse con interpretazioni personali. È poi tanto importante sapere quale significato abbia l’opera per l’artista? Ora, quando è opportuno mettere il titolo all’opera, uso versi di poesie aperti ad ogni interpretazione. Nel suo lavoro è partito da modelli iconografici realisti per approdare poi a un “vio12


lento processo di defigurazione” così come l’ha definito Maria Adelaide Cuozzo nel suo acuto saggio “Il demone della forma”. Cosa l’ha portato al passaggio da una figurazione di stampo espressionista all’astrazione? Mi raccontava Leonardo Sinisgalli che un giorno, entrando nel suo studio, vide il suo gatto sdraiato a terra su alcuni fogli d’incisioni strappati. Io penso che il gatto, tradito dalle immagini, avesse strappato quelle incisioni che riproducevano alcuni uccelli perché si era accorto che gli uccelli dipinti non erano veri. Probabilmente anche lui aveva capito che la funzione dell’arte non consiste nel riprodurre la natura e che il senso e il contenuto non si esauriscono nella somiglianza dell’oggetto rappresentato. Ha mai paura di fare quello che fa? No, credo proprio di no. Chi è stata la prima persona a incoraggiarla a dipingere? Non c’è stata una persona in particolare. Ricordo i tizzoni spenti a mo’ di carbonella che di nascosto prendevo e con cui tracciavo dei segni sulle pareti bianche di calce, mentre mia madre protestava. Continuai a tracciare quei segni a scuola provocando le reazioni della maestra, perché quegli scarabocchi per lei non rappresentavano niente e servivano solo a rovinare un quaderno, magari di “bella copia”. Insieme con artisti quali: Donato Linzalata, Antonio Masini, Luigi Guerricchio, Mauro Masi, Francesco Ranaldi (tutte presenze emblematiche del mondo dell’arte in Basilicata), rappresentate un gruppo eterogeneo di artisti che hanno avuto scambi proficui tra loro. Accetta i consigli, e se sì, da chi? Mi piace molto la vita in comune; mi diverto a conoscere le abitudini e i pensieri degli altri e a comunicare con i miei simili. Considerando il qualunquismo della società odierna, nasce spontanea la tendenza a isolarsi ma si corre il rischio di rimanere soli con quell’infinità di oggetti che la società mette a disposizione. I consigli sono come il sale per il lavoro dell’artista! Solo il confronto può portare a un miglioramento, perciò i consigli per me e il mio lavoro sono preziosissimi. Bisogna conservarli e rifletterci sopra. Negli anni Sessanta venne per la prima volta a visitare il mio studio Ernesto Treccani, il quale si complimentò per la mia preparazione tecnica, suggerendomi però di disegnare e dipingere a diretto contatto della natura, i paesi, gli uomini, l’ambiente, i paesaggi della Basilicata. Seguii il suo consiglio che mi portò allo studio antropologico della regione. L’arte e la sua personalità?

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Le forme delle mie opere sono il risultato di movimenti del mio corpo e in particolare del mio braccio e della mia mano; sono l’espressione di un ragionamento logico mentale, che cambia ogni volta per non diventare simbolo, ma seme poiché ogni forma genera discorsi nuovi. Le mie forme sono il parto mentale di forme filtrate dalla mia mente nel momento stesso in cui mi rivolgo alla natura e al mondo che mi circonda. Come trascorre la domenica? In questo periodo sto molto lavorando per l’allestimento di tre mostre in Musei Archeologici Nazionali. Qual è il suo primo ricordo? Non lo ricordo! Rino Cardone definisce il suo lavoro come “una serie di policromie plastiche”. Una definizione calzante visto l’uso che fa di materiali che danno spessore alla pittura (cartapesta, catrame, terre, tessuti, cartoni, cuoio, pigmenti sintetici e composti aggreganti, cera). Quanto è importante l’uso di nuovi materiali nel suo lavoro?

Spesso, mentre lavoro su una superficie, mi viene la voglia di stringere tra le dita qualsiasi materia che si trova in natura, di trasformarla in una forma suggerita dalla mia mente, poiché in ognuno di noi sono nascoste alcune forme in attesa di essere proiettate nel mondo visivo. Mi affascina l’uso di nuovi materiali: mi piace in questo periodo inserire tessere di computer o di altro materiale tecnologico. Pensa che avrebbe potuto fare qualcosa di diverso dall’artista nella sua vita? (a bocca chiusa) Hmmmmm! Non credo. Il suo piatto preferito? Non ho un piatto preferito, tutto ciò che è gustoso mi piace. Forse perché io sono un figlio della guerra, sono nato nel 1939 e all’epoca c’era tanta fame, tanta miseria. Quando vende la sua arte, le manca? Ricorda dove si trova? Sempre? Si! Sempre! Mi manca, ma sono lieto di aver dato le mie opere con i miei svariati messaggi perché io vivo nella società e per la società. Nelle mie ultime opere ho cercato di dare al fruitore anche un rapporto di godimento tattile che scaturisce dall’energia della materia. A suo avviso esiste una relazione tra arte e politica? Credo che l’artista debba guardare al suo tempo, vivere la sua realtà sociale, costatare i fatti e studiare le ragioni che determinano gli avvenimenti per esternare, come fatto 14


operativo, la propria “politica” nel momento della sua libera espressione. Io ho avuto da sempre un discreto rapporto con il potere politico, perché ritengo la sua funzione importante, perché può aiutare gli artisti a crescere. L’arte apre conflitti? Dovrebbe avere questo ruolo? Certo, se no che arte è. Altrimenti vogliamoci tutti bene e finisce lì. Questo è valido non solo per l’arte. Senza discussioni non esiste nulla. In un quadro di scambio tra arte e società l’artista riesce ad avere più di quanto non ottengono altri con settimane di laboriosa fatica, perché la sua forza sta “nell’economia della forza”. Ha avuto dubbi sul suo essere artista? Ogni giorno. Buona parte della sua produzione artistica è stata dedicata a progetti in spazi pubblici (Policoro, Metaponto, Bernalda, San Chirico Nuovo, Etroubles, L’Aquila, Macerata …) Crede che la sua arte debba essere comprensibile al pubblico? Credo che le mie opere dimostrino la loro operatività nel campo sociale, poiché si prestano a essere applicate come interpretazione a diversi fenomeni sociali; sono valide perché generano messaggi diversi alla società. Nella vita, come nell’arte, l’artista non spreca mai energie per fermarsi a spiegare, ma indica soltanto. Egli vede la vita in se stessa e le sue descrizioni possono diventare facilmente un sostituto della prima esperienza. Lo scopo dell’arte non è dunque quello di fornire una riproduzione della vita, perché la cosa reale è meglio d’ogni riproduzione, ma è quello di dare una traccia affinché lo spettatore possa vedere da sé. Come hanno reagito le persone intorno a lei quando ha cominciato a definirsi artista? La mia è stata un’evoluzione naturale, non intenzionale, dunque non ho mai avuto il bisogno di definirmi. Ancora oggi non mi definisco artista. Io metto quotidianamente in dubbio quello che dico e quello che faccio. Come operatore culturale è stato l’animatore di numerose iniziative: dal Circolo La Scaletta di Matera alla Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna di Bernalda-Metaponto, dal trimestrale d’arte contemporanea “Perimetro” (che ha ospitato firme del calibro di Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva ed Enrico Crispolti) alla Scuola Libera di Grafica di Matera (sul modello di quella ideata da Mario Leoni a Bologna). Come artista pensa di avere responsabilità in un contesto socio-culturale?

Ero giovanissimo quando a Ferrara conobbi l’artista Remo Brindisi: ricordo le interminabili discussioni sull’arte e la funzione dell’intellettuale nella società. Negli anni ’50 Remo Brindisi, uomo raffinato, delicato, di grande spessore morale, fu anche un personaggio scomodo per alcuni ambienti intellettuali italiani, perché artista refrattario al 15


condizionamento politico dell’arte e ai seguaci del realismo sociale. Le sue grandi tele dipinte negli anni ’50, richiamavano certa pittura espressionista europea del Novecento e denunciavano un’Italia dilaniata da numerosi problemi. Il maestro confidò a me, giovane artista, che i volti e le figure delle sue composizioni erano i volti dei suoi corregionali abruzzesi. I volti scarni, cotti dal sole, si presentavano come fantasmi che lui accoglieva sulle tele come si può ospitare la propria musa quando si è innamorati. Mi suggerì di essere rispettoso e innamorato della mia terra, delle bellissime forme dei calanchi, dei Sassi di Matera, dell’uomo lucano, della Magna Grecia e d’ispirarmi alle mie radici per poi confrontarle con altre situazioni ed evidenziarne pregi e difetti, e contribuire così a una crescita collettiva. Questa è stata una delle mie prime responsabilità. I mezzi per attuarla sono stati molteplici. La Basilicata fra la metà degli anni ‘50 e ‘70 offriva un ambiente culturale ricco di fermenti e stimoli grazie anche a un flusso di artisti, letterati, registi, (da Pasolini a Lattuada, da Ernesto De Martino a Cartier-Bresson, da Franco Pinna a Mario Cresci, da Rosi a Dario Bellezza). Intellettuali come: Mario Trufelli, Raffaele Nigro, Leonardo Sinisgalli, che rappresentano la coda della grande stagione del meridionalismo, hanno scritto sul suo lavoro. Insomma una regione viva. Come vede la Basilicata di oggi? Si trasformò moltissimo in quegli anni la Basilicata. In merito voglio raccontarle un aneddoto. Ho fatto una domanda a un docente di Storia contemporanea dell’Università di Basilicata in merito alla mancanza di sviluppo della nostra regione, nonostante un periodo nel dopoguerra fervido e attivo non solo dal punto di vista culturale ma anche economico (riforma fondiaria, sistemazione idrica del territorio, sviluppo dell’agricoltura avanzata, etc.). Oggi a questo patrimonio si è aggiunta la risorsa del petrolio, i patrimoni culturali, quelli enogastronomici, etc. ma rimaniamo sempre una regione in sofferenza. Perché? Mi è stata data questa risposta: ”La classe politica di allora aveva una visione del Paese a medio e lungo termine, visione che oggi non c’è più”. Hanno scritto sul suo lavoro importanti rappresentanti della critica d’arte Italiana: Claudio Spadoni, Elena Pontiggia, Giorgio Segato, …; qual è il suo rapporto con la critica d’arte? Coi critici e storici dell’arte il mio rapporto è abbastanza positivo, perché a me piace colloquiare con loro sia sulla mia arte, sia sull’arte contemporanea in genere e su tutto ciò che ha a che fare con l’arte. Quasi sempre, dopo il primo incontro, diventano miei amici. La pittura, così come gli altri mezzi artistici, da qualche tempo non sono più linguaggi analizzabili lungo un asse storico ed evolutivo, ma si situano su un piano orizzontale, all’interno di categorie critiche instabili. Percepisce questa precarietà quando realizza un’opera?

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Nella mia produzione artistica la precarietà è abituale. Esiste un’esigenza di non conchiudere il fatto plastico in una struttura definita, di non determinare lo spettatore ad accettare la comunicazione di una data configurazione, ma di lasciarlo disponibile per una serie di fruizioni libere, in cui egli scelga gli esiti formali che gli appaiono congeniali. Nelle mie opere non è presentato un universo figurativo conchiuso: l’ambiguo, il vischioso, l’asimmetrico, intervengono proprio per far sì che lo spunto plastico-coloristico proliferi, continuamente in forme possibili. In quest’offerta di possibilità, in questa richiesta di libertà fruitiva sta un’accettazione dell’indeterminato e della precarietà. La prima memora culturale? Una mostra al Circolo Cittadino di Lecce del pittore salentino Ciardo, il quale presentava una pittura di stampo impressionista che mi affascinò. Da allora cominciai a interessarmi anche ad altri pittori, in particolare a Giuseppe Casciaro, un pittore di Maglie che usava i pastelli a cera in maniera egregia. Così anch’io iniziai a sperimentare la materia morbida e oleosa dei pastelli. Un libro che le ha cambiato la vita? Durante il mio periodo di formazione i libri erano molto rari e preziosi perché costavano. Negli anni della maturità, invece, accumulai centinaia di libri con cui tappezzavo la mia casa e il mio studio. Il libro cui io sono stato più affezionato è il romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, perché lì ritrovo tutto il Sud. Il posto dove le vengono più idee? Non c’è un posto particolare: io sono come una carta assorbente. Che cosa sta leggendo? Un romanzo di Giuseppe Lupo che, con Raffaele Nigro e Gaetano Cappelli, ritengo uno dei più importanti scrittori lucani contemporanei. Guarda la tv? Certo! Per capire la nostra epoca non possiamo prescinderne. Qual è il luogo preferito? Il mondo! Nonostante i miei problemi con le lingue straniere. La sua scusa preferita?Ho da lavorare! Tristan Tzara diceva: “Un’opera che possa essere tradotta in linguaggio è giornalismo”. A cosa è interessato in un’opera? 17


Il messaggio semantico delle mie opere è la mia storia, che è narrata attraverso le forme. Esse sono il raggruppamento di elementi significanti, di un piacere che è nella stessa natura della mia materia, di quello che provo nel risolvere un problema facile o un indovinello. Qual è il punto raggiunto che ritiene inutile continuare a produrre opere d’arte? Io non mi fermo mai e quando penso di aver raggiunto un punto sono subito pronto a sperimentarne altri. Speculazione e arte. Può includere queste due parole in una qualsiasi considerazione che le contenga entrambe? Tutti gli oggetti d’arte sono processi speculativi di un’esperienza razionale. Qual è il consiglio che può dare a un giovane che si avvicina al mondo dell’arte?

Di lavorare! Il problema della cultura contemporanea è che molti giovani credono che il loro percorso formativo presso accademie o scuole varie sia sufficiente per essere artista. Tono Zancanaro mi ha insegnato che l’artista non è un Dio, ma un lavoratore. La sua formazione accademica è avvenuta a Firenze, tra esempi di schiacciato donatelliano e sculture michelangiolesche. Cosa pensa della formazione accademica relativa all’arte oggi in Italia. È notevolmente peggiorata e le spiego il perché. Prima nelle accademie o negli istituti d’arte insegnavano personaggi, chiamati in virtù di “meriti acquisiti”. Ogni docente presentava il suo curriculum afferente le proprie attività artistiche e una commissione ne valutava “il merito”. Oggi le cattedre si assegnano per concorsi e credo che questo sia il problema. Prima le accademie erano fatte da artisti, oggi da docenti. Un esempio può essere rappresentato dalla mia formazione. Quando arrivai a Firenze per frequentare il Magistero di Porta Romana (1954), io ero un ragazzo del Sud che aveva grande manualità nel disegno e nella lavorazione del legno, ma non possedevo un metodo creativo, né conoscevo i materiali moderni. M’iscrissi alla sezione arredamento e il tek in quegli anni era il materiale più di moda nella progettazione degli interni. Io conoscevo solo il legno massello con cui al Sud si costruivano oggetti d’arredo poveri e d’ispirazione ottocentesca. Ricordo che il mio professore d’arredamento, che apprezzava molto il mio stile di disegno, per sbloccarmi creativamente mi assegnò il compito di creare l’arredo di una delle più importanti “case di appuntamento” di Firenze. Un’idea che poteva partire solo da un artista!

Nel 1969 è stato il fondatore del primo studio calcografico a Bernalda, in Basilicata 18


che ha stampato anche lavori di Joseph Beuys, Schifano, Ortega, Treccani. Un lavoro che presuppone grande manualità artigianale. Qual è stata la sua esperienza in merito? Il mio ispiratore fu Mario Leoni, un esperto incisore, che aveva a Bologna un importante studio calcografico cui avevano accesso tutti gli artisti bolognesi e non solo. Un giorno m’introdusse nel suo studio il mio gallerista e da quel momento diventai un abituale frequentatore, finché Mario mi convinse a installare nel mio studio di Bernalda un torchio, che diventò il punto di riferimento di artisti lucani e non. Il secondo studio calcografico lo installai a Matera. Insieme con alcuni amici artisti, quando ero Presidente del Circolo Culturale La Scaletta, fondai La Scuola Libera di Grafica. Quando, qualche anno dopo, conobbi Josè Ortega, che tenne a Matera un’importante personale, imparai dall’artista artigiano alcune tecniche arcaiche e l’importanza dell’artigianato nell’arte.

Come vorrebbe cominciasse la sua autobiografia? (Ride) E che devo dire!

Bernalda, aprile 2014

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Oronzo Parlangeli - Lecce Glottologo docente Magistero Bari

E così i volti acquistano un senso e le solitudini assolate si riempiono di vita. Quando vuoi parlare di un ‘nuovo’ artista, è quasi d’obbligo instaurar e confronti, più o meno sacrileghi e incerti, or con questo or con quel ‘vecchio’. E, conto per pagare un tributo a codesta consuetudine, ecco che anch’io tiro fuori pur col pericolo d’attirarmi fulmini e inventive e santissime accuse di badiale incompetenza il mio bravo nesso tra la pittura del ‘piccolo’ Sebaste e quella dei ‘grandi’. Ma, quei suoi volti muti, anepigrafi e pur tanto eloquenti, come non accostarli ai non volti di Casorati, come non ricordare gli scolari, anch’essi ammucchiati davanti a un tavolo? E certe figure del Sebaste non ti ricordano le bagnanti del Carena, persino nello schema compositivo? Ma sono nessi che, certo, nulla hanno d’immediata genealogia; e i ricordi non sono stucchevoli ripetizioni, ma come concordi intuizioni di ricerca testarda e assidua. Quando, poi, l’anepigrafo del volto umano si dispone in un’ordinata sequenza cromatica, ti accorgi che il Sebaste non discende dal Casorati né risale al Casorati. Davanti a quei non volti potremmo discutere a lungo e, forse litigare; ma non li capiremmo intimamente se non considerassimo anche l’altro filone dell’interesse pittorico del Sebaste: i paesaggi. Qui emerge l’indagine cromatica calma e distesa, ma non stucchevole, so­p rattutto, ben attenta a non inciampare nei due opposti poli dell’oleografico uggioso o del gra­t uito sperimentalismo.Certi toni di giallo e certi rossi tranquilli si sposano amorevolmente ai grigi di un remoto pessimismo diffidente. Ma poi ti accorgi che anche i paesaggi sono aperti a ogni avventura come i volti, ciechi e muti, ai quali tu presti il tuo sguardo e la tua parola ma, soprattutto, la tua anima; e i campi e i mari te li senti vicini, come se tu fossi in essi e, in essi, tu trovassi la tua presenza. E cosi i volti acquistano un senso e le solitudini assolate si riempiono di vita. Oronzo Parlangeli, Dal Catalogo Mostra “Salvatore Sebaste”, Circolo Unione, Matera, 1967. 21


Enzo Spera - Perugia Docente Tradizioni Popolari Università del Molise

L’amara poetica di Salvatore Sebaste La problematica che gli ultimi lavo­r i del Sebaste sollevano, e precisamen­ te quelli datati dal 1968 a oggi, si rivela, per certo impegno programma­ tico, subito complessa e aperta, oltre che a soluzioni, soprattutto a formula­ zioni diverse e multiformi che, prestando­s i a una facile, quanto, per altro, limitatamente valida letteratura di formulazione retorica e borghesizzante, allontanano per la loro efficacia e for­z a comunicativa ogni discorso da una, se non netta, quanto meno pertinente e oggettiva, posizione critica che sia autenticamente e rigorosamente tale. Facilmente si fa slittare (ed è que­sta un’incontrovertibile alternativa di certa pseudo critica di tipo “circolo culturale”, in cui giocoforza si trasci­n a, seppure in buona fede, un pittore relegandolo a un livello troppo sem­plicisticamente provincialistico) nel solo aspetto con­tenutistico considerato a sé come mera rappresentazione narrativa, allonta­n andosi dall’analisi completa dell’ope­ra osservata nel suo insieme di rappre­s entazione, non restrittivamente sce­nografica e oleografica, come di solito avviene, ma come “fatto” e “evento” pittorico. Farsi prendere dai particolari, dalle immagini, dagli oggetti raffigurati o trasfigurati - e con la pittura di Sebaste la tentazione è forte -, signi­fica rimanere alla superficie, legati alla scorza narrativa e non approfondire, invece, in tutte le direzioni, sia “pro­b abili” sia “possibili”, l’analisi che degli oggetti, delle immagini deve ser­v irsi solamente come pretesto iniziale o come punto di riferimento. Seguendo certa tradizione critica, che va sempre comunque contestata o almeno integrata, potrei parlare a lun­g o - senza per altro nulla aggiun­g ere a quanto è stato già detto - della civiltà contadina della provincia ma­terana, cui Sebaste appare legato sen­t imentalmente e linguisticamente, che, pur cambiando in certi aspetti formali è rimasta immutata nella sua essenza e nel contenuto umano costante, non soggetta, per la sempre crescente emi­g razione, a una sorte di dissangua­m ento cronico di “forze-uomo”: non a caso predominano soggetti femminili e infantili. Potrei parlare dell’ispira­ 22


zione sapientemente innestata, deriva­t a e contenuta nella matrice di certa cultura tradizionale popolare non limi­tatamente meridionale ma mediterra­n ea e quindi della scelta particolareg­g iata e significativa dei soggetti assun­t i a elementi di trasposizione: spiri­t elli alati, piccoli demoni e donne a essi soggette, fattucchiere, aglio e origano per i relativi scongiuri. Po­t rei, infine, riferirmi ancora a tutti quei risvolti sociali larvatamente e apertamente polemici e di denunzia di una ben individuabile situazione sia politico-culturale sia umana: “senso vietato”, “il parto”, “15 agosto ­ stazione”, ecc. Così facendo, però, mi limiterei a un’enfatica descrizione della pit­tura del Sebaste, o meglio, del mondo da cui egli trae materia d’ispirazione, mondo già di per sé sufficientemente chiaro e denunziato: sarebbe, in ulti­m a analisi, un pretesto per una narra­ zione dai risvolti pseudo letterari e non giustificatamente pertinenti. Artisti non si è solo per “ciò che si dice”, ma soprattutto per “come lo si dice”. Fermo restando il valo­r e descrittivo e prosastico dell’opera del Sebaste che dal tono aneddotico, più o meno didascalico, passa a un tono superiore, più ampio e aperto di vera narrazione, in ogni accezione del termine, sviluppante una chiara quanto valida poetica di stampo meridionali­stico, penso sia molto più giovevole e interessante seguire l’evoluzione e la maturazione espressiva che ha permes­s o al pittore di Bernalda di poter im­p ostare, servendosi di un linguaggio perfettamente adatto, un discorso complesso e particolare nell’attuale momento sia artistico e di conte­stazione di certe “forme” sia di ri­c erca di nuovi mezzi e di linguaggi sempre più aggiornati. Solo alcuni anni fa, pochi del resto, era evidente nell’opera del Sebaste cer­ta adesione culturale e formazione di estrazione espressionista: il colore era sentito molto per il suo valore croma­t ico e di contrasto più che per il suo aspetto di tramite e di pretesto narra­ tivo. Era allora che si poteva rilevare un certo effetto coloristico di contrasto corposo e di piani sovrapposti, in cui le immagini vivevano più per il loro aspetto di scomposizione della cam­ p itura che per vita propria dialettica­m ente intesa: non avevano, insomma, una vera e propria funzione che fosse altrettanto autonoma dal contesto della strutturazione della composizione. Da quel periodo agli attuali lavori si è delineato sempre più uno sviluppo intenso sia nella problematica dei va­lori, sia, e ancor più, nella reinterpre­tazione compositiva e quindi trasposi­t iva del contesto della 23


narrazione, tanto l’immaginazione quanto il linguaggio si sono snelliti e liberati da ogni forma di verbosità per farsi quasi scar­n i e ridursi all’essenziale: unico mo­d o, questo, per rispecchiare certi ben determinati aspetti della realtà, specie quando la realtà da cogliere e reinter­ pretare è quella di un paese della pro­v incia meridionale che certo non aiuta, per i suoi aspetti scontati, a scrol­l arsi della retorica compiaciuta e del decadente gusto scenografico della de­s crizione minuziosa. Assumere quindi una posizione che sia di giusto e composto equilibrio non è impresa facile. Salvatore Sebaste vi è riuscito ope­r ando in se stesso una vera e propria operazione di cernita critica, libera da ogni inutile sentimentalismo. Ogni lavoro, ogni immagine è una narrazione a sé, conclusa e chiara sin dall’inizio: narrazione, che, bucolica, elegiaca, polemica, fantastica o dram­m atica, non indulge mai ad abbandoni e a leziosismi, è sempre aspra e vio­ lenta. A v ol t e ba s t a una s e m pl i c e “scritta” su di un muro per ambien­t are i personaggi - o a farne sentire la presenza -, anch’essi ridotti a un essenziale umano che li rende appena riconoscibili come comparse di un con­t inuo dram-

ma. Il suo è un linguaggio che sa servir­s i delle scansioni metriche più sempli­c i tanto da apparire, a prima vista, quasi slegato ed euritmico, mentre è proprio questa sua apparente semplicità che fa da tessuto connettivo per tutta l’opera.

Il procedere per vaste campiture, libere e aperte – dal secondo piano arrivano fino all’infinito, all’annullamento di qualsiasi orizzonte – dove l’unico colore, oltre il bianco di base, è l’ombra della superficie granulosa e scalfita da un nome o da un nume­ro, serve a conferire all’immagine, ani­m ata o inanimata, una vita ben definita e chiusa, limitata nella determinatez­z a di un istante che non ha limiti co­m e non ha limite e cesure lo stesso fondo: pressante e abbacinante muro di calcina. L’esacerbare certe espressioni e for­me, accentuandole ed esagerandone la reviviscenza, assume, nell’insieme del contesto narrativo, un valore più am­p io del semplice pretesto pittorico per giungere a un completo svincolarsi, almeno potenziale, dal facile descritti­ vismo analitico. Le figure e le immagini di animali, di semplici oggetti di vita quotidia­n a, vivono ben identificabili su super­fici altrettanto ben delineate e scan­ dite, a volte quasi al margine delle campiture, una vita che non è 24


com­p letamente né esclusivamente umana o di cosa-oggetto. C’è, nell’attuale linguaggio, una sec­c hezza di espressione e di enunciazio­ ne, più voluta e studiata che compia­c iuta e trovata, che cerca di essere più possibile fedele al ben determina­to mondo che gli si configura continua­m ente intorno. Questa caratteristica della pittura del Sebaste è ravvisabile immediata­ mente nell’effetto che i suoi lavori producono: i colori, non a caso scelti e presentati in determinati toni, spo­ stando ben lontano la sua attuale pit­tura da quel sentire originariamente espressionistico; è chiaro che ha tro­v ato un maggior senso della misura che sa suggerirgli al momento giusto quan­d o un’altra pennellata è di più. Ci risulta così una conquistata maturità che però non si limita solo a certo “mestiere”, ma anche e so­p rattutto alla scelta del soggetto foca­ lizzato sempre nel momento della mas­s ima espressività: da cui deriva certa drammaticità mai enfatica o plateale, ma contenuta in un’indefinibile e si­lenziosa violenza interiore che si tra­sforma in rassegnazione, e che è, poi, coscienza del proprio stato e passiva disperazione. Sono immagini in cui i tratti, per certa istintiva alterazione e composi­ zione, stanno al limite dell’umano e dell’animalesco; trascendono, in altri termini, il loro effettivo stato che sia semplicemente reale. A questo punto si potrebbe inse­ r ire Salvatore Sebaste non tanto in un particolare figurativismo, quanto, per alcune caratteristiche costanti della sua ultima pittura, in certo metafisicismo, considerando però il termine semplicemente come orientativo e non restrittivo e limitato a schemi ormai tradizionali e di scuola: metafisicismo colto, quindi, nella più ampia acce­z ione del termine. Del resto, a conva­l ida, basta leggere attentamente, più che guardare, certe nature morte - che poi non sono neanche tali - in cui gli oggetti e le cose sono presen­t ate isolatamente e non solo per ciò che sono e rappresentano ma per quel qualcosa di “altro” che potenzialmen­t e possono essere e significare. Poiché sono sempre contrario a chiu­d ere qualsiasi pittura nel definizioni­s mo (correrebbe rischio di svuotarsi di ulteriori contenuti e, mal interpre­t a, ridursi a semplice schema), tengo qui a sottolineare che ogni indicazione deve essere sempre e solo considerata come altra alternativa “possibile”, co­m e altro modo di leggere. Considerazioni diverse, più nella fles­sione del linguaggio che non nella sua im25


postazione compositiva, per quanto riguarda, invece, la grafica. Il dettato è seguito da un tratto nervoso e al tempo stesso morbido e quasi sensuale. Le corrispondenze e i richiami segnici, gli accordi ritmici, le cesure di un grafismo apparente­m ente facile e libero, rispondono a una ricerca del segno che liberamente s’incanala in forme piane e aperte e le descrive quasi per forza propria. Nella grafica il Sebaste indulge, sep­p ure in misura molto limitata e quasi trascurabile, a certo apparente lezio­s ismo descrittivo che è poi partecipa­z ione piena alla narrazione ed è giu­stificabile, se non del tutto accettabi­le, quando s’inserisce in certo “essere meridionale” fatto di ampi gesti inscindibili da qualsiasi elocuzione ver­b ale: basti pensare alla Lecce barocca da cui egli proviene. Riguardo poi a certe “parentele” ve ne possono certo essere, di “san­ gue” e di “adozione”, ma non penso sia questo un canale da seguire nep­ pure a livello di alternativa o di adozio­ne colta perché le “parentele”, già scoperte e denunciate, sono tali a un precedente livello di formazione e te­s timoniano un’apertura sempre grande verso un sempre ulteriore lin­ guaggio che, pur non prescindendo da certi valori sintattici e grammaticali prettamente provinciali, nel senso di “tono” e di “cadenza”, riesce a essere fortemente comunicativo ed ef­ficace. Se le “parentele” possono servire a qualcosa di simile, a rendere cioè più personale, misurato e comunicati­vo il linguaggio pittorico, che ben ven­ gano.

Enzo Spera, Dal Catalogo Mostra “Salvatore Sebaste”, Galleria “Il Sedile”, Lecce 1970. 26


Lino Cavallari - Bologna esperto d’arte

Partecipazione vissuta e sofferta alla realtà sociale Con tutte le speranze di riscatto e di risveglio, il Sud d’Italia rimane pur sempre come un paese a sé, una mitica terra di missione. Qui persistono tenaci le superstizioni sedimentatesi in secoli di quel deplorevole abbandono che umilia le sue popola­z ioni attive e intelligenti, ma qui si può ancora trovare, pressoché allo stato puro, l’eredità classica del pensiero ellenico, il tesoro di tradizioni inconta­minate e quella fidente speranza nel rinnovarsi della terra descritta da Esiodo nelle “Opere e i giorni”. Amarezza e conforto, invettiva ed elegia, “threni” e canto spiegato: questa la millenaria crosta dell’uo­mo del Sud, continuamente oscillante fra l’apollineo e il dionisiaco, con esclusione dei

mezzi toni. 0 si è o non si é. Salvatore Sebaste, che vive e opera a Bernalda, nella favolosa plaga di Metaponto, in cui, chi sa distinguere, può udire ancora, portati dal mare, gli echi della splendida civiltà dell’antica Atene, è cre­sciuto su un tessuto arcaico nutrendosi di questa linfa. Nella sua tematica pittorica sono presenti il dolore rassegnato delle inesauste ‘figliatrici’ sepolte in abiti luttuosi ancora in età giovanile, le terrifi­canti leggende dei lèmuri e lamie che tentano di penetrare nelle abitazioni solo fermati da festoni di aglio, il bucolico trotterellare di un contadino sul proprio mulo, la potatura degli alberi di una semplicità degna di Wiligelmo, la mesta attesa del “treno della speranza”. Altrove, invece, la sua protesta contro tutto ciò che è assurdamente vietato 27


è riassunta da monelli che, con la fionda, scagliano sassi contro un divieto di transito o si allarga in gemiti irrefrenabili nel compiangere le vittime di una disumana lotta civile: partecipazione vissuta e sofferta alla realtà sociale della Lucania che ha le sue radici storiche nelle dominazioni di Grecia, Roma, dei Goti, dei Longobardi, dei Bizantini, dei Franchi, dei Norman­n i, di varie altre signorie ugualmente rapaci, fino ai Borboni, i più deplorevoli di tutti. Ma parliamo della pittura del Sebaste, del modo di “riempire” il quadro dallo sfondo generalmente abbacinato - come le sue contrade quando il sole lancia i dardi a perpendicolo con figure del pro­letariato dai tratti facciali approssimativi, quasi a significare il loro anonimato (Guttuso e Bacon?) che si aprono a ventaglio, poveri fantocci di stracci, in tutto quel candore, dai muri calcinati, su cui una mano anonima ripete ora “evviva”, ora “ab­basso” (Dubuffet?) Non sono soggetti gradevoli, mancano di ogni leziosità che possa renderli frivolmente esornativi. Eppure la forza dell’artista consiste proprio in quest’ossessivo ri­proporre le superfici sbrecciate, le ammucchiate di povera gente affamata e malata come al tempo dei Borboni, il lamento corale di misere donne che non hanno mai conosciuto il sorriso, i diavoli dalle ali di vampiro che insidiano il sonno. Salvatore Sebaste ha compiuto la propria formazione artistica prima a Lecce, poi a Firenze, il che è quanto di meglio si possa desiderare nel Sud e nel Nord; poi, col suo bagaglio di nutrite esperienze stilistiche ed espressive, si è stabilito nel territorio lucano del Metapontino, colmo di risonanze spettacolari. Là, però, fra i grandi avanzi del tempio dorico consacrato a Hera, fra le colonne dirute cui si appoggiò Pitagora, e che si favoleggia siano servite di sostegno alla mensa di eroi guerrieri di straordinaria prestanza fisica, si è lasciato prendere dalla nostalgia dei suoi soggiorni nel Settentrione, ed ha scelto Bologna come sede culturale per le sue esposizioni in anteprima. A Bologna hanno sede le Edizioni Svolta per conto delle quali sta eseguendo una serie d’incisioni all’acquaforte che saranno pubblicate in cartella; nella stessa città opera lo scrittore Roiss che lo ha segnalato nella rivista “Le Arti” (fascicolo di novembre 1969) e gli ha allestito, nella Galleria Palazzo Galvani del Comune di Bologna, la sua prima personale, lontano dalle regioni meridionali. “Bologna sarà la mia città di adozione. Altri pittori hanno scelto Roma o Milano, io ho preferito la città delle Due Torri. Nel suo abbraccio caldo e fraterno, nel suo clima gaio e riservato, si lavora molto bene”. Lo ha detto Salvatore Sebaste, uomo e pittore del Sud.

Lino Cavallari, Dal Catalogo Mostra “Salvatore Sebaste”, “Galleria di Palazzo Galvani”, Bologna, 1970. 28


Ernasto Treccani - Milano pittore scultore giornalista

Caro Sebaste, riprenderò nell’inviarti l’augurio affettuoso per la tua mostra, il discorso accennato nello studio di Bernalda, davanti alla finestra con lo straordinario paesaggio di tetti e di campagna che si perde lontano, verso Metaponto. Il tuo lavoro recente rappresenta un notevole passo avanti, quasi un salto qualitativo. Come ogni giovane pittore che si rispetti hai seguito esperienze diverse, ma ora la tua ricerca ha accenti personali che derivano anzitutto dalla considerazione più matura delle ragioni artistiche e umane per cui dipingi. L’artista, il poeta, il musicista è un modo di essere, non solo un modo di esprimersi. In una società per tanti versi chiusa, ottusa, sempre più coercitiva e intollerante, l’arte è un modo di difendere la propria e l’altrui libertà, di testimoniare al futuro, di comunicare ai contemporanei, di rendere comune un patrimonio d’intuizioni, di conoscenze, di affetti che altrimenti andrebbe perduto. Difficile è riconoscere il rapporto che esiste tra libertà espressiva e partecipazione alla storia degli uomini. Mi sembra che i ‘personaggi’ dei tuoi ultimi quadri non sfuggono a questo rapporto. Certo come ti dicevo a voce, un artista vero non si lascia irretire nelle formule, per quanto felici e personali possano apparire. Le figure sofferenti e vocianti di alcune tue tele, che ora traggono risalto dal biancore del fondo, domani – chissà assumeranno altri significati di vita e di colore da una diversa articolazione formale. Può darsi che ciò generi squilibri e non sia subito capito. Poco importa. Ciò che rimane è la tensione che uno riesce a immettere nelle forme, in altri termini la vita, il sentimento, la ragione. Ancora auguri Ernesto Treccani, Dal Catalogo Mostra “Salvatore Sebaste”, Galleria“ La Bottega”, Milano 1970. 29


Emilio Contini - Bologna pittore

Mono­c romie chiare e nitide Della Lucania assolata il Sebaste si porta dietro il vivido biancore degli intonaci, l’assoluto ritmo compatto delle superfici, la elementarità delle archi­t etture. L’incontro con la dolorosa realtà dell’antica regione meridionale, con un mondo primitivo, col “profondo Sud” italiano che abbiamo imparato ad amare sulle pagine più intense e sofferte di Carlo Levi (lo scrittore catapultato negli Anni Trenta in B a s i l i c a t a d a l f a s c i s m o ) , d e d i c a t e c o n t e n e r e z z a a quel paesaggio lucano simile alla Palestina. E da quei paesi dell’ultimo Appennino riecheggia oggi lo stesso linguaggio, in mono­c romie chiare e nitide, attraverso il pennello del Sebaste. Compai ono, trattegg i ati c o n f o r za di s i n t e s i , aspetti di una terra antica, ferma nel tempo, non molto dissimile da quella conosciuta trentacinque anni fa dal Levi al confino, con i rudi abitatori dei poveri paesi, la secolare miseria dei borghi, le tradi­z ioni remote e le superstizioni di un popolo abbar­b icato ai vecchi costumi. Con un primitivismo asciutto, senza indulgenze letterarie, ma con una spontanea suggestione “naive”, il pittore della Lucania porta sulla tela figure, mac­ c hiette, personaggi locali, popolani intenti al lavoro e disoccupati al sole, angoli di paesi, scorci di vie e, soprattutto, i muri calcinati e bianchi delle case, con finestre simili a feritoie, pertugi oscuri aperti come nere occhiaie, e gli immancabili mazzetti di aglio e di origano appesi alle pareti, in una sorta di rustica decorazione. Questi ultimi dipinti, apparentemente monocordi e molto somiglianti tra loro, sono i più interessanti perché presentano gli impasti più elaborati e insistiti, mentre le composizioni con figure tendono a un espres­s ionismo talvolta un po’ forzato. Il Mezzogiorno più desolato e oscuro, legato a un’esistenza che il “boom” economico e la rina­s cita industriale non pare aver neppure scalfito, trova in Salvatore Sebaste un interprete attento e sensi­b ile, con fedeltà di vocazione. Emilio Contini, Dalla Rivista “Eco d’arte”, Firenze, n. 14, marzo 1970. 30


Franco Solmi - Bologna critico d’arte

Il mondo pittorico di Salvatore Sebaste Fondo «popolare» acquisito su una particolare realtà di vita e di costumi, ma anche sovrapposizione avvertita di forme colte e perfino smaliziate, costi­t uiscono le costanti sulle quali si costruisce il mondo pittorico di Salvatore Sebaste, affollato di figure e oggetti consueti, anche «dialettali», ma sempre tenu­t e in misure rigorose di spazio e di «tono». I suoi in­t erni, le sue processioni profane, quel cogliere, con sottile intuito, I’ombra di un gesto antico e il battere inquietante della luce su di un particolare, fanno pen­s are che la scelta dei modi compositivi, apparente­m ente ingenua, sia invece frutto di un sentire raffi­ nato, e talvolta perfino intellettualistico. La scelta de­g li ambienti, il disporsi delle masse cromatiche e vo lumetriche secondo rapporti sempre «inventati» anche quando tendono ad apparire suggeriti da un’indagine realistica, testimoniano una singolare vo­c azione del Sebaste per la creazione di strutture in fondo astratte più che non sembri dal contesto narra­t ivo che offre l’occasione al quadro. Da questa continua invenzione di rapporti essen­z ialmente plastici, dalla continuità insistita delle for­m e discorsive allineate secondo una logica personale, nasce la suggestione di queste opere che, se hanno certo fondamento nella quotidianità d’un so­p ravvissuto spirito rituale proprio del Meridione d’I­t alia, trovano giustificazione linguistica nel recupera­r e, assai moderno, dei modi fascinosi dell’antico car­t iglio e nei ritmi, battuti secondo le leggi del recitativo popolare e dei misteri sacri. Non bisogna credere che il Sebaste non si renda conto della componente intellettualistica che struttu­r a il suo lavoro: i riferimenti ai maestri frescanti del tardo medioevo italiano sono troppo scoperti, e l’uso della luce in funzione così decisamente «mediterra­ n ea» testimoniano ampiamente dei recuperi culturali di cui l’artista si vale per definire, nel più lucido (e vorrei dire allucinante) dei modi iI suo dipinto. Sebaste opera in un’area di lavoro in cui la dialet­ t ica delle tendenze giunge con toni affievoliti e dove più ampio spazio è dato all’immaginare. II peso del «fantasti31


co» si avverte come necessità di liberarsi, nel momento del «fare immagini», da condizionamen­ t i esterni tanto pressanti quanto assai poco credibili. Che cosa può insegnare, a un artista come Sebaste, la poetica mercificante di un’avanguardia senza fantasia e senza vere inquietudini? E, diciamolo pu­r e, cosa possono insegnargli le risposte polemiche a quest’avanguardia, quando il discorso che esse por­t ano avanti è di tipo negativo o, peggio, colmo di co­n ati tradizionalistici? Mi sembra che la scelta di que­ s to pittore cada entro quella sfera che una volta si chiamava dell’individualità creatrice, e che oggi de­f iniamo sfera dell’irrazionale che si oppone alla razionalità dei sistemi, anche a quella dei sistemi estetici. Sebaste recupera innanzitutto una «sua» dimensio­n e, tanto lontana da quella entro la quale si svolge il gioco culturalistico dell’arte contemporanea, quanto può essere lontana la misura individualistica da quel­ la sociale. Difficile, quindi, definire il suo lavoro secondo schemi, ma abbastanza agevole comprenderne l’intima necessità solo se si pensi alla tensione, pro­p ria dell’artista, a costruire il suo mondo nel rifiuto, quasi programmatico, di quello imposto dagli «al­t ri». Così possono riapparire, nei suoi quadri, gli antichi ritmi narrativi, le antiche angosce individuali e collettive, l’amore per il mistero, l’afflato romantico, ma anche il duro sapore reale, pietrificato nell’urlo di dolore, nel gesto disperato del «posseduto» e in quello perverso della «spia». E tutto questo comples­s o d’iconografia popolare può riapparire proprio nel momento in cui le moderne poetiche l’hanno ne­g ato definendolo, con il tipico linguaggio dell’industria culturale, obsoleto. Ma questi gesti antichi, carichi del peso di soli abbacinanti e inquinati, di tutta l’a­s prezza della terra incoltivabile e del rovo, sono pur ge­s ti della quotidiana paura dell’uomo, anche se all’indemoniato, nell’iconografia di una moderna sacralità e di un attualissimo rituale, si dà il volto più rassicurante del nevrotico. Non sono opere piacevoli, né consolatorie, quelle di Salvatore Sebaste: è perfino troppo facile convenirne. Esse sembrano riportare in superficie le antiche, e individuali non men che col­l ettive, radici del dolore, dell’angoscia, della solitudi­ ne, della rivolta sconfitta. Quelle stesse radici che la società contemporanea cerca di dimenticare e di na­s condere sotto il velo d’acciaio e di cristallo che im­p rigiona I’uomo tecnologico.

Franco Solmi, Dal Catalogo Mostra “Salvatore Sebaste”, Galleria di Palazzo Galvani, Bologna, 1970. 32


Tono Zancanaro - Padova pittore grafico

Pochi elementi essenziali e l’uomo Si parla tanto di provincia artistica, ma è pur ri­s aputo che nessuno sa dove comincia davvero e dove finisca, la provincia. Per un artista del Sud, Palermo o Napoli possono essere ancora le capitali, i grandi centri, dove l’arte e la cultura si scrivono a tutte maiuscole. Poi, più in alto delle capitali culturali e artistiche del Sud, ci sono Roma e Milano, e il discorso si fa, allora, europeo. Ma più in alto ancora ci sono Nuova York e Parigi. E qua sì che il discorso si fa proprio grosso. Senza contare quel vero fantasma che è il Mercato d’Arte, gran termometro di tutto. Eppure anche il tema cultura provinciale e artisti­c a ha fatto il suo tempo, e giustamente. I mezzi di comunicazione e di divulgazione permettono or­mai anche al più sprovveduto dei giovani artisti di nascere, crescere e maturarsi europeo. Ma al­lora: era indispensabile tanto discorso per pre­sentare l’opera del giovane pittore lucano Salva­ tore Sebaste? Certo che sì, non guasta davvero ri­petere la verità, e magari fino alla noia, pur di smuo­v ere la confusione e l’imbroglio che governano il mondo dell’arte e la bestia nera che lo domina: il Mercato d’Arte! Salvatore Sebaste, giovane pittore che vive, e opera a Bernalda, splendida e classica cittadina del basso Materano, si è formato - e giustamente in un certo senso - a Firenze, antica «capitale della cultura e dell’arte italiana». Poi se n’è tornato nella sua terra. Attivo fin da giovanissimo, ora può presentare un vero e proprio profilo di mostre personali e colletti­ve, con relativi premi e segnalazioni che rappresen­t ano, detto onestamente, la controfigura del continuo positivo operare dell’artista. Sebaste, come ogni giovane vivo, dav33


vero ha toccato e cercato con accanimento le più diverse esperien­z e stilistiche o espressive, ma il discorso che va fatto è sulle sue pitture recenti: le opere che egli presenta in questa personale. Si tratta di un largo, complesso «discorso», vere «variazioni» sul tema degli uomini che lavorano e si agitano drammaticamente, nella dura cor­n ice della vita di tutti i giorni. Si tratta di «figure» di uomini nel senso pieno della parola, fortemente «inquadrate» nella loro naturale cornice; le case «bianche», la terra arsa del Materano, il bianco «allucinante» delle case, dei «muri» e i «neri» vuoti delle finestre e porte, veri occhi che guardano. Pochi elementi essenziali e l’uomo. L’uomo nella sua natura e nella reale concretezza che egli rende sempre in buona pittura: perché proprio buona e forte pittura, essenziale direi, è questa di Salvatore Sebaste. Sono veri racconti questi che egli presenta con un suo discorso pittorico, fatto di chiara, personale, autentica genuina poesia. Come dire umanità.

Tono Zancanaro, Dal Catalogo Mostra “Sebaste”, “Galleria di Palazzo Galvani”, Bologna, 1970. 34


Raffaele De Grada - Milano pittore

La v ita di un paese nei suoi atti primari È fenomeno tipico del nostro secolo, in Italia, la p r e s e n z a di ar­t isti del Mezzogiorno, con caratteri autonomi rispetto a tutta l’altra arte nazionale. I nomi sono tanti, a incominciare da­ G ut t us o e da Migneco su fino a Guerric­chio, senza dimenticare Cantatore e altri che han­n o mantenuto per tutto il corso della loro vita artisti­c a i caratteri contenutisti­ci e formali del «profondo Sud». Che poi il Mezzogior­ no, sia entrato con le sue lotte del dopoguerra in un modo nuovo nella storia d’Italia, e che questo in­g resso sia stato lunga­m ente preparato sul ter­ reno culturale dall’incontro Nord-Sud (da Levi a Trec­cani) è ancora un altro di­scorso. Per ragioni di età (è nato nel 1939) Salvatore Seba­ste è l’ultimo in ordine di tempo, sempre tra quelli più tipici (perché i meno tipici, anche buoni artisti, sono più (numerosi). Co­me si presenta questa «tipicità»? Un segno asciut­to, nervoso ma sicuro, che si stacca dall’informale dilagato per più di vent’anni; narrazione, nella coscienza che la voce del paese e della propria esperienza deve essere af­f ermata nel contesto del­I’arte contemporanea; il valore sacrale di questa stessa esperienza, nega­z ione dell’effimero e del dubbio che finisce nel qua­lunquismo intellettuale, limite attuale della cosid­detta «arte pura» di buona memoria. Tutti questi caratteri sono presenti in Sebaste in­c isore, ivi compresa quel­la sensibilità assai forzata della forma, che corrispon­d e psicologicamente a una sorta di senso d’inferiorità regionale, un com­plesso di classe e di grup­p o sociale che troviamo negli artisti meridionali. Ma non chiudiamo il gio­vane Sebaste in questi limiti che potrebbero appa­rire regionalistici. Le incisioni qui presentate allontanano da una troppo facile lettura che può essere condannata all’inverso per chi non si ammanta di ermetismi e si presenta chiaro e limpido come l’ispirazione lo vuole. Chi ha fatto una scelta, come Sebaste, si raccomanda da sè. 35


È una scelta difficile, fuori dalle consuete forme tradizionali e avanguardi­stiche. Un segno sottile, avviluppato, crea intrichi di uomini e di cani, figure fasciate in una forma soffi­c e tale da rendere nella sua integrità formale rapporto tra il bianco e nero, in una concezione pura della forma plastica. Lo spessore del segno è utilizzato dal Sebaste in funzione di contenuto. Tra le figure più importanti e le secondarie c’è differen­za chiaroscurale e perfino nella stessa figura talvolta si assiste a uno spaccato di luce, corrispondente all’analisi del gesto, della collocazione ideale del fe­nomeno figurale. Tutto per forza di disegno, un dise­ gno che diventa persona­ l issimo anche nel colpo d’occhio sulla realtà, diciamolo aperta­ m ente, vista con l’occhio del proletario, non soltan­to per il soggetto ma per il modo fine e rozzo insieme, che è proprio del contadi­n o, dell’operaio quando guarda l’infanzia, il volo di un uccello e la sosta dell’emigrante e la chiusa di­ s perazione del disoccu­pato. La serie che qui si pre­ senta è interessante anche come racconto. Si snoda la vita di un paese nei suoi atti primari. Ogni tanto c’è un elemento di pura fanta­sia, un diavoletto, un bu­cranio, un uccello fuori del comune. Sebaste è bravis­simo nel rendere, con il tracciato di un filo, una lontananza, un senso di sognata intimità. Con queste sue opere non intende soltanto fare arte pura, ma vuole raccomandarsi come documento e ci rie­sce. Chi vuol sapere di una storia lucana, oggi anco­ra, può conservare questa cartella perché questa sto­ria varrà anche tra dieci e venti anni, una storia vera narrata da un artista au­ tentico.

Raffaele De Grada, Dalla rivista “Eco d’Arte”, n.26, Firenze, giugno 1971. 36


Giovanni Magnone - Frosinone esperto d’arte

Il più sincero e genuino cantore del Sud Presso la galleria «Arte Club Esposizione» di Sora è stata inaugurata, con grande successo di critica e di pubblico, la personale di pittura di Salvatore Sebaste. A molti visitatori della galleria sorana la pittura dell’artista meridionale ha suscitato un autentico choc. Le figure che si stagliano nitide, quasi fossero ricavate da un sapiente lavoro di collage sul bianco accecante dei fon­dali di Sebaste, rappresentano veramente qualcosa di nuovo. Il giovane artista, origina­rio delle Puglie e trapiantato da anni nella Lucania, riesce a raccontare, a far rivivere sulla tela con un acuto e inu­sitato realismo il modo di vi­vere, la mentalità, le supersti­zioni, i tabù, il fanatismo re­ligioso del profondo Sud. Nei quadri di Sebaste risal­tano i visi terrei, gli sguardi sfuggenti e assenti, i perso­naggi caratteristici di un qual­s iasi centro della Lucania o di altra regione meridionale. Quei personaggi e quei visi potrebbero essere, indifferen­temente, personaggi e visi del sud America, del sud Africa, del sud Europa: di ogni «Sud» insomma. In tal modo Salva­tore Sebaste, certamente il più sincero e genuino «cantore del Sud», riesce a universa­lizzare la sua pittura e a ren­derla comprensibile a ogni latitudine. L’artista ci mostra nelle sue tele e nei suoi affollati pan­nelli un’umanità che sembra accettare supinamente il suo destino, legata com’è alle cre­denze religiose e agli ance­s trali feticci della magia e della «fattura»; un’umanità che non sa - o non vuole - reagire alle avversità e si ade­g ua all’andazzo del luogo e del tempo.

Giovanni Magnone, Dal Catalogo Mostra “Salvatore Sebaste”, Galleria “Art Club”, Sora (Frosinone), 1971. 37


Generoso Di Paolo - Nettuno esperto d’arte

Il più meridionale degli artisti contemporanei

Per entrare nel santuario dell’arte sebastesca biso­ gna comprendere l’anima antica e profonda del Meridio­ne; in caso contrario, il discorso si paluderebbe di vuoti addobbi retorici annacquati d’accademia. Si tenga pre­ sente che Salvatore Sebaste è il più meridionale pittore degli artisti contemporanei. Le mutazioni di questi ultimi tempi hanno scompa­ginato le strutture del Sud. Le giovani leve han disertato le giogaie boscose dei colli lucani, le apriche distese dell’agro leccese. Dov’erano coltivazioni e frutteti ora sonnec­ chiano pigri maggesi punteggiati qua e là da rettangoli arati, bisognosi di giovani braccia risucchiate dal Moloch delle megalopoli nordiche. Questi giovani, ritornando, appaiono svagati e impoveriti perché la fabbrica aliena: vi si diventa fresa, cinghia, calandra. Nella sonnolenza torpida di quelle Babeli smogose brilla solo, per il cafone del Sud, un angolino di cielo pulito, rispolverato nelle notti insonni e custodito come un talismano nei recessi più segreti dell’essere. II cuore della gente meridionale è più antico di Tegiano, più misterioso di Grumento. E s’in­c upisce e sfavilla, e s’adima e s’estolle; s’abbissa nel lutto e riculmina in canto che il pentagramma cromatico di Salvatore Sebaste modula in movenze arcaiche, or vagamente sapide di rusticane angosce, or fatte melopee nella sacralità gestuale delle vicende quotidiane. Al riscatto totale dei valori antichi in via di disfaci­mento urgeva una tavolozza ardita che non si confondes­se con i moduli di certo astruso pittoricismo in voga. Per que38


sto Salvatore Sebaste si è rifatto alla lezione del pas­sato: per sopravanzare il presente, scavalcare le avan­guardie e proiettarsi nel futuro. L’appiglio gli è stato of­ferto dai freschisti tardogotici di cui ha respirato la lezio­n e, traslandola in chiave meridionale anni Settanta. Di quella temperie compositiva è restata una venatura di poesia popolaresca che sta a focalizzare un ideale oggi raggiungibile ancora, domani forse ingannevole miraggio. Nell’orto concluso di un neorealismo gustoso, denso e ric­c o, aleggia quasi un afflato colloquiale che sa di rito arcaico, il quale si staglia, prototipo e simbolo, abbacina­to di luce. La quale gioca un ruolo comprimario con i vuoti fondali, bianchi di mitica albedine, respirante sovruma­ni silenzi, grondante lo stillicidio traslucido di una sof­ferta saggezza di vita. Le folle sebastesche poi, costrutte in campiture solari, hanno la freddezza della ganga, innervate in ruvidezze compatte che danno barbagli d’ametiste, rifratti in blandizie d’orientale zaffiro. La loro immota fissità statuaria cova agguati di magnetismo allucinante e di assorta compostezza da cui s’irradia la millenaria filo­sofia del Meridione che ha rotto i sigilli d’ogni inutile sofisma. Non pecchiamo dunque di miopia leggendo l’opera di Sebaste solo in chiave cronachistica o come semplice descrittivismo realistico, perché la maschia incisività cro­matica grida una realtà umana insopprimibile: quella che la macchina, da sola, non può dare. Salvatore Sebaste chiava l’uscio delle nostre anime sonnolente col grimaldello di una pittura nuova per la no­stra sensibilità decadente, per le nostre tempre inquinate e stanche. Portare innanzi questo discorso non è stato agevole neppure per un artista di razza qual è Sebaste. Acuta, disincantata, sofferta, è l’indagine dei suoi mezzi linguistici, della sua sintassi compositiva. Lui, pittore di plebi meridionali, senza metafore allusive ha con­q uistato, giorno per giorno, il proprio stile personale, incisivo, senza cadute di tensioni, senza cincischiamenti pletorici. Il rovello indagatore è disincantato, il ritmo serrato e ampio tiene Salvatore Sebaste sul bilico più maschio e anticonformista della pittura contemporanea, mentre la sua pennellata succosa e decisa dona vibrazioni evo­c ative timbrate d’incantesimo popolaresco.

Generoso di Paolo, Dal catalogo mostra “Le mutazioni nelle struture del Sud”, Galleria “G. Porfiri”, Nettuno (Roma), 1972. 39


Mario Trufelli - Potenza giornalista scrittore poeta

Una parabola di segni - Conflitto di civiltà e di espe­r ienze dissimili. Una geografica tentazione guida la mano di Sebaste, il suo istinto. Una parabola di segni (conflitto di civiltà e di espe­r ienze dissimili nella forma ma uguali nella matrice che le ha generate) ani­ma lo spazio bianchissimo e pudico delle sue tele, inquieta la muta mutevole su­perficie delle sue lastre dove nasce un racconto che ancora seduce chi è stato condotto, per amore o per rabbia, per di­spetto o per vocazione all’inganno del Sud. Un inganno (non una finzione) che si è fatto mistero e riesce, per que­sto, a dare la misura della sapienza dalla quale nasce la storia di un uomo. Così Sebaste, che porta con sé gli stupori della sua origine salentina - la ma­g ìa del barocco lo perseguita ma nello stesso tempo lo lusinga - si è fatto lu­cano, ha fatto una scelta consapevole e difficile, ha trovato un nuovo comporta­mento alla sua vicenda artistica. In un ideale vagabondaggio tra due civiltà, dove memoria e fantasia hanno potuto recuperare le cose migliori di una cultura che accomuna le dolorose province mediterranee, Sebaste si è costruito quei fatti grafici e pittorici di cui ci dà oggi concreta testimonianza. Pur continuando un’indagine che si fa ansiosa e struggente – è la pietà per i suoi personaggi che lo tiene legato a un mondo che gli è utile, cosi come gli è congeniale - quest’artista puntiglio­so non si lascia più coinvolgere da quei populismi che in epoche piene di sospet­ti - e non sono poi così lontane da noi, dal nostro tempo - informarono buona parte della cultura meridionale. Oggi che si è imposta una serie di do­v erosi rifiuti - e ai rifiuti aggiungi le rinunzie alle quali ha dovuto cedere per poter continuare in umiltà il suo discor­ so - Sebaste comincia a far conti, si analizza, direi che si spia alla luce delle ultime realizzazioni, delle più recenti co­noscenze. Dalle facciate delle chiese, dal fondo delle case dove la luce inventata si fa testimonianza di una religione che dura da tempo immemorabile, escono sì i suoi personaggi dolenti irosi disperati e iro­nici, ma emergono anche gli appunti di un diario che giorno per giorno si fanno cronaca e coinvolgono l’artista, ma so­prattutto la passione dell’uomo. Mario Trufelli, Dal Catalogo Mostra “Sebaste”, Galleria “Nucleo”, Bologna, 1973. 40


Nicole Fourbil -Toulouse storico dell’arte

L’opera di Sebaste è magia nera I quadri di Sebaste sono anzitutto descrizione, frammenti di strada con le case, persone, e questo perché la luce bianca, immobile, permette il rilievo di vive macchie cromatiche in tinta piatta e senza contorno. Nella tela non c’è spazio, limite o linea d’orizzonte. Nulla rivela la nostra epoca, non esistono ore o stagioni. In tal modo l’oggetto, l’essere figurato, non è immagine ma essenza. II fatto è che non c’è posto per la fantasia, gli utensili comuni rimasti appesi al muro esterno non hanno un valore estetico, sono dipinti dall’interno, sono non contorno ma materia. Essi contribuiscono a un’atmosfera inquietante, misteriosa. S’indietreggia alla vista di quelle bocche sdentate, di quegli occhi che fissano, a scrutare, di quei corpi mal nutriti, mal vestiti, di quelle strane partorienti circondate di veli neri come per una cerimonia segreta, di quelle donne, antiche arpie reincarnate, di quei galli morti dalle creste arruffatissime, di quelle singolari trecce e collane di peperoni e aglio. È il peso del fantastico Tutta l’opera di Sebaste è magia nera. Al fondo del corpo, dei loro occhi, c’è forse il diavolo? Strani sacrifici paiono aver luogo davanti alle soglie, dei demoni volano in alto, tutti sono come posseduti. In posti come questi tutto accade e si svolge all’esterno. Dio o il Dio soltanto è dentro, al fondo, nell’oscurità della cella. Nel complesso della sua opera, Salvatore Sebaste non accorda posto alcuno al paesaggio, quasi non esistesse. Né d’altro canto il pittore può far «brillare» in più il colore perché la sua visione è diminuita a causa del permanere di una luce abbacinante. È raro trovare in un quadro una persona singola, c’è piuttosto il gruppo ove il singolo partecipa assieme agli altri alle manifestazioni: nascita, matrimonio, funerali. Si rinviene il «miserabilismo» di Gruber. Tutto è dolore, angoscia, solitudine, rivolta. La fatalità e il senso del ciclico sono tradotti con un tocco spesso, privo di gradazioni, con l’assenza. Sebaste sfugge tuttavia al regionalismo perché è simbolista e concretizza il grido e l’essere sulla tela. Demoni, lucertole, veli, divengono i segni e i simboli della leggenda mediterranea e contribuiscono a quel testo ermetico che spetta a noi scoprire e ritrovare. Nicole Fourbil, Dal Catalogo Mostra “Sebaste”, Galleria “Raffaello Sanzio”,

Urbino, 1972.

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Franco Corrado - Potenza giornalista critico d’arte

Una dolente realtà umana nell’opera di Salvatore Sebaste Vive da più di dieci anni a Bernalda. Può essere perciò considerato un lucano questo giovane pittore di origine salentina, in prima maturazione e in chiara ascesa. Della sua attività, alla quale sono già andati significativi riconoscimenti (ricordiamo, fra gli altri, il primo premio assoluto per la pittura alla «XXI Rassegna Salvi a Sassoferrato»), si sono interessati a lui, a più riprese, riviste specializzate nel campo delle arti figurative, critici e pittori di chiara fama quali Ernesto Treccani, Tono Zancanaro e Arnaldo Ciarrocchi. Sono appunto questi crescenti consensi di critica che stanno contribuendo a far conoscere al pubblico di tutta Italia un artista di notevoli capacità, che a trentatré anni ha già al suo attivo, una ventina di «personali» oltre la partecipazione a numerose mostre-concorso e collettive. L’ultima in ordine di tempo si è conclusa da poco alla Galleria Porfirio di Nettuno, e che ha ospitato trenta fra le opere più recenti e più significative di Sebaste: in massima parte, oli su tele con immagini di un mondo arcaico che talvolta è memoria e più spesso realtà umana e di cose. Un mondo meridionale e lucano, nel caso specifico, di cui Sebaste si è fatto interprete e aedo amaramente ironico o drammaticamente angosciato. È stato affermato, a quest’ultimo proposito, che il giovane artista di Bernalda ha fatto una scelta difficile, nel senso che la tematica delle sue opere non è accessibile a quanti hanno ancorato il loro gusto estetico ad immagini, per così dire, distensive e quindi di presa immediata. Il nostro pittore non ama indulgere, scendendo a compromessi con il proprio motivo ispiratore, agli allettamenti di una pittura certamente più commerciale: ciò gli dà titolo di merito e prova di coerenza. E Sebaste è innanzitutto coerente con se stesso. 42


Prosegue senza tentennamenti, con caparbietà sulla strada intrapresa. Che è quella giusta se è vero, com’è vero, che è pervenuto ad un linguaggio tutto suo, originale anche sul piano della sintesi, che parte da una matrice figurativa di chiara derivazione espressionistica. All’insegnamento dell’espressionismo, d’altra parte, può essere ricondotto il suo amore per la grafica; per quella tecnica della arti figurative, oggi cosi in voga, il cui movente più nobile «è la gioia di trasfondere nella meccanica la parte manuale della personalità dell’autore» (così Kirkner nella sua «Cronaca dell’Unione Artistica Brücke»). E Salvatore Sebaste, che «tira» di persona le sue incisioni servendosi di un torchio da lui stesso progettato, dimostra di aver quella gioia e di strumentalizzarla per esprimersi ad un livello più completo. Come dimostra in una cartella di acqueforti a colori, con testo critico di Mario Trufelli per le edizioni de «La Scaletta» di Matera, che è stata presentata in questi giorni nella città dei Sassi. Chi avrà modo di vedere queste ultime opere grafiche del giovane artista potrà rendersi conto che Sebaste, come dicevamo all’inizio, si sta avviando verso la definitiva maturazione, sostenuto dalla forza che gli deriva da una coerenza stilistica mai venuta meno; da un impegno civile sentito, lontano da quei populismi «che - in epoche piene di sospetti e non così lontane da noi, dal nostro tempo -, informarono buona parte della cultura meridionale».

Franco Corrado, Dal catalogo mostra “Salvatore Sebaste”, Galleria “Il Semaforo”, Firenze, 1973. 43


Helga Schneider - Firenze esperta d’arte

Passato e presente Nelle opere di Salvatore ,Sebaste si fondono passato e presente come animati dalla stessa, immutabile inquietudine. Sono immagini che appaiono come tagliate fuori dalla roccia ar­gillosa della Lucania, terra eletta da Sebaste a seconda patria anche se le origini salentine gli scor­ rono ancora nel sangue come nella mente. L’ar­te di Sebaste, aspra e incomoda, dal forte tim­ bro espressionistico che spesso tende alla dis­soluzione della forma come nell’estremo tenta­t ivo di rifugiarsi in un grembo materno, si fa a un tempo testimonianza di civiltà passate e denuncia di situazioni attuali di disagio che sono riscontrabili non soltanto in Italia, ma che rappresentano un quadro di estensione mondiale di estrema gravità. Un’arte socialmen­te impegnata, quindi, in armonia coi nostri giorni. Un grido d’allarme. Ma anche una di­c hiarazione d’amore verso una terra amata.

Helga Schneider, Dal Catalogo Mostra “Sebaste”, Galleria “Il Semaforo”, Firenze 1974. 44


Vittorio Sabia - Potenza giornalista esperto d’arte

Personalità e forza espressiva esperienza meridionalista. Qualcuno ha detto che porta con sé tutti gli umori del Sud con un segno guttusiano. Se questo è vero, vi è da aggiungere che Salvatore Sebaste, il pittore salentino che continua la sua esperienza meridionalistica in Basilicata, non ha certo dovuto forzare la mano a se stesso tanto autentica è la testimonianza di una fede mai rinnegata nei valori pittorici del Mezzogiorno. Una scelta consapevole e anche difficile per la naturale tendenza che hanno molti artisti a rinnegare la loro origine quasi a sfuggire a etichette prefabbricate. Ma Salvatore Sebaste non solo non rimpiange, ma esalta inconsapevolmente le suggestioni di quel barocco leccese, cioè di quella straordinaria città dalla quale ha preso le prime ispirazioni. In questi giorni, al Centro d’Arte di Scafati, Sebaste ha riproposto questa sua tematica che parla di un temperamento intenso, di ricordi struggenti, di una realtà umana che non ha il sapore arido del consumismo: una personale che ha molto interessato non solo il pubblico campano ma anche e soprattutto la critica. Chi è Sebaste oggi. Sono in molti a chiederselo. Roiss ha scritto che il pittore salentino ha posto la sua candidatura per la successione a Migneco, Brindisi e Guttuso sul mercato degli interessi critici di quanti si occupano di figurazioni pittoriche esistenziali non radicate nel prato rasato della moda culturale. Si è affiancato a Calabria, depurandosi degli espedienti demagogici per la propaganda dei “pro” e dei “contro” ed ha conteso “attenzioni critiche” al lucano Guerricchio. Per conto nostro è molto difficile dare a un pittore del temperamento di Sebaste una collocazione precisa. È più facile rilevare la sua “crescita” sul piano della personalità e della forza espressiva, a misura di quell’ambiente umano che ripropone, senza limiti di tempo e di spazio, nelle sue straordinarie tele. Con i suoi personaggi, la sua figurazione e il suo colore (che spesso partono da un bianco abbacinante sempre presente dalla sua finestra di Bernalda dove vive e lavora) Sebaste ha ormai intessuto un vero e proprio dialogo tra la sua pittura e il pubblico; personaggi e figure che ora traggono risalto dal biancore delle tele, ora assumono significati di vita e di colore di diversa articolazione focale. Un linguaggio che, comunque si giudichi, denunzia chiaramente una tensione: quella che Sebaste riesce a immettere nelle forme. Fatta di vita, di sentimento, di ragione. Vittorio Sabia Da “Il Mattino”, Napoli, 28/10/1975 45


Tommaso Paloscia - Firenze giornalista critico d’arte saggista

Emozioni Questo leccese di Novoli, acclimatato a Matera, porta con sé tutti gli umori del Sud appena edulcorati nelle scorribande più o meno brevi al di sopra del parallelo di Roma. Forse per tale motivo resta caparbio nelle sue tele il segno guttusiano; e probabilmente per la stessa ragione vi s’inserisce, sia pure con difficoltà, una certa proposizione dell’immagine brindisiana at­traverso la quale Salvatore Sebaste tenta la distor­s ione del suo realismo istintivo. Restano tuttavia i colori autentici a testimoniare una bellezza incontaminata e una fede non rinnegata nei valori pittorici del Mezzogiorno. A questi, Salvatore Sebaste dovrebbe guardare oggi più che mai con interesse e restarvi avvinghiato con tutta l’anima perché sono state qui provocate le emozioni più forti della sua formazione; in questi valori egli può in ogni momento ritrovare gli stimoli più impor­tanti e ricercare nella stratificazione della sua cultura la parte più genuina e capace di donare ancora e con sincerità alla sua arte, alla sua pittura.

Tommaso Paloscia, Dal Catalogo Mostra “Sebaste”, Galleria “Nucleo”, Bologna, 1975. 46


Bianca Tragni - Bari giornalista scrittice operatrice culturale

La “Magia Naturalis” di Salvatore Sebaste Mentre milioni di tubi di scappamento sputano nell’aria milioni di metri cubi di gas di scarico; mentre enormi cloache industriali vomitano nei fiumi tonnellate di numerosi rifiuti dei loro processi produttivi; mentre le megalopoli di cemento inghiottono ettari di campagne e la calpestano con i loro ingombranti escrementi di civiltà, può essere ancora pura l’aria, l’acqua, la terra? E mentre il consumismo e la mercificazione corrompono l’arte, le mode e gli “ismi” la contorcono, le imposizioni della critica e le ossessioni dell’ideologia l’imprigionano in un inestricabile labirinto, può essere ancora pura l’arte? Se si risponde no a uno di questi interrogativi, si risponde no anche all’altro. Ed è la resa incondizionata della vita alla morte, la sconfitta dell’umano. E invece la vita si ribella, cum scientia, e risveglia la coscienza dell’uomo. Perché uomo e natura vivono in simbiosi, facce della stessa medaglia, destini legati fra loro dalle leggi biologiche non meno che da quelle morali. Se soccombe l’una, soccombe l’altro; se resiste l’una resiste l’altro; se grida l’una, grida anche l’altro. E la voce la danno gli artisti. Con le loro speranze e con le loro utopie fatte parola, suono, colore. Perché sono queste le armi dell’arte per difendere la vita, per rivendicare la libertà. Salvatore Sebaste persegue con la sua pittura l’utopia dell’arte pura, dell’arte per l’arte, un verbo che può far sorridere chi è ormai tanto inquinato dentro da trovare utopica anche l’aria pura dei cieli e l’acqua trasparente dei mari. Ma un verbo attualissimo se diventa un’arma di lotta contro l’inquinamento della pittura, dell’arte e della natura, della scienza e della coscienza. Salvatore Sebaste, uomo del Sud, conosce bene la limpidezza dei cieli e la preziosità delle acque e l’unicità vitale della terra e la vicinanza empatica degli animali; e conosce anche la vocazione all’umano della gente povera ed emarginata del Mezzogiorno, quella che ha affollato con sgradevole violenza le tele del suo primo periodo. Egli si è messo in ascolto di tutto questo e ora ce ne restituisce i fremiti di sgomento e i presagi di 47


morte; ma anche la rabbiosa volontà di sopravvivenza, con un vitalismo segnico e gestuale di grande potenza. La sua pittura si muove oggi su una linea matericoinformale con esiti di assoluta purezza della forma plastica, nella forza del dettato; il quadro non è più spazio dell’immagine, non vi è profondità costruita per le figure; non disegno garbato, frutto del talento ma segno graffito, creazione del gusto. Sin dalle sue prove, infatti, Sebaste rilevò subito, come scrisse il Solmi, una personalissima individualità creatrice che va ben oltre l’ovvia “bravura” del disegnatore e che si è andata sempre più depurando da ogni genere di scoria demagogica, nella tensione del “puro”. Anche la prospettiva e il chiaroscuro possono essere elementi inquinanti; ecco dunque al loro posto le bianche purissime campiture di fondo, gessose e opache come sabbie lunari, porose e calde come pareti calcinate del Sud. Da questo modulo compositivo Salvatore Sebaste fa emergere grumi di colore rappreso, gibbosità di carta macerata, ondulazioni di bambagia disfatta, magma materico che palpita e si muove sotto il colore compatto e bruno steso a coprirlo come mano umana in un contatto di corpi. L’arte primitiva graffita nelle caverne dei trogloditi forse si fruiva proprio così, con la sensazione tattile di una mano che palpa una curva parete, mentre il fuoco sacro e salvifico lancia fumosi barbagli di luce cupa. Ma anche il primitivismo di questa pittura è una suggestione che Sebaste subito respinge come “tema inquinante” della sua arte pura. Testardamente egli persegue la sua utopia. Non vuole rappresentare, al massimo suggerisce con un movimento, una torsione, un impasto artigianale di polveri (anche il rifiuto degli acrilici industriali può essere “arte pura”), con una gamma cromatica essenziale e breve, com’è quella della terra, dall’ocra al verdone, con sempre un che di ruvido dentro. Oltre i colori anche i segni sono grezzi, come gli intagli dei pastori lucani sui loro modesti oggetti di legno. Eppure questi segni così netti, asciutti, privi di ogni lezio e orpello, così come la natura è per Sebaste priva di leziosità idilliache nonostante certi riscontri esiodei che la critica (Cavallari) ha voluto in passato attribuirgli; questi segni quasi rozzi e primitivi sprigionano una raffinatezza stilistica degna dei più grandi maestri dell’astrattismo. Anche le prime composizioni figurative erano solo apparentemente ingenue, narrazioni di un realismo inventato, in forme colte e intellettualistiche su strutture astratte del contesto. Non per niente Sebaste, pur rifiutando ogni appartenenza a qualsiasi movimento pittorico, pur non riconoscendosi in nessuna scuola e tendenza moderna, indica in Crippa, Fontana e Burri i suoi maestri spirituali. Infatti, gli Olimpici “Cretti” bianchi dell’ultimo Burri non sono forse un suggerimento di purezza pittorica? Quella purezza che ha lasciato delusi certi ostinati epigoni del realismo sociale, può oggi diventare stilema rivoluzionario, quando chi la dipinge, è uno che ha qualcosa di nuovo da dire, qualcosa di vecchio da contestare, qualcosa d’inumano da combattere. Per approdare all’astratto senza significato, Sebaste usa un segno intenso, vibrante, deciso, con una drammaticità materica da cui emerge 48


un’assoluta libertà di forme, pari solo a quella che si può permettere la natura in certi tramonti murgiali dove la terra aggrottata e il cielo stupito si congiungono lanciando nel chiarore crepuscolare lame contorte di nero. È la terra, è l’argilla lucana che dà forma, colore, movimento e vita a questi quadri inquieti dove si consuma l’abbraccio divincolante fra natura e cultura, fra terra e uomo. Perché l’argilla è la materia con cui fu impastato l’uomo, nel mito della creazione. Ed è l’uomo-natura che si dibatte e combatte contro l’uomo-tecnologia. Sì intrecciano così in questi quadri l’esorcismo arcaico dello stregone e del totem con l’intelligenza scientifica di una cuffia da radiotelegrafista; lo scatto di un gomito di ribelle e lo sguardo di un occhio di rapace. Antenne d’insetti, pupilli di animali, noduli umani, punti cioè dove la vita si aggroviglia, s’inceppa o si snoda sono connotazioni espressive ricorrenti. Simboli forse. Lo studio di Sebaste è pieno di uccellacci impagliati – corvi cornacchie barbagianni civette – sinistre presenze come di un maleficio che può portare all’estinzione della vita su questo pianeta e che l’artista vorrebbe neutralizzare con la sua “arte pura”, per restituire all’uomo la sua purezza, la sua salvezza. Inutile dire che anche la suggestione simbolistica è rifiutata dal Sebaste. La critica francese (Fourbil) aveva già individuato una vena simbolista nella pittura precedente di Sebaste, quando egli riduceva già le figure da immagine a essenza, l’individuo a segno, le cose a materia, le donne ad arpie reincarnate; e aveva gridato alla magia nera! Ebbene Sebaste si è evoluto, il suo è un lungo faticoso cammino che lo ha portato alla magia nera alla Magia Naturalis. Sulla scia di un pampsichismo di origine rinascimentale, i suoi “Mostri” di oggi sono l’inquieta ricerca dell’anima del mondo. La profezia di Ernesto Treccani si è avverata. “Le figure sofferenti e vocianti dal biancore del fondo - egli scriveva nel 1970 – domani assumeranno altri significati di vita e di colore da una diversa articolazione formale”. Infatti, superata la prima figurazione folkloristico-dialettale della sua gente lucana; operata la configurazione socio-culturale di un contesto; oggi Sebaste può permettersi la trasfigurazione metafisico-ecologica della sua pittura. Questo recente approdo stilistico del giovane pittore meridionale è il segno di una conquistata maturità, nel rispetto umile e ubbidiente della sua arte. Baconianamente, trasfigurando noi pure arte e scienza, diremo che la natura si può dominare solo ubbidendole e per ubbidirle bisogna sapere cosa ordina; ma essa svela i suoi ordini solo a chi sa interrogarla e sa costringerla a rispondere: videndo et cogitando. Le forme pure di Sebaste sono cogitata et visa, sensazione e intellezioni, purezza e onestà, armi culturali ed ecologiche per salvare dall’inquinamento totale la natura e l’arte. Cioè l’uomo, che è l’ansia di Sebaste. Bianca Tragni, Testimonianza, Bari, 1976. 49


Joh. M. Pameijer - Enschede (Holland) esperto d’arte

Emozionalità gestuale, tipica del suo paese d’origine La Galleria Tardy continua a richiamare a Enschede artisti italiani, artisti che in generale hanno guadagnato i loro galloni nel proprio paese, ma che nel nostro sono appena noti. Sebaste ha quarant’anni. Si dice che è un bravo grafico, ma in quest’occasione Tardy espone solo sue tele. Si tratta di una serie alquanto organica e coerente. La sua opera va interpretata come una lotta vissuta nel colore. Nelle sue tele vi è sempre una figura giacente in basso dai colori gialli, rossi, verdi e blu, sulla quale incombe una figura grigio-giallo che, una sola volta, prende la forma di un diavolo rosso. Non sono figure umane, bensì la sublimazione di tutto ciò che ha vita. Figure che facilmente cambiano aspetto. Comunque la figura che incombente ha sempre il ruolo dell’aggressore che schiaccia rudemente la figura sottostante. Questa poi si libera dalla presa con un gesto violento. Sostanzialmente si tratta di un gioco impetuoso di colori e forme. Una volta l’aggressore assume la forma di un uccello rapace, di un insetto dalle zampe verdastre, un’altra ancora di un cane triste, oppure di un diavolo sibilante. Talvolta la figura che aggredisce e quella che soggiace si fondono in un nodo di colore che non ha più un’identità precisa. Da ciò nasce l’impressione che il pittore abbia rappresentato se stesso, il suo alter ego che costantemente lo angoscia. In queste opere si può vedere anche la lotta incessante per la vita, conflitto che ogni uomo deve condurre per affermarsi nel suo ambito. La palese aggressività evidenziata stimola, eccita, ma nello stesso tempo domina sempre nelle composizioni un senso benefico e un magico equilibrio. Salvatore Sebaste non è un pittore che svolge un programma predeterminato. Egli lavora in modo prettamente intuitivo, quasi impulsivo, con l’emozionalità gestuale, tipica del suo paese d’origine. Le opere resteranno esposte da Tardy fino al 29 dicembre. Joh. M. Pameijer, Da “Dagelad Tubantia”, Enschede (Holland), 15 dicembre 1979. 50


Leonardo Sinisgalli - Roma poeta delle due muse

Per Sebaste Delle tante opere che mi mostrò, in casa e in villa, mi scelsi dietro sua gentile sollecitudine la più piccola, una teletta quadrata di un paio di palmi, tumida come le altre, rigonfia cioè lungo una linea che puntava in alto e che sembrava alludere a una vela azzurrina su un fondo verdiccio. Poteva far pensare a un plumbeo Carrà. Quando me la portai nella mia stanza l’operina, più intensa e più severa ogni giorno che passava, mi costrinse a precisare il campo di riferimento. E per trovare qualche spunto da suggerire al mio amico cercai meglio ancora di fissare nel firmamento una stella cui abbinarla, di cui potesse con­siderarsi un poco consanguinea. Mi fermai a Prampolini, perché era troppo evidente l’aspirazione a rifiutare qualunque analogia terrestre. Poi feci anche un altro nome in una lettera (so per esperienza che non bisogna mai temere i confronti, specie i più duri, quelli che ci danno sconfitti in partenza): e fu quello glorioso di Kandinsky che in quei giorni, ammaliato com’ero io dalle profondissime riflessioni che il Maestro aveva dedicato al Punto, alla Linea, alla Superficie, vedevo come il Dio responsabile di tutto il Nuovo che si era scoperto nello spirito dell’Arte. Dissi dunque a Sebaste di accostarsi devoto alle lar­g he cosmogonie di Kandinsky e al laboratorio di Prampolini, perché mi sentivo sicuro che avrebbe tratto grandi vantaggi, avrebbe allargato i poteri delle sue pupille e della sua mente, e naturalmente della sua mano, proprio per via della conoscenza fatta da vicino e con assiduità dell’opera dei due insigni speculatori delle Forme e delle Materie non convenzionali. «Ricorda - gli dissi - che Burri non è partito da molto più lontano: s’è rifatto a Prampolini più che a Dada». Gli straccetti di Schwitters per Burri potevano aver avuto la stessa sugge­s tione delle carte masticate di Prampolini per Sebaste. E Sebaste, davvero, aveva fatto un’indigestione di cartapesta (forse la sua na­s cita leccese) fino a far concorrenza ai leggendari lotofagi. La Lecce di Sebaste può sempre servire ad accrescerne i connotati 51


(non sono mai troppi) come appunto l’Umbria, proprio quella francescana, di Burri. Me ne sono andato errando tra Agri, Sinni e Basento e lungo le sponde dello Ionio per trovare una qualche ragione - come il Cavaliere In­ consolabile - della paturnia, della tetraggine, della vichiana inopia di Sebaste. Mi dicevo: quest’uomo è stato sconvolto da cose che sta­v ano nell’aria; a quest’uomo è stato negato l’éclat, gli è stata applicata la maschera dell’eterna Insoddisfazione. E ho avuto pietà del mio amico, di cui, tuttavia, in qualche interstizio, in qualche spiraglio - uno schizzo buttato sulla tovaglia di una trattoria, una sagoma tracciata con la punta del dito sulla sabbia, un frego sulla parete dello studio - mi sforzavo di scorgere, di scoprire un principio di salvezza. Sarei andato brancolando tra infiniti richiami, tutti attendibili, tutti seducenti (basta che nomini Ernst e Dubuffet) e avrei continuato ad attingere dapper­t utto, alle riflessioni di Bianchi - Bandinelli sull’obsolescenza delle monete e delle medaglie, e di Fantappiè sull’Entropia, mi sarei affi­dato ai minimi appigli, alla siderurgia e alla chimica che nei dintorni avevano alzato le loro torri lucenti, se, un po’ per caso e un po’ per miracolo, nella mia ultima visita a Bernalda, l’altro ieri, Sebaste non mi avesse aperto davanti agli occhi una pingue cartella d’incisioni del ‘78 e del ‘79 con le ultimissime prove di rilievo e di colore. Forse in sogno, forse nel dormiveglia trascinato da una forza improvvisa e fatale, il mio amico ha finalmente scoperto il colore, è riuscito a solle­vare quel tetro manto o panno o velo di polvere che gli ha negato per tanti anni il gusto della creazione e, probabilmente, la gioia di vivere. Il Mostro ottuso e stato umiliato dall’intelligenza di Apollo. Ora, dopo gli sporadici approcci al dialetto, varcato il calvario dell’inespresso, rotta la cecità della materia degradata, lo scoppio dell’allegrezza, del colore, segna il principio di una vita nuova. Sebaste può ora con­c iliare istinti e calcolo, mediare gentilezza e forza. I tufi pugliesi e le crete basilische sono lievitate dalla luce dell’aurora. La salute è tornata a fiorire. Concludo che bisogna capire e aiutare a capire Sebaste (come altri suoi coetanei): poche scoperte sono state così sconvolgenti come L’Erme­t ismo in poesia e l’Informale in pittura. Leonardo Sinisgalli Dal Catalogo Mostra, “Archetipo in piega rossa”, Circolo Culturale “La Scaletta”, Matera, 1980. 52


Mario Trufelli - Potenza giornalista scrittore poeta

Labili macchie di colore In principio era il bianco e dal bianco cominciavano a nascere le forme. Salvatore Sebaste su quel bianco, ossessi­vo ma esaltante, ha scritto il «suo» alfabeto pittorico, un curriculum di tentativi e di tentazioni, dove all’elemento grafico prevalente si è sostituita una figurazione rarefatta, fino al limite dell’inesistenza. E se qualche spezzone di realtà affiora, presto si trasforma in uno spazio vibrante e vitale: il bianco, all’improvviso, si è fatto universo. Ma lo sapeva Sebaste, mentre rattoppava i vuoti del «suo» universo candido, che da quella singolare «tabula rasa» nasceva ogni volta, magari anche per caso, un racconto? Riusciva a connettere mentre si accingeva a contaminare il «suo» bianco con interventi materici dove sempre spesso, malgrado le apparenze, si rivela una presenza umana? Certo l’artista, anche così decisamente provocato, ha il di­ritto di non rispondere, ha il privilegio del silenzio, magari per suscitare discussioni, compiacimenti o dissensi; comun­que, motivi di chiarezza. Ma con queste ultime opere, che trovano sempre pronta la sua mano esercitata, sempre vigile il suo impegno, Sebaste riesce a produrre commenti, invita alla discussione? Io penso che il pittore si sia dannato dietro a tante figu­razioni sulle quali interviene - ma è proprio necessario? - con labili macchie di colore. La dannazione di chi crea è sempre un fatto esaltante, non v’è dubbio. Rimbaud diceva (o pensava): «Più mi danno, meno mi danneggio». E, in fondo, un elemento che stimola, suscita riflessioni e perciò commenti, indipendentemente dalla volontà dell’artista. E se le ultime opere di Sebaste faranno appunto discutere, è segno che sotto quelle forme rarefatte egli ha quantomeno sommerso (ma vorrà un giorno riesumarlo?) quel cordone ombelicale che lo lega, da sempre, alla chiarità del «suo» Salento. Mario Trufelli, Dal Catalogo Mostra “Dissociazione”, Galleria “Spazio”, Potenza, 1980. 53


Vittorio Sabia - Potenza giornalista esperto d’arte

Proiezione verso l’astratto Un segno che si fa rilievo, che emerge dalle conflittualità della memoria, che esplode in un cosmo fatto di suggestioni e di misteri, quasi che il messaggio che proviene dal pro­f ondo dell’animo dell’artista voglia toccarti fisicamente, esplorarti, coinvolgerti, trasportarti, infine, in una dimen­sione diversa dove l’uomo è spazio senza tempi, è ricordo senza rimpianti, è sublimazione dell’essere senza corpo. È questo il messaggio che proviene dal «nuovo» Sebaste? Dice dice di lui Roiss: “Ha intuito che l’arte è visione, ed ha oltrepassato il confine fra fisico e psichico”. L’arte non è nemmeno un pretesto. E una più attenta lettura degli ultimi lavori di Salvatore Sebaste lo conferma. Perché il fisico rimane in quel segno a rilievo, in quella cartapesta sofferta, piegata e trasformata; lo psichico si legge in quei tenui colori che sanno di analisi sommes­sa, d’intuizioni appena abbozzate, ma profondamente sof­ferte. Dunque una proiezione verso l’astratto come esigenza di liberazione o di comunicazione che parte dall’anima e ad essa è diretta attraverso il segno. Che rimane una cosa tangibile, più lacerante, quasi che l’uomo non voglia rinun­ziare a questo inutile involucro che spesso lo condiziona e lo sconfigge. Quel segno che sottolineò la denunzia di Sebaste del contadino lucano così duro e sofferto; quel tratto che incise i misteri della magia e del microcosmo meridio­nale; quelle forme, che furono solamente sue nei corpi con­t orti degli antichi simboli di una volta, oggi non vengono gettati alle spalle quasi a voler cancellare con un colpo di spugna un’esperienza irripetibile dell’artista che ormai fa parte di sé in maniera indelebile. Quel segno rimane testimonianza, come fatto di continuità, quasi a sottolineare la condizione dell’uomo che se è proteso verso l’infinito, verso l’astratto, non può di­menticare che è determinato. Sebaste in parallelo con Kandinskij? Anche questo è stato detto e forse è così, dal momento che un paragone con un grande dell’astrattismo, è sempre esaltante e coinvolgente, come sostiene Leonardo Sinisgalli. Ma io credo che Salvatore Sebaste, pur nel trauma di que­s ta nuova ricerca che certamente è destinata a proiettarlo in un firmamento artistico senza confini, rimanga se stesso. Con una componente in più. Quella di percorrere strade nuove, per una profonda esigenza di comunicare con gli altri, sia pure su un piano di lettura più difficile. Vittorio Sabia, Dal Catalogo Mostra “Dissociazione”, Galleria Spazio, Potenza, 1980 54


Gerardo Corrado - Potenza pittore esperto d’arte

II muro bianco dell’Apocalisse del pittore Sebaste Fino a ieri, ma sembra essere passato un secolo, il pittore Sebaste ha dipin­to i contadini del Sud ancora impagliati dalla solitudine, nella loro fissità giottesca e astorica, gli scialli e le mantelle, gli occhi incandescenti dei muli, le ceste di vimini e gli inverni: oggi, improvvisamente, si è messo a imitare sulla tela una parete di muro, con le screpolature, Ie rughe di vecchiezza, gli ascessi e le ferite che narrano la storia senza storia della materia apparentemente inerte. Tra le immagini di ieri, del pittore Se­baste, e quelle di oggi, c’è una dissolvenza. Dissolvenza in termini cinematografici per dire che la scena di oggi sulla tela cancella totalmente quella di ieri. Tra ieri e oggi, quindi, nessuna continuità ma uno strappo, una lacerazione della membrana ottica, che ricorda la conversione di Fontana (oltre i quarant’anni!) ai tagli lunari, alle ferite nella tela, ai buchi. Perché? Sebaste non crede più nella storia, nella sua ideologia, nel dominio che finora la realtà ha avuto sull’immaginazione dell’uomo: non più nei linguag­gi che di questa egemonia sono stati l’espressione. Allora egli torna a una sorta di soglia zero, ove la storia è annullata e con essa i suoi contenuti culturali e i suoi linguaggi allineati. Per questo il muro. Il muro, per Seba­ste, rappresenta una duplicità di significato: una posizione morale di rifiuto della storia (e dei linguaggi) e anche avere a disposizione uno spazio libero, nudo, non coperto dai segni affollati della civiltà delle immagini su cui, probabilmente, registrare qualcosa. Ho detto registrare non dipingere! Vi è una bella differenza tra l’un atto e l’altro! L’artista, divenuto una specie di strumento passivo e silenzioso di osservazione del fenomeno, lo regi­stra soltanto, interviene il meno possibile, lascia che a esprimersi sia la casualità: la tensione di tenuta del muro, il suo intimo desiderio di disfacimento, quelle bocche e quelle labbra che non diranno mai una parola! Compaio­no forme sul muro che alludono ambiguamente a figure umane, a gesti, a grida, a strazi, a dolori, ma l’artista, Sebaste, non fa niente perché gli abbozzi di­ventino corpi, i gesti parole, le grida pianti e i dolori finalmente delle parole ascoltate! Può sembrare mancanza di pietas, da parte sua, indifferenza al destino dell’uomo ma in verità si tratta della paura che oggi attanaglia l’artista di compiere un atto arbitrario: sovrapporre la propria voce a quella delle vittime, parlare al posto degli altri. Così nelle tele di Sebaste tutto resta allo stato di ambiguità più assoluta, di avvenimento, di esistenzialità nascosta e delirante. Ma può un artista negarsi totalmente come autore? Ecco un quesito doloroso già presente nella cultura europea di mezzo secolo fa! Nella commedia pirandelliana di “Sei personaggi in cerca d’autore” delle povere e infelici esistenze umane, divise tra l’essere e il non essere, chiedono a qualcuno (a chi se non allo 55


scrittore?) di essere una realtà. Sebaste rifiuta con la storia di essere un autore, di dare forma e corpo alle apparizioni sul muro, agli ectoplasmi nati durante il sonno della coscienza, ma in verità la sua indifferenza attuale cela che fin dall’inizio ha preparato una trappola: uno schermo bianco, il muro sul quale è impossibile che non avvenga qualcosa. Basta, infatti, che la materia abbia uno scatto, faccia un colpo di coda, che la luce abbia un’onda di riflessione perché quello schermo, simile a lastra sensibilissima, segni delle impronte. Preparare una trappola e aspettare che la preda vi cada è diver­so che inseguire la lepre col fucile (qui si ha un rapporto tra due movimenti, tra chi insegue e chi è inseguito), ma anche questo modo passivo di dare la caccia è una tecnica, fa parte della cultura e quindi della storia. Cacciata dalla porta, la storia rientra sempre dalla finestra. Voglio dire che anche il muro apparentemente ingenuo, non scritto, nudo come le pareti della caverna prima delle incisioni primitive, come tecnica fa parte dei linguaggi e quindi delle varie posizioni culturali che si sono delineate durante i corsi e i ricorsi della storia. D’altra parte l’artista contempo­raneo non è più l’uomo delle caverne, né potrà mai esserlo. Sebaste in verità ha compiuto una scelta: tra la serie infinita di simboli e oggetti, che la civiltà ha prodotto, ha preso con sé il muro e il colore bianco che lo connota quasi a significare la stessa cosa. Ma vediamo cosa essi significa­no per Sebaste e per noi. Il muro, certamente, circoscrive uno spazio interno rispetto a uno esterno, limita il campo d’azione a se stessi e agli altri, e questo fa per difesa del soggetto o per dichiarata non appartenenza. È, in altri termini, la sanzione fisica dell’avvenuta separazione tra uomo e uomo. Il muro per antonomasia, oggi, è quello di Berlino, che separa in due una stessa patria, una stessa cultura, una stessa gente! Oppure quello del pianto di Gerusalemme, che corre tra due civiltà e due culture che pure eb­bero la medesima origine nella medesima stirpe di Sem e Cam! E quel suo colore bianco? Il muro dei mesopotamici, di mattoni d’argilla cotta al sole, era di un giallo quasi grigio. Quello degli egizi, di pietre perfettamente squadrate, sembrava colasse oro al sole. A Troia, invece, come se fosse stato lanciato su da giganti, era fatto di massi ciclopici che trascoloravano nell’azzurro. II muro dei romani, ancora, ha avuto sempre il colore del pane appena tirato dal forno. Per non dire delle pietre dei nuraghi annerite dal fumo del dio Vulcano! Il muro bianco di Sebaste, con tutta probabilità, è la sintesi tra due civiltà: quella araba, venuta da noi con le invasioni saracene, e quella cattolica. Per la religione di Allah il bianco era pausa, interruzione dei piaceri terrestri e golosi, in vista di una loro ripresa ancora più intensa; per la religione cattolica ha sempre significato lo stato della perfetta frigidità, condizione tra le più idonee per avvicinarsi a Dio. Infatti, quando l’adolescente si dona a Dio per la prima volta, assumendo con l’Ostia il suo corpo mistico, si presenta all’altare vestito interamente di bianco. Il valore di questa 56


scelta per il colore bianco nella prima comunione è chiaro: il corpo dell’adolescente non è stato ancora segnato dal pecca­to, che invece è il frutto malvagio dell’albero degli anni, dell’esperienza, quindi della storia. La religione cattolica, non illuminata dalla vicenda di Cristo, in fondo odia la storia: essa non-solo non aggiungerebbe nulla all’uomo che non abbia già dentro di sé (la verità di Dio) ma lo adultererebbe. Con il muro e il suo colore bianco, con cui i popoli delle rive del Mediter­raneo da molti secoli dipingono le facciate delle loro case, Sebaste entra in comunione con qualcosa che certamente si trova al di là della storia: è Dio? Le sue opere non sanno darci una risposta che valga un’affermazione o una negazione, confermando puntualmente la condizione incerta e angosciata in cui vive oggi l’artista. Se fosse Dio sa­rebbe subito riconoscibile, il gioco sa­rebbe fatto! Da una parte il grande autore, appunto Dio medesimo, dall’altra l’artista, suo discepolo! Il primo si assume tutta la responsabilità del creato, bene e male insieme, il secondo d’imitare le sue opere definendo quanto più possibile la loro forma. Dalla pienezza di questo riconoscimento è scaturita la grande arte del passato fino al Rinascimento! Ma attualmente tale rapporto tra Dio e l’uomo è impossibile! Non solo Dio non è immediatamente riconoscibile, ma è caduto in sospetto di essere iI prolungamento, oltre i limiti del tempo e dello spazio, di una nostra vanitosa richiesta di eternità. La cultura della crisi, da cui anche le opere di Sebaste sono moti­vate, nasce da questo fuoco del dramma: sentire il desiderio della forma dentro di sé (l’artista è attirato verso di essa dalla sua natura di autore!) e non potere correre a essa medesima perché ogni definizione comporta il rischio di trasformare il volto di Dio in una maschera! Come nel Cristo del Carnevale di Nolde, con il corteo miserevole delle altre maschere, l’Ideologia, la totalità, la Storia appunto con la “S” maiuscola. Allora la comunione attraverso il bianco con la non storia, per Sebaste, diventa, per quei segnali sempre avvertiti della forma e andati delusi, la comunione non con Dio, ma con la sua Assenza. Ecco il cuore del problema, io credo, nell’arte di Sebaste! Da ciò le screpolature come labbra arse dal silenzio del deserto, le bocche rosse che ridono come crateri inghiottiti dal sesso, il contrarsi della materia o il dilatarsi come lebbra, escrescenza che affiora alla superficie come erba di un male! Ombre della vita, comunque, sulla parete di un muro che non potranno mai diventare immagini! Se appena la mano dell’artista si spingesse a raccontarle, quelle ombre, a dare un volto a quel Dio dell’Assenza, sembra dirci Sebaste, l’arte cadrebbe un’altra volta nell’errore della storia, della conoscenza: in quella figurazione da cui siamo fuggi­ti come dalla città in preda alla peste. Ma si può comunicare ciò che non ha forma, l’Assenza? E fino a quando l’uomo può resistere al silenzio di una parete? Ma è la parete stessa a non farcela, le cose, gli oggetti, prendono coraggio su di noi e vanno al di là della nostra viltà. Nelle tele di Seba­ste, nonostante tutto, la materia, anche se per membra sperse, si organizza secondo un ritmo che non segue la geometria delle grandi catastrofi ma quel­la dei 57


piccoli mutamenti della materia stessa. Quest’organizzazione, secon­do triangolo quadrato pentagono esagono eccetera, non è sistematica, lineare secondo Euclide, ma tutta tesa a marcare le presenze e le assenze, il caso e la necessità, l’irregolarità e l’elemento fenomenico che la regge. Nonostan­te tutto, la non-forma, il caso, l’irregolare, non resistono alla tentazione di pervenire alla forma. In altre parole è possibile, oggi, che l’artista non possa conoscere Dio, avere il pieno possesso della sua forma, ma il suo destino è tentare ogni volta che ciò avvenga. Già in Platone, d’altra parte, il problema della conoscenza fu posto come scommessa ad avvicinarsi alla forma. Le sensazioni, poiché erano il risultato del contatto con le cose, in quanto le cose stesse erano la pallida sembianza delle idee in sé perfette, risvegliavano nell’uomo il ricordo delle idee medesime un tempo contempla­te da vicino: anamnesis o reminescenza. Se lo spirito, dunque, non è una tabu­la rasa, (quello schermo bianco assolutamente non scritto) le opere di Sebaste non sono l’Assenza ma la sua metafora. Nonostante tutto, vale a dire, poiché ci comunicano il contenuto negativo della storia e il silenzio che da esso promana, quelle opere contengono delle immagini! L’artista che voleva distruggere la sua biografia identificandosi in un muro, finisce per scrivere quella biografia ancora più sottilmente! Ah, dimenticavo di dire che il bianco nei testi sacri, rappresenta l’Apocalisse! Lo saprà mai Seba­ste? L’Apocalisse viene con il bianco e cancella la malvagità degli uomini! Quindi due volte il bianco: una volta per ricominciare a dipingere dimenticando tutto, e un’altra per tutto cancellare! Così fa un pittore dopo aver sudato su una tela per mesi e si è accorto che non si è avvicinato minimamente all’idea. Con un grosso pennello intinto nella biacca, travolge e cancella quanto è venuto dipingendo fino allora. Ma anche in quel modo, dopo qualche tempo, le immagini, ombre flebili e ambigue, emergono da sotto la biacca e chiedono un autore per essere definite. Perchè al muro è dato di essere in sé e per sé, natura e casualità, assenza e inconsapevolezza, ma all’uomo no. L’uomo purtroppo è costretto a conoscere, alla storia, quindi al pec­cato e all’errore: lo stesso Cristo si assume su di sé la responsabilità di ciò che fa e si fa crocefiggere! E d’altronde se un muro fosse un muro, e non una tela, una rappresentazione, non si firmerebbe! Quando Sebaste firma sotto i suoi muri a volte motto belli, si assume la responsabilità dell’errore commesso e quindi accetta di essere un autore, anche se all’inizio voleva contraddire a questa condizione ineliminabile per l’artista.

Gerardo Corrado, Dal Catalogo Mostra “Dissociazione”, Galleria Spazio, Potenza, 1980. 58


Franco Vitelli - Matera docente di Scienze della Formazione Università di Bari

Necessaria poiesi Lo sconcerto come canone d’interpretazio­ne critica se esercita un fascino sullo spet­t atore che trova nella propria emotività senso primigenio della creazione, non è di per sé sufficiente a restituire l’oggetto artistico alla sua autonomia come capacità cinetica, di muoversi nello spazio sto­rico delle ramificazioni culturali. Cresce lo sgomento, per restare in termini, di fron­t e a questi agglomerati di materia stampi­gliati sulle tele di Sebaste e scatta il black­o ut critico. Perciò ci è parsa una sorta di saggezza riparatrice cercare scampo a ritroso, di­p anare il veto rievocando taluni momenti dell’attività pittorica di Sebaste. Questo leccese di Novoli, da tempo ormai trapian­t ato in Basilicata, gode, suggendo gli umo­r i più vitali, di una doppia anima e tradi­z ione; e di tal privilegio non mancano se­g ni nelle sue opere. Proprio l’originaria condizione di spaesato doveva condurre Sebaste a una sistematica esplorazione del paesaggio lucano stimolante per la sua esperienza pittorica quanto produttiva per un migliore inserimento nella nuova realtà. Si tratta di prove che hanno quasi il sapore dell’inedito, tanto sono gelosamen­te custodite e forse rinnegate dal loro autore. Ma a noi preme partire di qui per dare un senso coerente al nostro discor­s o. Perché il materico in Sebaste ha una matrice ctonia, legame ombelicale con la terra e magari inevitabile approdo per via, di successivi passaggi. L’espressione fisica pur suggestiva ha ri­v elato presto la sua precarietà o insuffi­c ienza onde il bisogno di legare la geo­grafia alla storia mediante l’attestazione di momenti di vita tradizionale. E ciò in Ba­s ilicata, regione così ricca di cultura po­p olare e meta d’interessanti spedizioni etnografiche non poteva che significare collegamento agli studi di Ernesto De Mar­t ino specie quelli sul pianto rituale e mondo magico. Esiste un ciclo con acque­forti e oli dedicato interamente alle de­ f ormazioni magiche che viene ad assumere un’importanza fondamentale nella sto­r ia di Sebaste perché segna il momento della rottura e I’avvio verso le nuove so­luzioni stilistiche. La potenza magica con le sue possibilità di evocazione mitico - gestuale tende intanto allo sconfinamento dei contorni, all’indeterminatezza e sovrappo­s izione delle forme, e poi al substrato di realtà sul piano fantastico. Sorprende per la nitidezza con la quale atte­s ta questo processo in quanto conserva residui di una simbologia magico - sessuale (la cresta del 59


gallo come memoria del culto fallico) in un complesso ormai deci­samente approdato alla libertà delle forme. Insomma, se può valere una formula sta­ remo per dire che ci troviamo di fronte ad una concezione antropologica dell’a­s tratto, sedimentazione nel tempo delle forme storiche della coscienza. Né voglia­m o certo dubitare che il continuo speri­m entare di Sebaste abbia dei debiti nei confronti di precisi referenti culturali, piut­ tosto la sua pittura nasce dal singolare convergere di predisposizioni personali, influssi ambientali ed esperienze storiche. Le stesse prime testimonianze tradiscono certo allusivo o involontario riferimento alla terra, in alcu­n e piante caratteristiche dell’Italia medi­t erranea, il fico d’India. Sulla strada intrapresa dell’astratto non c’è, ovviamente, una subitanea definizione dei modi e delle tecniche, ma alla fase che qui si documenta l’artista perviene attra­ v erso esemplari di graffiato in bianco (po­c hi i superstiti di un atto d’intemperanza o insoddisfazione artistica), una fitta serie dai toni bruciati e scuri che s’impone per la pastosità e plasticità della materia, e infine i bianchi ibridi ove i colori sono co­m e appena accennati da un colpo d’ala. Nel magma confuso della coscienza, come in uno stato pre-natale si saranno deposi­tati germi che richiedono strumenti psica­ nalitici di tipo freudiano e junghiano per po­ter essere opportunamente decifrati ed e­spressi. Nel vuoto dello spazio sembra di assistere a vagazioni di elementi regolati nel moto della legge vincolante di Eros - Thanatos; perché un prevalente flusso ero­tico si sprigiona da questi quadri, ben pa­lese del resto, nelle continue torsioni della materia con le cadenze di chi abbia all’orecchio antichi ritmi della taranta. Certo c’è segnale di turbamenti e noi non sappia­ mo se le tele di Sebaste siano il frutto d’incubi notturni e ossessioni oniriche o il resoconto di un viaggio d’iniziazione ai culti misterici per non sottrarsi al fascino della vicina civiltà magno - greca e celebra­re in privato l’aspetto religioso della pit­tura. In Sebaste un colore non manca mai, anzi a volte gode il privilegio dell’asso­luto, il bianco, come rinnovato archetipo di una fierezza lucano-salentina, non importa se sublimazione di calanchi slavati o splendore di case di calcina. Se le ragioni interne di questa stagione di Sebaste sono quelle prospettate, il tem­p o certo lavora verso esiti che delle ori­gini sapranno scoprire gli impliciti riferi­menti alle nuove direzioni dell’arte con­temporanea; si vuol dire cioè che ove le condizioni oggettive e soggettive lo con­sentano, le suggestioni neo-figurative (nel­le forme possibili) non mancheranno d’ap­parire all’orizzonte. Non sarebbe un ritorno all’indietro, ma la naturale decorrenza una volta che del materico si sia esaurita la funzione rappresentativa. Franco Vitelli, Dal Catalogo Mostra “Necessaria Poiesi”, Galleria Incontro, Bernalda (MT), 1982. 60


Leonardo Mancino - Macerata poeta

Sebaste: leggere, con fantasia, la realtà intorno Salvatore Sebaste si orienta oggi verso l’uso più deciso del fantastico e del po­polare “rompendo” con assoluto equilibrio la sua già consolidata poetica che ha fatto di lui una presenza emblematica nel mondo dell’arte in Basilicata. II superamento, in chiave creativa e in dimensione fantastica, della precedente produzione avviene oggi come passaggio inevitabile, della figura aspra e strozzata verso lo spazio qualificandosi come segno vitale, come sospiro pro­ fondo ma pure come processo etico e strutturale: in sostanza come “testo”, co­ me “fenomeno”, come “ritmo”. Ora il poeta-pittore orienta il suo testo, la sua creatività verso risultati alti di spontaneità in un processo metaforico e testimoniale. In questo progetto di notevole impegno intellettuale, Sebaste costruisce la sua pittura, inventa e reinventa il quadro (gli agglomerati ogget­tuali, i frammenti, i colori, i segni, le trasgressioni, i traslati, gli spaccati, le pietre, le schegge di realtà, il colore naturale degli oggetti, le vestigia) come atto di responsabilità di artista che si pone fermo, imperterrito, solido, senza paura della coscienza prigioniera di se medesima, “presente” in un mondo svuotato e che va perdendo via via i dati e persino gli orizzonti possibili. Così è da vedersi in queste opere (che possono definirsi “della mimesi” e dell’”operato”) un sen­so di guerra e di verifica costante, di rottura provocata da tremiti, da tormenti, pure da bisogni di partecipazione al generale destino umano, di contraddizio­ ne e di dolore. Questi quadri sono calchi, forme, sono esemplari incunaboli; ma sono anche oggetti fantastici che ci permettono di affermare l’esistenza di un senso di speranza per vincere la disperazione e nello stesso tempo di non tra­dirla. Sono quadri che nascono da una sincera disposizione morale al bisogno di offrire all’occhio importanti esperienze di serenità interiore, di quella tranquillità e di quella calma che danno a Sebaste la possibilità di consegnarci chiare e splendide invenzioni poetiche. Penetrare il mondo con l’esercizio e l’uso della luce, guardare fin dentro l’anima, rivelare segni originari, tormentare la propria volontà di esprimersi liberandosi della coscienza dei limiti, celebrare l’incom­ piutezza, queste le operazioni che Sebaste compie come volontà continua a realizzare l’atto estetico e culturale. II cammino compiuto, dopo aver imboccato la strada più difficile, è quel61


lo della discesa nel precario della vita, inventando un processo d’immersione nel profondo dei problemi dell’esistenza, per poi risalire per consegnare brani di storia ricchi di esperienza vissuta, confronti con la sorte, pene, attese, inquietudini, malinconie, noie, richiami, proiettili di vita, profondità, piccole e grandi risposte, alterchi, pezzi d’inferno strappati e ri­ proposti con balenanti sorrisi e con solarità entusiasmante. Realtà, per Sebaste, sono anche i sentimenti, le aspirazioni, i pensieri dell’uomo; non soltanto l’am­ biente in cui egli vive e si esprime, non soltanto i fattori socio-economici che ne condizionano e ne determinano le linee di attività nel disastro della vita oggi e, in modo particolare, in Basilicata e al Sud. Sebaste sente il bisogno di dare corpo e valore alla realtà esterna, ma a condizione che vi sia un legame con quella interna dell’uomo, con la costante domanda morale, con la sua accanita progettazione, con la verità che si fa esemplarità. È l’angoscia esistenziale del sin­golo che diviene “romanzo”, che diviene situazione umana rispecchiata nel ri­tratto tragico che presuppose il massimo del coinvolgimento dell’arte. Occorre pure fare un’analisi morfologica di queste opere per scoprirne gli elementi simbolici, le costanti narrative, le ragioni stesse di essere come fenomeno di imagery, come segni distintivi dell’espressione poetica. L’analisi ci offre re­ferenti antropologici eccellenti: sono queste le opere di un artista che è dentro la crisi del nostro tempo, che guarda al futuro con anima e occhio preoccupato e triste, che pure lavora per un recupero dinamico dei reperti e dei lacerti della civiltà contadina. Sebaste tiene fede alla sua etichetta di “eccentrico” della pittura. Attraverso questi nuovi quadri dal lessico ricercato, egli ci propone una fitta trama d’inganni, d’inquie­tudini, di ossessioni e di miraggi che invischiano senza scampo le sue tormen­tate ragioni. Una nuova prova nella quale paiono ben fuse le costanti proprie della tradizione artistica meridionale e le sottili esperienze dell’arte fantastica. Abbandonandosi con sicuro trasporto all’onda imprevedibile del proprio estro, a tratti percorso dalle impennate folgoranti dell’ironico o del surrealismo, Sebaste crea un’opera “compatta” per tensioni e per traiettorie interne, anche se essa è la risultante dell’incontro d’idee diverse (racconti, trasparenze capricciose, invenzioni, bisogno di luce). E sono tratti distintivi e qualità ben sotto­lineabili, ponendo l’accento, fra l’altro, sulla “agra maniera - propria dell’artista - di far lievitare la realtà più cruda e atroce nel gioco fantastico e nell’assurdo”. II pittore, il poeta, il narratore è di fatto compresente in queste competizioni, nel­le quali Sebaste coglie la realtà nel momento preciso in cui la stessa si frantu­ma in infiniti frammenti, per poi ricomporla nell’allucinato mosaico della sua im­maginazione surreale. Un modulo, questo, particolarmente evidente 62


nei modi usati per trattare una realtà persino astratta, persino fuori dal tempo e di ogni mappa geografica, come astratte e improbabili sono le schegge che si muovono, sovente, dietro la spinta di motivazioni alogiche e irrazionali. Anni di lavoro sulle spalle dell’artista non hanno intaccato la trasparenza della vocazione liri­ca di questo capriccioso cantore senza orli: nei quadri di Sebaste si sovrappon­gono registri, a volte perfino, in aperto contrasto. Una poesia che si fa intellettua­le e astrattissima, ricca di simboli e prospettive ingannevoli, si slega in una totalità via via dimessa, fin a diventare domestica, fino a un’ermetissima pri­ vatezza di accenti. Entro la sinossi di questo gioco, in equilibrio fra abbandono e intelligenza, s’inseguono universi tipici dell’arte moderna, che permettono uno straordinario amalgama di aspirazioni, culture, ambiente e società. A questo Sebaste aggiunge una sua specola particolare: il modo raffinato di sbloccare tutte le tensioni verso un’organica chimera di emozioni e riflessioni. Sebaste è un “poeta” per quella difficile vena lirico-fantastica che ha sempre differenziato la “personalità” dal mestiere e senza scampo. II suo “rifiuto” a tutto non para­dossalmente in una chiave antiretorica che crea, poi, una propria tenue retorica personale attraverso cui la poesia, respirata e scacciata, rientra nel gioco d’im­magini divise per disordinato (apparentemente) amore dell’ordine. A chi già conosce Sebaste, quest’ultima prova non riserva sorprese, nel senso che la struttura compositiva del discorso si presenta, anche in questo caso, con modalità ricorrenti, secondo il rigore di una linea che viene costantemente fran­tumata e approfondita. Non è, infatti, difficile riconoscere oggi le stesse carat­teristiche che avevano informato l’esperienza precedente ma, con questa particolarità, che la nuova scrittura di Sebaste si è ancor più resa essenziale, impli­cando, in modo estremamente rigoroso, ogni cenno psicologico, come anche in ogni verifica del tradizionale dominio del significato. Vero e proprio “monolo­go interiore”; pertanto oggi Sebaste sembra trarre tutta la sua forza dall’ogget­ to, dal linguaggio, costantemente in bilico fra la nascente possibilità di attinge­ re un momento evocativo e l’impossibilità possibile di rappresentare il reale, non più condizione di esperienza, ma pure inutile, articolato discorso oltre il lamento.

Leonardo Mancino, Dal Catalogo Mostra, “Frammenti di Memoria”, Aula Magna S.E., Genzano di Lucania, 1982. 63


Marina Pizzarelli - Lecce storica dell’arte

Un tuffo sulla collina Sebaste era pervenuto a sbriciolare l’immagine e a farla a pezzi, perché ogni nuova coesione rispondes­se non alla logica figurate, ai fantasmi rozzi e ingenui dell’iconicità, ma alla pluralità precaria delle sensa­ zioni e del vissuto. Era penetrato nella cavità delle architetture baroc­ che, negli umori profondi della terra, nel calore pul­ s ante dei corpi, per frantumarli e disperderli. La sua pittura aveva perso spessore e colore, fino a giungere a una sorta di «tabula rasa», all’azzeramento totale del bianco su bianco. Quelle opere non erano uno scarto eccessivo di umori o un abbaglio di cultura, ma un portare all’estre­ m o certi presupposti stilistici per liberarsene del tutto: non saltarli a più parti, ma consumarli dentro; fino a ri­g ettarne le scorie. Poi, la creazione di spaccature e crepacci sulla tele aveva messo a nudo il colore in ebollizione sotto la superficie, fatto emergere sostanze magmatiche e lacerti di materia fluida e primaria. Erano impasti vul­c anici e tracce di lave rosse, verdi, gialle, blu luce­s c e n t i , u n d i a p a s o n a l t i s s i m o , c h e e r o m p e v a n o dall’agitarsi delle tensioni interne per assestarsi spontaneamente sulla tela. E in quei brandelli e stracci di colore s’intuiva una corrispondenza tra sotterraneo e superficie, tra interno ed esterno, tra microcosmo e macrocosmo. Perché quello di Sebaste è un temperamento più infocato dalla passionalità che controllato dal raziocinio. E la sua vera natura pittorica si esprime per il tramite della densità e luminosità del colore, del suo tendere a materiarsi, a sintonizzarsi alla gravità del mondo reale e a mettersi in corrispondenza con la tensione interiore. Così oggi I’esperienza dello strappo e del corpo frantumato si 64


consolida e si estende, arriva ad assu­m ere una solidità meno occulta e segreta. Il magma intravisto acquista consistenza di forma-colore, si ad­d ensa in corpo unificato ed espanso, le schegge e i frammenti diventano composizioni di masse intense come volumi, forme di concretezza plastica e spessore cromatico, tutti orchestrati nella sfera dell’organico. Si apre un altro periodo del suo percorso, secon­d o cadenze materiche ed espressionistiche in cui for­m e primarie, umane e di tipo naturalistico trapassano in quel di animali e di vegetali o viceversa, visioni medusiache mediate da una cromia ad alto volume percettivo. È una pittura fatta di segni che partono da dimensioni interiori per raggiungere un accordo pani­c o con il mondo, attraverso immagini mitiche di grande forza visionaria e drammatica. Riaffiora in quelle tele una stirpe sopravvissuta a tutti i flagelli naturali e artistici, un popolo di giganti fragili e nomadi che non accetta più di essere incatenato e che racconta la sua storia. E l’allegoria condotta sul tessuto narrativo si accresce di un tono favolistico derivato dalla memoria del racconto popolare e di tutto il riaffiorante ineli­m inabile bagaglio della cultura lucano-salentina. La forma pare dilatarsi e in parte concentrarsi come per un recupero di cosmicità primordiale e ar­ c aica, con l’approdo a un paesaggio ctonio e aborigeno, talvolta persino magico. Un paesaggio ottenuto attraverso quella graduale purificazione della tecnica e per un processo di astrazione che ha eliminato dalla tela ogni elemento di decorazione descrittiva. Vi è re­s iduata così un’idea essenziale della campagna luca­n a, quasi un colore acuto come un grido, naturale complemento di un’immagine ridotta a un minimo ar­c hetipico. Sono forme che non descrivono, ma rendono le emozioni, che ci immergono nel sentimento confuso di uno stratificarsi di generazioni perdute nel tempo e nelle zolle brune della terra lucana, di una materia fat­t a della fatica che si è consumata nel buio dell’antico ventre terrestre (ed è qui che Sebaste si riallaccia a quella pittura «lucana» che va da Levi a Ortega). E la materia pittorica non si è mossa soltanto dall’in­ continenza puramente manuale del dipingere, ma tende a intensificarsi con la sostanza organica della materia vivente, è partecipe della palpitazione terrena. Nelle stesure di colore rutilante e succoso, negli abbandoni eloquenti e quasi neo-barocchi c’é una furia indistinta di vita, una sorta di gioia dionisiaca. È come affondare dentro il magma, un «tuffo sulla collina». Marina Pizzarelli, Dal Catalogo Mostra, “Un tuffo sulla collina” Palazzaccio Baronale, Scanzano Jonico (MT), 1985. 65


Filippo Mele - Scanzano Jonico giornalista esperto d’arte

Quando il colore si fa vita Salvatore Sebaste, teneva molto a questa sua personale di Scanzano, quasi a voler sfatare l’antico motto del “Nessuno è profeta in patria”. Infatti, Salvatore è un Iucano-salentino appartenente “da secoli” a questa piana di Metaponto (che conosce da quando era una langa malarica e desolata) ma non vi aveva, sinora, esposto in rassegne di grande impegno: nemmeno in quella Bernalda, in cui risiede. Il tuffo sua collina (questo è il titolo della mostra patrocinata dall’Amministrazione comunale di Scanzano) lo ripaga, comunque, pienamente e ripaga i visitatori cui viene “offerto” il pittore con le sue radici sociali e culturali, la sua arte come espressione di sentimenti veri e profondi, il suo colore come passione per la società civile. Già il colore! Nei consensi unanimi di pubblico e di critica le “letture” delle opere esposte hanno tutte evidenziato la “sorpresa” per il colore-Sebaste. Per chi conosce da qualche tempo la storia pittorica dell’artista, infatti, la rassegna di Scanzano è un esplodere di rossi, verdi, azzurri, gialli, marroni, tutti vivi, lampanti; quasi accecanti, come mai nelle opere di Sebaste, approdato tempo fa a un’espressione materico-informale. Qui, invece, col colore, predomina l’altro cardine della pittura “storica”: la figura, un insieme informe (ma facilmente “leggibile”) di corpi umani, braccia, piedi, mani, dita, teste, pesci, uccelli, fiori, immersi nella terra bruna e nel cielo azzurro. Il tutto è vivo, animato, pulsante, percettibile, e qui sta, forse, il risultato; pienamente raggiunto cui tendeva Sebaste. Un artista maturo, quindi pienamente consapevole del suo lavoro, meticoloso quanto basta per ottenere l’effetto stilistico-estetico, attento (oggi) a un messaggio forse nuovo: quello politico. “Sì, sono quadri politici, dice con franchezza, perché esprimono il mio grande dissenso contro l’isolamento dell’uomo”. Già, Sebaste non è l’esteta che osserva dall’alto lo scorrere delle esistenze; egli “vive” con gli altri, agli altri dedica il proprio lavoro, mescola le sue idee, ricerca il dialogo, è l’incontro, partecipa, interpreta ciò che accade attorno a lui. In questo senso II tuffo sulla collina (che è I’argilla dei calanchi della Basilicata) è la mostra delle esperienze, delle conoscenze, delle sensazioni, della realtà in cui opera Salvatore Sebaste: un pittore, concordando con Marina Pizzarelli, “… che si riallaccia a quella pittura ‘lucana’ che va da Levi a Ortega”. Filippo Mele, Da “Cronache Lucane”, Potenza, 25 aprile 1985. 66


Gaetano Cappelli - Potenza scrittore

Dallo zoccolo di Pegaso sgorgò l’acqua della vita L’arte del presente elettronico affronta a cuor leggero il senso della propria caducità nel tem­po. È che il continuo oscillare del gusto, lo svol­gersi ciclico delle tendenze, attraversate dall’am­plificazione mass-medianica, rendono risibile il furore delle scelte esemplari cui dedicare una vi­ ta. Se questo comporta un certo raffreddamento dell’espressione, dall’altro si fa una volta per tut­ te piazza pulita del dogmatismo e dell’ottusità ad esso propria. Da questo, iI massimo ampliamento e la reversibilità delle scelte, la leggerezza come cifra dell’arte degli anni ‘80. Leggerezza come capacità ricercata di aprirsi al cambiamento, alla variazione infinita dell’arte. L’artista come skipper capace di sentire e defini­ re la direzione del vento nel mare magnum delle tendenze. II concetto della «serie» inteso come incursione attraverso gli stili e le forme in uno spazio creativo che includa tutte le scelte possi­ bili. In questo senso la pittura di Salvatore Seba­ste appare privilegiata contenendo in sé, oltre il passato e il presente, un plausibile affondo nel futuro con quel suo ciclico oscillare tra rarefazio­ni e addensazioni del segno pittorico. Così gli ul­timi lavori che andiamo presentando, possono in­scriversi a tutto diritto nel rinato interesse per l’infornale. L’informale, già, di nuovo e con rina­ta passione poiché I’andare su e giù lungo la sto­ria dell’arte ha oggi il valore della novità e della scoperta. La pittura di Sebaste è dunque essenzialmen­ te materica, nel suo creare forme consustanzian­dole dal colore attraverso il ritmo creativo del ge­sto e le sue sovrane andature, le brusche eppur precise impennate. L’artista lascia che la materia si addensi in spessi, avviluppanti vortici di colore; la dirada in repentine, sinuose sfilacciature: direi filamenti del nucleo primigenio che così appare 67


sospeso in una sua intricata trama, viva e in movimento, restituendo nell’opera compiuta tutta la velocità e la carica gestuale dell’atto creativo. Qui nel tormentato magma cromatico, nel flusso continuo di colore irrorato da piacevoli sprazzi elettrici, battute nervose, guizzanti varia­ zioni, è dato leggere il decantarsi dell’arte nella sua forma più pura, in cui lo scontro con la mate­ ria si risolve nell’estinzione dell’oggetto a favore dell’atto stesso del dipingere, dove il segno perde il suo carattere di rappresentazione e diventa puro movimento, dinamica estroflessione dell’es­ sere in una sorta di primitiva, vitalistica acquisi­ zione del reale per l’intensità con cui ogni singo­lo colore vi viene assunto. Alla linea analitica imperante nella scena at­tuale Sebaste risponde con una sorta di contur­bante primitivismo informale se é vero che la sua pittura vibra di questa nuova superba energia; li­bera, viva, palpitante, è indifferente alla forma, disprezza l’innaturalezza delle strutture prefissa­te, celebrando, di contro al rigore concettuale, la poesia panica del gesto nelle sue ampie e sono­re volute.

Gaetano Cappelli, Dal Catalogo Mostra, “Dallo zoccolo di Pegaso sgorgò l’acqua della vita”, Galleria “La Scaletta”, Matera, 1988. 68


Claudio Spadoni - Ravenna storico dell’arte direttore artistico MAR

In principio era il mito. Qualcosa d’inafferrabile, di sfuggente, di lontana suggestione. Eppure così vivo, profondo, radicato, da impregnare di sé anche le multiformi espressioni di un tempo, quello d’oggi, catturato da miti di ben altra specie. Da consumare rapidamente, da assumere come droga collettiva obnubilante nella sua fittizia innocenza. Pavese scriveva che “il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da quest’unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo”. E se proprio il tempo ne ha contaminato l’innocenza originaria, non ha tuttavia spento la vibrazione ancora magnetica del suo primario fondo antropologico. Mi sembra un riferimento inevitabile, questo al mito, accostando la serie di dipinti che Salvatore Sebaste, abitatore di una terra popolata di miti, va accumulando da qualche anno. Un’estesa e perdurante stagione densa, carica come forse non mai di quei succhi che avevano alimentato i momenti diversi del suo ormai lungo percorso. Insomma, una stagione matura, nella quale Sebaste ha messo a frutto le passate esperienze - anche gli scarti che le hanno contraddistinte - mettendo in conto i profitti e le perdite, s’intende, ma con la consapevolezza, comunque, della loro necessità. Ma nella pittura d’oggi, appunto, egli ha trovato una pienezza di sensi, una foga espressiva liberata da remore iconografiche come da ansie sperimentali, e un’intensità d’immaginazione trascritta nell’immediatezza del gesto, affidata alla forza evocativa del colore. Una pittura che riscopre il coinvolgimento pieno, il rapporto di partecipazione diretta, l’abbrivio quasi bruciante che richiamano immediatamente una condizione operativa tipica dell’Informale. Ecco spendiamo subito questo termine di riferimento, sul quale tuttavia sarà opportuno tornare per qualche necessario ‘distinguo’. Non foss’altro perché l’allusione a una vicenda storica tanto eterogenea nelle sue manifestazioni linguistiche, nelle sue condizioni di cultura e di geografia, e di così ardua precisazione entro un orizzonte espressivo tra i più dilatati, richiederebbe comunque delle coordinate più puntuali. E anche, direi, per 69


evitare d’intendere tale richiamo come un ‘ritorno’ - fra i tanti possibili, praticati soprattutto nell’ultimo quinquennio - che deve essere pur sempre motivato. Ma intanto, già l’evocazione dell’Informale può rendere più giustificata la premessa sul mito, sulla natura originaria del mito, e sulla ricerca di una primarietà del gesto fondativo della pittura, della materia pittorica. Fatto di non poco conto per Sebaste, partito da esperienze inscritte in una cultura decisamente segnata da modelli iconografici di tipo, per intenderci, realista. Di un realismo anche connotato geograficamente, che può avere come riferimento in Lucania per fare solo un nome, un Levi, e che muoveva da forti basi popolaresche, per quanto, in Sebaste, portato a un’emblematicità quasi araldica. Quasi al limite di una congestione cartellonistica, di vago sapore pop, ma in un’accezione certo totalmente diversa rispetto a quelle ben note del pop d’oltreoceano. Quel che è certo è che fin da allora il movente era da ricercare in radici di una geografia della cultura, per così dire, e in uno slancio di partecipazione davvero imprescindibili. Qualcuno ha parlato di ‘fantasmi rozzi e ingenui dell’iconicità’ che Sebaste avrebbe, poi, gradualmente frantumato nella loro ‘logica figurale’. Ora, non saprei dire se i modelli iconografici di allora, elementari finché si vuole, ma di schietta vocazione ideologica, fossero poi tanto ingenui. Resta il fatto, comunque, che la sincerità emotiva, l’urgenza proprio tematica, non trovavano al momento altra possibilità di manifestarsi se non attraverso la definizione dell’immagine, e dunque nella sua logica di una diretta forza comunicativa. Quasi delle icone povere d’immediata riconoscibilità, e magari con qualche richiamo a certa pittura muralista di dichiarato impegno sociale. Insomma, un singolare impasto di cultura autoctona e di rimandi, per quanto appena avvertibili, forse, a situazioni diverse per geografia e sottofondo ideologico. Ma già da allora, comunque, si avvertiva entro la sostanziale fissità di certe immagini, un lavorio oscuro della materia, un suo lento lievitare, inturgidire, pur nella netta definizione delle figure. E proprio sulla materia si concentrerà poi l’attenzione di Sebaste, come per verificarne la specifica possibilità di ‘significare’, indipendentemente dal suo costituirsi in una narrazione figurativa. E qui è opportuno rifarsi ad alcune osservazioni di Leonardo Sinisgalli, che chiamavano in causa nomi diversi e diversamente impegnativi: da Prampolini a Kandinskij, da Schwitters a Burri. Materialismo, polimaterismo, s’intende bene, non senza certi agganci teorici; kandinskiani, appunto. Insomma, molta carne al fuoco per un’avventura sperimentale che sembrava voler fare tabula rasa d’ogni indugio realista. “Gli straccetti di Schwitters per Burri potevano avere avuto la stessa suggestione delle carte masticate di Prampolini per Sebaste. E Sebaste, davvero, aveva fatto un’indigestione di cartapeste (forse 70


la sua nascita leccese) fino a far concorrenza ai leggendari lotofagi”. Un passaggio, questo affrontato dal pittore, verso una condizione nuova; o per meglio dire, verso la condizione del ‘Nuovo’, e anzi, verso la ‘tradizione del nuovo’, per riprendere l’ossimoro, felicissimo e notissimo, del Rosenberg. Ma sarebbe una lettura riduttiva se non mettesse nel conto altre ragioni che non quelle di una verifica condotta su territori già largamente sondati da un filone, peraltro molto eterogeneo, di certa avanguardia. Ed ecco che lo stesso Sinisgalli, con le debite cautele, “brancolando tra infiniti richiami”, tira fuori dalla sua penna altri due nomi Ernest e Dubuffet. Che, per vie diverse richiamano intanto al metamorfismo della materia e a una sua primarietà antropologica; a un suo animismo e a un suo stadio preculturale. Insomma, un affondo alle radici del simbolico, quasi nel cuore della materia stessa, con tutte le suggestioni che può nutrire. Ma, insieme, un diverso modo di interpretare quelle tradizioni proprie - dalla cartapesta allo stucco alla calce - tra cultura alta, per così dire, e cultura popolare. “I tufi pugliesi e le crete basilische sono lievitati dalla luce dell’aurora”, scriveva ancora Sinisgalli che salutava la scoperta del colore, della luce, in quelle composizioni materiche dove ormai il bianco d’intonaco e di calce imponeva il suo dominio. E basta scorrere qualche titolo - posto che dei titoli vi sia bisogno - per avere conferma di una ricerca delle proprietà espressive della materia, della sua interna energia, e della sua decantazione in un organismo formale sciolto da gravami ideologici e da vincoli aneddotici. “Archetipo in piega rossa”, “Campi di energia”, “Fragmenta”, “Ritmo spaziale”, “Forme vegetanti in superficie”, “Spazio - materia”; quanto basta per comprendere come Sebaste si sia spinto molto oltre anche i termini di riferimento suggeriti da Sinisgalli. E come, salve restando le indicazioni sopra offerte, abbia inteso fare i conti con le questioni diverse che le poetiche della materia avevano sollevato lungo tutto il percorso dell’arte del nostro secolo. Era inevitabile, tuttavia, che Sebaste avvertisse il rischio di un eccessivo indugio nelle seduzioni di quel lavoro, mentre premevano voci, immagini, memorie, fantasmi, impressi nella sua coscienza, o velati nel suo subconscio. Insomma, una folla di ‘cose sue’, della sua terra e dei suoi miti come della sua storia. E non so se abbia pensato magari al Tolstoj che diceva “Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio”, proprio quando le sue frequentazioni, i suoi incontri di lavoro, lo ponevano in contatto con figure di primo piano di una cultura che col suo villaggio, con la sua terra, avevano ben poco da spartire. Come Beuys, per fare un nome 71


su tutti. Sebaste non ne è rimasto soggiogato, e anzi ne ha ricavato forse maggiore consapevolezza per il suo procedere. Il colore è tornato a suggerire meno velatamente la concretezza del visibile e l’intensità dell’emozione; ha preso ad accendersi, ora forse come mai prima, o a incupire, a rapprendersi in grumi, a incresparsi, a contaminarsi, a sfrangiarsi o a espandersi in un nuovo racconto. Ma un racconto sciolto dai codici formali di un tempo, quasi sgorgasse direttamente dal colore stesso e dai segni liberati in un’urgenza di gestualità. Il recupero del disegno infantile – o per altri aspetti della pittura e dei graffiti rupestri - da intendersi non come citazione primitivistica, ma come ripartire dalle origini, può allora assumere il senso di una compiuta liberazione da modelli formali precostituiti. E in questo, il riferimento all’Informale ha una sua pertinenza. Si chiamino pure in causa il gruppo Cobra e Dubuffet, o, se si vuole, certi padri nobili dell’Espressionismo astratto. Sarà comunque una riprova dell’innesto fecondo che è maturato nell’alveo culturale in cui s’è formato Sebaste, e che, anzi, gli ha offerto la possibilità di poter esprimere più direttamente, e più compiutamente, proprio quelle ‘cose sue’ che gli premono e delle quali sono intrise la sua memoria, la sua vita, la sua immaginazione. Ora Sebaste indica per i suoi dipinti, “Fiore dell’incontro di mezzanotte”, “Sull’acqua la cicala canta”, “Ti porteranno le onde”, “Giardino delle intenzioni”, “Ripetizione di rotte abbandonate”, “È tutta magia”, per dir solo alcuni titoli. Ora, il pretesto contingente accende la fantasia del pittore richiamando una folla di associazioni, di memorie; eccitandone i sensi, guidandolo a una captazione quasi rabdomantica di profondi gangli di storia e di mito. Anzi, le immagini di vita subito richiamano un’atemporalità mitica. Un volo d’uccelli, un’apparizione notturna, un rito popolare, una figura comune, o un brano di paesaggio, di architettura, la forma di una pianta, il fumo di una ciminiera, il lavoro dei campi, e quant’altro ancora, si fanno colore, gesto pittorico; e solarità accecante, turbamento di ombre, brusio lontano e suono quasi stordente. E in questi trasalimenti della pittura, che cerca le più segrete, ma anche le più elementari corrispondenze, si avverte, più forte che mai, una suggestione per l’originario che anima la materia, informa i segni pittorici, plasma nuove immagini o embrioni d’immagini. Come se la forza di rivelazione del mito si riaccendesse nella solare, mediterranea fragranza delle cose.

Claudio Spadoni, Testimonianza, Ravenna, 1989. 72


Mario Trufelli - Potenza giornalista scrittore poeta

“I Sassi di Matera” in Germania Una città del passato dove l’uomo e la natura hanno vissuto in simbiosi tra povertà e solitudine, un mondo dove forme e colori sono dominati dalla pietra che raccoglie la continuità dei miti e delle culture, un paesaggio che ha conquistato e commosso soprat­tutto i poeti e gli artisti. Matera, con i suoi Sassi, ha trovato un’altra singolare interpreta­zione nella mano esercitata di un artista solare e immaginifico, Salvatore Sebaste, che ha compiuto in questi suoi quadri, dove c’è tutto un brulicare di tensioni vitali, una fan­ tastica risalita alle sorgenti recuperando un gesto e un segno primitivi, le preistoriche incisioni rupestri, la magia dei riti arcaici. “La mia ispirazione proviene da studi che ho condotto prima sui grafismi infantili a li­vello di Scuola Materna ed Elementare e poi dallo studio attento delle chiese rupestri di Matera, di questa Matera che è una delle città più antiche del mondo, che risale al Pa­leolitico, quando l’uomo si serviva appunto di elementi grafici che poi diventavano ma­gici e religiosi”. “Omaggio a Matera” s’intitolano, infatti, le personali di Salvatore Sebaste che l’associazione italo-tedesca per gli scambi culturali ha allestito a Dusseldorf e ad Am­burgo con l’imprimatur della critica italiana più qualificata da Segato a De Grada, da Bertacchini a Cavallari. Pur partendo da un preciso riferimento alle immagini reali del mondo, in queste ultime opere, Salvatore Sebaste ha donato al suo temperamento d’artista, partito dalla chiarità mediterranea, il gusto, la gioia dell’invenzione. Non vi sono figure umane, in questi quadri, ma vi è la sublimazione di tutto ciò che ha la vita. Il pittore ha dipinto quasi d’impulso, con l’emozionalità gestuale, tipica della sua terra lucana.

Mario Trufelli, Da “Primissima”, Settimanale del tg1, a cura di Gianni Raviele, Roma, 1991. 73


Anoall Lejacard - Enschede esperto d’arte

Perturbazioni e combinazioni imprevedibili Conobbi l’artista Sebaste nel 1979, in Olanda, nella galleria “Tardy” di Enschede all’inaugurazione di una sua personale in cui esponeva oli su tela, disegni e tempere. I dipinti erano rappresentazioni di folklore, di tradizioni popolari, di feste religiose, di credenze e costumi del suo paese. Egli ci spiegò il significato antropologico delle sue opere e incuriosì me e gli altri visitatori della mostra. Ricordo, ancora oggi di quella rassegna, alcune scene di squallore, figure o pupazzi con sguardi assenti su sfondi bianchi, paesaggi o interni appena accennati da una linea sottilissima nera, peperoni di un rosso struggente, cipolla e aglio appesi su una parete, fantasmi e il tutto avvolto in una luce violenta, tormentata che solo l’atmosfera del Sud sa rendere. Quei quadri esprimevano anche la tremenda storia dell’ironia di un ambiente e di un popolo, dove il Sebaste vive e da cui trae gli stimoli per i suoi lavori. La mia curiosità, nata quella sera, fu soddisfatta solo dopo aver approfondito lo studio antropologico del Sud d’Italia e in particolare della Basilicata e poi quando visitai quelle zone, restando incantato di fronte al paesaggio, agli abitanti, a tanta bellezza dove la fantasia si fonde facilmente con la magia. Io, da quella mostra, ho sempre seguito il Sebaste nel suo curriculum artistico dai depliants delle sue esposizioni che mi ha spedito assiduamente e posso affermare che l’artista nelle sue opere, anche se con espressività diversa, non ha mai dimenticato il “Sasso” di Matera, i calanchi, le magie, i diavoletti col cappuccio rosso. I vari cataloghi evidenziano l’impegno costante e la ricerca continua e, risalendo alle opere degli anni Sessanta, ci accorgiamo che le forme dipinte si trasformano, diventano più ambigue, più materiche, più informali sino a prediligere il gesto dettato dal movimento del braccio e del corpo, senza però mai trascurare “l’uomo”, questo essere che considera nell’insieme e nei dettagli in continuo rapporto con la natura. Durante l’estate del ‘93 sono ritornato in Basilicata e ho, quindi, incontrato l’artista nel suo studio a Metaponto, intento a elaborare, con pastelli a olio, annotazioni sull’uomo, sul suo comportamento sociale, sul suo adattamento eco74


logico e sulla capacità di trasformare l’ambiente in modo vantaggioso per sé, ma spesso nocivo per la comunità. Secondo me Sebaste, in questo periodo artistico, ritorna con maggiore evidenza alle sue radici, rivisita con la memoria i sogni fatti da ragazzo e li proietta fuori del suo inconscio, unisce impressioni ed esperienze della sua vita che mescola in perturbazioni e combinazioni imprevedibili. Si tratta di un artista che torna a criticare il formalismo della tradizione del suo paese e opera con ascendenze surrealiste e concettuali apprese dall’esperienza attraverso la conoscenza di artisti non solo europei. Egli tenta di creare un nuovo stile in cui I’apparenza etnica non é del tutto repressa, ma rivalutata in virtù di una dichiarazione di appartenenza a un luogo che è vita e cultura. In questa ricerca i soggetti dei dipinti sono molto fantastici e sono una satira della società contemporanea. L’artista si esprime in racconti pittorici, come fece negli anni Sessanta o quando traduce i suoi studi in acqueforti che pubblica in libri e cartelle d’arte con scritti di narratori e poeti. Alcuni di questi libri d’arte recentemente sono stati esposti a “the Museum of Modern Art, New York”. Tra le opere viste, ho particolarmente notato “La donna che spia”: una testa di donna disfatta nella forma come il paesaggio del “Sasso”, mentre sul muricciolo in primo piano emerge un ramarro verde, unica testimonianza di vita e di speranza; “La discesa di topi”, inseriti in un paesaggio da sogno, in una sorta di continuità sentimentale che annulla i trapassi spaziali; “Il Carnevale di Tricarico”, dove il colore, esaltato in tutta la sua gioiosa pienezza, si accende di riverberi luminosi e s’impreziosisce d’incandescenze colorate d’oro e le immagini congegnate sono avvolte in un’atmosfera impregnata di tenerissima nostalgia e di ricordi indefiniti e lontani. Con questi lavori, che potrebbero sembrare un discorso nostalgico per qualcosa di perduto e non più ritrovabile, l’artista con sensibilità professionale interpreta la nostra società piena d’insidie, così frantumata nel disordine ambientale e nella sopraffazione individuale, convinto assertore che solo la conoscenza delle proprie origini e l’approfondimento storico del comportamento umano possono decidere il futuro dell’umanità. lo penso, conoscendo la dinamicità dell’artista, che queste opere siano il risultato di un momento di riflessione che in futuro darà vita e vigore a nuove ricerche. Anoall Lejacard, Dal Catalogo Mostra, “Perturbazioni e combinazioni imprevedibili”, Fondazione Zetema, Matera, 1994. 75


Giorgio Segato - Padova storico dell’arte

Tra realtà e magia del segno Questa fine di millennio vede il trionfo incontrastato della civiltà e della cultura dell’immagine: nel nuovo millennio essa sarà il medium di ogni informazione e di ogni atto, in infinite e rapidissime possibilità e combinazioni di trasmissione, comu­nicazione e manipolazioni sostitutive del rapporto diretto, sensoriale, con la realtà. Ogni forma di conoscenza sarà quasi completamente mediata. Di fronte allo strapotere dell’immagi­ ne, tuttavia, ancora si solleva qualche reazione “poetica”: ora in direzione di una restituzione di peso e di valore alla parola, ora con una sorta di “analisi grammaticale” dell’im­magine stessa, alle cui origini si risale attraverso il segno, tornando ad accentuarne la tensione espressiva nei gesti elementari, evidenziandone i ritmi costruttivi, gli addensamenti, le rarefazioni, gli aloni, i percorsi che modellano lo spazio e lo traducono in atmosfera eccitata, in luogo di scrittura dell’uomo e del tempo. Salvatore Sebaste compie questa risalita alle sorgenti recuperando un segno e un gesto primitivi, molto simili ai grafismi dei bambini e a preistoriche immagini rupestri magico-rituali. Intende così ristabilire l’innocenza e la verità del segno, del gesto, di un’immagine, di un racconto. Nei suoi quadri recenti, esposti alla Galleria d’Arte Moderna S. Giorgio di Mestre, c’è tutto un brulicare di tensioni vitali, di umori che diventano colori, di metamorfosi che si stanno per compiere, di memorie che affiorano e si accumulano in super­ficie, di proiezioni dall’intimo, ora come urgenza espressiva, disvelamenti, ora come drammatizzazione di paesaggi visionari. II contesto è allarmato e allarmante, transmorfico e sensuale insieme, qua e là ancora con riferimenti costruttivi e paesaggi percepibili (un mosso orizzonte, un sole, un edificio), ma più spesso è affidato alle intersezioni dei piani create dalle pennellate vibrate con gestualità rapida, per lo più automatica, 76


ma ben controllata e contenuta da una coltivatissima sensibilità per la misura, la quantità, i rapporti, il respiro. Ci sono riferimenti alle esperienze dell’Art brut, dell’Informale, così come del Neoespressionismo segnico e materico rivolto a un’archeologia dentro i sedimenti della memoria visiva e tra i segni di arcaiche testimonianze di civiltà e di cultura figurativa: ma soprattutto, Sebaste traccia sulla tela vettori forti e caldi come “focolai”, territori di accumulo, di accensione e di espansione di energia, di nuclei di vissuto, di “grumi” e slanci repressi” e qui liberati, sollecitando una partecipazione sensoriale che si combina con la percezione interna, fitto dia­logo tra tattilità ed evocazione, fisico e atmosferico, sensuale e metaforico. La texture tende a montare in verticale seguendo l’impulso del gesto, e a espandersi obliquamente in un gioco di guizzi, di archi, di attraversamenti, affondamenti, apparizio­ ni e germinazioni repentine, concitate sequenze di vibrazioni segniche, cromatiche e materiche. Lo spazio diventa vortice proiettato nella dimensione profonda e temporale e insieme conserva, sulla superficie in tumulto, una forte reattività epider­ mica alla luce, come di territorio eccitato, parete murale ma anche tessuto organico, corpo vivo scosso da dense, ambigue ombre d’inquietudine. Nei recessi d’ombra pulsa una crescita di forme, in contrappunto con la vertigine di paesaggi arrampicati, sintesi d’immagini oscillanti fra l’intuizione di un malessere esistenziale e il desiderio di penetrazione e partecipazione assoluta, con soprassalti di turbamento, serpeggianti sottili timori, insinuanti ironie. In tal modo il segno di Sebaste scardina ogni realtà confezionata, apre ferite profonde nel tessuto dell’immaginario comune, suscita disfacimenti nell’ovvio e scontato, restituisce il senso di una realtà esplorata e, al tempo stesso, la magia di una gestualità evocativa e propiziatoria che scarica alta tensione in uno spazio inteso come organismo totalizzante, continua tra interno ed esterno, fisico e psichico, rifondando le ragioni della pittura.

Giorgio Segato, Dal Catalogo Mostra, “Tra realtà e magia del segno”, “Galleria d’Arte Moderna S. Giorgio”, Mestre Venezia, 1994. 77


Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

Segni cinesici Basata sul principio d’indeterminazione conoscitiva, è la grammatica narrativa di Salvatore Sebaste. II suo universo semiotico é eternamente diviso tra comunicazione e significazione. Ciò fa di lui un produttore ideale di figure e di gesti. Egli difficilmente supera la soglia che separa i segni dalle cose. L’artista insegue insomma uno spazio semantico libero da codici e da regole, perfettamente calato nei sensi. Riusciti, sono i suoi tentativi di andare oltre il colore e la sua replicabilità. Sebaste non indugia, in effetti, né in passive rappresentazioni iconiche, né nella regola dei doppi, cara a molti artisti “qualisegnici”. È nelle continue variazioni tinto-tonali che egli afferma il suo carattere, anche quando ricorre a garbate intrusioni di segni cinesici (basati sulla somiglianza con l’oggetto rappresentato). Salvatore Sebaste non pone un limite netto tra la rappresentazione iconica e l’immagine convenzionale-astratta. Per lui ogni esperienza percettiva si trasforma in veicolo grafico di emozioni. La testura espressiva fornita dai suoi lavori è assai precisa per contenuti artistici e per modulazioni segniche. In ogni sua opera vi é armonia, equilibrio, ritmo. Ezra Pount sosteneva che “la grande arte é fatta per suscitare, creare l’estasi. Più fine la qualità di questa estasi, più fine l’arte”. Un’espressione che spiega i valori sui quali si fonda la genialità creativa di Salvatore Sebaste: artista “on the road”, all’eterna ricerca dei paradisi metafisici dello sbalordimento e della contemplazione. La ricerca stilistica di questo artista è incentrata, oltre che sull’estetica - valore ineludibile dell’arte -, anche su quel complesso universo di tipologie culturali in cui le credenze si trasformano in miti, le ideologie in comportamenti sociali e i segni in simboli. Ne è conferma la dimensione archetipale che sovrasta ogni segno e ogni forma del lavoro pittorico di Salvatore Sebaste. Vi è un’aura di arcano e misterioso in ogni suo quadro; vi è un qualcosa di magico e contemplativo in ogni suo gesto pittorico. Pertanto la lettura dell’opera può essere doppia: o estetica o antropologica. Perché con lui, attraverso di lui, vive quel mondo atavico che appartiene alla memoria storica dell’uomo. Al centro è sempre e comunque l’individuo. E il paesaggio non é altro che un prolungamento dell’essere primordiale che è in ciascuno di noi. La pittura di Salvatore Sebaste è senza latitudine, senza alcuna connotazione geografica: arcana, primitiva, trasversale (diaconica e sincronica nel senso del tempo) e universale (nei contenuti e nel piacere affabulativo). Rino Cardone, Dal Catalogo Mostra, ”Segni cinesici”, Galleria Perriarte, Campobasso, 1994. 78


Giuseppe Vairo - Potenza Arcivescovo

Un ponte verso il cielo Nella comunicazione sociale l’uso dell’immagine è un linguaggio privilegiato, particolarmente efficace. In sei quadri, disegnati con arte, ci viene offerto un discorso per immagini, caratterizzato da espressioni tipiche della religiosità popolare della gente lucana, con un messaggio carico di storia, di cultura e di fede. II Santo Padre Giovanni Paolo II, parlando ai Vescovi della Basilicata e della Puglia, in visita ad limina, il 28 Novembre 1981, denunciava il pericolo d’interpretare il fenomeno della religiosità popolare in senso solo antro­pologico e sociologico di subcultura escludendone o ignorandone il contenuto genuinamente religioso. “Al contrario - ricordava il Papa - si tratta spesso di momenti di religiosa pienezza, in cui l’uomo recupera un’identità perduta o frantumata, ritrovando le proprie radici. Assecondando una certa moda svalutativa della religiosità popolare, si corre il rischio che i quartieri, i paesi e i villaggi diventino un deserto senza storia, senza cultura, senza religione, senza linguaggio e senza identità, con conseguenze gravissime”. Punto di riferimento obbligato per la ricerca antropologi­ca, in Italia, circa la religiosità popolare, è Antonio Gramsci. Le pagine relative dei “Quaderni del carcere” hanno ispirato la maggior parte delle ricerche antropologiche (A. Rossi, E. De Martino, A. M. Di Nola, V. Lanternari). La visuale di Gramsci è indubbiamente riduttiva e ideolo­gica: la riduzione della religiosità popolare a folclore, la rigida opposizione tra ufficiale e folclorico, tra cultura egemone e cultura subalterna, il determinante rapporto tra religione da 79


una parte, e classe e struttura dall’altra. Però, nella sua riflessione ci sono intuizioni e indicazioni di metodo illuminanti, come queste: “L’elemento popolare sente, ma non sempre comprende e sa. L’elemento intellettuale sa, ma non sempre comprende e special­mente sente... L’errore dell’intellettuale consiste nel cre­dere che si possa sapere senza comprendere e spe­cialmente senza sentire...”. (Quaderni del carcere, 1505). In riferimento a un culto popolare il Di Nola osserva: “Qui c’è da spiegare un momento di vissuto esistenziale... II contenuto umano non si presta a essere ridotto a schemi. Che c’è dentro?” Per rispondere adeguatamente a questa domanda occorre essere in sintonia spirituale, nella stessa esperienza di chi vive quel momento. Certo, nella religiosità popolare, la fede corre dei rischi di contaminazione. Nel quadro “II Maggio d’Accettura” è ben rimarcato l’intreccio dell’originario rito pagano con la festa del Santo Patrono, San Giuliano, che coincide con la disattesa solennità liturgica di Pentecoste. La religiosità popolare è segnata da gravi limiti; può facilmente scadere a superstizione; a volte si riduce a gesti culturali puramente esteriori. Deve essere purifica­ta. È un involucro che deve essere riempito di contenuti evangelici. Tuttavia è portatrice di un prezioso patrimonio spirituale, profondamente radicato nella memoria storica del nostro popolo, patrimonio che non può andar perduto; ma deve diventare il punto di partenza per una nuova evangelizzazione. La religiosità popolare ravviva nel cuore delle masse, autentici valori di fede, come: - il mistero della Passione del Signore; si osservi il commosso quadro relativo alle rappresentazioni popolari della Passione, a Barile; - la materna intercessione di Maria, esaltata nei due quadri che ritraggono, l’uno, la barocca, ma sinceramente sentita e coralmente espressa letizia del popolo materano nella celebrazione della festa della Madonna della Bruna, e, l’altro, l’austera, penitente devozione di un’ingente folla di pellegrini che si aggrega intorno alla venerata statua di Maria del sacro monte di Viggiano. Tre quadri illustrano la festa dei patroni: San Bernardino da Siena a Bernalda, San Gerardo Vescovo a Potenza, San Giuliano ad Accettura. II Patrono è venerato come simbolo della tradizione religiosa trasmessa dai Padri, in cui una 80


comunità territo­riale trova le sue radici e le ragioni della sua unità e identità culturale. Siamo grati a Salvatore Sebaste che col suo discorso per immagini ci ha presentato frammenti significativi di un patrimonio storico di rilevante spessore. Decisivo per una cultura è l’atteggiamento che un popolo assume dinanzi all’istanza religiosa. I valori e i disvalori che si collocano nella zona profonda dove l’uomo s’interroga sul senso definitivo della vita e della storia incidono fortemente su ogni forma di cultura autenticamente umana.

Giuseppe Vairo, Arcivescovo di Potenza, Prefazione a “Un ponte verso il cielo” - cartella con sei acqueforti, acquerellate a mano, 1994. 81


Francesca Amendola - Genzano di Lucania giornalista scrittice esperta d’arte

Un ponte verso il cielo Nelle sei acqueforti, che compongono la cartella “Un ponte verso il cielo”, Salvatore Sebaste per mezzo del segno e del colore riproduce una gestualità di un mondo subalterno, quello dei contadini lucani, dove le feste erano un tempo espressione di una quotidianità sofferta, ma serena, e le storicizza così come Michelangelo negli affreschi della cappella Sistina. Le acqueforti acquerellate narrano della festa della Madonna della Bruna di Matera, dove una folla chiassosa insegue il carro di cartapesta, trascinato dai muli a galoppo; della festa di San Bernardino di Bernalda, il santo predicatore che infiammava e appassionava con un’eloquenza arguta e vivace le genti; della processione dei Turchi a Potenza in onore di San Gerardo, che apparve tra gli angeli in una notte di maggio nel VII secolo mettendo in fuga i Saraceni; del Venerdì Santo a Barile, dove i processionanti si snodano in un misto di lauda e sacra rappresentazione; del Maggio di Accettura dove la cima dell’agrifoglio viene innestata sul cerro, simboleggiando il matrimonio arboreo; della Madonna Nera di Viggiano, dove le donne portavano sul capo i ‘cinti’ (costruzioni a torre di candele e grano) scendendo in processione dal sacro monte. Gli acquerelli, essenziali nelle forme e ricchi di cromie che alternano l’azzurro al rosso e al giallo, sembrano riportarmi indietro nel tempo della memoria. Mi ritorna con insistenza il ritornello: Ohi Maronna di Montemuntagna (Madonna della Montagna) e salgo le vie ripide del monte per giungere al santuario. Ricordo un altro viaggio, un’altra prima domenica di settembre. Ero bambina, salivo dietro la nonna che indossava il costume della mia gente. Saliva eretta lungo la viuzza sassosa appena segnata, che girava intorno al monte, sotto il peso del ‘cinto’, dal quale pendevano fiocchi colorati e immagini sacre. Cantava una nenia dolce e triste mentre le compagne, che l’aiutavano nel trasporto del castello di ceri, rispondevano a versetti. Ogni tanto si fermava ai poggi e passava il ‘cinto’ a un’altra donna, e si riprendeva a salire e a girare su una strada stretta e irta, in fondo alla quale appariva la cappella, nuda nella sua semplicità. 82


All’interno intonaci di bianco in un profumo d’incenso e di cera. Sedeva sul trono la Madonna Nera splendente nella sua veste d’oro. Si respirava una religiosità antica, fatta di voti, di misteri e di fede viva. In molti eravamo saliti sul monte la sera del sabato; alcuni pellegrini avevano passato la notte nelle ‘casuccedde’. Io, mia nonna e altri ci stringevamo intorno al fuoco. Sonnecchiavo avvolta nello scialle, cullata da quei canti, dai suoni e dalle danze. Quel tempo, nelle tavole di Sebaste, sembra essersi fermato! Mi vengono incontro gli stessi volti scavati, affaticati dalla salita, le stesse donne speranzose nel chiedere la grazia, non indossano più i costumi lucani variopinti, li hanno smessi per vestire i panni cittadini, unica modernità in questo ritorno al passato.

Francesca Amendola, Da Testi Feste Popolari di “Un ponte verso il cielo”, cartella di sei acqueforti, acquerellate a mano, 1994.

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Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

Dalla genialità della natura alla genialità dell’arte. Armonici segni cinesici tratteggiano l’universo espressivo di Salvatore Sebaste. La sua pittura è densa, fluida, appassionata, fremente. Le sue composizioni appaiono per nulla statiche. Questo perché intende la materia colorante in senso plastico prima che pittorico. Le masse le sovrappone una all’altra, caoticamente: quasi a riper­correre i tempi della creazione. Dal vuoto, dal buio, dallo spazio infinito venne cosmo. Così dalla tela bianca, per il mischiarsi degli elementi, sorge l’invisibile: quanto cioè fino a quell’istante era sconosciuto, relegato nei mondi dell’inapparente. Nel manifestarsi, questa realtà va alla ricerca dei propri equilibri. Salvatore Sebaste ne segue tutti i passaggi e gli sviluppi. Ne asseconda le tensioni. II colore che prima aveva steso, ora in qualche parte viene asportato, graffiato via, reso vibrante. II segno assume un valore archetipo. Le cose sensibili appaiono deformate, ma viene fuori quell’esasperato senso soggettivistico dell’artista che alla realtà del mondo esterno contrappone la sua palpitante visione interiore. In questa ricerca di unità compositiva c’è in Salvatore Sebaste un altalenare di sentimenti e di opinioni. II dilem­ma che lo attanaglia è dove finisca il talento e inizi la genialità. Con il dubbio ingaggia una dura battaglia: sempre, ogni qualvolta si pone a dipingere. Ne esce vincitore mediante proposte ardite e per impostazione formale, e per costruzione stilistica. Le eterne leggi del bello sopravvivono nelle sue opere attraverso un’armonica disposizione e proporzione delle parti. Le linee di forza vanno dal centro verso l’esterno, a determinare un moto rotatorio che sposta l’attenzione verso i margini del quadro: dopo che ne è stata apprezzata la sezione aurea centrale. Particolarmente interessanti sono le recenti policromie plastiche. 84


Si tratta di cartapeste colorate, fruibili a tutto tondo. Le sorregge un’asticella di plexiglas: materia plastica trasparente che ben si sposa con la carta macerata con l’aggiunta di colla. In questi lavori la forma prevale un poco sul segno, ma mai sul colore. Si ha, infatti, un delicato armonizzarsi delle tinte, dei toni con l’aspetto complessivo dell’opera. Anziché sull’alter­nanza dei vuoti e dei pieni, o sulla sinuosità della forma, queste sculture sono approntate sulla verticalità e sulla orizzontalità degli spazi. La disposizione delle une e delle altre linee risulta ben ordinata. L’effetto euritmico è scon­tato. I titoli di questi lavori - “Cime profumate”, “Palpito inconsueto”, “Chiave dei sogni”, “In un lampo”, etc, - del tutto differenti da quelli adottati in pittura da Salvatore Sebaste, danno il segno di un tentativo dell’artista di volersi muovere in questo caso dentro la natura. Prenden­do a spunto una vita che nasce, una vita che muore, un sentimento, una passione, o la guglia di un monte, o un fiore profumato. Dalla genialità della natura alla genialità dell’arte.

Rino Cardone, Dal Catalogo Mostra “Policromie plastiche”, Galleria “Arte ‘90”, Isernia, 1995. 85


Giorgio Berchicci - Isernia esperto d’arte

Artista di grande tensione morale È patrimonio ormai acquisito che nel Meridione d’Ita­lia ci sia stata, e continua a esserci, una particolare attenzione, da parte di tutti gli operatori culturali, verso le istanze socio-politiche di maggiore rilevanza. La grande stagione del meridionalismo, iniziata con Gaetano Salvemini e proseguita attraverso uomini forse meno noti al grande pubblico, ma certamente non meno incisivi e puntuali nelle analisi sostenute, ha contribuito in maniera determinante alla formazione di tutta una classe di artisti che hanno legato il loro impegno professionale alla narra­tiva-letteraria, pittorica e altro del territorio in cui sono vissuti e alla divulgazione di idee-guida che, di volta in volta, interpretavano i sentimenti più vivi della nazione. Salvatore Sebaste è figlio di questa cultura e di questo modo d’essere, e vive la sua arte con la partecipazione assoluta di chi riesce, grazie a sicure capacità tecni­che, a sapersi esprimere con notevole disinvoltura sia nella pittura di figurazione, sia in quella dell’astrazione, sia nella scultura. Artista, quindi, di grande tensione morale che nell’utilizzo del colore esprime un’emotività che non è solo epidermica ma esplicativa di una sensorialità diffusa a ogni registro conoscitivo, che vive il segno con la consapevolezza di un tessuto dialogico e propositivo, che azzera o accentua i piani di lavoro come fossero substrati di memoria o di coscienza che affiorano in un contesto razionale; che si rifugia nella lirica del materico col desiderio di un’immedesimazione totale che, allo stesso tempo, é astrazione e “amore”, ma sì, diciamola pure questa parola, che dalle presentazioni critiche è da qualche tempo scomparsa, come se gli entusiasmi o le delusioni, i sentimenti del vivere quotidiano e quelli legati a un sogno da vivere non avessero più il diritto di una cittadinanza nel mondo dell’arte.

Giorgio Berchicci, Dal catalogo Mostra, “Policromie plastiche”, Galleria “Arte ‘90”, Isernia, 1995. 86


Donato Valli - Lecce critico letterario esperto d’arte

Microstoria di Salvatore Sebaste Il libro come prezioso oggetto di arte aperta, votata alla complementarità di colore e scrittura, è una costante dell’attività creativa di Sebaste, almeno da quando, compiuto l’inevitabile discepolato di ogni esordio, il giovane artista, emigrato dal natio Salento nella Basilicata, sua seconda patria, comincia a muoversi autonomamente lungo i sentieri di un diuturno, appassionato, esaltante esercizio. L’incontro con i poeti di questa patria di adozione, in particolare Sinisgalli, Trufelli, Nigro, è anche occasione di verifica e di approfondimento delle ragioni di un’arte vorace, che pur nella fissità di un archetipo culturale ben storicizzabile, ha bisogno sempre di nuovi stimoli e di attuali esperienze. Archeologia controluce, uno dei primi risultati concreti del lungo sodalizio con Trufelli, presenta già quattro acqueforti in cui la suggestione del chiaro-scuro diventa simbolica della commistione delle due patrie e, ancora più a fondo, della dialettica tra conoscenza e mistero. L’originaria cultura mistica e orfica propria della regione appulolucana si sposta e si comprime verso un sacrale mondo onirico, capace di riscattare l’inerzia della materia e l’eco di antichi silenzi. Siamo al 1972. La mostra di Bologna dell’anno successivo conferma che Sebaste non é un pittore illustrativo ma allusivo. In fondo anche la sua complementarità con i testi non è di tipo iconografico, ma esegetico-gnomico, perché ne scopre i significati non descrittivi, non pacifici. L’arte insiste sulla trasfigurazione, sulla funzione metaforica, poetica del colore; la massa apparentemente omogenea della densità tonale lascia intravedere una magmatica vita di segni e di linee chiaroscurali che genera l’ansia di una possibilità di accadimenti, dell’imminenza della storia. Gli stupori dell’origine salentino-barocca, uniti alla dolente lucana memoria inesplosa, presiedono alla nascita di un mondo di oggetti popolari e contadini, esasperati nella prepotenza della luce-­colore, di un contrasto non più chiaroscurale ma oppositivo fino al parossismo di una pietà che s’impone di essere crudele per troppo amore e partecipazione. Qualche anno ancora e in Coincidenze (1976) si chiarisce il senso e il significato di questi macrosegni della pittura di Sebaste. Essi assumono un valore simbolico 87


perché presuppongono un racconto di vicende non esplicitamente narrate. Grava l’oggettività dell’inerzia materiale del segno e del colore; ma l’uno e l’altro si collegano, si correlano con sentimenti, frustrazioni, ambiguità, illusioni di plebi sconfitte e, soprattutto, con gli struggimenti interiori di un mondo che si rastrema sempre più verso un esito di soggettiva religiosità e d’incontenibile esistenza. E, per quanto possa sembrare contraddittorio, proprio la massiccia, inamovibile certezza del segno, la sua terragna e terrestre valenza, si caricano di simboli appena percettibili consentendo a quei sentimenti di perdurare in una dimensione di confessione più che di racconto, di scaricarsi, cioè, in un’implosione salvifica e liberatrice. Qui confluiscono le radici storico­-esistenziali del pittore, le sue esperienze tecniche vitali, la sua volontà di concepire la pittura come segno di un racconto possibile, che solo la confessione può liberare. Ma la conquista non é definitiva. Le composizioni pittoriche di Dissociazione (1980) sono la chiara contrapposizione ai pieni chiaroscurali delle Coincidenze (1976). Il pittore tende a sostituire la compattezza del disegno, marcato sulla tela con fasce intenzionalmente larghe e spesse, esattamente col suo opposto. Si ha una sorta di coincidentia oppositorum in cui rimane salvo il presupposto discorsivo, che però è demandato all’osservatore-fruitore con lo scopo di coinvolgerlo direttamente nella ricerca di senso e di interpellarlo sul mondo dell’invisibile e dell’inesprimibile. II procedimento è di tipo deduttivo, in quanto è frutto di convenzione logica più che di osservazione della realtà. Dissociazione é, infatti, concetto riferibile tanto ai contenuti quanto alla tecnica, che mira a scomporre il colore fino al minimo comune denominatore, che è il bianco, matrice primaria di ogni luce e di ogni potenzialità figurale. Occorreva, di conseguenza, dare spessore al bianco, vale a dire al sospiro, all’idea di colore, compattarlo attraverso un’operazione che desse rilievo alla sua mancanza, alla sua assenza: quasi si trattasse di spuma d’essere, analoga alla nebulosa che, per differenza di densità materica, ha dato origine alla vita e all’individuo signata quartitate. È un’operazione concettuale prima che figurativa fino al punto da costringere lo stesso colore a costituirsi come correlato del processo astrattivo del pensiero. Esso diventa corrispettivo della pagina bianca mallarmeana con in più una sfumata evocazione di cosmiche epopee, di apocalittiche epifanie che accentuano ancora una volta la genesi simbolica, meta letteraria della pittura di Sebaste. 88


Come su questo paesaggio di assenza e di attesa, su questa sconfinata potenzialità dell’accadimento abbia potuto inserirsi la nascita del colore, quasi Venere sorgente dalle acque; e come tutto questo fosse in linea archetipica con il gusto fisico dell’impasto delle cartapeste macerate nella mitica povertà dell’artigiano salentino e in particolare leccese, è storia (o leggenda) che Sinisgalli ha narrato con gusto di poeta e intuito di matematico nella prefazione ad Archetipo in piega rossa: “Il Mostro ottuso è stato umiliato dall’intelligenza di Apollo. Ora, dopo gli sporadici approcci al dialetto, varcato il calvario dell’inespresso, rotta la cecità della materia degradata, lo scoppio dell’allegrezza, del colore, segna il principio di una vita nuova. Sebaste può ora conciliare istinti e calcolo, mediare gentilezza e forza. I tufi pugliesi e le crete basilische sono lievitati dalla luce dell’aurora. La salute è tornata a fiorire”. Siamo all’anno1980, che precede quello dell’improvvisa morte del poeta. Questa compiuta scoperta del colore inebria l’artista, gli conferisce entusiasmo, lo costringe a ripensare il passato, la vita, a riscriverla, o meglio a ridipingerla nella varietà delle sue sfaccettature. Infatti, essa giaceva dentro la sua memoria, era divenuta sedimento della carne, consustanziale alla cultura di un Sud orfico e pitagorico, superstizioso e credente, solare e tenebroso, nel quale la prepotenza della vita s’intreccia con l’angoscia d’immani lutti: blocchi di pietra e levità d’ali trasvolanti su spazi celesti, su nudità di metafisiche leggende, brandelli d’anima sospesi a ricordi ancestrali. Tutto si riversa sulla tela in una sorta di espressionismo ambiguo, che unisce grazia e profondità, leggerezza di spazi e pesante materia di colori, inattesi fondali di neutro pallore con rocciose tenebrosità terrestri. La rivisitazione ha il senso gioioso dell’epifania, coagula tronchi di corpi e lacerti di realtà in una sorta di apocalisse festosa, dove si leggono suggestioni essenzializzate di altre presenze, di altre culture legate al fascino della terra lucana: Levi, Ortega, Guttuso... (vedi Frammenti della memoria, Necessaria poiesi, 1982; Il tuffo sulla collina, 1985). Quando Sebaste emerge, alla fine degli anni Ottanta, da questo bagno nell’acce­so sogno della sua interiorità, da questa sorta di espressionismo improprio, non scolastico, si può dire che egli ha già percorso per intero il periplo della sua insularità artistica, ritornando, in un certo senso, al punto di partenza. Solo che adesso egli vi ritorna con il bagaglio delle esperienze compiute e, soprattutto, con la riacquistata certezza che l’esito della conoscenza più pura non é nella metafora del reale, nel compiacimento del discorso interrotto, nella sostituzione dei referenti oggettivi, appena tenuti insieme dalla precarietà di un colore onnisemantico, bensì nella consistenza del colore su se stesso, nella responsabilità che esso si assume in quanto espresso, gestito, 89


di significare il reale nella sua totalità. Siamo, cioè, ai limiti dell’informale. Dico ai limiti perché anche qui si tratta di un informale reinventato, la cui schematicità definitoria vale soltanto a connotare un’attitudine tesa a esaltare l’identità di segno e significato Nell’apparente frammentarietà delle risultanze figurative, che vanno dalla giusta posizione dei colori alla loro intersecazione e caotica fusione attraverso tracciati iperbolici di linee, dalla constatazione d’un conflitto inerziale, autodefinito, al recupero di una vena di gioioso dilettantismo non alieno da infanzie memoriali e da nativi trasalimenti, nasce una nuova religione dell’unità non più come dato esterno e programmatico, ma come desiderio di sogno, di fantasia, contrapposto a un mondo sempre più piatto, incolore. Il movimento, il rifiuto della forma definita, l’esaltazione del colore come identità del mondo sono la risposta dell’artista alla minaccia dell’esistenziale sconfitta di ogni uomo. Ma possiamo essere certi che non siamo all’ultima tappa del cammino di Sebaste. Egli é un artista itinerante, non conosce la sedentarietà. D’altra parte, è arrivato a un vertice in cui, dopo avere attraversato l’esperienza dell’avanguardia, la poetica del colore ha attinto il suo punto di fusione, di reversibilità, e quindi di dilatazione delle potenzialità espressive. Una volta svincolato il segno non solo dalla mimesi realistica, non solo dalla metafora figurativa delle avanguardie storiche, non solo dalla stessa frantumazione onirica dell’astratto e dell’informale, ma dalla stessa razionalità sottesa alla coerenza conativa della pittura, Sebaste ha davanti a sé una plaga indefinita di soluzioni, non esclusa quella di una riconquista del figurativo, che di tanto in tanto lo attira con un sentimento d’inappagata nostalgia. Ma allora, quando ciò avviene, come a volte è avvenuto, è fatale che un’increspatura di superiore ironia continui a ricondurci al presentimento di altri cieli e di altre vite.

Donato Valli, Dal Catalogo Mostra, “Dilatazione delle potenzialità”, “Telamone - Centro d’arte”, Lecce, 1995. 90


Franco Corrado - Potenza giornalista critico d’arte

L’anima “altra” della cartapesta Fedele alla scelta che, alla fine degli anni ’70, l’ha portato a operare nel campo dell’informale, dopo tante significative esperienze di stampo neoespressionista fortementeinfluenzate dalla sua matrice meridionale, e specificatamente mediterranea, Salvatore Sebaste con qualche episodico ritorno al passato, dettato solo ed esclusivamente dalla volontà di non perdere i contatti con le radici (efficace una recente cartella di grafica sulla religiosità popolare in Basilicata) continua ad attingere segni, forme e colori a un’intima sfera sospesa fra conscio e inconscio, fra percezione visiva del momento, campi della memoria, spinte emozionali. Ed eccolo, allora, esplorare intuitivamente un grande ideale, l’indefinito territorio delle origini nel quale confluiscono tutti gli elementi del nostro modo di essere, del nostro percorso esistenziale. Si fanno così evidenti, nell’opera più recente di Sebaste, i riferimenti al mondo naturale e a quello biologico, alla più intima essenza della materia, alle enigmatiche regioni della psiche umana. In questo procedere, che ha spesso connotazioni fortemente gestuali, al tempo dell’immaginazione segue immediatamente quello dell’esecuzione. Con risultati di grande efficacia, particolarmente felici soprattutto nelle composizioni non di solo impianto disegnativo, ma strutturalmente e matericamente pittoriche che, nelle esplicitazioni più recenti, prendono a punto di partenza la lavorazione della carta­pesta così congeniale a un pittore salentino di nascita. E quelle rugose coloratissime superfici, approdo di personali momenti interiori emotivamente resi, danno il senso dell’efficace agire in un campo d’azione (da qui la prevalenza del gesto) più che nella prospettiva di qualsiasi rappresentazione. La cartapesta, dunque, come tramite fra l’artigiano che è, in lingua moderna, l’interprete dell’homo faber di rinascimentale memoria, e 91


l’artista-ricercatore, capace di esprimersi con i linguaggi più avanzati. Nell’occuparmi, nell’ottobre del 1980, dei primi approcci di Salvatore Sebaste a certe forme di espressionismo astratto e, più compiutamente, all’informale, citavo certe sue pitture con effetti di rilievo, esito della ricerca appassionata di uno “scopritore per vocazione”, sorretto da un’inventiva capace di rapportarsi in maniera autonoma alle più alte lezioni dei grandi rivoluzionari dell’arte moderna, da Kandinsky in poi. Oggi, a distanza di quasi quindici anni, mi ritrovo a scrivere ancora dell’opera di Sebaste e continuo a cogliere nel suo cammino creativo modi di esprimersi che fanno leva essenzialmente sulla fantasia, sorretti da sollecitazioni interiori, istintive, tanto più evidenti nella ricerca di una realtà “altra”, non oggettiva, realizzata in forme pure che nascono o da un segno-gesto che rende simultanei il momento dell’idea e quello della sua traduzione in immagini o da “costruzioni” polimateriche. In questo modo, dall’insieme delle tendenze astratto-informali dalle quali prende le mosse il suo operare più recente, Sebaste trae impulso per liberare avvincenti esercizi di manualità, assumendo a base dell’intervento plastico-pittorico la cartapesta lavorata in monotipi. Dal modellato, sfrangiate a fuoco, derivano significative parti di superfici destinate con la loro levità a trovare una metafisica collocazione. E qui torna l’antica tendenza del Sebaste pittore lirico - astratto a privilegiare il rapporto con lo spazio, nella cui indefinitezza colloca forme bidimen­sionali con voglia di tridimensionalità (non siamo alla scultura vera e propria) alle quali dà risalto, lungo le due facce, con interventi di colore di avvincente resa che seguono, assecondandoli anche con gli sfumati, gli accidentati percorsi delle “basi” materiche, la cui irregolarità trova modo di esaltarsi in un sia pur parziale gioco di vuoti e di pieni. È un ordinato agire per invenzioni trasferite in un impianto compositivo necessariamente “organizzato”. Si guardi agli sgocciolamenti di colori allo stato puro o anche “lavorati”; al dripping che costituisce l’atto conclusivo dell’opera, in qualche modo gestuale, mai causale. Con queste policromie plastiche, dai convincenti equilibri stilistici, materici e cromatici, Salvatore Sebaste propone in termini nuovi, di assoluta originalità la sua vocazione a creare a forme e immagini per racconti dell’anima tendenti a farsi emblema di una felice creativa condizione dello spirito.

Franco Corrado, Dal Catalogo Mostra, “Dilatazione delle potenzialità”, “Telamone - centro d’arte”, Lecce, 1995. 92


Ilderosa Laudisa - Lecce storica dell’arte

Una graffiante metafora Salvatore Sebaste, dopo circa dodici anni, ritorna a esporre a Lecce, città in cui ha iniziato la sua formazione artistica. Molte esperienze sono intervenute in questi anni e le sue opere ne testimoniano il cammino ricco di tanti interessi e stimoli. II momento chiave, per la comprensione delle origini di questa “stagione” dell’in­quieta pittura di Sebaste, si può rintracciare fra il ‘91 e il ‘92, periodo in cui realizza quattro grandi tele. In esse si confrontano, si combinano e si contrappongono le disparate esperienze espressive e tecniche vissute in circa quarant’anni di attività. Non si tratta di un razionale e preordinato progetto, quanto di un istintivo dettato temperamentale. Un automatismo che permette autenticità e nuova vita a forme e segni. Non si tratta di autocitazioni quanto piuttosto di concretizzazioni di un comples­ so d’immagini e di emozioni che, ormai profondamente interiorizzate, ma sempre vive e attuali, riaffiorano dalla memoria e rivendicano un proprio spazio. Ricompaiono un po’ tutti i segni, le immagini e i colori a partire da quelli scaturiti dall’impegno sociale della Nuova Figurazione e via via attraverso le esperienze informali, primitive fino al neoespressionismo materico. Della sua giovanile manie­ra “nera” caratterizzata da una profonda amarezza per la condizione umana, ad esempio, rimangono echi nei terrosi colori dei corpi cupi e vischiosi, la cui plastica massa sembra sfaldarsi nell’attrito provocato dal turbinio del movimento. Le tele che espone in questa mostra, “Dilatazione delle potenzialità”, per la loro compiutezza non possono essere intese come frammenti delle grandi tele da cui, comunque, traggono 93


le proprie origini; sono piuttosto la risultante di quell’impegno. Pur legandosi l’una all’altra in un continuo alternarsi di rimandi e contrappunti per una sorta di contiguità dialettica, conservano una propria identità e autonomia. In tutte domina un’atmosfera di visionarietà allusiva, in cui i nuclei di colori e di forme si contrappongono o dialogano continuamente in bilico fra tensioni angosciose di matrice onirica e la vitalità reattiva. Il dinamismo, che si registra nei suoi lavori, è dunque una condizione imprescindibile dell’esistenza della forma, che si dà come manifestazio­ne e risultante di queste forze. Il campo è perciò come attraversato da frammenti organici che, quasi come meteore schizzate da un’esplosione, scatenano forze e spinte multi direzionali. Il dipinto è quasi sempre sede di un drammatico conflitto fra i toni gravi e quelli acri e alti dei colori, che accendono spumeggianti e acute dissonanze. Sono colori dati a larghe pennellate, a corpo o impastati con altre materie, che hanno una consistenza tattile e creano fermenti, sussulti e impennate. Un vitale contrasto fra una materia che imprigiona la luce e la ribelle risposta del colore-luce, sparato in uno spazio spesso senza confini e senza orizzonti. Una graffiante metafora dell’eterna battaglia per l’affermazione della vita sulla morte.

Ilderosa Laudisa, Dal Catalogo Mostra, “Dilatazione delle Potenzialità”, Telamone centro d’arte, Lecce, 1995. 94


Massimo Guastella - Lecce giornalista storico dell’arte

Il gioco dei colori Gli impasti cromatici realizzati da Salvatore Sebaste, a partire dagli anni Novanta, andrebbero intesi come affermazione della materia e del gesto, della sregolatezza compositiva e del linguaggio dei segni, della libertà formale e della spontanea creatività. E le opere dell’artista salentino migrato in Basilicata, esposte in questi giorni nella mostra personale allestita nella galleria “Telamone” di Lecce, sembrerebbero rispondenti a una cultura segnico-materica basata sulle esperienze informali. Nel definire gli spazi magmatici elaborati da Salvatore Sebaste, prevale nel riguardante, o meglio nello scrivente, una sorta d’incertezza. Non dipinti, ma strati di cartapesta, applicata a supporti lignei, su cui si addensa la materia, ispessita dalle paste di colore rosso, giallo, blu, verde, rosa, azzurro sprizzanti dai tubetti compressi con le dita. Le opere dai titoli che parrebbero allusivi -“Sole di Mezzogiorno”, “Piogge rosse”, “Fiamma all’orizzonte”, “Fradici frutti”, “Chiave dei sogni”, “In un lampo” oltrepassano i contenuti e si danno come forme indefinite e incompiute. Colgo le tracce a rilievo, intuisco le sagome figurali, osservo le increspature di carte: l’impressione che traggo, vedendo galleggiare i frammenti di cartone ondulato sulle campiture materiche fuse, è quella di un moto lento e perpetuo in uno spazio privo di confini, che esalta a tratti i virtuosismi esecutivi nelle stesure, volutamente imprecise e grossolane, delle paste policrome. Quante le possibili letture suggerite da queste opere? Molte. Forse. È preferibile, tuttavia, non suggerire rigide interpretazioni che potrebbero alterare i risultati previsti dallo stesso autore, unico depositario dei suoi segreti ideativi e creativi; attore assoluto di un racconto enigmatico, di una narrazione astratta senza principio e senza fine composta di brani di una storia che è simile a un gioco divertente che termina dove inizia e viceversa. E l’artista fa esplicita ammissione dell’aspetto ludico delle sue composizioni. Non vanno disconosciute, comunque, la tenacia e la passione con cui Sebaste lavora connotando il mezzo espressivo nella specificità del proprio percorso estetico. Un viaggio ricco di relazioni e contatti che l’artista ha compiuto alla ricerca di segno autentico e originale; un viaggio non disgiunto 95


a sensazioni, stimoli, pulsioni, istinti, suggestioni, ideali, sedimentati nell’inconscio da cui emergono attraverso l’artificio, stati emozionali ed energie liberatorie. L’ormai storicizzato “diritto-dovere” della sperimentazione nella ricerca artistica induce, inoltre, Sebaste alla realizzazione di forme tridimensionali che occupano uno spazio extrapittorico, una soluzione adottata nelle installazioni delle minime pitto-sculture che avrei preferito vedere sospese nell’ambiente, svincolate dagli steli e dalle basi in plexiglass che le supportano. Opere interessanti nel procedimento tecnico: ancora un riuso della tradizionale cartapesta per plasmare amebe liberate nel vuoto. “Cime profumate” e “Palpito inconsueto” (1994) sono strutture semplici ideate per levitare, dilatando le superfici, che si svolgono verso direzioni imprevedibili. Risalta l’utilizzo di una ricca gamma cromatica, dove i colori si accostano per campi stratificati, per aggiunta di materia pastosa. “Questo me lo consente”, dice Salvatore Sebaste a proposito della ricchezza coloristica, “l’esperienza acquisita in quarant’anni di attività pittorica”. La profonda conoscenza delle tecniche d’incisione ha determinato buona parte della produzione artistica di Salvatore Sebaste, illustratore dei testi narrativi e poetici di Mario Truffelli, Leonardo Mancino, Raffaele Nigro, Leonardo Sinisgalli, Camilla De Ruggieri, come testimoniano alcuni volumi presentati nell’esposizione alla galleria “Telamone”. Le riproduzioni dei più recenti lavori grafici di Salvatore Sebaste, quali “Forme composte”, “Spazio avvolgente”, “Continuità spaziale”, “Spazio consumato”, “Continuità”, “Equilibrio”, opere eseguite nel 1993, indicano la presenza d’impulsi segnici aniconici e azioni gestuali accanto a persistenti repertori della figurazione, un’antitesi non ancora superata o verosimilmente un filo rosso tra linguaggi differenti che trova sintesi nelle soggettive motivazioni dell’artista.

Massimo Guastella, Da “Il Quotidiano”, Lecce, 6 marzo 1995. 96


Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

Nuova ricerca empirico-sperimentale Un cammino poetico polisemico e ricco di colori quello intrapreso anni fa da Salvatore Sebaste che si arricchisce ora dei contenuti di una nuova ricerca empirico-sperimentale in campo iconico. Le sue recenti policromie plastiche - cartapeste multicolori in bassorilievo e a tuttotondo - superano, di fatto, per la loro stessa natura estetico-propositiva, la meccanicistica “teoria del riflesso”: dell’immobilizzazione cioè della realtà dentro uno spazio fisico. Ma cosa c’è di nuovo, di originale, in questi lavori? L’artista rifugge da sempre le posizioni convenzionaliste. Egli osserva, traduce in segno, l’essenza dinamica della realtà. Quindi carica la “rappresentazione iconica” di una sua interpretazione estetico-visibilista. Nelle opere più recenti l’artista ha accentuato il senso della rappresentazione sul gusto della percezione e sull’impianto ideativo-progettuale. Altro elemento di rottura con i moduli precedenti è la partitura degli spazi. Salvatore Sebaste è oggi attento agli sfondamenti prospettici: cosicché il campo visivo risulta meno “incassato”, meno “imprigionato” nelle sagome dei punti d’ombra - che egli alterna alla pari con i centri di luce. – C’è un artista diverso, seppure in continuità con il proprio passato, in queste policromie plastiche: preludio certamente di un ulteriore passaggio ad altre sperimentazioni artistiche. La sua irrequietezza di fondo, il proprio modo di porsi con genialità di fronte alla vita, non gli consentono d’appartarsi a lungo in determinate scelte. Egli è come condannato a rinnovarsi continuamente, a modificare perennemente il proprio linguaggio visivo. Un linguaggio in cui i livelli di trasmissione risultano più efficaci e in correlazione tra loro: il simbolo con l’”abbigliamento figurale”, i segni ideografici con il tessuto fonologico-funzionale e la dimensione semantica con la koinè linguistico-espressiva. Rino Cardone, Dal Catalogo Mostra “Le due metà dell’io sognante”, Castello Cinquecentesco, L’Aquila,1995. 97


Max G. Bollag - Zurigo gallerista

Realtà nel suo essere più profondo Un giorno, era la fine degli anni Sessanta, entrarono nella mia galleria di Zurigo due giovani che si soffermarono a osservare una tela di El Greco. II modo di guardare l’opera mi fece capire che non erano potenziali clienti ma conoscitori di arte. Mi avvicinai, mi presentai e scoprii che si trattava del pittore Salvatore Sebaste e di sua moglie. Chiesi allora al Sebaste se avesse qualche lavoro da farmi vedere. Mi mostrò, quindi, delle tempere e dei disegni interessanti, che evidenziavano un gioco sapiente di colori e di segni, che si ripiegavano in morbide volute, oppure s’irrigidivano o si spezzavano come per un improvviso urto. E così, da quell’incontro occasionale, scaturirono amicizia e collaborazione con la mia galleria. In tutti questi anni ho visto lievitare, in un continuo fermento vivificatore di forme e di contenuti, il mondo delle sostanze sovrasensibili e sensibili che, pur in tensione, non si contrapponevano dualisticamente, ma trovavano una precisa collocazione in quella visione sistematica della totalità del reale. Le tele erano l’esplosione di una fantasia calda e sensuale, realizzate con colori accesi e contrastanti, con una materia spessa e raggrumata nell’incontro di dinamiche pennellate, di composizioni articolate in ritmi slanciati e mossi; erano l’animazione di forme e di segni tormentati, allusivi alla segreta vita organica della natura. L’artista Sebaste ha sempre sentito I’esigenza di comporre le sue forme con assoluta libertà, con pennellate ora sciolte e violente, ora dolci e armoniose recanti, però, sempre nel segno una vibrata irruenza che si piega e urta come per una nascosta tensione. Oggi Sebaste usa materiali vari: cartoni, carta combusta, colle, vernici, colori con le sue composizioni esce dallo spazio chiuso delle figure geometriche, che per secoli hanno imprigionato le forme della realtà e il loro movimento, per elaborare la vibrazione della luce, II tremito delle fronde o delle messi al vento, l’iridescenza delle cascate, le onde del mare, i confusi e inutili itinerari delle città tecnologiche. Nell’ultima ricerca, il Sebaste vuole che la materia: cartone o carta compressa, rimanga materia, ma l’assieme dei pezzi, elaborato con competente professionalità, sia un’opera d’arte, una realtà nel suo essere più profondo, generata come la pianta dal seme o l’uccello dall’uovo. Le recenti opere sono apparentemente stravaganti, ma sono certamente permeate da una disciplina interiore e da un impegno severo, morale, forse prima ancora che estetico. Max Bollag, Dal Catalogo Mostra, “Schweizeische Gesellschatt der freunde von kunstauktionen”, Zurigo,1997. 98


Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

Carta e cartoni È decisamente riduttivo parlare di semplice cartapesta di fronte a un’opera di Salvatore Sebaste. I suoi lavori sono qualcosa di più complesso; sono qualcosa che va oltre la semplice tecnica della carta macerata, impastata con la colla e poi pressata e infine modellata. Sono insomma arte pura. Del procedimento artigianale della cartapesta, certamente ereditato da Salvatore Sebaste dalla sua origine salentina, resta ben poco. Egli, infatti, interviene sui materiali in maniera decisa: con colori a olio, acrilici e segni di matita. Talvolta sottopone la carta all’azione del fuoco. L’opera finale risulta per questa ragione un qualcosa d’indeterminato, un qualcosa che sfugge dalle dinamiche dell’”atto utilitario”. E per questa ragione stessa - come ricordava Benedetto Croce - l’opera, non avendo nulla più a che vedere con l’”utile”, finisce con il mirare esclusivamente al raggiungimento del piacere: che è ”visione”, “contemplazione”, ”immaginazione”, “fantasia”, “figurazione”, “rappresentazione” e via dicendo. Le primissime composizioni realizzate da Salvatore con questo mezzo espressivo, quello appunto della cartapesta, risalgono agli anni ’70. In quegli anni I’artista avviò una ricerca che progressivamente doveva allontanarlo dal linguaggio pittorico-espressionista della propria origine. Smise così di raccontare il mondo contadino e di denunciarne le sue contraddizioni, per incamminarsi in una sorta d’indagine sistematica e astratta della realtà. Da quel momento in poi Salvatore Sebaste “ruppe” con i canoni classici della pittura per affidarsi a una serie di speculazioni sui rapporti geometrici che esistono tra l’alto e il basso, tra lo stretto e il largo e tra il profondo e il piatto. Già da quei primi lavori l’artista prese a utilizzare la carta quale elemento fondamentale del suo dipingere e fare arte. E da subito portò quella ricerca ai limiti più estremi, con l’introduzione nel quadro di frammenti di materiali estranei alla pittura, quali ad esempio la sabbia. In ogni caso il suo linguaggio non ha mai sposato completamente le istanze della popart, né tantomeno dell’arte concettuale. Egli è stato sempre fedele a se stesso: alla sua natura di artista che si emoziona di fronte alla vita. Con Arthur Schnitzler potremmo a questo punto ricordare i tre criteri che definiscono un’opera d’arte: la coerenza, l’intensità e la continuità, per sotto99


lineare le qualità pittoriche di Salvatore Sebaste. Questi tre elementi non sono mai mancati a questo pittore che ha fatto della carta e del cartone, insieme al colore, la sua ”seconda pelle”. Se questa dovesse venire a mancargli egli sarebbe un uomo del tutto indifeso, senza più barriere di fronte a un mondo pieno di contraddizioni che intanto non hanno la meglio su di lui, perché egli ama i voli pindarici, le pure visioni, le immagini della mente e i fantasmi della memoria. Salvatore Sebaste anche oggi che è lentamente approdato a felici “policromie plastiche” (opere a tutto tondo in cui esplica una forte azione dirompente in termini estetici) conserva la coerenza stilistica delle sue precedenti ricerche. Diciamo che la forma ha preso in lui raramente il sopravvento sul colore e che la forza delle sue opere sta in un’interessante combinazione di luci e di segni, nonché di strati su strati di carte e di cartoni. Vedendo questi lavori la mente corre inevitabilmente verso quei “papier collé”, l’arte contemporanea della quale furono maestri Picasso, Boccioni e Balla. Salvatore Sebaste non adotta però la linea del “collage”, tipica sia del cubismo sintetico che del futurismo, per privilegiare invece il linguaggio della forza espressiva: quella in grado di restituire alla pittura il suo primato sulla tecnica. Diciamo allora che il maggior merito di quest’artista è proprio quello di non essersi lasciato sopraffare dal fascino di una metodica creativa - quale appunto può essere la cartapesta - per “correre” invece negli spazi incontaminati del puro colore: questo significa ”gioco” di toni su toni e di tinte su tinte. II dripping è per lui un utile ghirigoro, che va ad arricchire lo spazio semantico della sua ope­ra. II colore viene sgocciolato da Salvatore Sebaste (all’interno dei suoi lavori) in maniera tale da creare una “suggestione” o un “movimento”, dentro un im­pianto cromatico svolto, su una serie di piani su piani. A determinarli - questi livelli - non è solo lo spessore delle carte, ma anche la sovrapposizione delle masse pittoriche. C’è poi ancora nelle sue opere un interessante intrigo di segni: che non sono solo pittura su pittura, ma colore asportato, “graffiato” da quel­la che è la materia grezza (a sua vol­ta distesa sul cartone o sulla cartape­sta). In venticinque anni di lavoro dentro quella che i francesi chiamano la “papier maché” (e cioè la pura cartapesta) Salvatore Sebaste ha sviluppato vari lin­ guaggi. È passato dalla diafanità dei bianchi assolu­ti, alla carica coinvolgente dei colori primari, fino a giungere alla fantasmagoria dei viola, degli arancioni e delle tinte cremisi e scarlatte e ai neri bituminosi. Sem­pre, in tutti questi anni, ha raccontato la dimensione di un ideale mondo post-metropolitano: di un mondo che alla fine riuscirà a comprendere le contraddizioni del vivere quotidiano e che inevitabilmente farà la scelta di tornare alla natura, al piacere dei sensi e all’intensità delle passioni. Abbandonando per questo ogni logica di profitto. Una lezione quella di Salvatore Sebaste che sentiamo di dovere fare nostra. Rino Cardone, Dal Catalogo Mostra, “Carta & Cartoni”, Galleria d’arte Moderna San Giorgio, Mestre Venezia, 1998. 100


Antonio De Siena - Metaponto Sovrintendente ai Beni Archeologici della Basilicata

Pensieri in Movimento Salvatore Sebaste nel proporsi ai suoi interlocutori, abituali o occasionali, indipendentemente dalla loro condizione sociale, o impegno professionale, ha sempre una leggera smorfia del viso accompagnata da un sorriso contenuto con cui marca un suo naturale atteggiamento d’attesa, di forte curiosità. Il volto quasi s’illumina e si coglie una disponibilità ad ascoltare, a ricevere. Si prova subito la sensazione di avere di fronte una persona vivace, attenta, tuttavia disarmante nella sua bonaria semplicità d’animo. Il tutto tradisce la presenza d’interesse ‘culturale’, equilibrio interiore, maturità. Leggendo il suo diario, a cominciare dalle prime riflessioni raccolte nell’agosto del 1972, si ha l’opportunità di seguirne gli umori, ma soprattutto di vivere con lui le fasi dinamiche del ripensamento, dell’arricchimento specialmente dopo l’incontro con un grande maestro, dopo le esperienze didattiche, dopo l’osservazione di un gruppo di bambini con matita in mano alle prese con un foglio bianco o dopo aver colto la poesia di un episodio offerto dalla natura. È decisamente stimolante e coinvolgente rifare con lui lo stesso percorso di maturità, umana e artistica. Non ci sono i tormenti, le rivolte, i picchi nervosi dell’invasamento, dell’esaltazione creativa, né le lunghe dissertazioni filosofiche sui rapporti tra estetica ed etica, ma solo semplici pensieri in movimento, passione per il lavoro, amore per l’arte intesa da lui come possesso di un mezzo espressivo, autonomia, libertà, provocazione di sensazioni, strumento per dare visibilità alle proprie emozioni, per comunicare. L’ambiente esterno, in tutte le sue manifestazioni e forme, l’ha sempre condizionato, aiutato a crescere. Alla base della formazione di Sebaste possono essere, infatti, individuati quali componenti primarie la naturale vivacità di spirito e l’esperienza che gli proviene dalla realtà quotidiana vissuta in modo intenso. È attento osservatore della gestualità contadina, del mondo del lavoro: ogni gesto nella sua specificità individuale è per lui una forma espressiva compiuta. L’infanzia ritorna spesso nei suoi ricordi, entra di prepotenza nei suoi pensieri e nelle sue opere come esigenza vitale di esprimersi con i segni. I legnetti carbonizzati rubati dal caminetto, le pareti bianche di calce delle case del Salento, sua terra d’origine, riconquistano un ruolo attivo nei quadri ‘materici’ insieme alle plastiche, tridimensionali immagini dei calanchi lucani. L’uomo sa conservare aspetti di un’accattivante “ingenuità” e dare alle vicende storiche del passato le forme semplificate e idealizzate del racconto novellistico, tipiche della fase infantile. 101


Apparentemente può apparire ‘scontato’, facile, prevedibile, ma è solo la prima impressione. Questa progressivamente si esaurisce ed è sostituita dalla percezione di una ‘profondità’ radicata, matura, saggia, umana. Il tormento che traspare ovunque, in modo mai ossessivo, e che rappresenta il filo conduttore di tutta la sua esperienza artistica è la voglia di appropriarsi di un linguaggio espressivo comprensibile, riconosciuto: in sostanza il desiderio di farsi capire, di trasmettere con i segni un’intuizione, un modo personale di vedere la natura, la vita. Il diavoletto dei suoi primi sforzi grafici che non trovava ‘forma’ accettabile e diventava per questo ‘personaggio fantasioso’ si ritrova sistematicamente nel movimento tormentato dei suoi quadri. La ricerca è alla base di ogni sua azione. Combatte il partitismo invadente e gli artisti che vi si accostano perdendo la loro naturale destinazione allo studio e all’analisi dei fenomeni sociali e politici. Conferma una sua ingenua illusione utopistica nel momento in cui invoca un’arte ‘pura’, non contaminata dalla mercificazione del mercato, autonoma, liberata dalle strumentalizzazioni dei gruppi di potere. Intorno agli anni ‘80 riafferma il suo atteggiamento polemico nei confronti dell’arte contemporanea che non sempre valuta come moderna. Ha rammarico per il ruolo svolto da alcuni critici spesso appiattiti su posizioni precostituite e sollecita un maggiore impegno degli artisti. Le sue riflessioni, mai stanche o pervase di vittimismo, diventano sintetiche, impressionistiche nella manifesta capacità di sintesi concettuale. Si tratta di osservazioni rapide, efficaci, profonde, a volte riconoscibili come preziosi aforismi. Nella descrizione degli incontri con altri artisti Sebaste raggiunge livelli di sintonia e di penetrante umanità. Ai Maestri riconosce capacità tecniche e, cosa ancor più importante per lui, doti umane e culturali straordinarie. Appare quasi soggiogato da loro; li stima, li apprezza. Con Ortega, Brindisi, Marino di Teana, Treccani, Sinisgalli, Matta, Leone, Zancanaro, per citare solo alcuni casi, sembra quasi soddisfarsi la sua morbosa curiosità culturale, placarsi il suo bisogno di conoscere, di confrontarsi. Gli stimoli che gli derivano da queste frequentazioni lo portano a tentare nuove esperienze, a cercare il dialogo con altri colleghi, nella convinzione che lo sviluppo civile e la crescita della società possono venire solo dal recupero di riferimenti culturali di ampio spessore, senza barriere tra i vari settori della scienza. Per questo rifiuta il tecnicismo paranoico, la ‘modernità’ industriale come processo meccanico, distruttivo per l’uomo che pure lo sostiene. Il suo desiderio è un rapporto stretto tra arte, scienza e ricerca, una simbiosi necessaria e salvifica. Le divagazioni, i pensieri e le affermazioni anche decise offrono nell’insieme il quadro di un Sebaste che sa anche fermare la sua attenzione su aspetti secondari, minori della vita. Una sottile autoironia lo porta a non prendersi troppo sul serio e questo certamente è positivo, perché è una qualità che non si trova molto facilmente. Antonio De Siena, Prefazione a “Pensieri in movimento”, ed. Novaluna, Ass. Culturale, Brescia e Metaponto, 1998. 102


Vittorio Sabia - Potenza giornalista esperto d’arte

Si è messo a nudo Salvatore Sebaste, nei suoi “Pensieri in movimento” I colori della nativa Puglia, specie quelli adorati di Novoli, così vicina alla straordinaria Lecce e il calore della gente lucana, con particolare riguardo a Bernalda, sui cui tetti è appollaiato il suo studio, hanno sicuramente aiutato a crescere Salvatore Sebaste, artista eclettico, sensibile, sanguigno come tanti suoi lavori dimostrano.Ma anche artista che non segue le mode, se non quella che emerge dal suo cuore, dalla sua anima, che cresce dentro di lui prima di esplodere sulle sue tele. Queste hanno attraversato un’epoca, partendo dall’osservazione del mondo contadino, che l’ha sempre accompagnato dall’inizio del suo percorso artistico, per finire a quelle straordinarie evoluzioni delle forme e del colore che contraddistinguono il Sebaste di oggi. Dentro di sé, Salvatore Sebaste, aveva accumulato da tempo l’analisi delle cose che lo circondano e del suo “io” che oggi racconta in un interessante volumetto dal titolo, “Pensieri in movimento”, per le edizioni della “Nuova Luna”, l’Associazione Culturale con sede a Brescia e a Metaponto. Il libro raccoglie pensieri sull’arte, soprattutto sulla poesia, sulla cultura in genere e, sulla varia umanità incontrata, conosciuta, durante il suo lungo percorso artistico. Sebaste è, infatti, stato testimone e protagonista di tante vicende, fra le quali quella stimolante avventura di Presidente del Circolo “La Scaletta” di Matera, che ricorda con nostalgia. Scrive Sebaste: “Le linee diritte sono un’invenzione dell’uomo”; i bambini distesi sui fogli tracciano segni su segni, apparentemente scarabocchi per chi non s’intende di psicologia”; oppure “vivo in una delle regioni d’Italia, ove ancora la natura è stata appena contaminata”. “Poi visitai Matera, una strana città che mi ricordava l’Inferno dantesco”. E poi: “L’arte è tutto ciò che s’identifica nell’universo con le sue forme formate e formanti”. Con questi pensieri Sebaste si avvicina al suo concetto dell’arte in evoluzione e conferma, che egli ha subito un processo di accumulo di sensazioni che si sono depositate in un angolo del suo “io” mentre tutta la sua personalità si scaricava sulla tela. Ora questi pensieri, sbocciati spontanei, legati ai ricordi, o a imperfette sensazioni, o frutto di riflessioni mature, sono tutti sinceri perché figli di sentimenti e passioni. Sono, comunque, lo specchio dell’anima di un artista che diventa quasi lirico nel suo affidarsi alla penna. Per scrivere un libro-verità nel quale si confessa, pur non rinunciando a offrire stilizzati contributi artistici in punta di grafica (con la collaborazione di Beniamino Carella e Jolanda Carella). E confessa, in fondo, di non aver potuto dire fino ad oggi, tutto quello che aveva accumulato dentro di sé, quando il pittore faceva da scudo all’autore. Vittorio Sabia, Da “La Nuova Basilicata”, Le riflessioni del pittore di Bernalda, Potenza, 25 ottobre 1998. 103


Gaetano Cappelli - Potenza scrittore

Mitologie del futuro antico L’arte offre la lettura più sintetica del reale. E questo trova la sua folgorante conferma nella nuova serie di lavori di Salvatore Sebaste. Opere che, nell’affastellarsi di materiali poveri, tra l’addensarsi violento del croma, dispiegano davanti ai nostri occhi, sincronicamente e con la medesima intensità espressiva, le enigmatiche tessiture dei chip nei microcircuiti integrati e la magia ancestrale dei totem, con questo rappresentando la qualità più specifica del nostro mondo. Un mondo capace di convogliare nell’avvolgente riflesso elettronico dei media le forme del passato più remoto. Così le figure tentacolari vagamente antropomorfiche, o frutto d’incontrollati mutamenti genetici, o in arrivo da universi paralleli, che Sebaste lascia emergere da campiture sintetiche come la videata di un computer, sono vere e proprie icone di una nuova esemplare mitologia, di cui ci viene offerto un sistematico quanto conturbante repertorio. Qui si lavora direttamente sulle percezioni primarie, sul mistero che circonda l’esistenza dell’uomo dagli inizi e che si proietta in un futuro ugualmente arcano e pregno d’incantamenti. Qui è possibile leggere iI susseguirsi dei destini, iI sovrapporsi delle civiltà in una storia mai scritta perché impossibile da scrivere, e che solo l’arte può rendere manifesta grazie al suo corpo simbolico.

Gaetano Cappelli, Dal Catalogo Mostra, “Mitologie del futuro antico”, Galleria “Studio 10 Arte”, Potenza, 1998. 104


Franco Corrado - Potenza giornalista critico d’arte

Da quel ricco vocabolario... Nel percorso artistico di Salvatore Sebaste, in un “viaggio” dalle molteplici significative tappe iniziato all’insegna di un figurativismo neoespressionista di forte impatto emotivo, c’è da lungo tempo ormai (e tutto lascia credere che si protrarrà senza ripensamenti) una centralità di ricerca nei campi contigui dell’astrattismo e dell’informale. Da quest’adesione a un “credo” che per tanti versi s’identifica con quello dei protagonisti americani dell’Action Painting e dell’arte segnica (Wols prima di ogni altro) è nata anche la stagione recente di “Carte e cartoni”: un momento della vicenda creativa di Sebaste destinato ad assumere sempre più una valenza determinante ai fini della scrittura complessiva della sua opera di artista inquieto dal ricco vocabolario, portato a innovare, a mutare e rielaborare i linguaggi dell’avanguardia fra sperimentalismo e concettualismo. In un procedere che si richiama costan­temente, con coerenza stilistica e rigo­re compositivo, anche all’arte materica, ecco allora un ciclo di lavori emblematici di una precisa tendenza: quella alla rap­presentazione simbolica di un mondo in­teriore che - in un quadro di fondo so­stanzialmente afigurale - finisce col pro­porsi, di tanto in tanto, con frammenti di realtà. Sulle “carte”, come sulle tele, appaiono forme biomorfe; sagome che hanno sembianze vagamente umane o animali; punti colorati che emergono allusivamente come occhi da una surreale architettura totemica di elemen­ti essenzialmente modellati e applicati con le resine, disegnati o dipinti secon­do i canoni di una pittura prevalente­mente d’azione. Sono anche queste - o, forse, è meglio dire: sono più propriamen105


te queste -- carte dai toni prevalentemente bruni attraverso le quali Salvatore Sebaste, ricorrendo a un medium che si rap­porta ancestralmente alla sua matrice salentina (I’artigianato della cartapesta della terra delle origini, occorre sempre ricordarlo, fa parte della storia personale deIl’artista con tutte le influenze che si porta dietro), libera su di un foglio bianco, ideale spazio illimitato, le pulsioni dell’io, le sue fantasie. Nasco­n o i n t a l m o d o , c o n l ’ i m p r o n t a inconfondibile di una sapiente manualità che asseconda ed esalta I’estro inven­tivo, composizioni dalle cadenze talvol­ta neodadaiste, in qualche modo in li­nea con certe ultime tendenze dell’arte del riciclaggio, con il tramite delle quali Sebaste raffigura sensazioni, dipinge stati d’animo, propone emozioni recuperando cartoni ondulati preso dal “fascino dei rifiuti”, prodotto copioso della società dei consumi. C’è in questo modo di esprimersi, un rap­ portarsi preciso a talune avanguardie del nostro secolo per le quali I’oggetto d’uso inserito nell’opera d’arte è stato, ed è ancora, la via per richiamare l’at­tenzione su particolari realtà del tempo presente, positivamente o al contrario considerate, talvolta in termini di provo­cazione ironica, talaltra in chiave di de­nuncia. Una pittura che ti vien voglia di toccare, oltre che di vedere, quella che Salvato­re Sebaste propone con le sue composizioni polimateriche, in un’invenzione continua di forme, di segni e di colori “unici”, industriali, allo stato puro o sfu­mati con I’effetto dell’acquerello, sulle masse rugose, sulle tante escrescenze che fanno da supporto a una sinfonia creativa di coinvolgente irresistibile pre­sa.

Franco Corrado, Dal Catalogo Mostra, “Percettività delle forme”, “Il Portale - Centro culturale”, Pignola (PZ), 1998 106


Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

In questo sta il suo genio! Salvatore Sebaste è un artista che ha conosciuto varie stagioni espressive della pittura. Sempre ha saputo essere se stesso: originate quanto basta, eclettico, trasgressivo, fedele alla grande lezione del segno e del colore di questo secolo e grande sperimentatore della materia. Questo suo eterno peregrinare dentro i linguaggi dell’arte contemporanea lo ha portato alle attuali soluzioni di masse cromatiche. In queste sue nuove campiture di colore entrano in gioco anche materiali diversi. Non solo carte e cartoni che sono patrimonio antico dell’artista (che già a partire dagli anni ‘70 faceva ricorso a questo genere di sostanze cartacee) ma anche cuoio, colla e materiali di ogni genere. Tecnicamente questi lavori vengono definiti “papier collé”e “papier maché” ed hanno sempre al centro l’uso della cartapesta (e quindi della carta macerata, lavorata e impastata con la sostanza adesiva che poi ne consente un uso plastico del tipo a bassorilievo o a tutto tondo). C’è, inoltre, negli ultimi lavori di questo artista, un uso se vogliamo addirittura spregiudicato e esaltante (perfettamente governato dalla sua maestria d’artista) del fuoco. È attraverso la fiamma e il colore che Salvatore Sebaste fonde le diverse materie (e cioè pigmenti, colle, sostanze animali e vegetali) in un’unica realtà. II passaggio insito in questo genere di operazione è di “contaminare” la materia con l’effetto stesso di casualità. Si tratta di un intervento di tipo astratto e espressivo che conferisce grande forza all’opera d’arte e che richiama per certi versi la tecnica dell’encausto, da lui comunque fortemente modificata fino a renderla un’altra cosa. Salvatore Sebaste appartiene a quella schiera di artisti che, evitando perniciosi salti nel buio, prima di cimentarsi nella proposta e nella sperimentazione, hanno conosciuto I’esaltante e multiforme stagione creativa dell’acquisizione tecnica degli strumenti della pittura. Dopo il periodo giovanile dedicato al lavoro di ricerca (e volto alla perfetta padronanza del colore e del segno) l’artista ha intrapreso la via matura della conoscenza e quindi del confronto. Avvicinandolo lo sentirete parlare, a questo proposito, della differenza che esiste tra genio e talento e vedrete quanto egli abbia a cuore la tecnica pittorica (intesa in senso artigianale) divisa a sua volta dal sapere e dalla facoltà d’intendere e ragionare su e intorno ai fatti dell’arte di questo secolo. In questo sta il suo genio! Rino Cardone, Dal Catalogo Mostra, “Masse comatiche”, Centro di Studi Italiani, Zurigo, 1999. 107


Alberto Jandoli - Avellino critico d’arte

Le problematiche fenomeniche Svolge un’intensa attività pittorica e grafica negli studi di Bernalda (MT), Roma, Bologna e Milano. A Bernalda dal 1963, ha anche il laboratorio calcografico, punto d’incontro e di animazione culturale di noti artisti contemporanei. In questo studio, tra l’altro, ha stampato, nel 1980, otto acqueforti del pittore tedesco Joseph Beuys. Nel 1975 è eletto presidente del circolo culturale “La Scaletta” di Matera, dove fonda con l’aiuto di altri artisti, la “Scuola libera di grafica”. Nel 1992 espone i suoi libri d’arte a “The Museum of Modern Art” di New York e nel 1994 partecipa alla mostra del libro d’arte al Museo Guggenheim di Venezia. Un curriculum di tutto rispetto dunque quello del Maestro Salvatore Sebaste, ma in cosa consiste la sua arte? Le rappresentazioni materiche di Sebaste sono idee che si muovono lungo il movimentato cammino della vita. Queste idee superano la materialità del contingente per narrare storie nuove e diverse sotto la spinta della rilevante tensione. Egli ha piena coscienza dell’effimero immaginario e materiale, pur servendosi della materia come luogo insostituibile del linguaggio espressivo, quasi smaterializza quest’ultima a vantaggio di procedimenti logici che sistematizzano il suo operato artistico. La cartapesta, i cartoni, entrano nelle composizioni come gli attori in scena; questi materiali recitano il proprio copione, ma in realtà è la forte decisione del Sebaste che li trasforma in autentiche opere d’arte. Questi materiali sono incollati, impastati, bruciati e I’artefice li domina a completo piacimento. Questo dominio si ripercuote anche sul colore che prima è sovrapposto strati su strati poi asportato, graffiato, quasi offeso o svilito nel getto di massa e nella struttura cromatica che esso determina. Questo modo di trattare i materiali farebbe pensare alla violenza distruttrice dettata da una mente aliena, invece è perfettamente l’incontrario, è il tormento della ricerca, I’affanno dello scopritore di nuove forme e nuove tecniche. Le macchie, che si fanno forma, passano per il filtro dell’intelletto dell’artista, il quale le oggettizza in maniera sistematica pervenendo a risultati non solo di razionalità compositiva, ma soprattutto di estetica compositiva. Le problematiche 108


fenomeniche sono osservate da un punto di vista scrupolosamente equilibrato. Ciò che il Maestro Sebaste, da anni, va ricercando e impressionando (non a caso alle origini seguiva questa corrente pittorica, anche se poi ha saputo andare ben lungi da essa) sono le emozioni più nascoste, quei paradigmi che in senso evolutivo si presentano dal punto di vista osservativo e quindi interpretativo. Diventa interessantissima la sistematicità dell’approccio osservativo stando alla quale lo stesso fenomeno, un conto è osservarlo oggi e tutt’altra cosa domani o fra un lasso di tempo posteriore al domani. Perché ciò? Secondo me Sebaste segue i tempi dello spirito creativo in modo lineare ed emotivamente incontrovertibile. Le provocazioni materiche impressionate volutamente suonano come campanelli di allarme in una società che ha perso valori fondamentali, di contro la risposta ottimista dell’arte sebasteana che con le sue forme carica fortemente il pensiero dell’osservatore.

Alberto Iandoli, Da “Il Sannio”, “Avellino si prepara ad accogliere il maestro Salvatore Sebaste”, Avellino, 17 marzo 1999. 109


Lino Cavallari - Bologna esperto d’arte

Un ponte fra Nord e Sud e la Basilicata si colora Rieccolo Sebaste, trent’anni fa una promessa dell’arte, seppure alla ri­cerca di una sua identità, com’è naturale per ogni giovane artista, e oggi, dopo aver percorso i più svariati generi pittorici (ma anche la scul­tura) come viene documentato in un’attenta monografia vista ancora in bozze, una certezza nel panorama culturale del Meridione, e non solo. Per di più promosso per meriti sul campo a Direttore artistico della Pina­coteca Comunale d’Arte Moderna di Bernalda-Metaponto, dopo aver ispi­rato e sostenuto la necessità di censire e catalogare gli artisti nati o vissuti in Basilicata, con l’incarico conferito al critico Rino Cardone di elaborare schede sugli artisti lucani dall’Ottocento al 1970, e dagli anni ‘70 ai giorni nostri. Un compito storico di enorme portata civile sanno portare a compimento regioni del Sud d’Italia, mentre città del Nord, onuste di dottrina, lasciano perfino prota­gonisti di stagioni di gloria nell’oblio più profondo, senza uno straccio di catalogazione. Ma ecco com’è andata con Sebaste, che in varie gallerie bolognesi dell’Emilia-Romagna e delle Marche faceva allora conoscere personaggi e tradizioni della sua terra silenziosa e assolata. Lucania, antica terra di lupi (“lykos” in greco), di fiere genti osco-sannitiche che diedero parecchio filo da torcere ai latini, ai romani e alle arcaiche comunità proto-elleniche dell’Italia meridionale. Quanto nella regione sia sopravvissuto dell’indole paziente ma strategica dei primitivi abitanti andrebbe forse ricercato nei suoi discendenti più autentici che, persino nei patronimici, perpetuano un’eredità di ostinato, ma dignitoso orgoglio quasi facesse parte del patrimonio genetico. Appunto come Salvatore Sebaste di Novoli, nel Leccese, il cui cognome tramanda un retaggio di nobiltà e di rispetto, essendo il greco “sebastos” l’equivalente latino di “augustus” (e non si dimentichi che quest’ultimo aggettivo contiene in sé la radice di “augere”, vale a dire in continua crescita). Fine delle questioni linguistiche, che peraltro hanno la loro importanza se già anticamente si diceva “Nomina sunt omina”, cioè i nomi conten­gono già una profezia dei destini. Cosa che non è sempre vera. E veniamo a dire il merito, come enun­ciava il narratore della commedia dell’arte, specificando che il presente scritto non è che la testimonianza di una frequentazione amichevole riallacciata dopo circa tre decenni d’interru­zione. Dunque, per 110


inquadrare il periodo, correvano i primi anni ‘70 e si viveva­no giorni di grande mobilità, di entusiasmi irrefrenabili. II ”Sessantotto” aveva inferto al mondo una scossa dinamica. II filosofo tedesco Herbert Marcuse - con Horkheimer e Adorno, poi messi in soffitta - era idolatrato a sinistra per le sue utopie di libertà, di felicità e di gioco. E a sognare un mondo migliore c’erano anche John Kennedy, papa Giovanni, Martin Luther King. Nel ‘69 l’”Apollo 11” aveva portato il primo uomo sulla Luna; nello stesso anno John Lennon cantava “Imagine”, fantasticando che tutta la gente si pren­desse per mano. Ma era destinato a un’incredibile fine per l’eccesso d’identificazione di un ammiratore, un super-amore portato a un’incan­descenza distruttiva (a New York, metropoli gotica che per gli stravolgimenti della normalità continua ad attrarre i fantasiosi, e quindi anche Sebaste, mi è capitato di soffermarmi a riflettere su questi para­dossi della vita nel luogo preciso in cui fu colpito da rivoltellate, nel “borough” di Harlem, sobborgo degradato, proprio davanti al palazzone dalla facciata in mattoni rossastri e neri in cui il più rimpianto dei Beatles abitava con I’artista giapponese Yoko Ono, un posto niente affatto spe­ ciale, edilizia popolare; erano stati accettati dal consiglio di condominio, men­tre più tardi Madonna sarebbe stata respinta perché la sua condotta non era conforme alla morale americana). Genio e sregolatezza. Guns & shots, altro che fichi d’India. Fra tanti fermenti, fra tante bizzarrie, fra tante enunciazioni di nobilissi­mi propositi quanto sangue sarebbe stato versato, quanti conflitti si sta­vano preparando, quante speranze sarebbero rimaste deluse. Sebaste in quegli anni era un giovanotto sulla trentina. In mezzo a tutti questi trionfi mondiali e nazionali si affacciava alla ribalta reclamando la sua parte di attenzione con una pittura descrittiva che davvero oggi non si saprebbe come definire: negazione di graziosità nella parata di perso­naggi e animali protagonisti di una vita umile e dimenticata, ostensione di povertà incolpevole nei gruppi di dignitosi cafoni spesso disposti in veduta frontale. ”Processioni profane”, le aveva chiamate il compianto (e pure lui dimenticato) Franco Solmi, studioso di sottile intuito e diretto­re della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. “Ha posto la propria candidatura per la successione a Migneco, Brindisi, Guttuso...” af­fermava l’operatore culturale Rossi-Roiss in uno dei quaderni della gal­ leria bolognese “Nucleo” di via Portanova, uno dei pochissimi luoghi isti­tuzionali sopravvissuti (anche se con attività saltuaria) essendosi estin­te le gallerie di quei tempi. “... Buona e forte pittura, essenziale, questa di Salvatore Sebaste; sono veri racconti che egli presenta con un suo discorso pittorico, fatto di chiara, personale, autentica genu­ina poesia. Come dire umanità. “Erano le parole con cui Tono Zancanaro aveva presentato l’artista alla gloriosa Galleria di Palazzo Galvani. Ed Ernesto Treccani nella presentazione della personale alla “Bottega” di Lugo di Romagna, nel novembre ‘70: “Le figure sofferenti e vocianti di alcune tele di Sebaste che ora traggono risalto dal biancore del fondo, domani - chissà - assumeranno altri significati di vita e di colore da una diversa articolazione formale”. Profezie? Se nel ‘70 Raffaele De Grada, presentando per le edizioni Svolta la car­tella d’incisioni “La vita di un paese nei suoi atti primari”, considerava: “Quella sensibili111


tà assai forzata della forma... corrisponde psicologi­camente a una sorta d’inferiorità regionale, un complesso di classe e di gruppo sociale che troviamo negli artisti meridionali... Con queste sue opere Sebaste vuole raccomandarsi come documentarista e ci riesce; questa storia lucana varrà anche tra dieci e venti anni, una storia vera narrata da un artista autentico”; il compianto Marcello Ceccarelli, sensibile scrittore intimista meditava: “...Sono nel mio studiolo davanti a un quadretto che guardo ormai da anni. C’è una finestra con una cascata di gerani e un filo teso contro un muro bianco. Non credo che Sebaste mi piaccia. ...Quel filo o una foglia di smalto brillante o il volto distorto di una follia li guardo da uomo del Nord... e li guardo con la struggente nostalgia di luoghi dove non sono nato, dove non vorrei essere nato, dove non vorrei morire”. Questi, dunque, gli alterni giudizi sul pittore di Novoli, che pur prestando la massima attenzione a quanto veniva sviluppandosi nelle più varie direzioni, non aveva mai abbandonato la manualità dell’arte nemmeno di fronte agli imperativi più progressisti delle performances corporali, delle installazioni e di altri effimeri eventi. Così, quando vi fu un richiamo all’ordine, non ebbe bisogno di sollecitazioni per riprendere il suo cam­mino. Piuttosto, perché non adeguare la sua “narrative art” a linguaggi via via più attuali? È quello che fece. Così, negli anni in cui smisi di seguirlo perché si era allontanato da Bo­logna (dove si era perfezionato nell’incisione presso l’atelier calcografico di Mario Leoni, tanto da mettere a frutto la maestria appresa costituendo a Bernalda un proprio laboratorio di grafica che stampò acqueforti perfi­no di Joseph Beuys e libri d’arte in edizione numerata presentati prima al “Moma” di New York e poi al “Guggenheim” di Venezia) Sebaste inco­minciò una verifica dei generi più importanti e più attraenti. Un nomadismo che si approssimò anche ai territori della transavanguardia, con figure più seduttive. Fino agli ultimi esiti di pittura polimaterica, gesto e colore in fusione psichica che determinano il significato di tavo­le dove i pigmenti e i collanti, il cartone ondulato e la cartapesta, sono elementi costitutivi di forme che non hanno mai abbandonato i territori della fisicità e che quindi sono riconducibili a un’esperienza sensoriale abbastanza fantastica. Che previsioni fare su questo artista così poliedrico e onnivoro? Di certo Sebaste ha assunto un’invidiabile autorità, anche con lo studio diretto di capolavori di tutti i tem­pi, che nei musei assimila e metabolizza nel suo stile, mutevole ma riconoscibile. Complice quell’aria del Sud, piena di echi e di evanescenze che però nei suoi quadri si consolidano in mitologie del nostro tempo, la dimen­sione intimistica e strapaesana si è aperta a un respiro totalizzante e riflessivo sulle ansie del 2000. Lino Cavallari, Dal Catalogo Mostra “Artista eclettico”, Galleria Sumithra, Ravenna, 1999. 112


Giovanni Prosperi - Macerata esperto d’arte

Per Salvatore Sebaste In definitiva scrivere, per normale forza, in bianco e nero sia il destino dei suoi critici: quelli che sono ancorati all’interpretazione peggiore di Kant. Vorrei che Salvatore Sebaste facesse passare delle sue idee colorate sopra le linee che parlano di parole attorno alle sue opere; avremmo ritrovato quel riequilibrio che sospende il volere della comprensione che normativizza il figurarsi della figurazione. No. Sebaste non fa belle figure dopo, perché non ha molto a che fare con il destino crudele delle forme che senza posa tentano di uscire dai suoi quadri. Un maestro indiano impazzirebbe per trovare il centro dei suoi gesti che in sostanza non appartengono al sistema solare né a nessun Mantanvara. La fine, filosofica, di Salvatore Sebaste è la “Vita ridomata” dell’arte che, seguendo l’etimo, va riportata a casa, quando l’artista si strappa dall’identificazione con l’oggetto ideale, per cercare il riposo con il soggetto ideale del corpo: il sogno. Diffido, poeticamente, ogni interprete di Arthur Schopenhauer che non consideri le opere di Salvatore Sebaste come note di musica e mi dissocio da tutti quelli che non ascoltano le idee che luminose suonano in testa.

Giovanni Prosperi, Dal Catalogo Mostra, “ Il sole del Sud”, Pinacoteca Comunale d’Arte Contemporanea, Ripe S. Ginesio (MC), 1999. 113


Lucio Galante - Lecce storico dell’arte

Verde indorato Dovendo leggere l’opera di Salvatore Sebaste indipendentemente dalla particolare storia dell’artista e senza la preoccupazione di coglierne immediatamente un significato, attestandomi cioè sui soli dati stilistici, i termini che sono obbligato subito a usare sono polimaterico e astrazione, come dire che essa è costruita facendo ricorso a materie diverse e che non rappresenta forme di referenzialità naturale o umana. Dovrei anche aggiungere che il colore ha un ruolo anch’esso decisivo. Stendere un colore con un pennello per ottenere un’ampia campitura è diversa cosa dal far cadere o gocciolare una sostanza cromatica sul supporto o dall’applicarvi materiali diversi come pezzi di cartone. Ci sono di mezzo come si vede il significato stesso dell’azione, la casualità del suo esito, e la natura del processo mentale. È vero che ora ogni artista gode di piena legittimazione nell’uso libero di tecniche e di materiali, ma questo non significa che ogni procedimento è regolato esclusivamente da entrambi; anche quando si è teorizzato l’automatismo psichico, s’è visto che l’automatismo non era un puro fatto meccanico, ma aveva alla base un movente, sia pure di natura sub-coscienziale. Se si guarda all’opera di Sebaste, non si può fare a meno di chiederci quali sono stati i tempi e le fasi di realizzazione. Appare evidente, allora, che esiste ed è ben visibile una stratificazione operativa, tenuta sotto controllo per quanto riguarda l’organizzazione dei vari elementi, ma la cui configurazione formale preordinata lascia supporre una rielaborazione per via materica e cromatica che ha tutta l’aria di una trascrizione fantasmatica di condizioni d’animo ed esistenziali profonde. Insomma quei termini, polimaterico e astrazione, sono solo un’indicazione generale, perché l’opera, costringe a una percezione forte, decisa come di una presenza inquietante, di un misterioso amalgama insondabile al lume della ragione, quasi tracce di operazioni alchemiche divenute incontrollabili all’alchimista pittore. E qui forse è opportuno un rapidissimo accenno alla storia artistica di Sebaste. Di lui si è sempre sottolineato il carattere irrequieto, passionale, sostenuto da forti convincimenti ideologici, che si è tradotto nello specifico della sua arte in scelte espressive decisamente orientate in senso espressionistico, anzi si può ben dire che la componente espressionista come rifiuto all’evasione edonistica e alla superficialità nella visione del mondo costituisca il filo rosso di tutta la sua ricerca, che ora è finalmente giunta per qualità e per originalità espressiva a piena maturazione, com’è dato vedere in questo ‘Verde indorato’. Lucio Galante, Dal Catalogo Mostra, “Dissimiglianza”, Castello Angioino, Copertino (LE), 1999. 114


Claudio Spadoni - Ravenna storico dell’arte direttore artistico MAR

Il nomade Sebaste Ci sarebbero molti indizi, e piuttosto chiari, per identificare in Salvatore Sebaste un artista d’inconfondibili accenti meridionali, non bastasse la sua carta d’identità che riporta le origini leccesi, e ancora, una vita trascorsa nella solare Basilicata. Tuttavia, i documenti più probanti non sono certo quelli anagrafici, come insegna tanta parte della storia dell’arte, soprattutto del nostro secolo, da quando la geografia della cultura visiva, di prima importanza nel nostro Paese, è sbiadita fin quasi alla cancellazione per effetto del ‘cosmopolitismo linguistico’. Un’orrenda espressione, d’accordo, di una creatività da villaggio globale, senza più frontiere. E magari senza più radici, che è ben diversa cosa. Ma nel caso di Sebaste le opere dovrebbero risultare oltre ogni dubbio rivelatrici. Perché tutta l’opera sua dichiara i segni visibili di un’appartenenza a luoghi e memorie, realtà quotidiana, trasmissioni storiche e sostanze impalpabili come i miti, capaci forse ancor più di quelle, di resistere ai tempi. Almeno fino a quando il nostro inconscio non sarà una faccenda da digitare, da tratteggiare in video, affidare all’etere. Con buona pace di un’identità riconoscibile anche, e soprattutto, nell’arte, com’è stato fino a ieri.Da parte sua, Sebaste, non ha mai cercato di dissimulare i segni di quest’appartenenza, che anzi, in certi momenti, egli ha rimarcato quasi fosse l’impronta, forse anche le stigmate, di una cultura che dall’ineffabile solarità dei suoi miti era presto risucchiata negli ineludibili richiami di una realtà di vita nuda e cruda. Al punto da indurre l’artista, in una stagione ormai lontana, all’azzardo della nota locale, a sfiorare perfino la soglia dell’icona patetica, dell’aneddoto sociologico. E risultava abbastanza facile ricondurre quelle immagini alle radici di un realismo di buona memoria e di non altrettanto riconosciuta fortuna. Solo che in lui si caricava di accenti decisamente espressionisti. Ma anche allora, quando Sebaste parve scoprire senza remore le carte di un ‘meridionalismo’ che agitava il ben noto vessillo della ‘figurazione’, per un racconto d’immediata leggibilità, si poteva comprendere che c’era dell’altro. Da far pensare che quelle immagini fossero assunte a motivo quasi araldico, ma in un’accezione per così dire ‘pop’, nel senso proprio del termine, Un ‘popular’ di stridente, paradossale contrasto nei confronti della fragorosa, spettacolare messa in scena dell’iconografia pubblicitaria e consumistica a stelle e strisce sbandierata con gran successo oltreoceano. Da bravi, pragmatici artisti integrati. Quel capitolo di Sebaste, del resto, segnava un passaggio forse inevitabile per doppiare la boa della narrazione più esplicita, tanto partecipe da vestire abiti dimessi, per addentrarsi passo passo nella densità simbolica degli stessi elementi 115


costitutivi della pittura. Che voleva poi dire porsi interrogativi di più largo orizzonte, riprendendo la questione dell’arte com’era stata posta, sia pure in termini diversissimi, da figure di spicco della cultura visiva moderna. Kandinskij, si capisce, ma poi anche, in tutt’altro versante, Dubuffet. Vale a dire la riflessione sui segni elementari e fondanti della pittura, e il recupero di un impulso creativo preculturale sfrondato da codici e sintassi, da recuperare fuori dei confini riconosciuti dei linguaggi ufficiali. E già si può ben intendere come questo saggiare poli così distanti implicasse un diverso pensiero, dell’esperienza artistica, con i suoi nodi problematici ‘moderni’ d’ampiezza tutt’altro che locale. Ma prenderne coscienza, toccarli con mano, verificarne le potenzialità, non significava affatto sbarazzarsi di memorie, recidere quelle radici, appunto, che costituivano pur sempre dei gangli vitali di una creatività non costretta entro linguaggi nutriti di tutt’altre ragioni storiche e cresciuti sotto altri climi. A suo modo Sebaste è stato un nomade - termine, anche questo, che come uscito dal cappello di un prestigiatore ha riscosso gran successo, come suol dirsi, di pubblico e di critica - ma un nomade per intima esigenza, non per seguire le orme di una ritualità alla moda. Basti dire che i territori artistici in cui si è spinto, all’apparenza così lontani dai luoghi familiari dei suoi esordi, non erano affatto le mete più frequentate e appaganti di un’attualità aggiornata e subito squadernata sulle riviste di grido. Erano semmai le tappe di un percorso di tutt’altra specie, che riportava infine al luogo originario, ma forse meglio inteso nella sua profondità di voci, di qualità simbolica. Ecco, direi proprio auscultato brano a brano fin nella complessità dei suoi più segreti meandri. Si comprende bene, allora, che Sebaste sia giunto ad accostare l’Informale, e più precisamente i suoi affondi nella poetica della materia. Se quella stagione storica poteva apparire largamente conclusa, certo restava tra i suoi lasciti l’indicazione di una vitalità metaforica della materia da ripensare in termini di corrispondenza esistenziale. Materia - memoria si potrebbe dire bergsonianamente. La materia come stratificazione, sedimentazione di storia, di vissuto, capace di rianimare al tempo stesso echi familiari e allontananti. Sommessi palpiti di luce, e buttate di calore, suoni di flauti e sibili di vento, fruscii di erbe e frinire di cicale, trascorrere di sogni e pulsare di vita, abbandoni visionari e brani di quotidianità, magmi cromatici di suggestione anche alchemica e povere materie d’uso corrente. E molto altro ancora, s’intende bene, di esplicito e d’implicito, di palese e di arcano. Il caso e la necessità qui s’inseguono, s’intrecciano, si scambiano le parti. In altri termini l’esigenza di una struttura, di un ordine formale, fa tutt’uno col premere di una vitalità intrinseca e incoercibile della materia. Qui si condensa l’urgenza narrativa di un originario e a un tempo di nessi esistenziali, che costituisce l’approdo di un ormai lungo percorso. Un approdo che in arte, si sa, vive sempre l’attesa di ulteriori esplorazioni, di nuove proiezioni dell’immaginario. E Sebaste ormai sa bene che, quali siano le sue rotte, porterà comunque con sé il richiamo suadente, quasi magico, delle ‘cose sue’, la consapevolezza di un’identità che può mutare solo d’accenti, d’inflessioni, e non già nello spessore dei tramandi, nella profondità delle corrispondenze. Claudio Spadoni, Prefazione Monografia, “Salvatore Sebaste”, ed. Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto, 1999. 116


Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

Risale alla seconda metà degli anni ‘50, con una mostra a Novoli (LE), suo paese natale, l’esordio artistico di Salvatore Sebaste. Aveva diciassette anni (1956) quando presentò per la prima volta le sue opere in pubblico: paesaggi e nature morte. Lo stesso anno conseguì il diploma all’Istituto d’Arte di Lecce e intraprese gli studi al Magistero di Belle Arti di Firenze. In questa città, oltre ad impegnarsi nelle attività scolastiche, occupava il tempo libero lavorando come disegnatore in studi d’ingegneri e architetti e visitando attentamente chiese e musei per cercare di scoprire i segreti della pittura e della scultura dei grandi maestri: Giotto, Beato Angelico, Michelangelo, Primo Conti e Rosai. Ultimati gli studi a Firenze, fece ritorno nel Salento dividendosi tra Puglia e Basilicata nelle sue prime esperienze scolastiche, quale insegnante di discipline pittoriche nella Scuola Media. Di quel periodo sono paesaggi, nature morte e ritratti. Un genere figurativo nel quale si leggeva un atteggiamento volitivo e talvolta aggressivo da parte dell’artista. Lo stile di quelle opere giovanili era di chiara estrazione espressionista. Salvatore Sebaste si richiamava più al filone tedesco del “Die Bruche” che a quello francese dei “Fauves”. Kirchner, Heckel, Nolde, insieme al norvegese Munch furono alcuni tra i pittori ai quali l’artista amò riferirsi. La sua pittura in quel periodo era carica d’angoscia esistenziale. Mostrava una violenza formale e cromatica di notevole intensità drammatica. Nel frattempo era trascorso un quinquennio (1961). I suoi soggetti preferiti erano i volti attraverso i quali egli denunciava una condizione sociale di solitudine e di miseria. Tematiche queste dell’emarginazione e del degrado che lo affascinarono per oltre un decennio. In quegli anni la sua tavolozza cromatica era di cupa intensità e d’intonazione minacciosa: con il cobalto, il violetto, l’oltremare e il vermiglione trattati sulla tela a impasto, a colori pastosi e densi, con “grossi tocchi, in accostamenti audaci, contrastati”, come scrisse Oronzo Parlangeli. In un’intervista dichiarò: “Dipingerò solo visi di donne soprattutto tormentati, sofferenti, brutti. Non mi riesce di farli belli. L’uomo non m’interessa più. Così il paesaggio e la figura”. Da queste parole si leggeva una sorta di manifesto programmatico. Già da allora Sebaste mostrava un temperamento ribelle, impulsivo, aggressivo, attento all’effetto pittorico. Tra le tele di quel periodo sono: “Iolanda”, “La vedova” e “Terronia”. “La vedova” è un quadro del 1962 di medie dimensioni. Vi predominava il viola insieme al bruno Van Dych e al rosso indiano, a determinare una carnagione forte, accesa, rubiconda. Il volto era racchiuso in uno scialle. Gli occhi erano penetranti. Il labbro ben delineato. Il tratto pittorico faceva risaltare il dramma e la disperazione di quella donna mossa – scriveva Zoe Sopin’s - da una “fede antica che la spingeva a vivere”. In quella tela s’iniziava a leggere un diverso modo di dipingere di Salvatore Sebaste: maturato anche nel corso 117


degli anni trascorsi a Firenze. La pennellata andava facendosi via via più libera rispetto alle prime esperienze: quasi informale, con maggiori tocchi di luce e più accorta alla qualità dell’impasto del colore. Nel 1963 si stabilì definitivamente a Bernalda (MT) e per conoscere meglio la Basilicata, terra per lui affascinante e ricca di stimoli sia geograficamente sia socialmente, girò i vari paesi della regione dipingendo sul posto le varie caratteristiche ambientali e trattenendosi a parlare con i personaggi del luogo, senza tralasciare i più umili. Scaturì, quindi, lo studio antropologico della Basilicata. Salvatore Sebaste mostrava interessi vari, ma tutto ciò che ‘sapeva’ d’arte lo attirava vorticosamente e lavorava incessantemente in arredamento e ceramica, senza tralasciare la sua vera passione: la pittura. Nel 1964 vinse una coppa col “Paesaggio lucano”, olio su tela, alla Mostra Nazionale di pittura a Montalbano Jonico e conobbe Enzo Contillo, critico d’arte che lo invitò a proporre le sue opere ad Arezzo, dove era Provveditore agli Studi. Nella stessa occasione incontrò Mario Trufelli, giornalista RAI e poeta, col quale si stabilì subito una fraterna amicizia e in seguito anche una collaborazione artistica. Nel 1965 il parroco di Policoro (MT) gli commissionò una scultura da collocare nell’abside della Chiesa Madre che egli elaborò nell’officina di Lucio D’Auria, un suo alunno. Realizzò così “I simboli della Chiesa”, un bassorilievo di ferro battuto di 6 x 3 m raffigurante la Croce, la spiga di grano e l’uva. Nello stesso anno eseguì il “Cristo in croce’, un tutto tondo di ferro battuto di 1,50 x 0,40 m che si trova nella chiesetta della “Madonna degli Angeli” a Bernalda (MT). Nel 1968 realizzò “La Primavera”, pannello di gesso di 6 x 1,50 m, composto da elementi floreali molto colorati a simboleggiare i giovani nella loro età evolutiva; e “La Scuola”, una figura con le braccia aperte che stringe due ragazzi, scultura di gesso colorato di 2 x 0,60 m. Entrambe le opere sono collocate nell’aula magna della Scuola Media “Pitagora” di Bernalda. Nel frattempo divenne socio del circolo culturale “La Scaletta” di Matera. Le varie frequentazioni con intellettuali, artisti e critici d’arte (come Franco Palumbo, Raffaello e Michele De Ruggieri, Maria Sinatra, Mauro e Camilla Padula, Giorgio Corazza, Giuseppe Appella, Luigi Guerricchio, Rocco Mazarone, José Ortega, Pietro Consagra), la presenza assidua a convegni, tavole rotonde, dibattiti contribuirono in quegli anni alla sua formazione culturale e artistica. Nel 1966 aprì a Bernalda uno studio calcografico (il primo nella regione) che diventò luogo d’incontro di artisti e intellettuali. Intorno alla fine degli anni ‘60 avvenne la prima importante trasformazione nella pittura di quest’artista. L’iniziale matrice espressionista andò man mano acquisendo la lezione informale. La tela dell’artista prese respiro. L’immagine conservò la sua iniziale violenza espressiva. I fondi divennero, però, un po’ meno sofferti. Il bianco prevalse sullo scuro. La figura si fece sempre più essenziale: senza mai cedere alla retorica dei sentimenti. Crebbe l’impegno sociale dell’artista: il messaggio e la denuncia. La questione meridionale divenne uno dei suoi cavalli 118


di battaglia. La cultura contadina era un tema molto forte in quel decennio al Sud, molto avvertito tra gli intellettuali: specie quelli lucani. Salvatore Sebaste, da sempre sensibile alle istanze del nuovo, recepì questo tema immediatamente. Non soltanto perché in Basilicata si era ormai trasferito in maniera definitiva, ma anche perché la questione lo coinvolgeva intimamente e in maniera profonda. Proprio perché attraverso quelle scene di paese - come poi scrisse il suo amico Tono Zancanaro - Salvatore Sebaste ebbe modo di continuare la sua giovanile denuncia sulle contraddizioni sociali. Quelle tele erano calate drammaticamente nella dura cornice della vita di tutti i giorni e dichiaravano uno stato d’animo, un’insofferenza, accentuata dalla diafana impenetrabilità dei fondi: rigorosamente trattati con la biacca per snervare i toni complessivi dell’opera. Osservando “Erba e muro”, “Aglio e origano”, “Numero civico 25” e “Ombra e peperoni” (opere datate tra il ‘68 e il ‘69, di medie dimensioni) emerge uno dei soggetti preferiti dall’artista in quel periodo: il muro, “le cui macchie - come sosteneva in una riflessione Fausto Melotti - possono essere una partenza per il sogno”. Salvatore Sebaste attraverso queste pareti catturava il presente. Mostrava una società in via di trasformazione. Parlavano i bianchi d’argento, piombo, zinco in quelle sue tele in cui diveniva sempre più preponderante la materia colore, sulla figura. Egli conservava però in queste opere la violenza coloristica dell’espressionismo. Iniziò così a prendere corpo la sua stagione informale, con l’occhio concettualmente rivolto alle lezioni di De Kooning e Kline. Ci volle, però ancora qualche anno, prima che Salvatore Sebaste abbandonasse il figurativo, per poi riprenderlo a fasi alterne senza mai tradire un filone segnico-gestuale d’intensa carica lirica. Verso la fine degli anni ‘60 si mise a viaggiare per l’Italia e visitò i più prestigiosi musei e gallerie d’arte nazionali e da allora fu assiduo visitatore della Biennale di Venezia. Agli inizi degli anni Settanta vi fu un’intensa frequentazione con i giornalisti. Tra gli altri: Mario Trufelli, caporedattore regionale della RAI di Basilicata, Franco Corrado, Vittorio Sabia, Paolo Di Tullio e il cineoperatore Mimì Abbattista. Essi divennero suoi buoni amici e contribuirono a far conoscere la pittura di Salvatore Sebaste a livello nazionale, attraverso vari servizi televisivi. Ogni occasione rappresentava per loro un pretesto per stare tutti insieme a discutere di arte, di cultura, di politica e di attualità. Il giornalista Franco Corrado, allora responsabile della pagina regionale del “Tempo” scrisse diverse volte in quel periodo della pittura di Salvatore Sebaste. Negli anni ‘90 l’ha recensito nei cataloghi, per mostre tenute a Lecce (“Dilatazione delle Potenzialità”, 1995) e a Pignola (“Percettività delle Forme”, 1998). Anche Vittorio Sabia scrisse in quegli anni, frequentemente, di Salvatore Sebaste nei giornali “Il Mattino” e “Cronache Lucane”, pure recensendo la mostra potentina del 1980, intitolata “Dissociazione” e inserendolo (con un’acquaforte) nel suo libro “I giorni dopo, Basilicata ‘80, 23 novembre” (Napoli, La Buona Stampa, 1981). Ultima sua recensione: “Le riflessioni del pittore Sebaste” (La Nuova Basilicata, 1998). Agli inizi degli anni ‘70 arrivarono per Salvatore Sebaste le prime importanti mostre personali in Italia e all’estero. 119


A Bologna si perfezionò nelle tecniche incisorie, per le quali possedeva una particolare predisposizione che gli era stata evidenziata, negli anni del Magistero di Belle Arti, dal suo insegnante di storia dell’arte Alessandro Parronchi. Analoghe conferme gli vennero frequentando lo studio calcografico di Mario Leoni, punto di riferimento della cultura nazionale. Da lui s’incontravano pittori, scultori, scrittori e poeti. Egli aveva numerosi interessi che spaziavano dalla grafica (di cui era “ricercatore e inventore di tecniche”) alla pittura, dalla poesia visiva al teatro. Mario Leoni andò a Matera, con la sua assistente americana, per l’inaugurazione della mostra dello scultore Giovanni Ambrosecchia e si fermò in Basilicata diversi giorni. La mattina, però, era puntuale nelle sue visite a Bernalda nello studio di Salvatore Sebaste. Non potendo però salire le scale, perché affetto da grave handicap, l’amico pittore se lo metteva sulle spalle e lo portava fino allo studio (al secondo piano). Qui il gran maestro della grafica gli insegnava le nuove esperienze sulle tecniche incisorie, con l’aiuto manuale di Deborah, la sua assistente. A Bologna - in occasione di una sua mostra personale - Salvatore Sebaste conobbe il critico Franco Solmi che lo segnalò per una mostra personale alla galleria di Palazzo Galvani del Comune di Bologna. Fu Roiss a curare l’allestimento e il catalogo di quell’esposizione. Le cronache riferiscono che si trattò della prima iniziativa lontano dal Sud, anche se da qualche anno collaborava a Zurigo con la galleria “Schweizerische Gesellschaft der freund von kunst” di Max Bollag, il quale ancora oggi, lo segue e ne apprezza il lavoro. Era il 25 gennaio del 1970. La personale bolognese fu un vero successo. L’artista fu presentato in catalogo da Tono Zancanaro - con il quale intrattenne un’ottima amicizia fino alla morte di questi, - da Lino Cavallari, Roiss e Franco Palumbo (responsabile de “La Scaletta” di Matera, dove poco dopo terrà una personale). Al termine di quell’esperienza Salvatore Sebaste, entusiasta, dichiarò su un giornale locale: “Bologna sarà la mia città d’elezione. Altri pittori hanno scelto Roma o Milano, io ho scelto la città delle Due Torri. Nel suo abbraccio caldo e fraterno, nel suo clima gaio e riservato, si lavora molto bene”. In quel periodo conobbe e frequentò oltre al già citato Tono Zancanaro anche Ernesto Treccani: artisti ambedue innamorati della Basilicata, i quali frequentavano la regione con discreta assiduità. Salvatore Sebaste li accolse nel suo studio di Bernalda. Ne nacque un rapporto intenso, emotivo, ricco di risvolti umani e intellettuali. In una lettera Ernesto Treccani dopo aver sottolineato “lo straordinario paesaggio di tetti e di campagne” che s’intravedeva da quella soffittalaboratorio, si soffermò in una riflessione sul ruolo sociale dell’arte. Gli scrisse: “L’artista, il poeta, è un modo di essere, non solo di esprimersi. In una società per tanti versi chiusa, ottusa, sempre più coercitiva e intollerante, l’arte è un modo di difendere la propria e l’altrui libertà, di testimoniare al futuro, di comunicare ai contemporanei, di rendere comune un patrimonio d’intuizioni, di conoscenza, di affetti che altrimenti andrebbe perduto. Difficile è riconoscere il rapporto che esiste tra libertà espressiva e partecipazione alla storia degli uomini. Mi sembra che i personaggi dei tuoi ultimi quadri non sfuggano a questo rapporto”. In questa lettera sono contenuti i passaggi successivi della pittura di Salvatore Sebaste: una sorta di premonizione dotta ed eloquente, avvertita da una sensibilità fuori del comune, da un artista, Ernesto Treccani, attento alle istanze del nuovo. Egli diceva inoltre: “ (...) un artista vero non si lascia irretire nelle formule, per quanto felici e personali possano apparire. Le figure sofferenti 120


e vocianti di alcune tue tele, che ora traggono risalto dal biancore del fondo, domani - chissà - assumeranno altri significati di vita e di colore da una diversa articolazione formale. Può darsi che ciò generi squilibri e non sia subito capito. Poco importa. Ciò che rimane è la tensione che uno riesce a immettere nelle forme, in altri termini la vita, il sentimento, la ragione”. Nel frattempo Salvatore Sebaste andò sempre più collocando la propria ricerca in una linea d’astrattismo emozionale, di chiara ascendenza espressionista e talvolta astratto-geometrica. Fu questo un periodo che durò per tutti gli anni ‘60 e fino alla seconda metà degli anni ’70. Per l’esattezza storica, nel 1967, egli ebbe una breve parentesi di ricerca astratto-geometrica, nella quale prestò particolare attenzione alle valenze cromatiche del segno. Non si può non rimarcare a questo punto che fu su questa dimensione semantica (e cioè quella della forma intesa come tratto e linea, rotondità e massa di colore) che Salvatore Sebaste espresse in quegli anni (che sul piano più ampio del vivere collettivo furono caratterizzati da una forte ideologizzazione e concettualizzazione della società) la sua volontà di conoscenza introspettiva del mondo. Nel contempo, intorno a questo processo semiotico di tratto-significante/idea-significata, egli sviluppò un preciso rapporto di esplorazione-appropriazione visuale dell’ambiente che alcuni anni dopo lo portarono ad abbandonare quasi completamente la figura per preferire la scelta compositiva e per le armonie cromatiche. Ma evitiamo voli pindarici e restiamo agli anni ’60 -’70. L’informale continuava comunque a intrigarlo oltre misura e successivamente si videro i risultati. In ogni caso in quella fase si sforzò di coniugare le due istanze pittoriche sopra dette. Riuscì in quest’operazione facendo propria completamente la filosofia fenomenologica esistenziale. La sua pittura si aprì così sempre di più agli stati d’animo e al sentimento tragico e angoscioso dell’esistenza. Ne derivarono lavori estremamente tormentati, aperti alla deformazione caricaturale e grottesca della vita. Opere dalla figura contorta, allucinata; dalla pennellata densa e pastosa; dai colori puri, intensi, saturi, violenti, a tratti opachi, a tratti trasparenti, in certi casi provocatoriamente dissonanti. Era in qualche modo il trionfo di quell’originario espressionismo da cui Salvatore Sebaste era partito con già evidenti aperture a una pittura segnica e materica, attraverso la mediazione neo-figurativa. Franco Solmi scrisse così in proposito: “La scelta degli ambienti, il disporsi delle masse cromatiche e volumetriche, secondo rapporti inventati anche quando tendono ad apparire suggeriti da un’indagine realistica, testimoniano una singolare vocazione del Sebaste per la creazione di strutture in fondo astratte più che non sembri dal contesto narrativo che offre l’occasione al quadro”. Man mano che l’intensità della pittura di Salvatore Sebaste cresceva, la sua tavolozza cromatica acquistava forza, splendore, vigoria, contrasti tonali. La figura di pari passo andava scomponendosi in segni, linee, movimenti, gesti e contorni sempre più marcati. La poetica che andava maturando nell’artista risentiva indiscutibilmente dei processi culturali allora in atto nel Paese e fuori dell’Italia. 121


Cresceva inoltre il proprio interesse nei confronti dell’immediatezza pittorica, della gestualità segnica, dell’irrazionalismo lirico e del primitivismo fantastico. Prima di operare dei cambiamenti radicali nella sua produzione l’artista preferì però ricercare, sperimentare in privato, approfondire le tematiche dell’arte astratta e di quella informale. Voleva venirne fuori con una sua personalità: avulsa dal contesto artistico e per questo originale. Furono perciò quelli, anni d’intenso coinvolgimento emotivo e intellettuale: di autentica ricerca. Si pose molti interrogativi. Quale segno adottare per andare avanti? Che tipo di scatto dare al colore? Che soggetti scegliere? Quali tematiche? Che tipo di collocazione trovare all’interno del mercato dell’arte? Scelte difficili, complesse, tormentate. Un aspetto che occorre riconoscere a Salvatore Sebaste è che non ha indugiato mai nei ripensamenti. Ha preferito sempre andare avanti, se necessario rompendo anche violentemente con il passato. Un dato caratteriale che gli venne riconosciuto da Roiss nel 1973 in occasione di una personale. Così scriveva il critico: “Ha ricevuto informazioni tecniche ed estetiche. Ha messo a punto soluzioni formali. (...) Si è accanito, arricchito, sofisticato. Ha escogitato camuffamenti per l’aspetto primitivo. Al naivismo istintivo ha innestato riassunte e decantate le immagini più celebrate della figuratività meridionale. Ha posto la propria candidatura per la successione a Migneco, Brindisi, Guttuso (...) ”. Fu quella una recensione critica che fece il giro di molti giornali. Venne urlata, strillata, scritta a più colonne: Salvatore Sebaste “sarà l’erede di Migneco e Brindisi?” titolava in occhiello “Il Mattino” nell’ottobre del 1975. L’interrogativo trovò positivo riscontro. L’affermazione fu smentita dai fatti o meglio dalle scelte successivamente operate dall’artista. Egli si allontanò via via dal filone tradizionale della figurazione, compreso quello d’impegno sociale. Preferì qualche anno dopo la matericità alla rappresentazione realistica, l’astrazione analitica alla denuncia. In questa maniera si scrollò di dosso le etichette che gli erano state appiccicate frettolosamente dalla stampa e dalla critica di “giovane pittore neofigurativo meridionale”, di artista “che dipinge in dialetto”, d’intellettuale nel solco dell’esperienza meridionalistica e di operatore salentino o materano a seconda che lo si collocava geograficamente in Puglia - sua regione d’origine - o in Basilicata - sua terra d’adozione -. Si trattava in ogni caso di veri e propri stereotipi culturali, di quelli che nascono con la presunzione di meglio definire un carattere, una personalità, ma che poi in realtà si trasformano in un pregiudizio o comunque in una gabbia per l’artista. Salvatore Sebaste reagiva con stizza a queste affermazioni. Momentaneamente le accettava, nell’attesa di poter dimostrare il di più che era in lui. Si arrivò così al novembre del 1975. Il circolo “La Scaletta” di Matera - attivo nella promozione delle arti visive - cambiò direttivo. Salvatore Sebaste fu eletto presidente. Stette in carica due anni. Il tempo necessario per fondare, un anno dopo con un gruppo di amici artisti, la “Scuola libera di grafica” sul modello di quella gestita con successo per tanti anni da Mario Leoni, a Bologna. La prima cartella d’incisioni recava opere di D’Angelo, Festino, Ghetta, La Calamita, Linzalata, Martinelli, Manno, Paone, Rizzelli e Sebaste. Si trattava del gruppo originario, quello dei soci fondatori che si erano messi insieme, come Salvatore Sebaste sottolineò nel catalogo della prima mostra collettiva del gruppo tenuta a Matera, per “incontrarsi, discutere, criticare, ma contemporaneamente lavo122


rare, produrre, cercare una nuova forma per rimanere agganciati a una realtà sempre in movimento”. Gli artisti s’incontravano due volte la settimana per scambiarsi le esperienze. Lo spazio era autogestito. Vi si perfezionava la tecnica calcografica. Pittori e incisori provenienti da più regioni d’Italia tennero corsi, incontri, mostre, per riferire e mostrare i risultati delle loro ricerche grafiche. Tutto ciò avveniva nel segno di un fermento culturale che aveva preso il via a Matera quindici anni prima attraverso “La Scaletta”. In proposito così scrisse Franco Palumbo, tra i più attivi animatori del circolo: “L’ospitalità agli artisti noti provoca il dialogo, genera un gusto, tende anche a un tipo di mercato che non ha il marchio dei mercanti. Lucio Del Pezzo e Antonio Paradiso, Tono Zancanaro e Salvatore Sebaste, Franco Gentilini e Mauro Masi, Giuseppe Guerreschi e Michele Santangelo, Ruggero Savinio e Filippo Alto, Vittorio Basaglia e Tonino Cortese, sono alcune tessere di un vasto mosaico che s’è realizzato, con umiltà, dal lontano 1959”. C’è un elemento della pittura di Salvatore Sebaste, di quei primi anni ‘70, sul quale occorre fermare l’attenzione. In quel periodo le sue tele erano affollate di figure contadine e d’immagini del Sud. Bisogna, però, fare molta attenzione. In quei lavori era proposta una condizione geografica senza latitudine: quella che appartiene a tutti i “meridioni’ del mondo e alla cultura agreste e silvo-pastorale di ogni continente. Per questa ragione la sua arte, in quel tempo, era atipica rispetto alle tendenze nazionali in atto, di autentica rappresentazione di una realtà agricola, non industrializzata e terziarizzata. Salvatore Sebaste con le sue opere riusciva in qualche modo ad aprirsi al primitivo che è in ciascun essere umano, viva esso a New York o a Los Angeles o a Madrid o a Mosca o a Pechino. È evidente pure che dietro quelle immagini c’era un deciso impegno politico e sociale contro l’ingiustizia, le disparità, il consumismo e la mercificazione dei sentimenti e delle idee. In “Dopo la festa”, “La processione”, “La raccoglitrice” e “Il primo avvenimento” la crudezza delle forme e delle combinazioni cromatiche si associava alla rudezza delle tematiche affrontate, tutte per lo più a sfondo antropologico. In realtà dietro quei visi scarni e scavati e quelle scene di vita a contatto dei campi, dietro quelle ritualità arcaiche e quei comportamenti comuni e moralmente affettati Salvatore Sebaste mostrava o celava, nei suoi quadri, la dimensione perfida e inquieta del pregiudizio: identico a Oriente come a Occidente, a Nord come a Sud. Esso - è evidente - differisce nei modi, ma non nella sostanza. Certo si ammanta delle diverse etnicità esistenti sul globo, ma non muta nei propri effetti e nelle sue forme. Contro queste situazioni combatteva la sua battaglia il nostro pittore dalla pittura profonda, assoluta, emotiva e vertiginosa. Il colore rappresentava per lui, in quella fase storica, una libera e autonoma espressione della fantasia e della creatività. Il segno intanto andava sempre più allontanandosi concettualmente dalle connotazioni pure del disegno per affrontare lo spazio della tela in maniera più sognante, astratta, affabulativa. Oscuro era il racconto, minaccioso il messaggio, fantasmagorico il progetto della pittura di Salvatore Sebaste: un nomade dell’arte, audace quanto avventuroso, solitario quanto solidale con il mondo intero. Per mesi interi, lui che un linguaggio pittorico autonomo aveva pur prodotto, si ripiegò sul segno e sullo studio della linea, della forma e della composizione. Si trattava di un cammino creativo intrapreso molti anni prima attraverso 123


la grafica. Raffaele De Grada nel presentare 10 acqueforti - pubblicate dalle Edizioni Svolta di Bologna - scrisse che in quelle incisioni vi trovava “un segno asciutto, nervoso ma sicuro, che si stacca dal pressappoco informale dilagante”, “un segno sottile, avviluppato”, in cui lo spessore “è utilizzato dal Sebaste in funzione di contenuto. Tra le figure più importanti e le secondarie c’è differenza chiaroscurale e perfino nella stessa figura talvolta si assiste a uno spaccato di luce, corrispondente all’analisi del gesto, della collocazione ideale del fenomeno figurale. Tutto per forza di disegno, un disegno che diventa personalissimo anche nel colpo d’occhio sulla realtà, vista con l’occhio del proletario, non soltanto per il soggetto ma per il modo fine e rozzo insieme, che è proprio del contadino, dell’operaio quando guarda l’infanzia, il volo di un uccello e la sosta dell’emigrante e la chiusa disperazione del disoccupato”. Si tratta non c’è che dire di un’interessante testimonianza perché fissa tre momenti importanti della poetica e dell’arte di Salvatore Sebaste. Cioè: il suo essere impegnato socialmente, i suoi soggetti allora ricorrenti e la sua vocazione per una testura segnica, la più raffinata possibile. Fu proprio la predilezione dell’artista per una pittura segnica e gestuale, associata a una ricerca materica, a condurlo nel 1977 a una decisa svolta segnata da una mostra personale alla galleria “Arte ‘77” di Moliterno, in provincia di Potenza. Dalla periferia egli lanciò un messaggio importante: una dichiarazione d’intenti che ancora caratterizza il suo lavoro. Cosa accadde in sostanza? Salvatore Sebaste abbandonò il figurativo per poi riprenderlo a fasi alterne e comunque in maniera provocatoria e in un contesto strutturale diverso da quello dei bianchi impenetrabili e allucinati di quel decennio. Dall’espressionismo alla neofigurazione, all’astrattismo, all’action painting, al dripping, alla composizione materica il passo è breve: si consumò nell’arco di poco più di venti anni. Quali furono gli elementi determinanti di questo processo evolutivo? Li racconta lo stesso Salvatore Sebaste in questo scritto tratto dal suo diario di lavoro e pubblicato nell’esposizione di Moliterno: “Verificando le mie diverse esperienze pittoriche, espresse in vari anni di lavoro, cominciai a dipingere su fondi bianchi e puliti. Molti critici videro nel bianco dello sfondo il mondo che mi circondava, la calce delle case meridionali e mi “spiegarono” con un discorso socio-politico-letterario, che i bianchi rappresentavano tutto ciò che nella società era a loro inquieto; mi collocarono in un mondo arcaico, dove l’industrializzazione non era ancora pervenuta, facendomi apparire come il paladino e il cantore di un mondo che non voleva il progresso. A seguito di un’analisi più approfondita, sostengo oggi che i miei bianchi erano il tentativo inconscio di eliminazione totale dell’elemento prospettico. La scelta di quel colore era anche un ritorno al mio ego primitivo quando tracciai i primi disegni sulle pareti di casa; ma questo desiderio era represso da parte del mondo che mi circondava, mondo che io recupero ora nel paesaggio argilloso che sotto il sole diventa bianco astratto. I miei bianchi che si alternano a fondi colorati, derivanti dalla natura circostante, diventano materici, ondulati, graffiati da solchi che imprimono e impongono una visione binoculare alle mie immagini e che consentono allo spettatore la percezione immediata soggettiva delle forme modellate. I fondi bianchi o colorati delle mie opere più recenti, elaborati con materiali puntiformi, che rompono la continuità dello spazio, spesso sono contrassegnati da linee curve, concave e convesse, prodotte da gesti e movimenti del mio cor124


po che non sono di natura istintiva, ma sistemi di comportamenti appresi. Per individuare la struttura, mi affaccio su tutto ciò che mi circonda, filtrando mentalmente le forme in diverse fasi: quindi penetro nel mio spazio già scomposto e lo modifico. In questo momento, che io considero momento creativo, cerco di individuare unità elementari per una costruzione visiva che trasmetta messaggi attraverso elementi sia formali sia coloristici. In tale maniera’ - concludeva Sebaste - “le mie opere assumono nello stesso tempo il ruolo di linguaggio-oggetto e di linguaggio-sintattico, ragion per cui fanno arte e discorso sull’arte”. Era il dicembre 1977 quando uscì in pubblico con quelle tele in cui i colori si distinguevano per intonazioni calde, per combinazioni armoniose e tinte ranciate, brune, rossastre, con la terra di Siena naturale, la terra d’ombra bruciata e il giallo indiano in primo piano. Inoltre dal solo uso degli oli passò alla tecnica mista. La cartapesta entrò a pieno diritto nei suoi lavori. Accanto al colore, la materia prese sempre più a palpitare. Salvatore Sebaste fece, in qualche modo, sua la lezione di Dubuffet per il quale “l’arte deve nascere dalla materia e dal mezzo e deve conservare traccia del mezzo e della lotta di questo con la materia. Non solo l’uomo deve parlare” - sosteneva il pittore dell’Art Brut - “ma anche il mezzo e la materia”. Conferma l’interesse di Salvatore Sebaste verso questo genere di approccio concettuale all’arte, l’iniziativa che egli tenne a Bernalda nel giugno del 1977 insieme agli amici: lo scultore Donato Linzalata e il pittore Mimmo Festino. In quell’occasione presentarono una cartella di acqueforti dedicata agli scarabocchi infantili che secondo quanto dichiarò in pubblico in una conferenza “non sono segni fatti a caso, ma rappresentano espressione di sentimento, mezzo di liberazione e di gioia e quindi meritevoli di tutta la considerazione da parte degli adulti”. Anche in questo caso egli viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda della ricerca di Dubuffet riguardo all’arte spontanea, quando l’artista di Le Havre collezionò e propose i “Sols e Terrains”: opere di bambini realizzate con catrame, asfalto, sabbia e intonaco. Salvatore Sebaste andò, insomma, crescendo propositivamente e qualitativamente. Nella primavera del 1978 pubblicò una cartella d’incisioni dedicata allo scrittore Cesare Pavese. S’intitolava “Il santuario sulla collina”. Insieme alle sue vi erano delle acqueforti di Ernesto Treccani: con il quale intratteneva buone relazioni. Nel frattempo si andò rinsaldando l’amicizia con un gruppo di artisti e d’intellettuali: il critico letterario Franco Vitelli, il pittore Corrado Lorenzo, lo scrittore Raffaele Nigro, lo scultore Donato Linzalata, il collezionista e amatore d’arte Michele Schiuma e la fotografa tedesca Doris Eichler. Conobbe pure e frequentò il poeta di “Vidi le Muse” e “Furor mathematicus”, Leonardo Sinisgalli. Nel maggio del 1979 Salvatore Sebaste e la moglie Jò curarono la pubblicazione di una raccolta di versi del poeta-ingegnere di Montemurro. Quattordici poesie e tre incisioni contenute in un involucro di legno, un vero oggetto d’arte che “dal punto di vista tecnico” - sostenne lo stesso Sinisgalli - “poteva far gola anche a Majakoskij”. L’opera dedicata alla memoria di Giorgia De Cousandier - per anni compagna del poeta - s’intitolava “Come un ladro”. Si trattava di un’edizione preziosa e numerata contenuta in una custodia di legno grezzo, con il nome dell’autore pirografato. Per Salvatore Sebaste era l’esordio in campo editoriale 125


come curatore di edizioni artistiche pregevoli e raffinate. Con la sigla “La Spiga d’oro” vennero poi pubblicate, con acqueforti di Salvatore Sebaste, poesie e racconti di Mario Trufelli, Raffaele Nigro, Leonardo Mancino e Camilla De Ruggieri - insieme al sopra citato Leonardo Sinisgalli -. I libri d’arte, nel tempo stampati a Bernalda, furono esposti in tre importanti mostre internazionali di settore: nel 1992 a “The Museum of Modern Art” di New York e inseriti nel catalogo “The artist and the book in twentieth-century Italy” a cura di Ralph Jentsch (Torino, Ed. Allemandi), nel 1994 al “Museo Guggenheim” di Venezia e inseriti nel catalogo “I libri d’artista italiani del “900” (Torino, Ed. Allemandi) e lo stesso anno al “Palazzo Su Probanu” di Orosei in occasione di una rassegna sui libri d’artista del Novecento, sempre a cura di Ralph Jentsch. Con “La Spiga d’oro”, Salvatore Sebaste realizzò ancora una serie di cartelle con le acqueforti dei pittori lucani e degli artisti che hanno operato anche in Basilicata. Queste pubblicazioni gli furono commissionate dalla sede regionale della RAI di Basilicata, il cui direttore era Paolo Lozupone, anche studioso e collezionista d’arte contemporanea. Restiamo però nel 1979. Leonardo Sinisgalli approfittando della pubblicazione di “Come un ladro” si recò a Bernalda. Fece visita all’amico pittore. Nello studio di questi discusse di arte e di letteratura. Parlarono di amici comuni, come il critico Franco Vitelli, il pittore Ernesto Treccani. Si scambiarono uguali sentimenti verso la Basilicata, con il giudizio severo dello scrittore di “Civiltà delle macchine’ che non accettava il disinteresse verso questa regione e verso chi vi operava culturalmente. Non accettava che potessero ancora esistere al mondo sacche di analfabetismo e che i giovani restassero esclusi dai grandi processi di produzione culturale. Per questo volle incontrare i seicento alunni della locale “Scuola Media Pitagora”. Parlando dell’utilità del libro, si soffermò anche sulla pittura di Salvatore Sebaste. Al suo ritorno a Roma, Leonardo Sinisgalli gli scrisse usando l’impersonale (perché quel testo potesse essere utilizzato per una presentazione): “Delle tante opere che mi mostrò, in casa e in villa, mi scelsi dietro sua gentile sollecitudine la più piccola, una teletta quadrata di un paio di palmi, tumida come le altre, rigonfia cioè lungo una linea che puntava in alto e che sembrava alludere a una vela azzurrina su un fondo verdiccio. Poteva far pensare a un plumbeo Carrà. Quando me la portai nella mia stanza l’operina, più intensa e più severa ogni giorno che passava, mi costrinse a precisare il campo di riferimento. E per trovare qualche spunto da suggerire al mio amico” (n.d.r. Sinisgalli definisce amico Sebaste) “cercai meglio ancora di fissare nel firmamento una stella cui abbinarla, di cui potesse considerarsi un poco consanguinea. Mi fermai a Prampolini, perché era troppo evidente l’aspirazione a rifiutare qualunque analogia terrestre. Poi feci anche un altro nome in una lettera (so per esperienza che non bisogna mai temere i confronti, specie più duri, quelli che ci danno sconfitti in partenza): e fu quello glorioso di Kandinskij che in quei giorni, ammaliato com’ero io dalle profondissime riflessioni che il Maestro aveva dedicato al Punto, alla Linea, alla Superficie, vedevo come il Dio responsabile di tutto il Nuovo che si era scoperto nello spirito dell’Arte. Dissi dunque a Sebaste di accostarsi devoto alle larghe cosmogonie di Kandinskij e al laboratorio di Prampolini, perché mi sentivo sicuro che avrebbe tratto grandi vantaggi, avrebbe allargato i poteri delle sue pupille 126


e della sua mente, e naturalmente della sua mano, proprio per via della conoscenza fatta da vicino e con assiduità dell’opera dei due insigni speculatori delle Forme e delle Materie convenzionali. Ricorda - gli dissi - che Burri non è partito da molto più lontano: s’è rifatto a Prampolini più che a Dadà. Gli straccetti di Schwitters per Burri potevano aver avuto la stessa suggestione delle carte masticate di Prampolini per Sebaste. E Sebaste, davvero, aveva fatto un’indigestione di cartapeste (forse la sua nascita leccese) fino a far concorrenza ai leggendari lotofagi. (...) Me ne sono andato errando tra Agri, Sinni e Basento e lungo le sponde dello Ionio per trovare qualche ragione - come il Cavaliere inconsolabile - della paturnia, della tetraggine, della vichiana inopia di Sebaste. Mi dicevo: quest’uomo è stato sconvolto da cose che stavano nell’aria, a quest’uomo è stato negato l’éclat, gli è stata applicata la maschera dell’eterna Insoddisfazione. Ed ho avuto pietà del mio amico, di cui, tuttavia, in qualche spiraglio - uno schizzo buttato sulla tovaglia di una trattoria, una sagoma tracciata con la punta del dito sulla sabbia, un frego sulla parete dello studio - mi sforzavo di scorgere, di scoprire un principio di salvezza. Sarei andato brancolando tra infiniti richiami, tutti attendibili, tutti seducenti (basta che nomini Ernest e Dubuffet) e avrei continuato ad attingere dappertutto, alle riflessioni di Bianchi - Bandinelli sull’obsolescenza delle monete e delle medaglie, e di Fantappié sull’Entropia, mi sarei affidato ai minimi appigli, alla siderurgia, alla chimica che nei dintorni avevano alzato le loro torri lucenti, se, un po’ per caso e un po’ per miracolo, nella mia ultima visita a Bernalda, l’altro ieri, Sebaste non mi avesse aperto davanti agli occhi una pingue cartella d’incisioni del ‘78 e del ‘79 con le ultimissime prove di rilievo e di colore. Forse in sogno, forse nel dormiveglia trascinato da una forza improvvisa e fatale il mio amico ha finalmente riscoperto il colore, è riuscito a sollevare quel tetro manto o panno o velo di polvere che gli ha negato per anni il gusto della creazione e, probabilmente, la gioia di vivere. Il Mostro ottuso è stato umiliato dall’intelligenza di Apollo. Ora, dopo gli sporadici approcci al dialetto, varcato il calvario dell’inespressione, rotta la cecità della materia degradata, lo scoppio dell’allegrezza, del colore, segna il principio di una vita nuova. Sebaste può ora conciliare istinti e calcolo, mediare gentilezza e forza. (...) Concludo che bisogna capire e aiutare a capire Sebaste (come altri suoi coetanei): poche scoperte sono state così sconvolgenti come l’Ermetismo in poesia e l’Informale in pittura”. La mostra in Olanda, nel dicembre del 1979 a Enschede (NL), alla “Galleria Tardy” curata da Joh Pameijer, dette la possibilità a Salvatore Sebaste di visitare il “Kröller-Müller Museum” di Otterlo, in Olanda e l’Handbuch Museum Ludwig” di Colonia, in Germania. Gli fecero da guida Michele Schiuma e Doris Eichler, collezionisti e studiosi d’arte contemporanea che allora vivevano a Lussemburgo. Questa frequentazione lo portò a lunghe discussioni sull’arte, a intensificare la sua ricerca stilistica e a migliorare la conoscenza della cultura e dell’arte contemporanea tedesca. Furono anni meravigliosi, intensi, di pieno lavoro e di ricerca, quei formidabili anni ‘70, per l’artista ormai quasi quarantenne che, in giro per l’Europa, visitò moltissimi musei da Parigi ad Atene, da Bruxelles a Stoccarda e Monaco, da Amsterdam a Lussemburgo e a Vienna e ritornò agli Uffici di Firenze, ai Musei Vaticani, al Guggenheim di Venezia. Tra il 1977 e il 1980, la sua pittura subì almeno tre minimali variazioni: con127


servando, in ciascuno di questi passaggi storici, l’impianto formale di base. Sostanzialmente lo stile era basato sulla materia. Egli usava - a seconda dei casi - un miscuglio di colla e carta, o gesso, o sabbia. Le tecniche gestuali erano preponderanti rispetto alla ricerca di costruzione prospettica. Perciò le masse, i movimenti, erano modulati in maniera armoniosa, ma con l’intento di suggerire l’idea dell’asprezza del segno. Non mancavano i rimandi alla durezza della natura, secondo un processo messo a punto anni prima da Wols che nei suoi disegni mischiava “forme organiche” e “forme biomorfe immaginarie suggerite dalla mente semicosciente”, con l’intento di comunicare emozioni sconvolgenti. La pennellata di Salvatore Sebaste nei primi due tempi di quest’arco progressivo di trasformazioni si mantenne libera. L’uso del colore in queste due fasi era teso a creare uno spazio vago e incerto, sul quale far campeggiare una serie di vorticose composizioni. Si trattava d’immagini intuitive, astratte, primitive. La scelta cromatica fu prima giocata sull’uso di tinte terrigne e scure, fortemente contrastate tonalmente, poi sull’utilizzo di colori delicati, pastello, morbidi ed evanescenti. L’indefinitezza dello spazio raggiunse il proprio apice quando l’artista rinunciò alle tinte per lavorare bianco su bianco. Fu quello il momento in cui la plasticità si trasformò in pura visione. L’immagine, finalmente libera dalle leggi del colore, si librò in un lirismo monotonale che esaltava lo stato di visionarietà dell’arte. I campi di colore divennero così rigorosamente bianchi. Sparì qualsiasi elemento di disturbo ottico e le forme apparirono in tutta la loro potenza astratta. Sembravano degli enormi ideogrammi partoriti da una mente e da una mano - come in Barnett Newman - liberata dagli “impedimenti della memoria, dell’associazione, della nostalgia, della leggenda, del mito”. Salvatore Sebaste presentò queste opere bianco-materiche in una mostra a Potenza presso il Centro culturale d’arte “Spazio”. Dal titolo veniva fuori pienamente il tipo d’operazione pittorica effettuata dall’artista: “Dissociazione”. Proprio a sottolineare due elementi: la dissoluzione del colore e il radicale rifiuto dell’immagine. Così egli negava pure, liberandosene completamente, quell’enfasi esistenziale alla quale era stato legato nei primi decenni della sua pittura. Dava inoltre sfogo a un’estetica in cui le forme s’inseguivano in arrangiamenti armoniosi, puri, stilizzati. Di questa mostra così scrivevano Franco Corrado: “(…) Sebaste privilegia per molti aspetti il rapporto con lo spazio; quello spazio nella cui indefinitezza (Fontana non è certo passato invano) colloca forme senza alcun punto fermo, alle quali dà risalto con rapidi, essenziali, delicati tocchi cromatici o anche senza il ricorso a colori che non siano i bianchi su bianco di masse rugose – comprese quelle macerate della cartapesta – che hanno la struttura del bassorilievo” e Vittorio Sabia: “(…) Per Sebaste l’arte è “visione” ed ha oltrepassato il confine tra fisico e psichico. Perché il fisico rimane in quel segno a rilievo, in quella cartapesta sofferta, piegata e trasformata; lo psichico si legge in quei tenui colori che sanno d’intimo, di analisi sommessa, d’intuizioni appena abbozzate, ma profondamente sofferte”. Va anche detto che in Salvatore Sebaste palpita da sempre una pittoricità selvaggia per cui alla parentesi dissociazione seguì poi un’ulteriore fase di urlo del colore. Fu la stagione dei colori primari che andavano a riempire le sue figure: ancora rigorosamente astratte, informali, ma sempre più evocative di quel mon128


do primitivo che aveva rincorso seguendo la spontaneità della pittura dei bambini e affinando una tecnica dai ritmi dinamici-formali, spaziali e autenticamente matière. Parte portante era ancora la cartapesta o la tela sfrangiata, impastata con la colla e stesa con la spatola. In questi frammenti, in questi brandelli di materia - che potrebbero essere pure intesi come reperti semantici di una natura subcosciente -, riaffiorava la ricchezza cromatica della tavolozza dell’artista: il giallo, il rosso, il verde, l’azzurro, il violetto, il ranciato e il nero. S’interessarono di quei lavori il critico Franco Vitelli e lo scrittore Leonardo Mancino. Quest’ultimo, in occasione della mostra “Frammenti di memoria”, del dicembre 1982, evidenziò la tipicità della poetica di Salvatore Sebaste sostenendo come la sua rappresentasse una “presenza emblematica nel mondo dell’arte in Basilicata.” Niente di più vero in una realtà, in una regione, che fino a quel momento aveva conosciuto di diverso la visione sintetica di Mauro Masi, la deformazione espressiva di Francesco Ranaldi, la figurazione arcaicizzante di Antonio Masini, la romantica inventiva di Luigi Guerricchio, lo scandaglio etno-antropologico di Gerardo Corrado e la scultura totemica di Donato Linzalata. Altri avevano perso i contatti con la propria realtà; altri si erano omologati; altri stavano per venire fuori prepotentemente. Salvatore Sebaste rappresentava un tassello importante di questa realtà in mutamento. I primi anni ‘80 furono da lui dedicati all’attività espositiva: oltre una ventina furono le mostre collettive e non meno di dieci le personali. Partecipò a rassegne dedicate alla non violenza, alla poesia visiva, alla questione meridionale e alle lotte contadine nel secondo dopoguerra. Continuò le sue iniziative all’estero: in Olanda, in Svizzera - sempre nel cuore della mitteleuropa -. In quel periodo Salvatore Sebaste insistette molto sui moduli pittorici che fino a quel momento aveva messo a punto. Permettendosi solo qualche lieve distrazione per la poesia visiva, che pure sentiva. Furono quelli, gli anni in cui lui prese a frequentare con sempre maggiore assiduità il pittore Corrado Lorenzo attraverso il quale conobbe Joseph Beuys, del quale stampò delle incisioni (le uniche della sua produzione) nello studio calcografico di Bernalda. L’artista tedesco appose a quelle acqueforti la sua firma e il suo “bollo di patata” in Germania e fu quello un pretesto per parlare di arte, di segni, di archetipi, di “pura azione” creativa, d’intervento ecologico, di minimalismo e Land Art. Nel 1982, in occasione della mostra a Bernalda a cura dell’Amministrazione Comunale fu pubblicata “Necessaria Poiesi”, una breve monografia col testo di Franco Vitelli, critico letterario. Poi nel 1985 avvenne una nuova svolta del pittore. Come scrisse Marina Pizzarelli si aprì “un altro periodo del suo percorso, secondo cadenze materiche ed espressionistiche in cui forme primarie, umane e di tipo naturalistico trapassano in quelle di animali e di vegetali o viceversa’. In pratica l’artista tornò alla pittura-pittura: oli su tela dal gesto sbrigativo e veloce. “Una pittura fatta di segni” - scriveva ancora Marina Pizzarelli in “Il tuffo sulla collina” - “segni che partono da dimensioni interiori per raggiungere un accordo panico con il mondo, 129


attraverso immagini mitiche di grande forza visionaria e drammatica. La forma pare dilatarsi e in parte concentrarsi come un recupero di cosmicità primordiale e arcaica, con l’approdo a un paesaggio ctonio e aborigeno, talvolta magico”. E in altro periodo così sosteneva il critico d’arte: “(...) Le schegge e i frammenti diventano composizioni di masse intense come volumi, forme di concretezza plastica e spessore cromatico, tutti orchestrati nella sfera dell’organico”. Quest’attenzione di Salvatore Sebaste verso una pittura d’immagine e di superficie avvenne contemporaneamente allo svilupparsi della Transavanguardia. Il fenomeno superò ogni iniziale aspettativa. Gli artisti presero a operare con una grande quantità di linguaggi e di stili. Per la pittura si trattò di una rivoluzione culturale fortemente avvertita da Salvatore Sebaste. A quel punto egli prese a trattare le tele in maniera più riccamente colorata: con contaminazioni di masse e occupazione netta cromatica delle diverse sezioni dell’opera. Ogni lavoro fu concepito per fare da spartito calligrafico al segno: che emergeva per asportazioni di colore, graffi, sfregature. I fondi si dilatarono in una serie di tinte tenui (il grigio, l’azzurro, il verdino) e a fare da contrappunto in alcuni casi il nero d’avorio o di vite, il viola di cobalto e il bruno di Marte. Salvatore Sebaste superò in questa maniera l’ossessione del bianco. Inoltre, egli recuperò il suo antico modulo figurativo: senza forzature, senza tradire l’esperienza catartica della forma e del colore dei precedenti otto anni. Agì in sintonia con i postulati teorici allora espressi da Achille Bonito Oliva secondo cui “sul piano del processo creativo” la pittura degli anni ‘80 doveva recuperare - come di fatto recuperò - “la felicità espressiva della manualità (...), l’eclettismo stilistico e il nomadismo delle citazioni, con la riappropriazione della soggettività, non epica ma ironicamente frammentaria e domestica”. Per Salvatore Sebaste ciò coincise con la scelta di un linguaggio meno archetipo, più semantico, più decisamente volto ai miti della natura e alle cosmogonie mediterranee. Nel 1985 realizzò una lampada votiva in ferro battuto, di 1,80 x 0,40 m, che si trova nella chiesa di “Santa Maria di Collemaggio” a L’Aquila. La scultura gli fu commissionata dall’Amministrazione Comunale di Bernalda e l’artista s’ispirò alla spiga, antica moneta di Metaponto. Nel 1986 Salvatore Sebaste fu tra gli animatori della Cooperativa Arti Visive 5a Generazione, di Potenza, intorno alla quale nacque il trimestrale d’arte contemporanea ‘Perimetro’. Primo direttore responsabile fu, per un brevissimo periodo, Renato Cantore seguito da Rino Cardone. La rivista funse quale elemento di coagulo di varie esperienze artistiche. Riunì critici affermati attraverso collaborazioni fisse o occasionali. Tra loro: Achille Bonito Oliva, Enrico Crispolti, Filiberto Menna, Italo Mussa, Franco Solmi e molti giovani critici come Massimo Bignardi, Anna D’Elia, Santa Fizzarotti, Enzo Battarra, Giuseppe Frazzetto, Tonino Sicoli e Antonio Basile. Con il suo spirito indomito, mosso da un carattere assertivo e determinato, Salvatore Sebaste fu tra gli animatori più attenti e vivaci della rivista autogestita da un primo gruppo di tre pittori: Giovanni Cafarelli (direttore), Felice Lovisco e Marco Santoro, seguiti da Gerardo Cosenza, Arcangelo Moles (art director), Giuseppe Filardi, Salvatore Comminiello, Luigi Lapetina e Vincenzo Dettole. 130


Nell’attività artistica di Salvatore Sebaste, ciò coincise con la sua apertura al mondo della giovane critica e con una serie di partecipazioni in fiere e rassegne d’arte in campo nazionale. Conclusa l’esperienza di “Perimetro” e della Cooperativa Arti Visive 5a Generazione - tra il 1986 e il 1987 -, l’artista si ripiegò nel suo lavoro, avviando una riflessione sul senso e sul significato, sull’attualità e le contraddizioni dell’arte. In quella breve pausa di meditazione e rifugio nel privato vennero fuori ancora nuove opere presentate nella mostra a “La Scaletta” di Matera, intitolata “Dallo zoccolo di Pegaso sgorgò l’acqua della vita”. In quell’occasione così scrisse lo scrittore Gaetano Cappelli: “L’artista lascia che la materia si addensi in spessi, avviluppanti vortici di colore; la dirada in repentine, sinuose sfilacciature; siderei filamenti del nucleo primigenio che così appare sospeso in un’intricata trama, viva e in movimento, restituendo nell’opera compiuta tutta la velocità e la carica gestuale dell’atto creativo. Qui nel tormentato magma cromatico, nel flusso continuo di colore irrorato da piacevoli sprazzi elettrici, battute nervose, guizzanti variazioni, è dato leggere il decantarsi dell’arte nella sua forma più pura, in cui lo scontro con la materia si risolve nell’estinzione dell’oggetto a favore dell’atto stesso del dipingere, dove il segno perde il suo carattere di rappresentazione e diventa puro movimento, dinamica estroflessione dell’essere in una sorta di primitiva, vitalistica acquisizione del reale con l’intensità con cui ogni singolo colore vi viene assunto”. Ancora una volta toccò a uno scrittore scrivere una bella pagina sulla pittura di Salvatore Sebaste. In passato era toccato a Mario Trufelli, Raffaele Nigro e Leonardo Mancino. Con il primo, egli è legato da lunga e intensa amicizia. Con testi dell’uno e acqueforti dell’altro, per “La Spiga d’oro” sono state pubblicate pregevoli e raffinate cartelle e libri d’arte: “Lucania”, “Archeologia contro luce”, “Coincidenze”, “Al battito dell’ala” e infine il volume “Lo specchio sul comò”. Con Raffaele Nigro ha pubblicato invece “Radiocronache per Sirio” e con Leonardo Mancino “Viaggiatore di parole”. Tra il 1987 e il 1990 Salvatore Sebaste subì le influenze della pittura newyorkese. L’esuberante manipolazione stilistica della cultura metropolitana divenne il suo linguaggio. Il disegno prese la forma del graffito: scarno, crudo, rapidamente tracciato sulla tela come in “E il sole spaventò l’albero della cuccagna”, “Ed Eolo si tuffò nella luce” e in “Acino secco: fiumi di sangue”. Già dai titoli di questi lavori si avvertiva l’afflato modernista che solo sei anni prima aveva portato l’americana Sherrie Levine a denunciare con veemenza: “Il mondo è pieno fino a soffocare. L’uomo ha posto il suo segno su ogni pietra. Ogni parola, ogni immagine, è affittata e ipotecata... Di conseguenza il pittore, il plagiario, non reca più in sé passione, umori, sentimenti, impressioni, ma piuttosto questa immensa enciclopedia cui attinge”. Gli echi di questa cultura urbana, fondata su una sorta d’impetuosità geroglifica e su una simbolicità espressa per frammenti nervosi d’immagine, giunsero fino a Salvatore Sebaste attraverso il graffitista americano A One venuto in Italia, a Novoli, su invito del pittore Corrado Lorenzo. Sul limite degli anni ‘90 Salvatore Sebaste approdò a un genere di pittura dal tratto traumatico, provocatorio, aggressivo, eclettico e iconograficamente allegorico. L’artista continuò inoltre a lavorare sui grandi formati. Fece sintesi di tutti i suoi periodi pittorici precedenti. Il suo segno divenne ancor più libe131


ro, primitivo, innocente. Vi si avvertiva la cultura dello scarabocchio: del gesto buttato lì quasi per caso, ma frutto di un’elaborazione progettuale, attenta e rigorosa. Attraverso il dripping (gli sgocciolamenti di colore) egli arrivò a realizzare dei rovesciamenti di prospettiva. Gli spazi erano organizzati in maniera tale da costringere l’osservatore prima verso il centro dell’opera e poi da lì - attraverso un artificio pittorico giocato sulle linee - verso i margini esterni del quadro. Si trattava d’illusioni prospettiche in cui a un segno istintivo e irrazionale si accompagnava una costruzione surreale, quasi gorkyana, della superficie. Al caos semantico-iconografico Salvatore Sebaste preferì però l’essenzialità del disegno, l’armonia tonale e l’equilibrio volumetrico-spaziale. Il critico olandese Joh Pameijer nel presentarne la mostra “Lotta nel colore”, nel dicembre del 1990, alla galleria “Emilio Lorenzo” di Moers in Germania, scrisse: “Questi lavori hanno una palese aggressività, stimolano, eccitano. Eppure nelle varie composizioni vi è un equilibrio, un senso benefico di equilibrio. (...) Egli lavora in modo prettamente intuitivo, quasi impulsivo, con l’emozionalità gestuale tipica del suo Paese d’origine”. Negli anni successivi si susseguirono le mostre all’estero (ad Amburgo, a Düsseldorf, a Zurigo) e in tutta Italia. Nel 1991 è a Primissima, settimanale di cultura del tg1 a cura di Gianni Raviele. Così recensiva Mario Trufelli nel testo critico “I Sassi in Germania”. “(…) Matera con i suoi Sassi ha trovato un’altra singolare interpretazione nella mano esercitata di un artista solare e immaginifico, Salvatore Sebaste, che ha compiuto in questi suoi quadri, dove c’è un brulicare di tensioni vitali, una fantastica risalita alle sorgenti recuperando un gesto e un segno primitivi, le preistoriche incisioni rupestri, la magia dei riti arcaici. “Omaggio a Matera” s’intitolano, le personali di Salvatore Sebaste a Düsseldorf e ad Amburgo, con l’imprimatur della critica più qualificata da Segato a De Grada, da Bertacchini a Cavallari. Pur partendo da un preciso riferimento alle immagini reali del mondo, in queste opere, Salvatore Sebaste ha donato al suo temperamento d’artista partito dalla chiarità mediterranea, il gusto, la gioia dell’invenzione. Non vi sono figure umane, in questi quadri, ma vi è la sublimazione di tutto ciò che ha la vita”. Sempre nel 1991 è inserito con due lastrine 2 x 2 cm al M.I.M.I., nel Museo della Microincisione di Roma e all’Accademia della Finanza di Bergamo che volle acquisire nel suo patrimonio: “Sul rosso dell’albero canta il grillo”, olio su tela di 90 x 120 cm del 1987 e 10 acquerelli di 50 x 70 cm. Nella prima metà degli anni ’90 - come abbiamo già avuto modo di sottolineare la grammatica narrativa di Salvatore Sebaste è andata sempre più basandosi sul principio di indeterminazione conoscitiva. Il suo universo semiotico risulta, infatti, eternamente diviso tra comunicazione e significazione. Ciò ha fatto di lui un produttore ideale di figure e di gesti. Egli ha difficilmente superato la soglia che separa i segni dalle cose. L’artista ha seguito insomma uno spazio semantico libero da codici e da regole, perfettamente calato nei sensi. Ben riusciti sono i suoi tentativi di andare oltre il colore e la sua replicabilità. Salvatore Sebaste - anche in questa fase - affermò il proprio carattere attraverso continue variazioni tintotonali, ricorrendo a garbate intrusioni di segni cinesici (basati sulla somiglianza con l’oggetto rappresentato). In questa produzione non pose un limite netto tra la rappresentazione iconica e l’immagine convenzionale-astratta: per lui ogni esperienza percettiva si trasformò, così, in un veicolo grafico di emozioni. 132


La testura espressiva fornita dai suoi lavori - in questo fine decennio - è assai precisa per contenuti artistici e per modulazioni segniche. In ogni sua opera ancora una volta si respirava, come sempre era accaduto in passato, armonia, equilibrio e ritmo. Salvatore Sebaste si confermò così artista on the road: all’eterna ricerca dei paradisi metafisici dello sbalordimento e della contemplazione. La sua ricerca stilistica, con la fine degli anni ‘90, si è andata sempre più incentrando oltre che sull’estetica - valore ineludibile dell’arte - anche su quel complesso universo di tipologie culturali in cui le credenze si trasformano in miti, le ideologie in comportamenti sociali e i segni in simboli. Ne è conferma la rinnovata dimensione archetipale che sovrasta i lavori pittorici di questo periodo. Salvatore Sebaste ha insomma di nuovo cambiato linguaggio: seppure minimamente, se si considerano le diverse fasi da lui attraversate nei precedenti venti anni. Ha dimostrato in questa maniera il proprio carattere ribelle, irrequieto e geniale. La pittura di Salvatore Sebaste si è fatta più vicina a quel mondo atavico che appartiene alla memoria storica dell’uomo. Il paesaggio in questo caso non è altro, per lui, che un prolungamento dell’essere primordiale che è in ciascuno di noi. La tavolozza cromatica di quest’artista è andata facendosi sempre più appassionata e al tempo stesso fluida e densa. Ribadiamo che le sue composizioni sono per nulla statiche. Questo perché lui, la materiacolorante, la intende in senso plastico prima che pittorico. E questa è una sua caratteristica antica. In questa ricerca di unità compositiva c’è in Salvatore Sebaste un altalenare di sentimenti e di opinioni. Il dilemma che lo attanaglia - non c’è che dire, appare sempre più chiaro - è dove finisca il talento e inizi la genialità. E da bravo bohémien romantico con il dubbio - ne troviamo conferma nei suoi vecchi e nuovi lavori -, ingaggia una dura battaglia: sistematicamente, ogni qualvolta si pone a dipingere. Ne esce però vincitore - lo abbiamo visto - mediante proposte ardite per impostazione formale e per costruzione stilistica. Massimo Guastella, recensendolo sul “Quotidiano” di Lecce, così scriveva sulle opere di questo periodo: “Gli impasti cromatici realizzati da Salvatore Sebaste a partire dagli anni Novanta, andrebbero intesi come affermazione della materia e del gesto, della sregolatezza compositiva e del linguaggio dei segni, della libertà formale e della spontaneità creativa. (…) Nel definire gli spazi magmatici elaborati da Salvatore Sebaste, prevale nel riguardante, o meglio nello scrivente, una sorta d’incertezza. Non dipinti, ma strati di cartapesta, applicata a supporti lignei, su cui si addensa la materia, ispessita dalle paste di colore rosso, giallo, blu, verde, rosa, azzurro sprizzanti dai tubetti compressi con le dita. Le opere dai titoli che parrebbero allusivi – “Sole di mezzogiorno”, “Piogge rosse”, “Fiamma all’orizzonte”, “Fradici tutti”, “Chiave dei sogni”, “In un lampo” – oltrepassano i contenuti e si danno come forme indefinite e incompiute. Colgo le tracce a rilievo, intuisco le sagome figurali, osservo le increspature di carte: l’impressione che traggo, vedendo galleggiare i frammenti di cartone ondulato sulle campiture materiche fuse, è quella di un moto lento e perpetuo in uno spazio privo di confini, che esalta a tratti i virtuosismi esecutivi nelle stesure, volutamente imprecise e grossolane, delle paste policrome. 133


Quante le possibili letture suggerite da queste opere? Molte. Forse. È preferibile, tuttavia, non suggerire rigide interpretazioni che potrebbero alterare i risultati previsti dallo stesso autore, unico depositario dei suoi segreti ideativi e creativi; attore assoluto d’un racconto enigmatico, di una narrazione astratta senza principio e senza fine composta da brani di una storia che è simile a un gioco divertente che termina dove inizia e viceversa. E l’artista fa esplicita ammissione dell’aspetto ludico delle sue composizioni. (…) Un viaggio liberatorio di relazioni e contatti che l’artista ha compiuto alla ricerca di segno autentico e originale; un viaggio non disgiunto a sensazioni, stimoli, pulsioni, istinti, suggestioni, ideali, sedimentati nell’inconscio da cui emergono, attraverso l’artificio, stati emozionali ed energie liberatorie”. Particolarmente interessanti risultano le sue policromie plastiche. Si tratta di cartapeste - ancora una volta, seppure diverse - molto colorate, fruibili a tutto tondo. Le sorregge un’asticella di plexiglas o di ottone. In questi lavori la forma prevale sul segno, ma mai sul colore. Anziché sull’alternanza dei vuoti e dei pieni, o sulla sinuosità della forma, queste sculture sono approntate sulla verticalità e sull’orizzontalità degli spazi. La disposizione delle une e delle altre risulta ben ordinata. L’effetto euritmico è scontato. I titoli di questi lavori - “Cime profumate”, “Palpito inconsueto”, - danno il segno di un ulteriore tentativo dell’artista di muoversi dentro natura. Prendendo per questo a spunto una vita che nasce, una vita che muore, un sentimento, una passione o la guglia di un monte o un fiore profumato. Dalla genialità della natura alla genialità dell’arte. Come ha sostenuto Donato Valli - già Rettore dell’Università degli Studi di Lecce - “possiamo essere certi che non siamo all’ultima tappa del cammino di Sebaste. Egli è un artista “itinerante”, non conosce la sedentarietà. D’altra parte è arrivato a un vertice in cui, dopo aver attraversato l’esperienza dell’avanguardia, la poetica del colore ha attinto il suo punto di fusione, di reversibilità, e quindi di dilatazione delle potenzialità espressive. Una volta svincolato il segno non solo dalla mimesi realistica, non solo dalla metafora figurativa delle avanguardie storiche, non solo dalla stessa frantumazione onirica dell’astratto e dell’informale, ma dalla stessa razionalità sottesa alla coerenza conativa della pittura, Sebaste ha davanti a sé una plaga indefinita di soluzioni, non esclusa quella di una riconquista del figurativo, che di tanto in tanto lo attira con un sentimento d’inappagata nostalgia. Ma allora quando ciò avviene, come a volta è avvenuto, è fatale che un’increspatura di superiore ironia continui a ricondurci al presentimento di altri cieli e altre vite”. Un profilo particolare merita la produzione seriale di Salvatore Sebaste. L’artista pratica da sempre, sin dagli esordi della sua ricerca pittorica, con estrema disinvoltura e padronanza di segno: l’acquaforte, l’acquatinta, la cera molle, la punta secca e la maniera nera (sono diverse centinaia le lastre incise). Vanno iscritte in tale produzione seriale, di tipo calcografico, anche taluni lavori della fine degli anni ‘70 primi anni 80, in cui l’artista più che soffermarsi sul segno si cimentò sulla forma. Molto concretamente Salvatore Sebaste, in quegli anni, realizzò degli stampi (matrici) cui sovrapporre la carta d’incisione inumidita: un tantino di più - tanto per intenderci - di come la si “inzuppi” d’acqua prima di passarla sotto il torchio calcografico per la stampa dell’incisione d’autore. 134


Tentativi di produzione seriale diversa dal solito, hanno spesso accompagnato la carriera di quest’artista che nell’acquaforte, come nell’acquatinta, ha spesso trovato negli anni rifugio creativo dall’esperienza informale e astratta. Qui, nell’incisione, ha trovato, infatti, territorio fertile la sua migliore produzione figurativa (pur sempre di matrice espressionista, pur sempre facendo tesoro dell’assunto picassiano secondo il quale il migliore artista è colui che è cieco al mondo, ma attento alla natura interiore delle cose). Opere calcografiche di Salvatore Sebaste sono state, nel tempo, acquisite in varie collezioni pubbliche e private al mondo come ad esempio il “Museo” di Bagnacavallo che ospita una raccolta sistematica (monotematica e specialistica di altissimo livello qualitativo e storico) d’incisioni d’ogni genere. Una delle caratteristiche delle acqueforti di Salvatore Sebaste è che l’artista v’interviene a posteriori per acquerellarle. Si tratta di pregevoli ritocchi a pennello che rendono i lavori più in sintonia con la naturale vocazione dell’artista più al colore, che al tratto o al segno. Ne è conferma la cartella intitolata “Un ponte verso il cielo” (pubblicata dall’artista nel 1994). In sei acqueforti, rigorosamente acquerellate a mano, Salvatore Sebaste descrive (con testi di Francesca Amendola) le tradizioni religiose del popolo lucano: la festa della Bruna di Matera, il culto di san Bernardino a Bernalda, la processione dei Turchi a Potenza, la devozione alla Madonna di Viggiano, i riti del venerdì santo di Barile e la festa del “Maggio” ad Accettura. Nel tempo sono state davvero numerose le pubblicazioni di questo tipo realizzate da Salvatore Sebaste. Per un approfondimento su tale argomento si rimanda il lettore alla parte precedente di questo testo, in cui sono trattati i rapporti dell’artista con poeti e scrittori. Ci soffermiamo invece, a questo punto, su una delle singolarità artistiche di Salvatore Sebaste: che spesso si è concesso pause di riflessione di tipo conoscitivo. Durante questi periodi egli ha indagato la realtà sul piano semantico e stilisticoespressivo: alla ricerca di un tratto che coniugasse gli aspetti figurali del paesaggio e della natura, con le tensioni astratto-cognitive della sua intellettualità creativa. Durante queste fasi Salvatore Sebaste ha sempre dato piena centralità a quella forza espressiva che è insita nella fisicità stessa delle cose visibili: le quali appartengono a quei “regni della creazione” da cui prende le “mosse” la vita stessa. È il caso di alcune presenze umane che entrano in questi quadri di “ripensamento” o anche di alcuni galli, angeli alati, demoni e animali fantastici che fanno da veri e propri padroni in queste tele dall’ossessione visuale fagocitante la sua naturale predilezione alla lettura significante della realtà. Anoall Lejacard ebbe modo di sottolineare a proposito di una di queste mostre di “stazionamento” e di autoanalisi pittorico-critica, che Salvatore Sebaste è un artista che torna talvolta “a criticare il formalismo della tradizione”, operando con “ascendenze surrealiste e concettuali” tali da dar vita successivamente - sottolinea lo stesso critico olandese - a “un nuovo stile in cui l’apparenza etnica non è del tutto repressa, ma rivalutata in virtù di una dichiarazione di appartenenza a un luogo che è vita e cultura”. Insomma Salvatore Sebaste si dimostra artista intimamente legato al “genius loci” della nostra memoria di uomini. E per questo 135


la sua pittura risente di questi “altalenamenti” concettuali-espressivi che alla lunga anziché distrarre da quella che è la sua linea di tendenza immaginificopittorica, rappresentano invece il suo stile: impulsivo e geniale, antimetodico per eccellenza e inquieto per natura. Lasciamo ora questa divagazione sul tema per tornare a una più stretta trattazione storica - cronologicamente parlando - del lavoro di quest’artista: la cui dinamicità, alternata a momenti di riflessione (sempre per dirla con le parole di Anoall Lejacard), lo porta sistematicamente a rifuggire da una sorta di nostalgico pieno che mai si addice a un artista in eterna ricerca come lui. La più recente produzione artistica di Salvatore Sebaste - quella per intenderci che parte dalla seconda metà degli anni ‘90 - è rappresentata da una forte prevalenza di carte e cartoni, quale supporto materico della propria produzione pittorica. L’artista fa inoltre un frequente ricorso a particolari “pigmenti sintetici” (e a “composti aggreganti”), che gli assicurano una tavolozza cromatica molto più splendente e molto più caldamente tonale rispetto al recente passato: addirittura con l’emissione di radiazioni luminose percepibili anche in condizioni di scarsa visibilità ambientale. È il caso di alcuni gialli, verdi, azzurri, lilla, grigi e viola di particolare intensità espressiva. L’altro aspetto da tenere presente nella più recente produzione pittorica di Salvatore Sebaste (insieme alla papier-collé) è la papier-maché di picassiana memoria. Gertrude Staine ci ha introdotti ai piaceri di questa particolare tecnica adottata dal pittore spagnolo, ma è indubbio negare che ad essa Salvatore Sebaste ha dato una calibratura più contemporanea e in sintonia con i valori del post-modernismo imperante. L’artista dell’informalismo entropico (parliamo evidentemente di Salvatore Sebaste) pone all’interno della tela, e cioè all’interno del suo spazio compositivo, oltre che ai colori, alle forme, alle figure e alle cartapeste, tutte di propria invenzione fantastica, anche materiali d’altro genere come ad esempio il cuoio e la colla. E su di essi interviene, successivamente, ad impianto formale ormai già impostato, attraverso il fuoco. La sua grande maestria sta nel governare questo elemento, di fatto così devastante, a suo uso e consumo. Le fiamme insomma non lo spaventano e diventano parte aggregante del suo processo immaginifico già iniziato con la strutturazione di massima dell’opera. Di questo periodo era originale una serie di carte e cartoni che non rispettavano il rettangolo, la forma e che sfondavano il piano prospettico e compositivo dell’opera. Gillo Dorfles ha elogiato “l’originale tecnica inventata dall’artista e così gustosamente interpretata”. Si trattava di lavori a forte entropia semantica: dove il segno di fatto viveva per dare slancio alle diverse partiture euritmiche del colore. Di questo periodo apparivano estremamente interessanti le opere in cui erano accentuate le diverse variazioni di spessore date alle carte e ai cartoni e a tutti gli altri materiali adoperati dall’artista, non con il gusto dell’environment dell’arte concettuale, ma con il piacere del recupero estetico di quei reperti materici altrimenti non destinati - se non fosse intervenuta quest’operazione di ricerca e di riproposta creativa dell’artista - a varcare i simulacri eterni dell’arte, dello spazio e del tempo. 136


In queste carte e cartoni - fortemente smarginati, dove il bordo viveva quanto il punto aureo dell’opera - c’era una grande vibrazione di toni e di tinte; c’era una sorta di alchimia luministica che avvampava la scena stessa del quadro. In questi stessi lavori la congerie di segni e di forme era estremamente dosata: scritta cioè da Salvatore Sebaste con del colore magmatico, sgocciolato o spatolato, o in certi casi - addirittura - con una massa cromatica che sembrava buttata lì per caso, ma che così non era, in quanto l’elaborazione fattuale non ha mai sopravanzato in lui l’idea stessa. È impossibile inoltre negare che Salvatore Sebaste, per quanto appaia fortemente legato all’effetto di casualità è un artista che ama e sa progettare, a posteriori, l’intero processo creativo che lo affiancherà durante tutto il suo lavoro. La sua maggiore genialità sta però nel fatto di riuscire a volgere a sé quegli elementi di diversità o di imponderabilità, che eventualmente dovessero frapporsi sulla strada della sua realizzazione artistica. Un discorso specifico e a parte meritano certamente le opere plastiche realizzate da quest’artista estremamente eclettico e innovativo, in continua trasformazione. Parliamo in primo luogo di taluni ferri battuti, dove emerge prepotente il segno arcaico di Salvatore Sebaste: quel segno che è del graffitismo metropolitano, ma che appartiene in speciale modo a quella semantica archetipale cui quest’artista non si è mai sottratto, sin dalle sue prime esperienze espressioniste e astratto-informali. Di questi lavori resta una considerevole traccia nell’abitazione-studio di Metaponto: luogo, ancor oggi, d’incontri tra artisti e intellettuali, ove discutere delle ultime tendenze dell’arte e progettare nuove iniziative culturali. Qui, in questa casa, è nata l’idea, recepita dall’Amministrazione Comunale di Bernalda, di dare vita in questo centro del basso materano, a una Pinacoteca di Arte Contemporanea: unica per il momento nel suo genere in Basilicata e che sicuramente verrà affiancata da un’iniziativa analoga a Castronuovo Sant’Andrea, ad opera di quello storico dell’arte che è Giuseppe Appella (che di Salvatore Sebaste, Donato Linzalata, Mauro Masi e Antonio Masini ha, nel mese di agosto 1998, tratteggiato un profilo critico in occasione di un convegno sull’identità lucana dell’arte, tenuto proprio a Castronuovo Sant’Andrea). A questa serie di opere scultoree - vere e proprie policromie plastiche - di Salvatore Sebaste appartengono oltre ai suddetti trafori di ferro battuto, anche delle cartapeste a tutto tondo, nelle quali l’artista dimostra sapiente attenzione nei confronti del linguaggio euritmico della scultura. Si tratta di opere in cui alla classica contrapposizione dei “vuoti” e dei “pieni”, egli mette di fronte il gusto e il piacere della forma sinuosa e accattivante: in qualche modo naturale prolungamento della sua voglia di esprimersi in pittura. E proprio la pittura resta il suo maggiore punto di forza. Qui egli dichiara, con estrema prepotenza, la sua genialità artistica e creativa fatta di piccoli punti di fuga cromatici e di forme che chiamano altre forme: in uno scenario immaginifico ricco di rimandi a quel “mondo della causa” cui lui felicemente attinge - da sempre - attraverso la natura. E la natura che lui ci mostra, in queste sue più recenti opere, è calata in quella “dimensione primigenia” che, di fatto, è all’origine dell’universo intero. Insomma Salvatore Sebaste, di stagione in stagione, è giunto fino a noi con estre137


mo candore giovanile: che è poi quel quid in più che gli consente di non adagiarsi mai in una stagione di ricordi, bensì di procedere - fermo e risoluto - verso nuove e più fantastiche sperimentazioni, sempre all’avanguardia e per di ciò stesso fuori delle cosiddette condizioni governate del mercato dell’arte. Ne fanno tesoro i suoi tentativi di governare ad esempio la cera o quell’assurdo liquido nero, denso, vischioso e di odore caratteristico che è il catrame. Nell’uno e l’altro caso Salvatore Sebaste si è dimostrato particolarmente attento a ogni variazione tecnica, che mettesse in qualche modo in discussione la semantica stessa del suo linguaggio. Una semantica cui egli, di fatto, non rinuncia: da sempre, seppure con piccoli e periodici avanzamenti che alla lunga hanno stravolto e rivoluzionato i contenuti estetici della sua pittura, che è al tempo stesso lirica e “pragmatica” in senso stilistico. Max Bollag (il gallerista svizzero di ampia fama internazionale per il suo patrimonio di Van Gogh) continua a stargli dietro con grande attenzione e, di recente, ne ha perfino firmato una recensione critica, in cui elogia le qualità pittoriche di quest’artista che ci piace definire immarcescibile nel gusto e incorruttibile in tutta la sua attività: persino quella editoriale che l’ha visto “sfornare” alla fine del 1998 “Pensieri in movimento”, un interessante diario di appunti e riflessioni critiche su e intorno all’arte, arricchito da numerosi suoi disegni. Antonio De Siena, (nel fotografare le qualità umane e creative dell’artista), così ha scritto nella presentazione: “Salvatore Sebaste nel proporsi ai suoi interlocutori, abituali o occasionali, indipendentemente dalla loro condizione sociale, o impegno professionale, ha sempre una leggera smorfia del viso accompagnata da un sorriso contenuto con cui marca un suo naturale atteggiamento d’attesa, di forte curiosità. Il volto quasi s’illumina e si coglie una disponibilità ad ascoltare, a ricevere. Si prova subito la sensazione di avere di fronte una persona vivace, attenta, tuttavia disarmante nella sua bonaria semplicità d’animo. Il tutto tradisce la presenza d’interesse ‘culturale’, equilibrio interiore, maturità. Leggendo il suo diario, a cominciare dalle prime riflessioni raccolte nell’agosto del 1972, si ha l’opportunità di seguirne gli umori, ma soprattutto di vivere con lui le fasi dinamiche del ripensamento, dell’arricchimento specialmente dopo l’incontro con un grande maestro, dopo le esperienze didattiche, dopo l’osservazione di un gruppo di bambini con matita in mano alle prese con un foglio bianco o dopo aver colto la poesia di un episodio offerto dalla natura. È decisamente stimolante e coinvolgente rifare con lui lo stesso percorso di maturità, umana e artistica. Non ci sono i tormenti, le rivolte, i picchi nervosi dell’invasamento, dell’esaltazione creativa, né le lunghe dissertazioni filosofiche sui rapporti tra estetica ed etica, ma solo semplici pensieri in movimento, passione per il lavoro, amore per l’arte intesa da lui come possesso di un mezzo espressivo, autonomia, libertà, provocazione di sensazioni, strumento per dare visibilità alle proprie emozioni, per comunicare. L’ambiente esterno, in tutte le sue manifestazioni e forme, l’ha sempre condizionato, aiutato a crescere. Alla base della formazione di Sebaste possono essere, infatti, individuati quali componenti primarie la naturale vivacità di spirito e l’esperienza che gli proviene dalla realtà quotidiana vissuta in modo intenso. (…) Una sottile autoironia lo porta a non prendersi troppo sul serio e questo certamente è positivo, perché è una qualità che non si trova molto facilmente”. Nel frattempo è andata avanti l’attività espositiva di questo pittore da tempo 138


ormai proteso verso il mercato nord europeo e degli U.S.A.. Grande richiamo di critica hanno ottenuto ad esempio, alla fine del 1997, certi suoi lavori (“collage di carte e cartoni”) consegnati a New York a venti italoamericani di fama internazionale. Si è trattato di un’iniziativa condotta dall’Agenzia regionale di promozione turistica per la Basilicata, volta ad accreditare - laddove ce ne fosse ancora bisogno - nel Nord America l’immagine dell’arte contemporanea italiana. Un’operazione, questa, più che riuscita a guardare i consensi ricevuti da quest’artista che ha saputo andare oltre l’esperienza, peraltro ben apprezzata in America, di Roberto Burri: fino agli anni ‘70 grande sperimentatore del materico in pittura. A differenza però dell’artista marchigiano (che resta un profeta della pittura contemporanea), Salvatore Sebaste non si è fermato all’esclusiva manipolazione dei materiali (che sono stati, anche per l’artista di origine salentina: la sabbia e la tela iuta), ma ha introdotto nell’opera il gusto estremo del colore. E le sue tinte, i suoi toni - quelli di Salvatore Sebaste - salvo rare eccezioni, anche adesso che fa ricorso a nuove alchimie cromatiche, sono sempre estremamente solari e pieni di luce. Nella nuova stagione creativa di Salvatore Sebaste, quella che guarda alla fine del secondo Millennio, intravediamo ulteriori capovolgimenti: pur in sintonia con il suo “filo conduttore”, con quel “file rouge” artistico, che lo guida da anni dentro un filone di ricerca e sperimentazione stilistica dell’arte.

Ricordiamo che la documentazione artistica di Sebaste si trova negli archivi storici: della Biennale di Venezia, della Quadriennale di Roma, della Galleria nazionale d’Arte Moderna di Roma, della Galleria per l’Arte Italiana del Novecento di Firenze, del Dipartimento delle Arti Visive dell’Università degli Studi di Bologna e della Schweizerische Gesellschaft der freund von kunst di Max Bollag di Zurigo e al Museum of Modern Art di New York.

Rino Cardone, testo critico monografia “Sebaste”, Edizioni Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto, 1999. 139


Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

Intervista D. Cosa ricordi degli anni in cui frequentavi il Magistero di Belle Arti a Firenze? R. In quel periodo ero solo molto impegnato nell’apprendimento scolastico e, nel tempo libero, amavo visitare musei e chiese per conoscere meglio le opere dei grandi maestri dell’arte. Ho incontrato in quegli anni personaggi favolosi come il professor Alessandro Parronchi, il quale dopo aver visto alcuni miei studi dei monumenti di Firenze, mi obbligò a frequentare anche la sezione di grafica. Lì ho imparato a incidere lastre di metallo e pietre litografiche e a stampare incisioni e litografie. L’esperienza del Magistero per me è stata molto positiva poiché, iscritto alla sezione arredamento, dovevo frequentare i vari laboratori di: pittura, scultura, tessitura, falegnameria, pubblicità, lavorazione dei metalli smaltati, le cui conoscenze mi sono servite in seguito nella mia attività creativa. D. Che cosa ricordi della tua amicizia con Tono Zancanaro, delle sue opere, del suo carattere sornione, ma autentico al tempo stesso? R. Quando, negli anni ‘60, fui incaricato dal presidente della pro loco di Montalbano Jonico di andare a prelevare Tono Zancanaro, che faceva parte della giuria del Premio Nazionale di pittura, all’aeroporto di Grottaglie, nessuno mi aveva descritto il personaggio. Lo cercavo tra i passeggeri e, stavo quasi per andare via, quando scorsi uno strano tipo con i capelli bianchi, il viso tondo e rubicondo, con sandali e vestito lercio e una valigetta legata con lo spago. Sembrava più un barbone che uno dei maggiori artisti del Novecento. Timidamente mi avvicinai e ci presentammo. In macchina, durante il viaggio, facemmo subito amicizia e mi raccontò, in un linguaggio molto personale e con grande entusiasmo, dei suoi viaggi nel mondo, ove aveva approfondito le varie culture. Capii allora di essere di fronte ad un grande artista, a un uomo molto colto, che non badava alla forma, ma rifletteva, e invitava anche me a farlo, sull’essenza delle cose e della vita. Da allora, Tono ripetutamente tornò in Basilicata e la amò fino alla morte. Io spesso lo accompagnavo nei musei di Metaponto e di Policoro, agli scavi della Magna Grecia, dove s’ispirava alle forme classiche per le sue opere. Io lo osservavo in silenzio, mentre con la sua penna tracciava su decine e decine di fogli di carta pochi segni che diventavano personaggi della Magna Grecia, permeati di satira sociale. 140


Tono mi ha insegnato a capire che l’artista non è un personaggio estroso che si ubriaca o si droga, ma è un lavoratore come tutti gli altri lavoratori, che ogni giorno deve lavorare e rispettare la propria storia. D. Anche il pittore Ernesto Treccani seguì il tuo lavoro. Quale influenza ebbe su di te, in termini d’impegno sociale, lui che aveva fatto della pittura un atto estremo di denuncia e di partecipazione politica? R. Quando Ernesto Treccani nei primi anni Sessanta vide le mie opere nel mio studio di Bernalda, mostrò qualche perplessità riguardo ai contenuti e ammise, però, che avevo un buon mestiere e che sapevo adoperare bene i colori. Mi suggerì di andare in giro per la Basilicata “per capire e vedere, per avere il contatto diretto con la gente e con il paesaggio lucano”. Dopo un attimo d’esitazione iniziale, apprezzai molto la sua sincerità e accettai il consiglio. Trovai poi l’ispirazione per i miei lavori. D. Ernesto Treccani in ogni caso apprezzò il tuo impegno nell’arte, dentro la pittura, tant’è che poi in un suo scritto egli anticipò quelle che furono le tue scelte nei periodi successivi. R. Treccani si ricredette sulla mia attività artistica. Mi seguì tanto che siamo rimasti amici e ci stimiamo ancora oggi. Naturalmente Ernesto è più grande di me, io ho molto rispetto di lui e ancora ho da imparare da questo personaggio. D. Allora, essere pittori della sinistra, pittori dell’apparato, significava avere molti vantaggi e tu pur non facesti questo genere di scelta. R. Io no, non lo feci, anche se mi ritengo intellettualmente e socialmente impegnato, perché lo sono stato sin da ragazzo; ma io non condivido il fatto di schierarsi categoricamente da una parte. Io ho sempre ritenuto che l’artista deve essere libero anche per la scelta dei suoi temi, per criticare le manchevolezze della società, per migliorarla, perché l’arte è vivere la storia del momento e, per poterla vivere intensamente, l’artista deve essere sopra le parti. D. “La Scaletta” di Matera è stata un’esperienza importante per te. Che cosa credi di aver ricevuto da questo sodalizio culturale? R. Io devo ringraziare molti amici del circolo culturale “La Scaletta” di Matera come Michele e Raffaello De Ruggieri, Franco Palumbo, Vincenzo Padula, Alfonso Pontrandolfi, Mauro Padula, Giorgio Corazza, Mario Tommaselli, Maria Sinatra, solo per ricordare alcuni nomi, che mi accettarono subito come socio e mi trattarono come uno di loro. Ricordo i vivaci dibattiti culturali, le riunioni periodiche dei soci e le approfondite conversazioni sui più svariati problemi economici, politici, culturali, artistici della città e della regione che contribuirono notevolmente alla mia formazione socio-culturale-artistica. 141


D. Che cosa hai dato tu in cambio? R. Soprattutto una corretta amicizia e stima con tutti i soci e massima collaborazione nelle iniziative organizzate de “La Scaletta”. Quando divenni presidente del circolo, cercai di creare una struttura parallela, che riguardava le arti figurative. Nacque, quindi, la “Scuola libera di grafica”, punto d’incontro regionale degli artisti che impararono a incidere le lastre di metallo. In questa scuola, però, non si realizzavano solo acqueforti, ma si tenevano importanti incontri culturali. Parlavamo di letteratura, di poesia, di scienze, di estetica, di filosofia dell’arte, di sociologia, di psicologia, di percezione delle forme, poiché ritengo che il vero artista non debba soltanto saper disegnare, dipingere, incidere, scolpire, ma deve possedere molta cultura. Col tempo, però, tutte le cose si evolvono e si modificano, com’è nella storia. Lo stesso è stato per la “Scuola Libera di Grafica”, che è diventata la “Grafica dei sette dolori”. Alcuni di quei personaggi sono diventati bravi incisori, altri sono andati via; ai primi se ne sono aggiunti altri, ma è venuto meno lo spirito primario dell’iniziativa: il coinvolgimento degli intellettuali e degli artisti della regione per una crescita civile e culturale, onde potersi confrontare a livello nazionale e nel mondo. D. Attraverso la “Scuola libera di grafica” e “La Scaletta” di Matera hai conosciuto molti artisti. Possiamo fare qualche nome? R. Tra i tanti personaggi che io ho conosciuto ricordo specialmente Mino Maccari che, noi giovani pittori di allora, considerammo anche “maestro di vita”, poiché ci spronò a esprimere liberamente il nostro pensiero svincolato da strumentalizzazioni d’ogni genere e a diffonderlo con gli strumenti a nostra disposizione; ricordo poi Pietro Consagra, José Ortega e tanti altri. D. Come nacque la tua amicizia con Leonardo Sinisgalli e a cosa portò. Che cosa ricordi delle sue visite a Bernalda nel tuo studio e delle vostre andate in trattoria da Fifina? R. “La Scaletta” organizzò una mostra allo scultore Pietro Consagra. Fui incaricato dal presidente del circolo di andare a prelevare da Montemurro il poeta Leonardo Sinisgalli con la moglie e il figlio Filippo per portarli a Matera, all’inaugurazione della mostra. Io e mia moglie Jò per tutta la giornata ci mettemmo a disposizione degli ospiti. Al primo approccio col poeta, mi accorsi subito di trovarmi di fronte ad un gran personaggio, che la moglie Giorgia chiamava “il mio principe turco”. Lungo il percorso da Montemurro a Matera, attraversammo la valle dell’Agri e, nel paesaggio argilloso, lunare spuntavano grossi tubi che, partendo dalla diga del Pertusillo, portavano la preziosa acqua nei paesi della Basilicata sino all’assetata Puglia. Il poeta mi fece notare che quel luogo arido, percorso da quei grandi tubi, sembrava il deserto del Sinai dove lui era stato a visitare gli impianti petroliferi con Enrico Mattei. Poi mi disse: “Speriamo che un giorno quei tubi dell’acqua siano affiancati da quelli dell’oro nero”! 142


Leonardo mi ha incoraggiato a essere sempre me stesso, suggerendomi di portare sempre avanti le idee in cui credo perché prima o poi esse si realizzano. Cosa che poi ho fatto nella mia vita! D. Sinisgalli, in un suo scritto riferito alla tua pittura, ti chiama, per tre volte, amico. Ci fu, quindi, un rapporto intenso tra voi? R. Sì, ci fu un rapporto bellissimo fra noi perché nacquero subito simpatia e stima, anche con la moglie Giorgia, nobildonna parigina. La simpatia si tramutò ben presto in amicizia. Svariate volte, infatti, è stato mio ospite a Bernalda perché amava riposarsi e respirare aria pulita in una casa di campagna di mio suocero. Gli piaceva anche gustare i sapori della cucina lucana o a casa mia o alla trattoria “Fifina”, ritrovo d’intellettuali e di artisti. Quando io andavo a Montemurro o a Roma, dopo aver parlato a lungo d’arte, di poesia, delle sue amicizie a Milano quando era alla “Olivetti”, della rivista “Civiltà delle macchine”, mi portava in trattoria, o a casa sua consumavamo una cenetta preparata da Giorgia e da Jò, sotto lo sguardo attento di un meraviglioso gatto, che i padroni di casa tanto amavano. Se Leonardo fosse vissuto più a lungo, avremmo certamente realizzato insieme cose straordinarie. D. Questo contatto con Leonardo Sinisgalli si aprì a un collegamento più diretto con il mondo della scuola, dove già operavi. Con i ragazzi, hai dato vita a una conferenza tenuta a Bernalda con Sinisgalli e poi hai realizzato una serie d’iniziative parallele. Ce ne vuoi parlare? R. Sulla spiaggia di Metaponto, un pomeriggio mentre chiacchieravamo io, Leonardo, Giorgia e Jò, nacque l’idea di realizzare il libro d’arte “Come un ladro”, con versi inediti e acqueforti del poeta. Stampammo nel mio studio calcografico le sue incisioni, lavoro che lo divertì molto. Presentammo questo pregiatissimo libro, in cinquanta copie, alla Scuola Media di Bernalda, dove io insegnavo. Fu un gran successo. Oltre seicento ragazzi accolsero il poeta con entusiasmo e recitarono le poesie pubblicate. Poi Sinisgalli commosso parlò dell’utilità del libro. Li invogliò a leggere paragonando il libro a uno strumento di lavoro come la cazzuola per il muratore, il pennello per l’imbianchino, la falce per il mietitore, il martello per il fabbro, facendo capire ai ragazzi che, per non essere schiavi in una società libera, bisogna essere istruiti. Finita la cerimonia, riuscii a farmi dare il manoscritto del discorso. Dopo diversi anni, sempre in questa scuola, rispolverammo quel discorso e, per rendere omaggio a Leonardo Sinisgalli, realizzammo il libro dal titolo “Fabbricare un libro a Bernalda”, iniziando dalla ricerca iconografica, letteraria, sino alla cucitura del libro. Io penso che, conoscendo bene il poeta Leonardo, dal mondo dell’aldilà, sarà rimasto contento della lezione educativa data nella Scuola Media di Bernalda. 143


La speranza di Sinisgalli s’inverò in quest’opera e divenne per i giovani, eredità e impegno a non tradire il messaggio di civiltà, di pace e di cultura consegnatoci dal poeta quell’indimenticabile giorno di maggio del 1979. D. Tu per questo lavoro editoriale sei stato aiutato in qualche modo da tua moglie, che ti segue costantemente. Quanto influisce ancora oggi la presenza femminile nel tuo lavoro? R. Qualsiasi cosa io faccia, mi consiglio sempre con lei, la quale mi ha aiutato molto, anzi mi ha sempre invogliato a fare. Mia moglie non è una donna che mi ha distratto, anzi mi ha seguito e continua a seguirmi stimolandomi e dandomi ottimi consigli che io riscontro continuamente. Anche in questo lavoro editoriale Jò mi è stata di grande aiuto, come per la realizzazione d’altri lavori di poeti che abbiamo pubblicato. D. Tu hai stretto molte amicizie con pittori e scrittori importanti e, tra questi, Mario Trufelli, Leonardo Mancino, Raffaele Nigro. Come mai questa propensione verso gli scrittori, i poeti, gli artisti e meno verso i critici d’arte che pure meglio avrebbero potuto fare la tua fortuna? R. Bisognerebbe definire chi sono i critici d’arte. Secondo me i poeti sono più interessanti per una lettura delle opere d’arte, perché io penso che l’arte figurativa sia fantasia, poesia. Il poeta si esprime con le parole, l’artista con le forme, ma entrambi hanno le stesse esigenze. Comunque, penso anche che la scelta sia stata fatta poiché i poeti e gli scrittori m’insegnano a sognare. D. Attraverso la rivista “Perimetro” e la cooperativa “Arti visive 5a generazione” ti sei potuto accostare al mondo della giovane critica d’arte. Quell’esperienza ti ha preso molto in termini di energie. Che cosa rimproveri agli artisti che erano con te in quell’iniziativa? R. Di non aver capito un fatto molto importante: noi del meridione non abbiamo strutture e lo stare insieme tutti quanti avrebbe potuto far produrre qualcosa di utile non solo a noi, ma a tutta la società lucana. Questo io rimprovero a questi artisti con i quali sono ancora amico, però credo che non abbiamo saputo guardare lontano. D. Attraverso l’amico pittore Corrado Lorenzo hai avuto modo di conoscere Beuys e A One. Da che punto di vista quest’esperienza è stata esaltante? R. Il fatto di conoscere le opere e anche Beuys mi ha impegnato a guardarmi intorno e, in particolar modo, a guardare con rispetto la natura. Lui amava molto l’ambiente, era per la tutela della natura, era un artista dell’arte povera. Praticamente diceva che, tutto ciò che è in natura, è opera d’arte; e penso che avesse proprio ragione. 144


Di A One, questo piccolo negretto, ricordo che godeva nel dipingere, che si muoveva liberamente improvvisando danze sacre, trasferendo tutta l’energia del suo corpo sulla tela. Proprio lui mi fece convincere che, in ogni opera d’arte, c’è energia cosmica e che l’artista è solo il tramite fra il cosmo e l’umanità. D. Nel tuo studio calcografico di Bernalda hai stampato numerose incisioni di Beuys, Treccani, Guerricchio, Schifano, Ortega... Tu artista nei panni dell’artigiano come ti senti? R. Io non mi sono mai vergognato di fare l’artigiano, perché penso che un bravo artista debba essere prima un esperto artigiano che deve conoscere le tecniche per poterne inventare delle altre. L’artigiano produce oggetti utili alla vita quotidiana, l’artista invece produce oggetti che fanno pensare e sognare. D. Ti sei spesso impegnato, lo abbiamo detto anche prima, in iniziative editoriali. A quale scopo? Tu, artista in primo luogo, solo per gioco prestato al mondo della stampa? R. Io sono stato sempre attento al mondo dell’editoria. Ho viaggiato molto, ho avuto tipografi amici al Nord, come il proprietario della Fotocromo Emiliana che stampa per le più importanti case editrici italiane. Da noi non ci sono editori d’arte, non si producono cartelle d’arte, libri d’arte. Io ho tentato di coprire questo vuoto prima con la “Scuola libera di grafica” a Matera e poi a spese mie, naturalmente rischiando. D. Ortega è uno di quegli artisti che non ti figurano sufficientemente accanto. Come mai non vi è stata alcuna cooperazione fra voi? R. Non lo so, può darsi che questa collaborazione non ci sia stata per colpa di qualcuno, anche se c’era stima e amicizia fra noi. Lo incontravo spesso a Bosco, un paesino in provincia di Salerno, dove aveva ristrutturato, in modo personale, una vecchia abitazione che gli serviva per riposarsi quando tornava dai suoi lunghi viaggi e dove abbiamo fatto abbondanti bevute di ottima sangria, prodotta da lui. Comunque io ho stampato nel mio studio due sue lastre: una che fu inserita nel libro d’arte “Lo specchio sul comò” di Mario Trufelli, dove nove amici illustrammo i racconti e gli dedicammo un’acquaforte; l’altra fu stampata su commissione del Rotary Club di Potenza. D. Tu hai illustrato numerosi volumi di poesie e scritti di Mario Trufelli. Senti la sua poetica particolarmente vicina alla tua? R. Io sento molto vicino a me tre poeti lucani: Leonardo Sinisgalli, Rocco Scotellaro e Mario Trufelli. Da quest’ultimo mi piace sentire recitare “Lucania’ o il “Carrettiere”. Questi versi mi stimolano, perché mi piacciono. 145


D. Come hai conosciuto il gallerista Max Bollag di Zurigo, personaggio molto importante in campo europeo e internazionale e battitore d’aste di arte antica e contemporanea? R. Negli anni ‘60, durante uno dei viaggi con mia moglie, ci fermammo a Zurigo e capitammo proprio vicino la sua galleria che evidenziava quattro enormi vetrine per l’esposizione di quadri e di sculture. Entrammo nella galleria e ci soffermammo su un quadro di El Greco. Si avvicinò, dopo qualche istante, un uomo anziano che si presentò e mi chiese se io fossi pittore. Parlava abbastanza bene l’italiano e mi disse che si era accorto che io ero un intenditore d’arte dalla maniera con cui guardavo quel quadro. Mi propose di vedere anche un Picasso. Poi mi portò negli scantinati e mi fece osservare svariati Picasso, Cezanne, Pissarro e, quindi, nacque subito fra noi tanta simpatia. E così, stimolato da mia moglie, feci vedere con gran timore a questo gallerista, di grande cultura e umanità, alcuni miei disegni che avevo in macchina. Bollag, dopo aver osservato attentamente questi disegni, disse che voleva comprarli, ma era in difficoltà poiché essendo sabato, le banche erano chiuse. Non aveva altra disponibilità che i soldi che aveva in tasca. Buttò, quindi, i franchi svizzeri che aveva sullo scrittoio, ne prese alcuni per una piccola colazione (così ci disse) e ci offrì tutto in cambio dei miei lavori. Io e mia moglie ci guardammo negli occhi e accettammo. Ci servivano proprio quei franchi! Da allora si stabilì una collaborazione che dura ancora adesso. Tutte le volte che passo da Zurigo, lo vado a trovare, stiamo insieme, m’invita a pranzo e parliamo di arte e di artisti. Ogni tanto mi arriva un dépliant da qualche città del mondo su cui sono elencati gli artisti che partecipano con le loro opere all’asta della Galleria di Zurigo. Tra questi c’è sempre il mio nome. D. So del gruppo culturale “La Peronospera”, delle famose poetiche riunioni conviviali a Potenza, Porto Cesareo, Metaponto, Giovinazzo, Grottaglie, Novoli, Bari e Bergamo. Qual è lo spirito di questo gruppo e cosa vi dite durante le riunioni? R. Questo gruppo nacque a Potenza da un’idea di Paolo Lozupone, Alberto Lomeo, Antonio Cretì, Enzo De Filippis, che in quella città lavoravano e, per passare il tempo la sera, giocavano a ‘tressette’ e cenavano insieme. Poi decisero di allargare questo gruppo ad amici di altre città e nacque “La Peronospera”, con sedi in svariate città. Si aggiunsero così Salvatore Sebaste, Ginetto Guerricchio, Titta Del Prete, Corrado Lorenzo, Giuseppe La Nave, Mimì Scoppio e altri. Le riunioni, frequentate da persone così diverse culturalmente (medici, artisti, intellettuali) sono, per tutti noi, momenti magici. Oggi è difficile riunire intellettuali, con funzioni anche di grande responsabilità 146


sociale, che stanno ad ascoltare e cercare di capirsi reciprocamente. Noi de “La Peronospera” riusciamo a discutere in piena libertà, affrontando con ironia, problemi che vanno dalla letteratura alla musica, dalla medicina all’attualità, dall’arte alla politica. I nostri incontri, in rituale ludico, sono conversazioni conviviali di un momento collettivo di spersonalizzazione, nel superamento dei vari narcisismi. D. I rapporti con i collezionisti e il mercato dell’arte. R. Per quanto riguarda il mercato dell’arte io me ne sono sempre un pochino infischiato. Ricordo che, quando producevo quadri che avevano il sapore di ricerca antropologica ed erano più leggibili, vendevo abbastanza. Io non credo all’artista che, una volta trovato il suo filone, per tutta la vita produce le stesse cose solo perché deve soddisfare un certo mercato. L’arte per me, invece, è una continua ricerca di forme, di colori, di suoni e, quando diventa facile produrla, vado alla ricerca di nuove forme, per non sentirmi già morto. D. Per questo più volte hai modificato il tuo modo di dipingere? R. Ho incominciato a lavorare a tredici, quattordici anni e, riguardando quelle mie vecchie opere fino a quelle più importanti che ho prodotto oggi, trovo (e non solo io) sempre un filo conduttore che unisce tutte le mie forme. Solo che ogni volta la ricerca diventa più approfondita e diversa, ma sempre pregna di creatività, la stessa che si riscontra nell’universo. D. Hai iniziato a dipingere a tredici, quattordici anni e, poco meno che ventenne, preparavi i colori da te stesso. R. Quand’ero ragazzo non avevo tanti soldi per comprare i colori. Mio padre era un artigiano falegname. Io lo guardavo attentamente quando egli stuccava gli infissi con polveri colorate mescolate alla colla di coniglio, oppure quando si preparava i colori a olio, macinandoli con uno speciale attrezzo. Affascinato da tutto questo, rubacchiavo un po’ di polveri colorate, le mescolavo all’olio di lino e preparavo i miei colori che mi servivano per dipingere su alcuni pezzi di lenzuola consumate. Inconsapevolmente già allora facevo dell’informale, perché i miei colori spesso scolavano, distruggendo il bel disegno realizzato prima a carboncino. Credo e spero che queste tele esistano ancora. D. Quale carattere riconosci alla tua pittura? R. Un carattere forte, violento che rispecchia la mia natura interiore e il mondo che mi circonda. Io ritengo che esso sia di una dolcezza armoniosa e di una violenza eccezionale, perché c’è sempre il più forte, che vuole sovrastare il più debole. La mia pittura vuole essere una denuncia di tutto questo, mentre io sogno un mondo e, in particolare un uomo, in un universo musicale. 147


D. Che cosa pensi resterà di te, della tua pittura, della tua arte? R. Può darsi anche niente, non lo so, come può darsi che rimanga tutto. Io mi auguro che rimanga naturalmente molto, ma certamente resterà una cosa molto interessante: quella di aver insegnato a scuola ai miei ragazzi a preferire una macchia di colore a una riproduzione fedele della natura. Questo mi sembra un risultato molto importante. D. Hai preparato, dunque, questi adolescenti alla lettura dell’astratto. R. Non solo dell’astratto, ma anche dell’informale, dell’arte povera, della transavanguardia e di tutte quelle correnti artistiche che rappresentano la nostra storia, senza trascurare la storia dell’arte del passato. L’uomo di oggi deve amare le cose che si producono oggi, non può vivere con i ricordi del passato che appartengono solo alla storia. D. Osservando i tuoi quadri emergono masse e volumi di colore, che quasi piacciono accarezzare. In questa proposta non c’è nulla di casuale? R. Volutamente ho fatto questo perché la gente oggi ama il consumismo, è abituata alla pubblicità. Oggi tutto è palpato, tutto è goduto in maniera veloce, all’istante. Io ho pensato: perché non fare consumare, possedere anche la mia opera d’arte? Perché l’opera d’arte deve essere vista come un’icona solo da ammirare? Nell’era spaziale dove il tempo-spazio è stato superato dalla luce-spazio l’opera d’arte non può essere solo contemplata.

Rino Cardone Dalla Monografia “Salvatore Sebaste”, Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto, 1999 148


Claudio Spadoni - Ravenna storico dell’arte direttore artistico MAR

Al Palazzo dell’Annunziata Questa mostra di Salvatore Sebaste dovrebbe essere l’occasione più opportuna per riconsiderare tutto il suo ormai lungo percorso. Un percorso quarantennale - la sua prima personale risale al 1958, a Firenze - che si è snodato fra vicende e situazioni artistiche anche molto diverse, a debita distanza dalle rotte più frequentate e senza comunque ignorarle, o perderle di vista. Un percorso, insomma, consapevolmente orientato nel senso di un’identità forte, anche nei passaggi all’apparenza più rischiosi, nelle difficili scommesse di una condizione periferica, ovvero dove i conti si dovevano fare tra un personale retroterra con ascendenze culturali irrinunciabili e i richiami di un’attualità che poteva anche prefigurarsi come urgenza di un coinvolgimento diretto, di un impegno precipuamente morale. E fu subito, quasi inevitabilmente, come anche per molti altri, la condizione di quello che convenzionalmente si definì realismo. Con tutti i suoi modelli storici, i pronunciamenti programmatici e gli accenti anche regionalistici ostentati, magari, in contrapposizione a un incipiente internazionalismo linguistico inteso come opzione puramente formalista, e dunque, come si diceva allora, ‘decadente’ e inevitabilmente ‘borghese’. Non furono tempi facili, anche se ormai, nei pieni anni Cinquanta molte questioni si stavano decantando e l’orizzonte internazionale induceva a considerare le opzioni ling-uistiche in più allargate prospettive. Sebaste, pur avvertendo pienamente il senso dell’appartenenza a una geografia della cultura - che per lui non poteva che essere a tinte solari, e di una solarità meridionale, mediterranea - si era nutrito d’altre suggestioni: più nordiche, per cosi dire, ad agitare, sommuovere ogni memoria, o sogno di classicità. Dalla Tosca149


na di Primo Conti e Rosai, per intenderci (e a monte, ecco rispuntare Giotto e Masaccio, chissà quanto ammirati) a certo espressionismo mitteleuropeo d’inizio secolo. Che non era mai apparso una condizione artistico - ideologica molto congeniale alla sensibilità italica. In altri termini, la questione era insieme di natura linguistica e morale, con una gamma di possibili riferimenti che chiamavano in causa al tempo stesso vicende internazionali e per contro un pensiero della ‘provincia’, inteso in tutta la nobiltà storica e la ricchezza d’inflessioni che ha assunto nel nostro Paese. Erano, forse, gli ultimi, orgogliosi sussulti della provincia prima che prendesse il sopravvento quel processo di globalizzazione che ha portato una progressiva perdita delle identità locali. E non traggano in inganno certe recenti ‘scoperte’ - si fa per dire - di peculiarità etniche, opportunamente confezionate e servite proprio dalle maggiori istituzioni, pubbliche e mercantili, responsabili di ogni omologazione nell’ottica del cosmopolitismo linguistico. Condizioni non proprio prevedibili in quei tempi di diatribe ancora imperniate sulla pittura, figurativa o astratta, realista o informale che potesse definirsi. Sebaste rimestava gli umori della sua vena espressionista, da un lato non rinunciando alla nota familiare, all’aneddoto locale, alle inflessioni perfino popolaresche sul motivo conduttore di una cultura contadina; dall’altro, puntando più in profondità ben avvertendo le seduzioni di una materia come caricata di valenza mitica. Ed è proprio in quest’ottica che l’artista elabora in termini personalissimi una poetica della materia che richiama uno dei motivi conduttori dell’Informale, giunto ormai al termine della sua parabola storica. E s’intende che si tratta pur sempre di una materia percorsa da risonanze interiori, da echi lontani, anche e anzi soprattutto là dove tornano a prevalere motivi e accenti volutamente popolareschi, nella preoccupazione di un impegno sociale irrinunciabile, di una solidarietà o comunità d’intenti con compagni di strada, artisti e letterati. E dopo il tempo, nemmeno breve e comunque sofferto, della sperimentazione della materia povera - prima rielaborata in ‘grafismi’ perfino a rischio di compiacimento decorativo, talora assunta come ‘mater-materia’, come ‘archetipo’, o ancora come ‘frammento’ o memoria - ecco ricaricarsi quasi dall’interno la materia colore nella sua rinnovata forza narrativa. Come avrebbe scritto benissimo Sinisgalli: “Ora, dopo gli sporadici approcci al dialetto, varcato il calvario dell’inespresso, rotta la cecità della materia degradata, lo scoppio dell’allegrezza, del colore, segna il principio di una vita nuova”. Una vita ormai guidata da matura consapevolezza, da riflessioni condotte senza preclusioni su alcuni nodi centrali della storia artistica del nostro secolo: da Kandinskij a Dubuffet, come ho avuto già occasione di rilevare, indicando così due poli sicuramente lontani ma ugualmente significativi per la cultura visiva contemporanea. Pensare 150


alla valenza dei segni e dei colori, al kandinskiano ‘spirituale’ dell’arte, e al tempo stesso alla materia come luogo primario, preculturale, come regressione a una primordiale fenomenologia dei segni, voleva dire saggiare alcuni momenti cruciali del dibattito sulla modernità, su ciò che si poteva intendere per modernità. E per Sebaste si comprende bene come la modernità avesse, e abbia pur sempre, tuttora, un cuore antico. Materia - memoria, per riandare a Bergson, sembra appunto un binomio che calza a pennello alla sua pittura. Dove la materia, nel lavoro di Sebaste, assume il senso di sedimentazioni storiche incancellabili, di una ‘durata della coscienza’ ben di là dalle scansioni temporali che ritmano, quasi scolasticamente, il trascorrere dei fenomeni artistici, delle mode culturali, delle tendenze. II lungo lavoro di Sebaste, le sue diverse fasi - se così vogliamo chiamarle - manifestano comunque questa sua esigenza di rimanere legato, anche di là dalle trasformazioni linguistiche, del suo singolare ‘nomadismo’ nei territori della pittura, a un’identità che si rispecchia in una propria dimensione culturale e nelle ragioni, come prima si è detto, di un’appartenenza geografica. Mario Trufelli, altro poeta lucano e come Sinisgalli amico di Sebaste, parlava acutamente di “un brulicare di tensioni vitali, una fantastica risalita alle sorgenti recuperando un gesto e un segno primitivi ...”. E aggiungeva: “Non vi sono figure umane, in questi quadri, ma vi è la sublimazione di tutto ciò che ha la vita”. Sia dunque, la sua pittura, d’impianto figurale o risolta entro il lavorio della materia, dei suoi processi metamorfici di sapore neoinformale, resta, e anzi prende sempre più rilievo la sua propensione evocativa di un arcano, diciamo pure di un ‘magico’ che sta nelle cose, e appunto nella materia stessa. Nel ronzio seducente dei suoi lontani rimandi, dunque nella ‘durata’ di un pensiero mitico che può resistere, nonostante tutto, al trascorrere del tempo.

Claudio Spadoni, Testimonianza mostra al “Palazzo dell’Annunziata”, Matera, 2 giugno 2000. 151


Rino Cardone - Potenza giornalista storico dell’arte

Genialità creativa Una ricca calligrafia semantica fa da corredo alle più recenti policromie plastiche di Salvatore Sebaste. Si tratta di lavori, in morbido bassorilievo o a tutto tondo, dove il concetto classico della scultura/pittura (qui inteso quale successione di masse e di forme, di luci e di ombre: da qualsiasi materiale esse provengano, senza distinzione alcuna anche di tecniche adoperate nella loro realizzazione) è completamente rimodulato in chiave personale e astratto/espressiva. Ne deriva una diversa visione, da parte dell’artista, dell’ornato plastico e della plasticità cromatica: così com’esse sono comunemente intese nel mondo artistico accademico. A tal punto che potremmo definire questi suoi ultimi lavori: neo sperimentali per la particolare scelta, da lui intrapresa, nella selezione delle linee e dei punti di forza (che poi sono la causa determinante del cosiddetto baricentro compositivo) e postmoderni nel tipo di soluzione, da lui adottata, sia al momento della costruzione degli impianti prospettici, sia nella manipolazione successiva delle masse, sia ancora nella proposta finale dei volumi. L’artista ha, in effetti, trovato quel genere di soluzione, che è al tempo stesso estetico/formale e intellettiva, che gli consente di realizzare dei lavori in cui non si sa bene il punto in cui finisce la struttura-bidimensionale-cromatica ed ha inizio invece la costruzione-tridimensionale-plastica, e viceversa. Ciò è in parte dovuto al genere, davvero inconsueto per la verità, di materiale plastico-sintetico da lui adoperato, ma in parte anche alle inusuali tecniche d’assemblaggio e di “mordentatura” da lui, impiegate nella realizzazione di queste opere. Oltre a questo, concorre a rivoluzionare la consueta idea euritmico/accademica di scultura/pittura, la diversa filosofia dello spazio da lui adottata nella realizzazione di questi suoi ultimi lavori. Potremmo allora parlare di minimalismo sintetico o addirittura di modellati dinamici nel caso di questi pezzi, che sono singolari: sia nella loro impostazione espressivo/astratta, sia nella loro inconsueta linea immaginifica, sia nella loro particolare stesura artigianale. L’aspetto che più d’ogni altro vogliamo però qui evidenziare, in questa lettura analitica, è il tipo di genialità creativa che muove 152


queste opere: liriche nell’impianto cromatico e ardite nelle soluzioni espressive. Esse sono il risultato di anni e anni di lavoro dentro e fuori la papier maché e dentro e fuori la papier collé: ovvero nell’uso della cartapesta e nell’assemblaggio di frammenti di materiali vari, con continui sconfinamenti nell’area più strettamente storica della pittura. In questi suoi più recenti lavori - firmati anno Duemila - Salvatore Sebaste rievoca, visivamente, come già più volte accaduto da venti anni a questa parte, l’interpretazione antica del mito, inteso però non come racconto figurativo dell’arcano e dell’occulto (per lo meno in maniera non esclusiva), ma rilevato nella sua forma più archetipa: che prima ancora di divenire epica di un preciso vissuto storico (attraverso quella sorta di narrazione affabulativa che è tipica dei poeti, come degli scrittori, come anche dei pittori citazionisti e manieristi) è innanzi tutto segno, qui interpretato nella sua forma primigenia (come quello che solo i pittori astratti sono in grado di ottenere dalla materia attraverso l’uso espressionista della forma e la partecipazione indefinita della figura). Ci troviamo insomma alla presenza di lavori: moderni sul piano dell’impianto cognitivo e dell’effetto fantastico e sensazionale, astratti nella loro impostazione stilistico/formale, vigorosamente espressionisti nella soluzione cromatica, tali da offrire intense vibrazioni emotive in chi le osserva. Questo è in parte dovuto alla corretta modulazione dei chiari e degli scuri (realizzata “step to step”, “a passo a passo”, con “caricamenti” e “svuotamenti” di colore sul piano prospettico), ma anche a quel tipo di grinzosità materica che Salvatore Sebaste riesce ad ottenere, sulla tela e sul cartone, vuoi con l’uso di colle particolari e di alchimie sintetiche, vuoi con l’impiego del fuoco - adoperando la fiamma ossidrica in corso d’opera -. Osservando anche questi ultimi lavori, di quest’artista salentino di nascita, lucano d’adozione e cosmopolita per vocazione, non ci si potrà mai stancare di far notare: sia la ricchezza semantica della tessitura segnica, sia la particolare costruzione entropica dei piccoli piani, sovrapposti l’uno sull’altro a determinare l’effetto tonale conclusivo. Nelle sculture a tutto tondo, intitolate “Nuova forma”, “Paesaggio di luce” e “L’intruso inconsapevole”, Salvatore Sebaste sviluppa - come già accennato in precedenza - una nuova filosofia dello spazio. Alle “rotture” provocate dai vuoti, egli contrappone, infatti, la sinuosità delle linee; alla “espressività” dei volumi pone invece in alternativa i tagli netti e perpendicolari della sagoma. La costruzione dell’opera è svolta in verticale, con leggeri arretramenti della superficie che ne movimentano la percezione emotiva, a livello tattile e visivo. Sia egli usi il grigio, il giallo o il verde, come colore dominante, queste policromie plastiche verticali (dell’artista che sin dagli anni ’70 ha amato sempre riferirsi alle qualità intrinseche e ai limiti percettivi della materia) risultano “forti” sul piano emo153


zionale e interessanti nel tipo d’ideazione creativa. Nei lavori bidimensionali, con leggere forme in bassorilievo, intitolati “Il gioco del grillo”, “Danza mediterranea”, “Canto della cicala”, “Salti mediati” e “Emozioni”, Salvatore Sebaste dimostra buona maestria oltre che nell’estensione attiva e dinamica del colore, anche nella “partitura” degli spazi. Avrebbe potuto, infatti, adottare la soluzione del piano unico, ma ha preferito invece ricorrere al suo “frazionamento” in multipli di due. Si tratta di una soluzione, difficile e ardita sul piano dell’equilibrio compositivo, ma comunque ben risolta dall’artista. Una soluzione estetica, la sua, che ritorna pure, frequentemente, oltre che perimetralmente, anche all’interno dell’opera, sia nel ripetersi - ordinato e distratto al tempo stesso - delle forme concave e convesse, sia nell’alternarsi delle figure astratte. Il due che appare nella divisione degli spazi di Salvatore Sebaste rimanda in qualche modo alla dualità della vita: il bene e il male, il positivo e il negativo, il vuoto e il pieno, la luce e la tenebra. Non sappiamo esattamente se tale scelta di campo, effettuata dall’artista, sia ancora una volta casuale (come nella gran parte delle preferenze da lui adottate in campo estetico) o sia invece essa ben meditata, ben ponderata, esclusivamente voluta sul piano della comunicazione e della scelta del messaggio. Quello che è certo è che Salvatore Sebaste ci ha abituati, da sempre, a un genere di proposta creativa in cui il medium colore e il medium materia rappresentano, essi stessi, il messaggio: un po’ come accade nei mezzi di comunicazione di massa, secondo la teoria di Marshall Mac-Luhan. Una annotazione particolare meritano le dimensioni di queste ultime opere: davvero notevoli sul piano dello sviluppo sia orizzontale (come in “Salti mediati” e in “Emozioni”) che verticale (“Nuova forma”, “Paesaggio di luce” e “L’intruso inconsapevole”). Del resto, c’è da dire, che Salvatore Sebaste ci aveva abituati sì, in passato, a soluzioni di questo genere, ma nelle opere or ora citate (come anche in: “Danza Mediterranea”, “Il gioco del grillo” e nel “Canto della Cicala”) lo sviluppo geometrico dei piani è tale da creare una sorta di allungamento, se non addirittura - in alcuni casi - di frazionamento, del punto aureo dell’opera. A tal punto, possiamo ritenere che in questi lavori, non esiste un unico cuore pulsante, ma un’infinità di piccoli palpiti di luci e di forme, disseminati lungo svariati assi di attenzione e innumerevoli, infime, profondità - unite una all’altra a creare un magico e indeterminato effetto d’infinito -.

Rino Cardone, Dal Catalogo Mostra, “Policromie plastiche”, Palazzo dell’Annunziata, Matera, 2000. 154


Pasquale Doria - Matera giornalista esperto d’arte

Sebaste, una ricerca spinta oltre la pittura e la scultura. Dieci, cento, mille Salvatore Sebaste. Per la nostra realtà, ma anche altrove c’é bisogno di ‘lievito’. Di personaggi che fanno crescere le cose. Anche quando suscitano polemiche. L’ansia che un paio di anni fa caratterizzava i suoi discorsi era autentica. Quasi a voler sondare le reazioni, aveva confessato ad alcuni amici: “Voglio spendere le mie migliori energie per questo progetto”. Quale progetto? “Quello di dar vita ad una Pinacoteca comunale d’arte moderna”. Sebaste, tra un mare di critiche, scetticismi e incomprensioni, quell’obiettivo lo ha raggiunto. È lui l’anima della Pinacoteca di Bernalda e Metaponto. Una sorta di ‘provocazione’ che in molti, soprattutto del suo stesso ambiente forse non gli perdoneranno mai. Eppure, se si lascia per un momento da parte una cospicua fetta di giudizi negativi, bisogna ammettere che nella sua iniziativa c’è tanto di buono. Di più, sarebbe auspicabile l’attivismo di almeno ‘un Sebaste’ per ogni comune lucano. Un esempio può rendere meglio l’idea. Fu lui che nel 1980, con una buona dose di coraggio, stampò otto acqueforti di Joseph Beuys, le uniche realizzate dall’artista tedesco. Hanno visto la luce nel laboratorio calcografico avviato nel ‘66 a Bernalda, nella cittadina jonica divenuta ben presto laboratorio, luogo di ideazione e fecondi scambi con artisti provenienti da ogni parte del mondo. Sebaste è salentino, il suo accento lo tradisce. È però anche bernaldese, metapontino, lucano d’adozione, nonché cosmopolita per vocazione. Del resto, svolge la sua attività tra Roma, Bologna e Milano. Ma è a Bernalda che ha insegnato per molti anni educazione artistica. E questa sua propensione positivamente pedagogica, per chi si muove sull’affollato fronte della cronaca quotidiana, appare una chiave di lettura giusta per avvicinarsi al personaggio. Coinvolgere uno studente lucano, un giovane che geograficamente lontano dai grandi centri di produzione culturale, riuscire a portarlo a contatto diretto con un’opera d’arte, è una nobile intenzione che non ha bisogno di tanti giri di parole. Ed è con questa stessa voluta ingenuità, lontana dalla miseria dei retropensieri, che andrebbe letta la sua recente monografia. Un’opera sorprendente per la qualità della proposta. Viene ricostruito un percorro artistico lungo 40 anni. Lo descrive con grande impegno Rino Cardone, secondo cui “quello che è certo, è che Sebaste ci ha abituati, da sempre, ad un genere di proposta creativa in cui il medium colore e il medium materia rappresentano, 155


essi stessi, il messaggio”. Con questo viatico risulterà più agevole la visita alla mostra che sta per chiudere i battenti, al Palazzo dell’Annunziata. Sono una settantina le opere policrome esposte, alcune anche di grandi dimensioni, realizzate con tecniche differenti. Nel volume di presentazione di questi lavori, tra gli aspetti evidenziati da Cardone spicca il tipo di genialità creativa di Sebaste. Le sue opere vengono definite “liriche nell’impianto cromatico ed ardite nelle soluzioni espressive. Esse sono il risultato di anni e anni di lavoro dentro e fuori la papier maché e dentro e fuori la papier collé: ovvero sia nell’uso della cartapesta e sia nell’assemblaggio di frammenti di materiali vari, con continui sconfinamenti nell’area più strettamente storica della pittura”. Ed è vero, la rigidità dei confini tra pittura e scultura con Sebaste vive una salutare perdita di senso.

Pasquale Doria, “Le sue opere esposte al Palazzo dell’Annunziata”, Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Matera, 11 luglio 2000. 156


Mauro Corradini - Brescia storico dell’arte

Archetipi direttamente nelle forme primarie Gli autori del ”Doppio misto”, anziché indagare il mondo interiore con i segni esterni che ne fungono da specchio simbolico/emotivo - il correlativo oggettivo di eliotiana memoria - hanno preferito scavare nel segno aniconico e nella materia: con la libertà dell’astrazione hanno voluto coniugare la libertà fauteriana interna alla materia stessa, attraverso le pulsioni dell’Informale; hanno cercato di scavare gli archetipi direttamente nelle forme primarie. (…) Prima dello stile viene la scelta della manualità, la scelta operativa delle mani “tranquille / nude obbedienti a ridurre lo spazio / di desideri ricolme e d’immagini”, quella stessa mano dalle portentose “dita (che) fanno salire la terra” (Eluard). All’appuntamento del “Doppio misto” sono approdati solo autori dal complesso curricolo, o forse oggi, ribaltando, non ci possono che essere artisti dalla vicenda complessa, risposta a stimoli egualmente differenziati. Ci si accosti, anche velocemente, alla ricca biografia artistica di Salvatore Sebaste per meglio cogliere gli ultimi preziosi frutti della sua ricerca, tutti incentrati sul segno che vaga libero, nella materia della pittura, a trascrivere umori. Nel pittore lucano ritroviamo la matrice del gesto automatico, inconsapevole, surrealista, che ne definisce gli ambiti e gli scarti. A partire dai fondali delle opere in esposizione, costruiti con la struttura stessa della pittura, pieni di pulsioni e di tensioni che scoppiano in grumi e strappi, sui quali si riversa il segno. C’è forse una memoria di dripping: si direbbe tuttavia che la musicalità interiore, più ancora che la “casualità controllata” del gesto, costituisca il riferimento indispensabile per la mano che trascrive ritmi, crea magie, descrive misteri. Da qui il sedimentarsi delle materie, l’uso costante di differenti materiali, dalla garza al cartone ondulato, dal colore fluido a quello compatto, quasi smalto, a descrivere certe luminosità, che non appartengono alla vista dell’occhio, ma alla vista del cuore. In Sebaste l’astrazione si evolve su ritmi interiori, e i titoli, che spesso sono sussidi e indicatori, ci aiutano a penetrare nelle sequenze musicali o mentali che ne sostengono lo sforzo: così che il segno che si sedimenta con i frammenti della quotidianità all’interno della superficie rugosa, prelevata dalla mente, può definire uno stato d’animo, ultima meta fora dell’arte. Mauro Corradini, Dal Catalogo Mostra, “Doppio misto”, Galleria “Spazio dopo”, Brescia, 2001 157


Elena Pontiggia - Milano storico dell’arte

La vitalità e il mistero Il lavoro di Salvatore Sebaste si colloca nell’ambito della ricerca informale: nell’ambito di quella ricerca sulla libertà del segno e della forma che ha interessato buona parte della seconda metà del secolo. In quest’alveo (nell’alveo di quella che è stata efficacemente chiamata, in una mostra recente, “la vertigine della non forma”) Sebaste ha trovato un approdo intenso e singolare. Le sue origini, infatti, vengono da lontano. Nelle sue stagioni precedenti, superata una fase giovanile impegnata in un dialogo con la figurazione, Sebaste ha trovato nel surrealismo il linguaggio più adatto a esprimere quel senso di vitalità e di mistero che sentiva urgere dentro di sé e cui, dunque, voleva trovare un esito stilistico. Parliamo di surrealismo in senso lato, s’intende. Ma se per surrealismo s’intende un’arte che lascia parlare l’inconscio, che gioca con l’evocazione del reale, ma anche con ciò che è oltre la realtà immediata (surrealismo deriva da “surnaturalisme”: termine coniato da Apollinaire e ripreso da Breton), certo troviamo nei quadri di Sebaste degli anni Ottanta qualcosa che vi si avvicina. Penso a opere come Corre nell’aria il falco, come Nuvola turchina, come Prato Rosso, e se ne potrebbero citare molte altre. Sono tutte opere ispirate alla natura: opere che traggono ispirazione, energia e nutrimento dallo spettacolo stesso della natura. Ma quale natura? Potremmo chiederci. Ecco, la natura in Sebaste è qualche cosa di non immediatamente evidente. È qualche cosa che si popola di fantasmi e di sogni, di presenze inquiete e inquietanti. Insomma di mistero. E veniamo a uno dei centri focali della sua poetica: il mistero. Diceva Licini in una sua poesia: “Dimmi qualcosa che non sia un miracolo”. E intendeva dire che tutto è strano, inspiegabile, e quindi meraviglioso. Tutto è misterioso: può essere anche un incubo. Sebaste dunque parte dall’osservazione, o dal sogno, o dal ricordo di un evento naturale, ma lo carica di dubbi, di mistero appunto. E allora ce ne dà un eco, una memoria, in cui non ritroviamo più le fattezze usuali, ma piuttosto la consapevolezza che la realtà non è quello che vediamo. È soprattutto quello che non vediamo. Ma il periodo che abbiamo chiamato “surrealista” (etichetta sempre da porre fra virgolette, s’intende. Del resto, come diceva Mallarmè, la poesia si fa con le parole, non con le teorie. E la pittura, potremmo parafrasare, si fa con i colori e i segni, non con le definizioni) lascia il posto negli anni Novanta, e nella ricerca che dura fino a oggi, a un ulteriore scatto verso la libertà della forma. Verso la non-forma, potremmo dire che abbiamo parlato di 158


“informale”. Com’è noto l’informale nasce negli anni Quaranta, in uno dei periodi più tragici della storia dell’umanità. Erano gli anni della guerra mondiale, gli anni della bomba atomica, gli anni in cui per la prima volta l’uomo poteva mettere in dubbio, con le proprie armi, la sua stessa possibilità di sopravvivenza. Perché diciamo queste cose, e che cosa c’entrano con Sebaste? C’entrano poco. Ma ci serviva riandare con la memoria alla grande vicenda dell’informale, di cui Sebaste ha sapientemente colto la lezione, appunto per notare la differenza.Sebaste, vogliamo dire, ha appreso dall’informale la capacità di affidarsi completamente al pennello e alla materia pittorica. Ha capito che la pittura ne sa di più dei pittori, di ogni pittore. Dunque bisogna lasciarla fare. Sebaste, allora, lascia che la linea si carichi di materia, si gonfi dinamicamente, corra lungo i margini della tela e poi precipiti al centro, si trasformi in macchia, in colatura, in gorgo. E poi, ancora, si rapprenda, si disfi e si rianimi. E la stessa cosa avviene al colore, che si mescola con la materia, in una germinazione continua. Tutte queste cose ritroviamo nella sua pittura. Però, poiché Sebaste vive in una specie di paradiso terrestre, in una terra millenaria che piacque ai Greci e a Pitagora e che ancora adesso, partecipa molto meno di altre terre alla distruzione della natura che il ventesimo secolo ha operato… Poiché Sebaste, dicevamo, vive in questa sorta di oasi felice, dove con ogni probabilità vivono ancora anche gli dei… Per queste e altre ragioni, dunque, nella sua pittura non troveremo nessuna traccia di quella disperazione, di quel nomadismo erratico che ritroviamo nell’informale storico. Nelle opere di Sebaste il segno, l’assenza di segno, certe particolarità dello stile possono essere quelle dell’informale. Non il pensiero che ispira o comunque presiede il suo lavoro. Perché quello è improntato a una singolare forma di vitalismo, di strana felicità. La tensione espressiva dell’artista non si traduce mai in angoscia, e in dramma. Al contrario si traduce in un desiderio di moltiplicare le possibilità della pittura, di vedere a fondo le declinazioni della materia, del colore, dello spazio. La natura rimane sempre il punto di partenza, la fonte d’ispirazione del lavoro, che l’artista lo voglia o no, che ne sia consapevole o meno. Ne sono una spia i titoli, che parlano (cito a memoria e a caso, nella fertile ricerca dell’ultimo decennio) di una luce che tronca le ali, di brezze, gnomi e venti, di altarini di menta, di frustate di tempesta, di campo seminato. Ma la natura, lo abbiamo già detto, non è per Sebaste il regno del visibile. Al regno animale, vegetale, minerale bisogna aggiungere un quarto regno: quello del mistero. Per questo nelle opere di Sebaste c’è sempre molto da imparare. Soprattutto su quello che si crede di sapere. E, ancora di più, sul fatto che l’unica cosa che sappiamo è che sappiamo ben poco. Elena Pontiggia, Dal Catalogo Mostra, “La vitalità e il mistero”, Galleria “Le Opere”, Roma, 2002. 159


P 167 TELEVIDEO Me 20 Feb 01:13:04 Rai TUTTI I SUD DEL MONDO Televideo NELLE OPERE DI SEBASTE

Macchie di colore non imbrigliate da cornici, magma cromatico aggressivo e provocatorio, angoscia di una ricerca pittorica ogni volta raggiunta e supe­rata. Figlio del Sud, Salvatore Sebaste da sempre racconta nei suoi quadri le contraddizioni e i destini di tutti i Meridioni del mondo senza mai cedere alla retorica dei sentimenti. Passato attraverso varie esperienze ar­tistiche - le sue sculture figurano in importanti collezioni e musei - Sebaste usa la materia, la trasforma e la fissa in una stratificazione di storia e di vissuto. Dal ‘98 è direttore artistico della Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna BernaldaMetaponto.

Roma, mostra personale, Galleria “Le Opere”, Via dell’Orso, 20 , Dal 14 al 28 febbraio, 2002. 160


Franco Corrado - Potenza giornalista critico d’arte

Invenzioni plastico-pittoriche La storica dell’arte Elena Pontiggia all’inaugurazione della mostra. Il suo “credo”, da lungo tempo ormai, è l’informale. L’ha assunto per gradi, lasciandosi alle spalle - a piccoli quanto decisivi passi le esperienze (da quelle strettamente pittoriche alle altre della grafica nelle sue molteplici espressioni) alle quali aveva legato, come punto di partenza e di guida nel successivo cammino - la sua prima anima di artista figurativo. Da quando ha mutato pelle, assimilando progressivamente i canoni dell’astrattismo che ne hanno fatto un “altro” rispetto al pittore neoespressionista della prima maniera, Salvatore Sebaste è andato sempre più compenetrandosi nel ruolo d’interprete di un’afiguralità che gli urgeva dal dentro come bisogno primario di liberarsi dai condizionamenti della rappresentazione del reale, per esprimersi con linguaggi più adatti a cogliere pulsioni interiori, stimoli dello Spirito. Di questo suo modo di essere, che si è andato consolidando attraverso il lavoro di qualche decennio, Sebaste dà nuovamente conto in questi giorni in una “personale”, a cura di Piero Ragone, inaugurata alla galleria “IdeArte” di Via Lisbona, presente il pubblico delle grandi occasioni, con l’intervento della storica dell’arte e docente all’Accademia di Brera, Elena Pontiggia. In linea con la stagione di ”Carte e cartoni” che, negli anni Novanta ne ha impegnato l’operatività, legata per tanti versi alle poetiche dell’Action Painting e dell’arte segnica (quella del capostipite Wols in primo luogo), Sebaste propone oggi un altro significativo aspetto di una ricerca calata sempre nel grande filone dell’informazione. Così, le opere in visione in questa sua nuova mostra potentina assumono - in una vicenda creativa di per sé già pregnante - il valore di atti determinanti ai fini della scrittura complessiva del lavoro di un artista inquieto, dal ricco vocabolario, portato freneticamente a innovare, a mutare e rielaborare i linguaggi dell’avanguardia fra sperimentalismo e concettualismo. In un procedere che si richiama costantemente, con coerenza stilistica e rigore compositivo, anche all’arte materica, ecco allora questo nuovo ciclo di composizioni (ci sono anche alcune sculture in cartapesta e in terracotta) emblematiche 161


di una precisa tendenza: quella della rappresentazione simbolica di un mondo interiore che - in un quadro di fondo sostanzialmente afigurale come già si diceva per altri versi - finisce col proporsi, di tanto in tanto, con frammenti di realtà. Sulle “carte” come sulle tele, il più delle volte sfrangiate o sagomate alla ricerca di liberi spazi di là dalle delimitazioni classiche, appaiono forme biforme; sagome che hanno sembianze vagamente umane o animali; punti colorati che emergono allusivamente come occhi da una surreale architettura totemica di elementi essenzialmente modellati e applicati con resine, disegnati o dipinti secondo i canoni di una pittura prevalentemente d’azione. Ricorrendo anche a un ”medium” che si rapporta ancestralmente alla sua matrice salentina (l’artigianato della cartapesta della terra di origine, occorre sempre ricordarlo, fa parte della storia personale dell’artista con tutte le influenze che si porta dietro), Salvatore Sebaste - su irregolari superfici campite di azzurri o di verdi, di gialli o arancioni, di grigi o viola-blu - libera le pulsioni dell’io, le sue fantasie. Nascono in tal modo, in un’azione plastico-pittorica che reca l’impronta inconfondibile di una sapiente manualità a sostegno dell’estro inventivo, opere dalle cadenze talvolta neodadaiste, in qualche modo in linea con certe tendenze dell’arte del riciclaggio, con il tramite delle quali Sebaste raffigura sensazioni, dipinge stati d’animo, propone emozioni recuperando cartoni ondulati preso dal fascino dei rifiuti, prodotto copioso della società dei consumi. C’è, in questo modo di esprimersi, un rapportarsi preciso a talune avanguardie del secolo scorso per le quali l’oggetto d’uso inserito nell’opera d’arte è stato, ed è ancora, la via per richiamare l’attenzione su particolari realtà del tempo presente, talvolta, in termini di provocazione ironica, talaltra in chiave di denuncia. Una pittura che ti viene voglia di toccare, oltre che di vedere, quella che Salvatore Sebaste propone con le sue composizioni polimateriche, in un’invenzione continua di forme, di segni e di colori “unici”, industriali, allo stato puro o sfumati con l’effetto dell’acquerello, sulle masse rugose, sulle tante escrescenze che fanno da supporto a una sinfonia creativa di coinvolgente irresistibile presa.

Franco Corrado, Da “Il Quotidiano”, Personale del maestro Sebaste alla “Galleria IdeArte”, Potenza, 12 marzo 2002. 162


Museo Bargellini - Pieve di Cento

Un’opera dell’artista bernaldese acquisita dal museo emiliano Inaugurato meno di tre anni fa, il “Museo d’Arte della Generazioni Italiane del Novecento”, che ha sede nell’antico silos granario di Pieve di Cento (Bologna), rappresenta ormai un’importante realtà, nel panorama museale dedicato alla creatività artistica del secolo appena trascorso. Nata dal grande interesse per l’arte dell’imprenditore pievese Giulio Bargellini, fondatore dell’Ova e attento collezionista, la struttura, posta al centro del triangolo industriale costituito da tre grandi città d’arte - Bologna, Modena e Ferrara - fin dalla sua apertura, si è proposta come un centro multimediale che, intorno alle collezioni permanenti, ha promosso molteplici esposizioni e attività, interdisciplinari. Nella cornice festosa della “Quarta Giornata dell’Artista”, che ha riunito un foltissimo numero di artisti, critici e “addetti”, si è inaugurata il 23 novembre la mostra dedicata alle “Acquisizioni 2000 - 2002 per le collezioni permanenti del museo” (accompagnata da un ca-talogo edito da Bora di Bologna), che dà conto dei più recenti arricchimenti della già doviziosa raccolta, che negli ultimi due anni si è accresciuta con importanti arrivi. Tra questi, sono da segnalare innanzitutto quattro splendidi fogli di Umberto Boccioni realizzati tra il 1912 e 1916, recentemente venuti alla luce e destinati - come ci dice Il direttore artistico del museo, Giorgio Di Genova - ad arricchire “il corpus della produzione del capofila del Futurismo”, cui si accompagna l’acquisizione di uno splendido olio su tela (Tempesta-mare-notte”, 1936) di Gerardo Dottori, capofila del movimento futurista, umbro e tra i maggiori protagonisti dell’Aeropittura. Tra le opere acquisite dal museo pievese, figura una piccola tela a tecnica mista dell’artista bernaldese Salvatore Sebaste; si tratta di un quadretto che si collega idealmente alla storica collezione “8x10” di Cesare Zavattini e che con altri realizzati da artisti nati, come Sebaste, negli anni ‘30, vuole rappresentare una sorta di omaggio verso il maestro di Luzzara, di cui ricade in questi giorni il centesimo anniversario della nascita. L’opera di Sebaste, realizzata nel 2001, evidenzia con passione la sua ricerca artistica e la sua creatività (nella pittura e nella scultura) iniziata oltre trent’anni fa, attratto da un rinnovamento del linguaggio basato su soluzioni pittoriche e segniche, suggeritegli dalla magia della sua terra di adozione (essendo nato a Novoli in provincia di Lecce) non meno che dalla propria cultura e dal suo patri163


monio di tradizioni popolari. In Basilicata si è espressa la forza creativa di Sebaste, che è anche promotore culturale e creatore di libri d’arte; dal 1956 a oggi, l’artista ha raccolto, per la sua molteplice attività numerosi successi espositivi, tra cui ricordiamo la partecipazione, con i suoi libri, a prestigiose rassegne, come al Moma di New York nel 1992 e al Guggenheim di Venezia nel 1994. Tra i più prestigiosi pezzi acquisiti dal museo, si devono poi ricordare quattro deliziosi disegni di Alberto Martini, l’imponente bronzo di Giorgio de Chirico (“II grande metafisico”), la bellissima “Dormiente” scolpita sul travertino nel 1912 da Ercole Drei (Faenza 1886 - Roma 1973) e alcune opere dello storico gruppo “Il Moro” di Firenze, cui il Bargellini dedicherà una grande rassegna (a partire dal 18 gennaio) con il titolo “Per una classicità moderna. L’altra faccia del Rinascimento”. (M. D. C.)

Da “La Nuova Basilicata”, Le opere di Sebaste a Pieve di Cento (BO), Matera, 2002. 164


Elisabetta Pozzetti - Modena storica dell’arte

Alchimie della metamorfosi Da granello di pigmento osservavo I’affaccendarsi dell’artista che armeggiava con pennelli e spatola, ingaggiando con le mani una sfiancante lotta tra i mille schizzi, ritagli e cataloghi che riposavano alla polvere dei giorni. Sbirciava tra le tele che, in ordinata e silenziosa ras­segna, sfilavano una appresso all’altra contro la parete. Alcune erano ormai anni che non le sfiorava la luce di uno sguardo. Quelle libere dai vincoli del robusto telaio se ne stavano comodamente arrotolate sulla mensola, proprio sopra lo stereo che amplificava le note di Vivaldi. La mattina cresceva e dalle ampie finestre di nuovo chiarore si vestivano le superfici. II signore delle cromìe era lui. Salvatore, si quello era il suo nome, lo stesso sentito sussurrare con dolcezza, strapazzare con rab­bia, sfilacciare in monosillabi di comprensione da Jolanda, fedele ani­ma e spirito complice di quell’uomo cresciuto aIl’arte. Si muoveva sicu­ ro nell’ampia stanza satura di umori, cercando l’ispirazione, che se ne stava nascosta sotto un vecchio cartone ondulato. Fui io, piccola parti­ cella di colore, scivolata dalle ruvide setole di un pennello dismesso, ad attirare il suo occhio attento sul tavolo. S’illuminò il volto e un sorriso sornione abbracciò il fantasma dell’opera in divenire. L’alchimia della metamorfosi eccitò i barattoli di acrilico, i fustini di colla vinilica, mentre i tubetti si agitavano nelle confezioni. Le carte bisbigliavano spingendo­si nel gareggiare a farsi notare. Ma la mano poderosa e sensibile affer­rò il vetusto cartoncino deformato dal tempo. Iniziò qui la storia di una ricerca che ancor non placa I’entusiasmo. Che diviene parte integrante e sostanziale dello stratificarsi materico delle creazioni di Sebaste. E come nelle ridotte dimensioni il lavoro, è di fine cesellatura, così nelle grandi estensioni la forza gestuale manifesta la massima intensifi­cazione. II supporto si tende a semplice tela di fitta tramatura, di cui niente trapela nell’elaborazione finita dell’opera. E cioè semplice ele­mento strutturale senza alcuna finalità estetica. Con generosa disten­sione accoglie gli strati di materia in succedersi pianificato. I frammenti di cartone e di sughero sono i pri165


mi a esplorare la superficie e ad abitarla, come pronunciate sagome, ritagliate ed elaborate, che osano oltre i limiti del telaio. In Salvatore osare implica il forzare l’essenza dei materiali, metterli alla prova e sfruttarli per usi non previsti all’origine. Saggiarne le proprietà sconosciute, forgiarne di nuove. La spatola di­stribuisce costrutti espressivi stendendo un impasto di pigmento e collante, isolando le parti aggettanti. II nuovo strato si predispone ad accogliere la sabbia, che piove copiosa dal setaccio, disegnando granulosi tracciati di pensiero che si assottigliano a fil d’ombra, fino a scomparire. Interrogative si appuntano le virgole di colore spremute direttamente dal tubetto, ora in punti isolati ora tracciando inusitate geografie di spazio in musicale equilibrio. Coglie impreparati la colata di colla, che Salvatore dirige con ampia distensione del braccio orche­strando i ritmi cromatici e spaziali, fluendo sottili ragnatele fino ad addensamenti lavici dal biancore latteo. La gradina pettina le rughe della superficie muovendo ulteriormente l’andamento lineare. L’interazione massima dell’uomo con la materia si ottiene però solo successivamente, quando gli strati vengono provocati, provati e purifi­cati. Se il fuoco rappresenta distruzione, in Sebaste è processo catartico di elaborazione artistica: bruciando svanisce l’effimera patina ed emer­ge l’epidermide nascosta. Mentre la colla ribolle, sbuffando in smorfie di stupore, il sughero annerisce grumoso e risentito, mentre il cartone si sfoglia rivelando l’interna anima di ondulato sostegno. Tenace la lingua di cromo non scompare, si satura solamente. Crateri lunari affiorano, mentre il pennello e le mani asportano energicamente i relitti degli strati sfatti alla fiamma. L’armonia è ora alterata dal nero, memore della ferita inferta. A placare la dissonanza tra I’essere originario e il divenire, inter­viene un ulteriore strato liquido che rimargina le bruciature, colma i vuo­ti e addolcisce le asperità. È lattiginoso ed è una miscela di collante e acrilico in medium acquoso. Perchè quest’ulteriore pellicola? Per fis­sare la mutazione avvenuta, separando l’antica materia dalla nuova, sublimata. E anche perché Sebaste attutisce la variante cromatica, fa­vorendo la dominante materica varia e diversificata. Non gli interessa­no cioè i differenti colori ma le diverse modalità di pasta, ora liscia ora raggrumata, scabra o rugosa. Lo spessore subisce e interloquisce, pul­sa e soggiace al silenzio della stasi. In esso si struttura il racconto di Sebaste, la storia, cioè, di un’indefessa sperimentazione mai paga di facili approdi, articolata in felici intuizioni e in elaborazioni ardite, contraddistinta da un elemento dominante: la curiosità.

Elisabetta Pozzetti, Dal Catalogo Mostra, “Alchimie della Metamorfosi”, Istituto di Cultura “Casa G. Cini”, Ferrara, 2003. 166


Franco Patruno - Ferrara storico dell’arte

In un grumoso basso­rilievo, il cuore del mondo rivela la sua trascendenza Ci sono generazioni nomadi. L’affermazione non è solo accattivante, perché attraversare il tempo e il paradosso dei nodi storici è una vera vocazione. Certo, il cammino suppone la ricerca, e questa un orizzonte nel quale dispiegarsi senza censure o inceppi ideologici. Salvatore Sebaste, e seguo il prezioso itinerario segnato da Claudio Spadoni nel 1999, “è un nomade per intima esigenza, non per seguire le orme di una ritualità alla moda”. Organicità e astrazione, a differenza dell’or­mai consunta dialettica tra realismo e informale, hanno caratterizzato gli anni della sua giovinezza. Come non avvertire l’urgenza materica di Guttuso, Levi e Migneco e, allo stesso tempo, dimostrarsi distratto di fronte al gesto che si getta in azione? Come dirsi assente, quindi, al richiamo del possesso degli inediti spazi dell’Action Painting? Se per non pochi politicamente accaldati, si trattava di scegliere decisamente una presenza prossima all’engagé di sartriana memoria, per Sebaste prevalse la ricerca pura, anche se esitante, tra i contorni, pur espressionisticamente filtrati, della figurazione umana, e il gusto quasi panico della materia, della chimicità del formarsi organico. Una vera passione per il ridefinirsi della forma stessa senza soluzione di continuità. Esitante dicevo, come per chi negli anni Cinquanta non ha anco­ra vent’anni e, dopo la conquista della giuridica maggiore età, segue non più il divenire ormai statico degli “ismi”, ma quell’esperienza Pop che sarà vero passaggio epocale per la riproducibilità già preconizzata da Benjamin e la virtualità come effettivo distacco dalla pittura-pittura. A dire il vero, anche questa descrizione rischia di es167


sere a sua volta pura­mente virtuale, perché la varietà di accenti all’interno del movimento Pop non poteva considerare a lato l’esperienza inglese di Bacon e Sutherland, cioè la variante anglosassone del rivissuto drammatico dell’Espressionismo. Sebaste ha cultura, segue gli eventi come pittore ma pure come attento conoscitore e organizzatore; non subisce, quin­di, innamoramenti inconsulti e dogmatiche soluzioni pubblicitarie. Tra la molteplicità delle sollecitazioni, l’artista lucano, dopo l’inevitabile pulsione per la figuratività accesa ma non ideologizzata, ora sintetizza la poliedricità della ricerca compiuta; convinto quanto mai che l’appro­do al reale tanto amato o, per meglio dire, al rapporto esistenziale tra I’umano sentire e il crescere costante della materia, non esige contor­ni espliciti e riconoscimenti tradizionalmente decifrabili. Non c’è, per Sebaste, opposizione tra l’esperienza lirica del colore e la densità chimica delle sue forme fatte organismo vivente. È I’ormai logico superamento di ogni dialettica tra spirito e materia, ben sapendo che in un frammento cromatico, che pulsa per plastificarsi in grumoso basso­ rilievo, il cuore del mondo rivela la sua trascendenza.

Franco Patruno, Dal Catalogo Mostra, “Alchimie della metamorfosi”, Istituto di cultura “Casa Cini”, Ferrara, 2003. 168


Claudio Spadoni - Ravenna storico dell’arte direttore artistico MAR

Gesto e Segno Tornano ancora utili le parole di un poeta, Mario Trufelli, per la pittura dell’amico Salvatore Sebaste, a evocare “un brulicare di tensioni vitali, una fantastica risalita alle sorgenti recuperando un gesto e un segno primitivi...”. Gesto e segno da intendere per quello che oggi possono essere, passate ormai diverse e lunghe stagioni da quegli anni ‘40-50, nei quali tali termini espressivi furono come delle drammatiche stimmate nel corpo di una pittura che si voleva una cosa sola con l’esistenza, e insomma la sua più diretta e coinvolgente metafora. Dunque, se a distanza di mezzo secolo per un pittore come Sebaste si può legittimamente parlare di gesto e di segno, si dovrà anche precisare come queste indicazioni si calino in un ben diverso ordine di motivi, di stimoli, di consolidata consapevolezza. E s’intende che a questo riguardo sarà opportuno aggiungere anche un altro termine di riferimento, anch’esso carico di ulteriori implicazioni: materia, appunto, una materia che per il pittore lucano ha assunto un ruolo decisamente primario. D’altra parte, la sua storia personale ha preso a delinearsi in tempi già successivi alla torbida piena di un Informale alla lunga insostenibile. Piena poi ricondotta, infatti, entro la misura ben più tranquillizzante di una base linguistica non convenzionale da cui ripartire per una nuova e più disincantata avanguardia. Quando non si trattasse proprio dell’indugio in “una moderna accademia dell’angoscia”, stando alla penna di Longhi, intinta come non di rado gli accadeva, nel veleno. Sebaste era di una generazione più giovane di quegli ultimi espiatori di una condizione tragica di lontana ascendenza romantica, o forse meglio ancora di un ‘maledettissimo’ tardo romantico. AII’incirca coetaneo di quelle che furono i protagonisti di New Dada, Nouveau Realisme, Pop, e per altri aspetti di Minimalismo e Arte cinetica e programmata, sulle prime si era avviato su una strada più appartata, diciamo pure più simile a un sentiero di periferia, della quasi sperduta periferia del Sud. Com’era inevitabile, si può ben comprendere, in quei tempi e in quei luoghi. L’aver reso fin quasi in chiave espressionista uno schietto omaggio a quanto poteva ancora resistere di una cultura di accenti paesani, e insomma a una ancor credibile geografia della cultura, era la cartina di tornasole di un sincero sentimento di appartenenza a una terra e alla sua vita dimessa. Fino a giungere ‘all’aneddoto locale, alle inflessioni perfino popolaresche’, che potevano indurre a un patetismo dichiaratamente enfatizzato nel paradosso di un incontro, chissà 169


quanto consapevole, fra gergo meridionalistico e icone quasi araldiche virate tuttavia in grottesco. Ma eccolo poi, Sebaste, smontare quasi d’improvviso quelle narrazioni ‘rattratte’ e prosciugarne i timbri prima tanto accesi fin quasi a versare nel kitsch del manifesto a sfondo sociale, e quindi gradualmente rimontare su livelli da verifica sperimentale. Certo, gli ‘azzeramenti’, come recitava l’ultimo grido della parlata internazionale, non facevano per lui. Troppa materia e troppo grondante; materia contaminata e ‘bruta’, e troppi segni per una microgestualità non proprio asettica. La memoria di un Wols - evocata talora per il lavoro di Sebaste - se anche poteva aver contato qualcosa, non avrebbe potuto indicare alcuna rotta credibile in una stagione culturale tanto mutata. Venivano poco a poco alla luce, semmai, certe implicazioni simboliche della materia e del gesto prima d’allora inesplorate per dazio pagato al racconto esemplarmente figurativo. Proprio quel ‘primitivo’ di cui parlava Trufelli prendeva a emergere e a informare di sé perfino i lacerti, le scorie, le tracce di una realtà presente, di un quotidiano d’impronta perfino tecnologica. Tanto che per meglio chiarire entro quali riferimenti linguistici potesse essere letto il lavoro maturo di Sebaste, si potrebbero azzardare, riprendendo indicazioni già offerte in passato, due riferimenti illustri, per quanto distanti, nel panorama artistico del ventesimo secolo: Kandinskij e Dubuffet. II primo, per tutti i richiami alla valenza simbolica, appunto, dei segni e a quelle “risonanze interiori” che certo intrigano il lavoro del pittore di Bernalda. L’altro, per tutto ciò che riguarda una materiologia capace di assumere inflessioni diverse, insieme di ‘brutalismo’ e di ricercatezza, di ‘naiveté’ e di lavorio linguistico. Per altri aspetti, i poli di riferimento potrebbero intendersi anche nel senso della grande astrazione e del grande realismo di cui aveva parlato proprio il pittore russo, e al tempo stesso di una moderna auscultazione della materia quasi per coglierne gli echi più lontananti, le suggestioni dell’ancestrale. Proprio in quest’ottica credo si possano vedere le serie solo in apparenza contrapposte dei ‘bianchi’ e dei ‘neri’, gravidi gli uni come gli altri di materia: la stessa materia, ma offerta quasi in versione diurna e notturna. Del resto, bianco e nero sono ‘non colorì’, o se si vuole l’alfa e l’omega del colore. La storia dei ‘monocromi’ del secolo scorso, in realtà ancora tutta da risistemare e possibilmente con occhi sgombri da pregiudizi o tabelle di valori predefiniti, potrebbe spiegare meglio il senso, anzi i diversi sensi di quegli approdi estremi. E tuttavia, anche a voler tenere per indicativi certi esempi in merito, per Sebaste e la sua vicenda ‘materiologica’, si dovrà almeno aggiungere che nulla viene perduto, in questi suoi ‘bianchi’ e ‘neri’, anche della complessità di un racconto già precedentemente offerto in una gamma cromatica tra le più squillanti, accese. Racconto che, anzi, si fa forse più profondo e suadente. E sempre, comunque, in una trama di stratificazioni di materie che altro non sono che ‘memoria’ e contaminazione di realtà, come affondate nel non colore a suggerire forse i fantasmi o le ombre di più remote lontananze.

Claudio Spadoni, Dal Catalogo Mostra, “Alchimie della metamorfosi”, Istituto di Cultura “Casa G. Cini”, Ferrara, 2003. 170


Elisabetta Pozzetti - Modena storica dell’arte

Metamorfosi “L’alchimia della metamorfosi” è la messa in scena a Casa Cini del divenire della materia per contrapposti e sinergici stati. Una materia, quella pittorica, che si sottopone alle tensioni dell’arte e del gesto che plasma, concretandosi in superfici grumose in serrata contrapposizione di bianchi e di neri. Che dialogano da una stanza all’altra, mediati da una scultura totem che s’impone nel chiostro trecentesco. L’artefice è un artista lucano, Salvatore Sebaste, che da mezzo secolo cavalca con agio esperienze sperimentali e avanguardie storiche. Fedele sempre a un sentire affine agli umori della sua terra. Che all’inaugurazione, venerdì 11 aprile alle ore 19, si paleserà con la presenza del Presidente dell’A.P.T. della Regione Basilicata, Mario Trufelli. La mostra, che rimarrà allestita fino all’11 maggio, gode del patrocinio del Comune di Ferrara, in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche e Istituzioni Culturali ed è sponsorizzata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara e dalla Cassa di Risparmio di Cento. II catalogo accompagna il visitatore, con i testi critici di Franco Patruno, Claudio Spadoni e di Elisabetta Pozzetti, in un itinerario alla scoperta dell’alchemico mutarsi delle forme e dei supporti. Nell’opera di Sebaste osare implica il forzare l’essenza dei materiali, metterli alla prova e sfruttarli per usi non previsti all’origine. Saggiarne le proprietà sconosciute e forgiarne di nuove. La spatola distribuisce costrutti espressivi stendendo un impasto di pigmento e collante, isolando le parti aggettanti. Nuovi strati si predispongono ad accogliere la sabbia, che piove copiosa dal setaccio, disegnando granulosi tracciati di pensiero che si assottigliano a fil d’ombra, fino a scomparire. Interrogative si appuntano le virgole di colore spremute direttamente dal tubetto, ora in punti isolati ora tracciando inusitate geografie di spazio, in musicale equilibrio. Coglie impreparati la colata di colla, diretta con ampia distensione del braccio orchestrando i ritmi cromatici e spaziali, fluendo sottili ragnatele fino ad addensamenti lavici dal biancore latteo. La gradina pettina le rughe della superficie muovendo ulteriormente l’andamento lineare. L’interazione massima dell’uomo con la materia si ottiene però solo successivamente, quando gli strati sono provocati, provati e purificati. Se il fuoco rappresenta distruzione, qui diviene processo catartico di elabora171


zione artistica: bruciando svanisce l’effimera patina ed emerge l’epidermide nascosta. La variante cromatica è attutita, favorendo la dominante materica varia e diversificata. All’artista non interessano cioè i differenti colori ma le diverse modalità di pasta, ora liscia ora raggrumata, scabra o rugosa. Lo spessore subisce e interloquisce, pulsa e soggiace al silenzio della stasi. In esso si struttura il racconto di Sebaste, la storia, cioè, di un’indefessa sperimentazione mai paga di facili approdi, articolata in felici intuizioni e in elaborazioni ardite, contraddistinta da un elemento dominante: la curiosità.

Elisabetta Pozzetti, Da “La Voce di Ferrara-Comacchio”, Metamorfosi, Ferrara, 2003. 172


Gianpaolo Palazzo - Milano giornalista esperto d’arte Milano

Sebaste alchimista di metamorfosi Sarà inaugurata domani nel Museo d’arte delle Generazioni Italiane del ‘900 “G. Bargellini” di Pieve di Cento la mostra “Alchimie della metamorfosi” di Salvatore Sebaste. A presentare i nuovi lavori dell’artista bernaldese saranno i critici d’arte Claudio Spadoni ed Elisabetta Pozzetti. Degli stessi, oltre ad un testo di Franco Patruno direttore dell’Istituto di cultura “Casa Giorgio Cini” di Ferrara, sono i contributi sul catalogo d’arte. In questa “Alchimia della metamorfosi” Salvatore presenta alcune sue opere realizzate tra il 2000 e il 2002. “L’ipotesi d’arte”, una e plurima, che fa da sfondo alla personale, suggella l’intenzione di prova, di osata verifica, che perviene a colori e linee di un mito vissuto nell’intimo. Il “creare d’istinto” si sceglie radici nell’area mitica di un “Solco di rughe” o di una “Terra danzante” e l’opera vibra, si fa personaggio musicale d’intensa e particolareggiata formosità. Sebaste con la sua “ricerca pura, anche se esitante” per, dirla con Franco Patruno è ansioso di dire, di raggiungere nuovi traguardi espressivi, non di possedere. È più facile per lui il ruolo d’incantatore, più che quello di seduttore nel quale Kierkegaard scorgerebbe la raffigurazione del desiderio “presentimento di se stesso”, “indeterminato”, “infinitamente profondo”. Elisabetta Pozzetti scrive, infatti, che: “In Salvatore osare implica il forzare l’essenza dei materiali, metterli alla prova e sfruttarli per usi non previsti all’origine”. Il risultato artistico, accortamente regolato in eco della memoria “inconcettuale”, in segnale, in risposta, ci regala illusioni e proiezioni del ricordo e del sogno. Il pittore d’origine leccese, non soltanto si appropria del mito meridionale, che sopravvive in lui per offrirne cavillose elaborazioni, ma sconvolge e affranca le invisibili energie mitopoietiche di un lessico fortemente personale. “Si può legittimamente parlare, scrive Claudio Spadoni, di gesto e di segno” che si rifanno a una precisa, calcolata, enigmatica costellazione di pensieri. Lo stesso Spadoni associa Sebaste a Vasilij Kandinskij e a Jean Dubuffet. Al primo “per tutti i richiami alla valenza simbolica” e al secondo “per tutto ciò che riguarda una materiologia capace di assumere inflessioni diverse”. Idee tematiche, alchimie ricorrenti, stilemi funzionali ai gesti, si aggregano sui cartoni a comporre un disegno che, già percepibile, sembra rivelarsi e offrirsi all’interpretazione dello spettatore. La figura compare apparizione, rapimento, 173


gioco a nascondino, più che evocazione o ricerca. Negli accelerati cieli artistici del nostro nuovo millennio, Sebaste fa scoccare un suo personale messaggio, svelando la “Brina arrugginita” o la “Danza delle farfalle”, quasi un nuovo evento, un prodigio. Con la stratificazione delle materie Salvatore vuole lasciare le tracce del suo passaggio. Innamorato di oggetti mutevoli ma incrollabili nell’accendere il desiderio e invariabilmente modellati dal desiderio stesso, le alchimie della metamorfosi trasformano ogni dialogo potenziale o impossibile in soliloquio artistico. Ogni opera è immaginata per salvare la parola che racconta, che ricrea incessantemente l’incantamento visivo, che, nella sua urgenza, chiama gli altri a esistere. Sotto il segno, o la trasformazione, sembra celarsi una giocosa divinità, mortale e arrendevole alle regole dei mortali, ma rapida nel sovvertirle. Sebaste non cerca il proprio riflesso, ma si offre come riflesso, come “ipotesi” d’arte, come miraggio che definisce l’orizzonte di un lembo di terra mitica esistente nell’attimo della rivelazione, nella parola. La “Natura incantata” diviene così la soglia ultima, dove la linea affronta, nel mitico paesaggio delle metamorfosi, l’assalto estremo: la tentazione dissolvitrice della fusione e dell’utopia, per verificare la propria elevazione non reale.

Gianpaolo Palazzo, “Sebaste alchimista di metamorfosi”, Da “Il Quotidiano”, Matera, 2003. 174


Carlo Abbatino - Matera giornalista esperto d’arte

Sebaste da oggi espone a Bologna - Allestita una mostra al Museo d’Arte delle Generazioni Il pittore lucano Salvatore Sebaste, che ha il suo quartier generale della pittura e della scultura a Bernalda paese in cui vive, ma anche a Bologna e Milano, è da oggi con le sue opere in mostra al Museo d’Arte delle Generazioni Italiane del ‘900 G. Bargellini di Bologna. È stato realizzato per l’occasione un catalogo dal titolo “Alchimie della metamorfosi”. Egli trasforma nel suo andare artistico segni e colori. Le sue opere sono quasi un geroglifico del tempo moderno. Alla mostra intervengono Claudio Spadoni ed Elisabetta Pozzetti che hanno arricchito il catalogo con il loro contributo scritto. “Se a distanza di mezzo secolo si può legittimamente parlare di gesto e di segno - scrive Spadoni - si dovrà anche precisare come queste indicazioni si calino in un ben diverso ordine di motivi, di stimoli, di consolidata consapevolezza. E s’intende che, sarà opportuno aggiungere un altro termine di riferimento, anch’esso carico di ulteriori implicazioni: materia, appunto, una materia che per il pittore lucano ha assunto un ruolo decisamente primario”. Una pittura di movimento che implica l’osservatore a non staccare gli occhi da essa per cercare di trovare spiegazioni legittime che hanno riscontri a vissuti dell’artista o alla sua fantasia, creativa e singolare. Il colore chiaro si spande sull’oscuro come la tela di un ragno. I filamenti che si propagano in spessori mai omogenei, disuguali possono anche significare il variare della vita quotidiana mai sempre uguale. Una cosa è certa: la pittura di Sebaste ti guarda con gli occhi in “Vita fermata”, “Occhi nello spazio”, e poi ti riporta in “Emozioni” o nella “Danza delle farfalle”. L’artista ha un cordone ombelicale con la natura. “L’alchimia della metamorfosi - scrive Elisabetta Pozzetti - eccitò i barattoli di acrilico, i fustini di colla vinilica, mentre i tubetti si agitavano nelle confezioni. Le carte bisbigliavano spingendosi nel gareggiare a farsi notare. Ma la mano poderosa e sensibile afferrò il vetusto cartoncino deformato dal tempo. Iniziò qui la storia di una ricerca che ancor non placa l’entusiasmo che diviene parte integrante e sostanziale dello stratificarsi materico delle creazioni di Sebaste”. L’artista, è stato dal 1975 al 1977 presidente del circolo culturale “La Scaletta” di Matera. Nel 1992 ha esposto i suoi libri d’arte a “The Museum of Modern Art” di New York. Dal 1956 a oggi ha realizzato rassegne personali e collettive in Italia e all’estero. La sua documentazione artistica si trova in archivi storici nazionali. Carlo Abatino, Da “La nuova Basilicata”, Potenza, 4 ottobre 2003. 175


Loretta Fabrizi - Macerata storico dell’arte

Dal bianco al bianco

A partire dal Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir Malevic, esposto a Mosca nel 1919, in cui, di fatto, viene azzerata la pittura come impresa chiaroscurale, cromatica, plastica, la stesura monocroma che satura la superficie del quadro, nella rinuncia alla funzione descrittiva come a quella espressiva, così legate ai dati dell’esperienza, e nella riduzione al minimo dell’elaborazione artistica, ha rappresentato nell’arte moderna e contemporanea l’affrancamento dell’artista dal sistema della rappresentazione e il confronto con ciò che integralmente trascende la realtà fenomenica. II bianco, “il nulla prima della nascita”, e il nero, “il nulla dopo la morte”, come li aveva definiti Kandinsky, per la loro stessa natura di compresenza/assenza di tutti i colori, hanno assolto a questa funzione simbolica di riassumere e superare ogni relatività e indicare l’assoluto: icone contemporanee che collegano l’uniforme fondo dorato senza spazio né tempo, immateriale, della pittura bizantina, alla simbologia della luce del mondo gotico, alla luce come principio regolatore della costruzione dello spazio in Piero della Francesca, fino all’”infinito suprematista” di Malevic. Da qui una serie di ricerche pittoriche di fondamentale importanza per l’arte contemporanea, volte a rifondare una possibilità per la pittura di fare esperienza del non detto - non scritto - non rappresentato, in quanto oltre noi stessi. In questo filone di ricerca, com’è noto, un ruolo chiave hanno avuto artisti del calibro di Ad Reinhardt, Piero Manzo­ni, Yves Klein, Lucio Fontana. Ma se il monocromo è “strumento di arricchimento sensoriale, in quanto esperien­z a di una sensibilità pura e immateriale, lungi dal ritrarsi dal mondo, non può che aprir­si al mondo per impregnarlo” (Giorgio Verzotti). L’ascesa si converte così in una ridiscesa verso gli oggetti, le cose e gli esseri del mondo, lo spazio del mondo, come in Fontana i cui buchi-tagli-squarci 176


indicano, appunto, tanto una dimensione cosmica quanto un’idea di spazio che s’identifica con quello reale; I’altrove si lega alla fenomenologia del gesto, all’hic et nunc dello spazio e del tempo dell’artista, e di noi osservatori che di volta in volta ne veniamo in contatto attraverso l’opera. Non deve sorprendere, allora, come il monocromo, nello specifico bianco, si presti a essere uno strumento efficacissimo di riconquista formale - si pensi a Burri - di risalita, dopo la tabula rasa, verso la possibilità d’inedite configurazioni formali: nel rapporto tra figura e sfondo, nella giurisdizione spaziale, nella traduzione del ritmo, nella resa dei valori di profondità, superficie e, perfino, cromatici se anche il bianco può presentarsi con varie sfumature - calce, gesso, alabastro, latte, avorio, argento, roseo, cilestrino - e se, come diceva Leonardo, “il bianco non ha per sé colore, ma si tignie e trasmuta in parte del colore che gli è obbietto”. Guardando a Prampolini e a Burri, ma anche alla pittura del segno e del gesto tanto americana quanto europea, a partire dagli anni Ottanta, Salvatore Sebaste, avvia uno stile sostanzialmente basato sulla poetica della materia di chiara ascendenza informale: una materia densa di stratificati vissuti che provoca I’azione dell’artista a rianimarne le potenzialità inespresse, a risvegliarne le sopite memorie. Sono “palpiti di luce, buttate di colore, suoni di flauti e sibili di vento, fruscii di erbe e frinire di cicale, trascorrere di sogni e pulsare di vita” (Claudio Spadoni) in cui la vitalità intrinseca e incoercibile della materia si fonde con I’esigenza di struttura e di dinamismo formate. Cartapeste acciaccate e sofferte su fondi sabbiosi mettono in scena una danza rituale, arcaica e moderna a un tempo, che a colpi di bianco su bianco attinge a un “fondo” arcano e misterioso, ma sempre disponibile a svelarsi, da cui affiora l’invisibile. Sicché ogni tela bianca è veramente “abbagliante d’attesa”, secondo la suggestiva affermazione di Kandinsky.

Loretta Fabrizi, Dal Catalogo Mostra, “Dal bianco al bianco”, Pinacoteca Comunale Musei Civici, Macerata, 2003. 177


Al “Bargellini” una firma lucana su 4 tele dell’artista Sebaste È diventata ormai una “tradizione” quella di far coincidere la “giornata dell’artista”, (che giunta alla quinta edizione, fa registrare un’imponente partecipazione nelle sale del Museo d’Arte delle Generazioni italiane del ‘900 “G. Bargellini”, che ha sede, in una modernissima struttura, in quello che fu l’antico silo granario di Pieve di Cento), con l’apertura della mostra sulle ultime acquisizioni del Museo, accompagnata, come di consueto, da un documentato catalogo delle edizioni Bora di Bologna. Tra gli ultimi arrivi si possono ammirare quattro belle opere di Salvatore Sebaste, l’artista di origini salentine ma lucano di adozione (vive e lavora a Bernalda). Si tratta di lavori eseguiti a tecnica mista su tela, di grandi dimensioni, già ammirate nella mostra personale dedicatagli recentemente dallo stesso Museo, intitolate rispettivamente “Forte tuono”, “Solco di rughe”, “Brina arrugginita” e “La danza delle farfalle”. Queste opere, realizzate tra il 2000 e il 2001, sono ben rappresentative della passione e del rigore stilistico che hanno fin qui connotato la produzione artistica di Sebaste, che si è dispiegata sia nella pittura sia nella scultura in oltre tre decenni di lavoro. Attratto da un rinnovamento del linguaggio basato su soluzioni pittoriche e segniche, suggeritogli dal paesaggio lucano, Sebaste ha sempre sentito forte e pressante la suggestione della singolarità e inconfondibilità del suo universo naturale; lo scenario metapontino, con i suoi scabrosi calanchi e le mutevoli argille, è stato sempre al centro della sua sollecitazione creativa, non meno del forte richiamo di un’antichissima cultura e di un ricco patrimonio di tradizioni popolari. In Basilicata si è espressa la forza inventiva dell’artista bernaldese, che è anche promotore culturale e fine creatore di libri d’arte, che si occupano in particolar modo delle realizzazioni artistiche nostrane.

Da “Lucania”, gennaio 2004. 178


Antonio De Siena - Metaponto Sovrintendente ai Beni Archeologici della Basilicata

Equilibro estetico L’osservazione di queste opere di Salvatore Sebaste sollecita suggestioni primordiali e favorisce immediati collegamenti con la figura umana, intesa come unità complessa, da cui è possibile scomporre e derivare singole parti, essenziali ma divisibili. Ognuna di esse è considerata in maniera autonoma, caratterizzata da contorni decisi, geometrici e da una forma che s’impone liberamente nello spazio. II taglio chirurgico dell’artista, però, non produce sezioni devitalizzate. Le singole superfici sembrano vivere intensamente. Lo provano con drammatica chiarezza le forti torsioni muscolari. II fine bassorilievo e il controllato cromatismo suggeriscono la mobilità delle arterie, il tormento delle passioni e il pulsare sostenuto proprio delle grandi emozioni. Traspare subito lo spirito dell’artista, solare, trasversale, eclettico, e allo stesso tempo contaminato da tante esperienze e tecniche diverse. Le forme assunte dai suoi personaggi spesso hanno qualcosa d’istintivo, di primitivo. L’oggetto del suo impegno è l’uomo, non nella sua dimensione idealizzata, astratta, perfetta, ma nell’atteggiamento sofferto del quotidiano. II corpo umano è per questo motivo completamente destrutturato. La materia trattata rende in maniera efficace i suoi problemi esistenziali, i suoi tormenti di sopravvivenza e di palese conflitto interiore. Alla fine le singole parti riconquistano I’iniziale unità, I’equilibrio estetico. Esse mantengono per intero la loro diversità individuale, la loro specificità formale, ma tornano a comporre un insieme armonico e articolato. La metafora si dispiega con un linguaggio rigoroso. L’impossibile scomposizione della figura umana, I’essenza primordiale per eccellenza, allude alla necessità assoluta, naturale di coesistenza fisica e culturale, richiesta con insistenza da una società ormai globalizzata e necessariamente multietnica.

Antonio De Siena, Dal Catalogo Mostra “Equilibrio estetico”, La Spiga d’oro, Metaponto, Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto, Castello di Lerici (La Spezia) 179


Elisabetta Pozzetti - Modena storica dell’arte

Guerra e Pace E non poteva fiorire se non qui, in un antico borgo medievale, il progetto artistico “A Etroubles, avant toi sont passes... ”, che vede la collaborazione sinergica e dialogica di artisti di varia estrazione culturale e di differente provenienza geografica. Ciascuno, col proprio bagaglio esistenziale e sorretto dal bordone del proprio talento, ha intrapreso un cammino recuperando gli eventi storici significativi (…) in una tensione ascetica che diviene idealizzazione emblematica e simbolica del Gran San Bernardo. Il tour si palesa dunque meta-temporale e meta-spaziale, fisico ma anche spirituale. Sui corsi e ricorsi storici vichiani pare riflettere anche Salvatore Sebaste che con Guerra e Pace struttura un obelisco policromo dalla complessa e modulare partitura compositiva. Si succedono o meglio si avvicendano figure antropomorfe dal corpo di lamiera di ferro, in un crescendo formale ritmico, scandito dal variare delle cromie e dal concatenarsi rispettoso delle sagome. L’uomo è ancora protagonista senza riferimenti geografici, culturali o storici. Perché in realtà sono da sempre connaturati alla natura umana il sentimento bellicoso e quello riappacificatore, la conquista e la convivenza, la violenza e il perdono. Sebaste li mette in scena in un’ardita tensione ascensionale, mediante un’operazione che può parere anche ludica, recuperando l’ilarità dei colori già propria di Niki de Saint Phalle.

Elisabetta Pozzetti, Dal Catalogo Mostra “Itinéraire historique e culturel sur la route du Grand-Saint-Bernard”, Ètrouble, 2004. 180


Raffaele Nigro - Bari giornalista scrittore esperto d’arte

La passione popolare di Sebaste Molti anni fa con Salvatore Sebaste io conobbi una scuola di pittori e poeti che partendo dal Salento portava fino a Matera un nuovo gusto artistico. Sebaste è infatti originario di Novoli, che è anche la città dove vive Miglietta, un poeta visivo che ha avuto fortuna negli anni Settanta per essere vicino alle espressioni di Miccini e Pignotti. Ma Sebaste frequentava allora un altro pittore leccese, Corrado Lorenzo e tra i due si creò una interazione, uno scambio di esperienze. Il Salento, come si sa, è la capitale della cartapesta e dell’artigianato madonnaro. Il barocco si esprime anche attraverso quest’arte popolaresca che non è diretta a fruitori colti ma alla grande devozione e alla ritualistica cattolica. Statue per la chiesa e pupi per i presepi. Corrado e Sebaste diressero quel tipo di arte verso una produzione laica e colta, trasformavano l’artigianato in arte e restavano tuttavia profondamente legati alle radici. Ma quelli erano anche gli anni in cui Lecce esprimeva un poeta barocco e neorealista come Vittorio Bodini e alcuni gruppi intellettuali che sarebbero stati di prima qualità in Italia, la rivista “L’Albero”, l’editrice Milella, l’Accademia di casa Comi a Lucugnano. E soprattutto l’idea che la cultura popolare fosse alla base della creatività. Lo esprimevano Rina Durante e il suo gruppo Grecanico Salentino, il regista Eugenio Barba che proponeva un teatro di strada e il primo Carmelo Bene, che faceva del barocco popolare un movente teatrale straordinario. I pittori e gli scultori che operavano a Lecce avevano da tempo abbandonato il realismo napoletano e l’impressionismo di Ciardo e Raffaele Spizzico per gettarsi verso l’informale. Gelli, Balsebre, Massaro, Rollo cercavano strade nuove, mentre il gruppo di “Ghen art” e le riviste di Antonio Verri e Francesco Saverio Dodaro aprivano allo sperimentalismo. È da quella cultura e da quel territorio che viene la propensione di Sebaste per la frantumazione del reale. A Matera, dove si era trasferito, Sebaste trovava un terreno altrettanto fertile. Dagli anni Cinquanta era nata la “Scaletta” e attorno a meridionalisti come Palumbo, De Ruggieri e Corazza orbitavano pittori che si richiamavano a Carlo Levi: Ginetto Guerricchio e Josè Ortega. Il critico Giuseppe Appella faceva da legame tra la città 181


dei Sassi e Roma, tra la Scaletta e l’esperienza editoriale di Vanni Scheiwiller, a lui legato attraverso la comune operazione editoriale de La Cometa. Salvatore fondò e diresse La Scuola libera di grafica de la Scaletta, per anni, cominciò a produrre libri d’arte a numero limitato, pubblicò versi di Leonardo Sinisgalli, Mario Trufelli e Leonardo Mancino, mise su una piccola casa editrice, La Spiga d’oro, a Bernalda, dove ormai viveva da tempo. Mentre ai suoi anni di direzione de La Scaletta penso vadano ascritti gli approdi di altri due salentini che hanno continuato la sua attività all’interno del sodalizio,Vittorio Manno e Angelo Rizzelli. La scuola di grafica e la pittura non si sono mai allontanati dalla matrice leccese, dalla passione per la ricerca fantastica e surreale, per una figurazione che tendeva a frantumare il realismo ma non la tradizione. Così, alla prima produzione che attingeva al paesaggio e alla società contadina circostante si è andato nel tempo sostituendo quasi per contrazione il solo panorama cromatico della cultura popolare. La cartapesta, il bianco della calce, e le escrescenze cromatiche hanno preso il posto di altri racconti. Oggi è diventato di moda per molti lavorare con la carta e con i cromatismi che essa riesce a offrire, ma a metà degli anni Sessanta e Settanta quel tipo di lavoro poteva realizzarlo solo chi aveva visto nelle botteghe dei maestri cartapestai nascere dal nulla figure di santi e di pastori. L’architettura popolare meridionale faceva il resto. Provate a visitare Ostuni, Cisternino e Locorotondo, provate a passeggiare per i vicoli di Alberobello oppure per i borghi pianeggianti del Salento. La peste che ha flagellato quei paesi per secoli ha insegnato alle donne e ai maestri muratori a rinfrescare i muri con la calce ogni sei mesi. La calce brucia tutto. Ma le gocce di acqua e di calce, i rigagnoli, hanno tracciato segni che si sono aggiunti alle scrostature e hanno prodotto una pittura naturale i cui autori sono l’agente atmosferico, il tempo e la spazzola dell’imbianchino. Sebaste ha portato in un perimetro limitato quella cultura e quei segni, ha riprodotto il supporto della calce e vi ha collocato i colori accesi del Sud e del Mediterraneo. Sul bianco tutto si incendia. Ma con la calce la brillantezza si stinge e resta un colore robusto ma opaco. La pittura di questi ultimi anni prodotta da Sebaste è apparentabile alla produzione popolare azteca inca messicana. È come se il pittore salentino di Bernalda avesse colto dai grandi murali di Siqueiros le chiazze di colore che rivestono piccoli angoli, le zone inessenziali e prive di racconto. Non gli interessano le storie ma i frammenti, la presenza del gusto e della tecnica popolare. È dunque una pittura minimalista, di rimando, di citazione, che fa pensare a una antropologia e a un tempo in via di degrado. Come una serie di relitti di antichi affreschi murali. Ci sarà pure il mistero di cui qualche suo critico parla, ma è un mistero che tocca il rapporto antico tra il pittore e la sua terra d’origine, la classe sociale dalla quale proviene e alla quale egli rinvia. C’è in questi anni una vivace polemica tra globale e locale, tra cemento e cal182


ce, ovvero tra cultura contadina e cultura postmoderna. Questa pittura è la denuncia di una società che vuole abiurare a ogni forma di antico e di semplice. È essa stessa l’apoteosi della semplicità e l’attestazione di un bisogno di ritorno all’arcaico, al primordiale, ai tempi in cui si usava dipingere con la tempera e la calce. Direi che si tratta di una ribellione della tempera all’olio, di una ribellione dei colori vegetali alle vernici industriali. Se c’è un qualche rimando a Mondrian, Klee e Magnelli c’è una ribellione al geometrismo di questi autori, alla loro precisione razionale, perché c’è ribellione alla cultura dell’industria. Qui c’è improbabilità e fantasia, una scelta di naiveté. La pittura di Sebaste è insomma una metafora della memoria contadina, dove il segno e il colore sono i colori usati dai pittori di Altamira e delle grotte di porto Badisco. Gli stessi che hanno colorato pellame e legni nel mondo degli indios. In questo non è estraneo a Sebaste un mondo pastorale tipico della cultura arcaica lucana, quel paese di intagliatori che abbiamo conosciuto fino agli anni sessanta. E non è estranea la cultura figula dei fratelli Loglisci di Gravina, che foggiano uccelli in forma di gazza e dipingono di bianco, li striano di rosso verde e blu e li chiamano cola cola. Ancora tempera su tempera e tempera su calce. La forma più povera di pittura che possa esistere. La più arcaica. Una pittura e una cultura che fanno pensare immediatamente ai nostri paesi appenninici, ma anche all’architettura mediterranea, dove esplodono il muro bianco, la calce, le argille e le distese sabbiose e le forme geometriche sono forme primitive, non nate col righello e la squadra ma con l’imprecisione della mano che trema e del sole che asciuga e che crepa.

Raffaele Nigro, Dal Catalogo Mostra “Metafora della memoria”, La Spiga d’oro, Metaponto, Galleria “IdeArte”, Potenza, 2005. 183


Margherita Romaniello - Potenza giornalista esperta d’arte

Colori e forme dal Sud di Sebaste: in esposizione venticinque opere tra bassorilievi e sculture Una terra, quella natale, un’altra, quella di adozione, s’intrecciano nei ricordi, nei pensieri e nei lavori di Salvatore Sebaste. Un artista salentino, ma ormai da quarant’anni “lucanizzato” (vive, infatti, a Bernalda), che nella sua lunga carriera ha esplorato il mondo delle arti figurative con un’attenzione particolare alle tecniche e ai soggetti che caratterizzano la Magna Grecia. Giovedì scorso, nella galleria “IdeArte” di Potenza, Sebaste ha inaugurato una personale di venticinque opere, tra bassorilievi e sculture. Accolto da artisti lucani, Sebaste ha ascoltato Raffaele Nigro, scrittore e giornalista e i vari excursus biografici disegnati dagli ospiti della serata e da Mario Trufelli, che con l’artista salentino annovera molte collaborazioni artistiche. Rocco Brancati e Gaetano Fierro hanno riesplorato le strade della memoria per ritrovare i punti d’ispirazione di Sebaste: totem che si rinnovano nel tempo, ma mantengono viva la tradizione dei luoghi cari all’artista. I colori, chiari, il bianco della pietra di Lecce o delle rocce argillose della collina materana, o ancora quelli sgargianti, il rosso, il verde, il blu delle terrecotte e dei cucù, i tipici fischietti di fattura artigianale. Animali quasi stilizzati, corpi umani appena accennati, squadrati. Non esistono quasi linee curve nelle sculture realizzate in cartapesta. “La mia esperienza artistica, quasi ormai cinquantennale - afferma Sebaste - proviene dal figurativo. Nelle mie opere esiste sempre un filo conduttore, ma un artista deve, come uno scienziato, saper sempre ricercare e, quando si stanca, deve riuscire a trovare qualcosa di nuovo pescando nella sua storia, nelle sue esperienze. Quello che colpisce un artista ed è destinato a divenire opera finita, è sempre quello che colpisce i sensi, ispira l’occhio dopo aver toccato il cuore”. Nel catalogo della mostra, le opere di Sebaste sono corredate da titoli, che poi spariscono nell’allestimento. Questo perché, come sottolinea lo stesso autore, titolare un’opera vuol dire limitarne il messaggio: “Se proprio devo ‘chiamare’ in qualche modo i miei lavori, scelgo titoli assurdi, che non etichettano. È importante che un’opera conservi la sua ambiguità: ognuno guardandola, deve immaginare qualcosa secondo la sua cultura, il suo pensiero. Ciò che conta per me, è la materia che viene fuori”. Le sculture presenti alla galleria “IdeArte” saranno portate alla mostra nel castello di Fenis, in Val d’Aosta, dove Sebaste esporrà i suoi “Fantasmi”. Margherita Romaniello, da “Il Quotidiano”, Potenza, 23 aprile 2005. 184


Grazia Pastore - Potenza critico d’arte

Il bianco, “dominus” sovrano. Un percorso dove le opere vanno verso l’autotelismo e si tingono di colori psicologici “Il bianco ci colpisce come un grande silenzio (...) È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità” scriveva Kandinskij. Il bianco ha il suono di un silenzio che all’improvviso, quasi di sorpresa, riusciamo a decifrare. È l’innocenza del nulla, o meglio “un nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava così, nel tempo bianco dell’era glaciale”. Salvatore Sebaste e la sua “Metafora della memoria”. È il titolo della mostra a Potenza, fino al 5 maggio prossimo, presso la Galleria IdeArte. Un’iconografia “silenziosa”, 25 opere, tra sculture e dipinti materici, dove il bianco domina sovrano. “Le mie radici sono meridionali - spiega il pugliese Sebaste ormai lucano d’adozione; ho vissuto fino a diciassette anni nel Salento, poi a Firenze e dopo sono giunto in Basilicata. Ricordo ancora le case che popolavano i luoghi della mia infanzia; erano dipinte di bianco. Sotto la luce del sole quel bianco diventava rarefatto, metafisico. E sui muri scrostati la mia immaginazione di fanciullo lasciava intravedere figure e colori”. E davvero “metafora della memoria” è il percorso che Sebaste propone, in una sorta di silenzio sacrale, dove le opere, eliminata la referenzialità, vanno verso l’autotelismo e si tingono di colori psicologici. Lo spazio stesso s’insinua, nel dipinto, nella tela, la deforma, e le impone un suo calco, secondo un proprio dettato. Da qui i dipinti materici esposti. “In natura non esiste la linea retta” commenta Sebaste, spiegando il suo bisogno di non lasciare che l’opera sia ingabbiata, neppure dalle aste di una cornice. È un tentativo di ricodificazione del linguaggio pittorico, quello dell’artista, che dà luogo a una scrittura poetica dove l’arte ha funzione metafisica, e il silenzio diventa una nuova possibilità del dire. La memoria di bambino (il 185


bianco-calce col quale Sebaste plasma le opere) ma anche tocchi impercettibili di colore, e l’opera si decostruisce per ricostruirsi su elementi minimi - le linee, i colori- e diventa punto di vista creativo e percettivo e, essenzialmente, esperienza dinamica. Sebaste coglie le qualità dinamiche delle forme plastiche messe in campo, presentando sul tessuto, scultoreo o pittorico, una tensione: l’immagine acquista la natura essenziale di materia, entità autonoma, oggetto non statico, opera da cui distillare puro suono. È il “suono interiore” di Kandinskij o l’“idea” di Ortega y Gasset: ciò che importa, sostiene Kandinskij, non è il guscio esteriore dell’opera ma la sua risonanza interiore. E Sebaste coglie appieno il senso della lezione kandinskiana. Immagini evocate, accennate, “silhouettes” antropomorfe o zooforme: l’iconicità si definisce di volta in volta nella mente del lettore, per frammenti, tentativi, ed è lì che operano l’immaginazione e il sogno. “L’arte deve far sognare”, questa l’idea di Sebaste. Non esiste pertanto un punto di vista assoluto, ma solo un’infinità di esperienze cognitive, una lettura secondo un procedimento di “amplificatio emozionale”, un’opera che frammentandosi esibisce il proprio formarsi, il proprio essere “in progress”. Un’“epifania metafisica”, che come affermava De Chirico, è nell’oggetto stesso, e non al di là di esso. L’apporto metafisico dell’opera è, in Sebaste, svelamento, e non imitazione della realtà. L’epifania coincide con il momento di massima concentrazione e di autoriflessività della coscienza, con l’attimo sognante del visitatore, disposto a lasciarsi cogliere dalla maestosità di un silenzio pregno di significati. E, sempre, il riferimento al mito, alla Magna Grecia, ai luoghi della sua formazione: “Bellerofonte a cavallo”, “Nike”, sono i titoli di due totem-scultura nel percorso della rassegna potentina. Metafore assolute, immagini mentali, ma anche pura forza cinetica. Un dinamismo potenziale che è nei tocchi di colore, in piccole macchie puntiformi, con valenza principalmente emotiva. “Un’arte da toccare, da possedere - dice Sebaste - che spinga il lettore al contatto, perché solo allora significa aver regalato emozioni”. Una liricità fatta di frammenti, tutti da ricostruire, come in un immenso “puzzle”, nell’inabissamento e nell’affioramento di un silenzio referenziale, nel gioco e nel sogno, nel palpito magico della “genesi del visibile”.

Grazia Pastore, Da “La Nuova Basilicata”, Potenza, 27 aprile 2005. 186


Francesco Cascino - Roma contemporary art consultant

Il segno del sogno Scherzando con gli uccelli e le acque che corrono dentro e fuori di noi, ci siamo ritrovati a volare e a volere volare sapendo di cadere, eppur bramando il momento della caduta e della sua inevitabile ebbrezza. Il coraggio di essere bambini, dicono alcuni, è ciò che l’Arte potrebbe farci recuperare; la magia di essere puri, pure e nonostante in mezzo a tante tempeste culturali, è probabilmente la nostra più difficile ricerca. Non a caso Sebaste si chiama Salvatore; a ben guardare nelle sue opere, anime animali sfuggono al controllo di schemi e gabbie di cultura senza Conoscenza, sguardi fugaci e liberi, di falchi e colombe, si rincorrono con l’aggressività della passione, giammai della violenza. La Luce scorre sotto i loro occhi appena accennati, ma a uno sguardo attento non sfuggiranno molecole d’infanzia, profumi di giardini incantati e di amici in attesa, sorprese di Natale, carezze e desideri maturi eppure inconsapevoli, forze inesplorate ma familiari, umori di amori e gocce di orgoglio... Che alchimia le forme di Sebaste, che rivelazioni pungenti, inattese, imprendibili e desiderabili allo stesso tempo. Che potenza. Che eleganza. Leggendo un bellissimo testo di Elena Pontiggia del 2002 in occasione della mostra del maestro a Roma, mi fermo e rileggo una frase esatta, di quelle che non fanno più dai tempi di Pertini: “Ma la Natura, lo abbiamo già detto, non è per Sebaste il regno del visibile. Al regno animale, vegetale, minerale bisogna aggiungere un quarto regno: quello del Mistero. Per questo nelle sue opere c’è sempre molto da imparare. Soprattutto su quello che si crede di sapere. E, ancor di più, sul fatto che l’unica cosa che sappiamo, è che sappiamo ben poco”. A parte quest’ultima riflessione dedicata alla mente ma giustissima, perché io stesso apprendo molto più da un’opera ben fatta che da un libro, la considerazione critica di Elena Pontiggia è inappuntabile e serena, e si assume una responsabilità grandissima: le forme e i colori saputi coniugare con la maestrìa della Conoscenza, sia essa consapevole o meno, creano Vita, oltre tutti i positivismi e le 187


sue alteranti esasperazioni. Raccontano la Vita aldilà delle nozioni e sono molto più vicine alla nostra realtà, di tante superstizioni e immagini inutili e ammiccanti. Se si ha il coraggio e la possibilità di rimanere fermi a osservare le opere di Sebaste, s’impareranno tante altre cose, tralasciate per colpa di lavoro e carriera, simili a quelle che abbiamo imparato mentre, invece di fare i compiti, andavamo a giocare in cortile con le nostre anime gemelle. Ci si può perdere un simile tesoro? O lasciarlo ad altri…? E la lezione di Mirò, che Sebaste ha interiorizzato alla perfezione, non si sintetizza con le esperienze degli Informali, tanto da farne un artista educativo e educatore? Guardate quei bianchi che s’inerpicano su montagne di rosso incandescente, provate a immaginare di penetrare le mille vagine di quella materia attraente e magnetica; i rivoli del piacere vi sveglieranno di notte e non potrete dormire se non dopo aver assaggiato il potere del vento, della pioggia e del sole, con le labbra, con le mani e con gli occhi... O forse vi addormenterete, ma solo dopo aver capito che la vera Magia è la materia stessa. Essa vive e convive con noi, si trasforma in pianto, rumore o musica a seconda di avere ben chiare le leggi dell’Armonia. E se ancora non sarete stanchi né paghi, allora provate ad addentrarvi nelle fessure che Sebaste ha costruito per aprire finestre sulla Terra e sui suoi misteri, sulle sue leggi; seguite le linee più blu, quelle profonde; vi porteranno nel giardino del Voi, un giardino popolato da musei in evoluzione, senza mai la stessa collezione ogni giorno. Sorella Luna vi placherà solo guardandovi, ma soltanto dopo che avrete lasciato andare i sensi al riconoscimento istintuale del Mistero, appunto. Il Mistero dell’Arte, delle forme, del gesto e della sua imprescindibile libertà. Un mistero che lascia il Segno perché esiste, perché risveglia ciò che è già in noi ma non sempre trova il tempo e la voglia di uscire. Un mistero che alberga negli animi di chi sogna. Un mistero che parla la vostra lingua, la cerca al contempo e la riconosce senza averla mai studiata. Quello che sentite sferzarvi davanti alle opere, dunque, è il segno del sogno.

Francesco Cascino, Dal Catalogo “Il segno del sogno”, La Spiga d’oro, Metaponto, Mostra Libreria Bocca, Galleria Vittorio Emanuele II, Milano 2005. 188


Gianpaolo Palazzo - Milano giornalista esperto d’arte Milano

Il viaggio milanese di Sebaste Ogni mostra di Sebaste è un viaggio. Quella i n a u g ura ta lo scorso 7 dicembre, all’in­terno della storica Libre­ria Bocca nella Galleria Vittorio Emanuele II, è un viaggio mentale ricco di magnetismi, rivelazio­ni e immagini. II titolo dell’esposizione del resto non lascia dubbi: “II Se­gno del Sogno”. Le composi­zioni di Sebaste non han­no un ordine ridotto a sommario rigoroso della forma pura e chiusa, ma nelle sue opere, scrive l’e­sperto Francesco Casci­no: “Anime animali sfug­gono al controllo di sche­m i e gabbie di cultura senza Conoscenza”. II se­g no sconfina facilmente nella visione onirica, vie­ne trasfigurato e l’imma­g ine sembra perdere suo titolo provvisorio “Aria pulita”, “Dea feri­t a”, “Parete mediterra­nea” o “Grano metaponti­no”. Alla verità dell’argo­mento che vuole rappresentare, il pittore giunge tramite la sfera dei sensi evocativi, con il regno del mistero che racchiude il suo ottimismo. L’artista apprende e allo stesso tempo assorbe l’armonia nascosta dietro l’apparenza delle forme, perché vuole fotografare la realtà di quel momento. Le figure che vengono fuori dagli ininterrotti esperimenti di movimento, non restano forzate dentro la linea di contorno dell’opera. Lo spazio e i corpi si abbinano, “raccontano la Vita - scrive Cascino - aldilà delle nozioni e sono molto più vicini alla nostra realtà”. Tutti gli elementi hanno lo stesso rilievo formale e suscitano uno scambio di opinioni paritetico e continuo tra la realtà del soggetto e quella più allargata del mondo. La profondità è sempre indicata, ma simultaneamente resa nulla dal segno del sogno, una ruga che distingue colore e lega in una sola apparenza le differenti parti della figura. Infatti, colori accesi sanno di cielo, di terra, di mare, di vento che il rumore del mondo non riesce a far svanire. Le immagini rivivono sfidando il disincanto e l’amarezza, con allusioni trapelanti e piene di tensione. Come afferma il sociolo­go canadese Marshall Mc Luhan, la caratteristica più importante di un me­d ium, quindi pure di un’opera d’arte, è la modalità del suo impatto sensoriale. Le opere di Sebaste, mai circoscritte completamente, sono dei messaggi interessati, che influenzano in profondità l’anima del pubblico, lo sollecitano, lo invitano a pensare, a scandagliarsi, a compartecipare. Gianpaolo Palazzo, Da “IL Quotidiano”, Matera, 13 dicembre 2005. 189


Michele Russomano - Potenza giornalista esperto d’arte

Le nuove forme dell’arte “Presto le nuove tecnologie, la fotografia digitale e il video clip per esempio, prenderanno definitivamente il posto dei colori e dei pennelli”. Non è un allarme ma una serena constatazione quella di Salvatore Sebaste, autore, insieme al giornalista Rai, Rocco Brancati, di una raccolta numerata di cento esemplari d’Arte Mediatica, presentati mercoledì 10 maggio scorso, presso la Galleria IdeArte di Potenza. Numerosi gli intervenuti al vernissage che, grazie alla proiezione di una video - intervista di Salvatore Sebaste a cura di Franca Amendola, si è, infine, trasformata in una sorta di lezione del Maestro circa la difficile lettura della sua “produzione artistica”. Un esperimento interessante d’arte mediatica in atto, quest’ultimo, che la direttrice di IdeArte, Grazia Lo Re, si propone di ripetere proiettando, in futuro, nuove video - interviste (realizzate dall’Associazione Culturale La Spiga d’oro) d’interessanti artisti lucani. “Videoarte - ha spiegato Rocco Brancati - traduce il tentativo di mettere la rappresentazione artistica al centro della comunicazione, pilastro, quest’ultima, della società tecnologica e post - moderna”. Da quest’assioma nasce la collaborazione tra Brancati e Sebaste: “L’arte - ha spiegato il Maestro, salentino d’origine ma lucano di adozione – è continua ricerca. Dalla ricerca incessante nasce la mia più recente produzione”. Composizioni a g g r e s s i v e , quelle di Sebaste, esplosive e debordanti. Sospese tra mito, sogno e quotidiano (evocato dai materiali utilizzati - stracci, cartapesta, legno, cuoio e cartone, tra gli altri). L’arte di Sebaste, noto ai più per la sua originaria produzione di stampo “figurativo”, ha smesso d’essere rappresentativa, divenendo fulcro di riflessione, di pensiero e d’immaginazione. “Non importa più ciò che si vede - ha sottolineato il Maestro in proposito - ma ciò che si pensa. L’arte classica non comunica più - ha concluso Sebaste - e compito dell’artista contemporaneo diviene, ormai, quello di esprimere i suoi concetti in modo sempre nuovo”. L’esperimento “Arte mediatica”, e altre opere di Salvatore Sebaste saranno fruibili (è proprio il caso di dirlo tenendo presente il rimando dell’artista salentino alla “tangibilità” della sua produzione pittorica) presso la galleria IdeArte, in Via Lisbona, a Potenza. Michele Russomanno, Da “Il Quotidiano” Potenza, 12 maggio 2006. 190


Antonio De Siena - Metaponto Sovrintendente ai Beni Archeologici della Basilicata

Metabos, un eroe indigeno fondatore di Metaponto La tradizione letteraria antica, rappresentata prevalentemente da commentatori ed eruditi tardi, d’età romana e bizantina, ha conoscenza del nome Alybas / Alybe, indicato come un eroe o come città, più raramente come lago o monte. La localizzazione della città (polis) è piuttosto incerta ed i vari autori hanno suggerito più soluzioni. Per alcuni di loro si troverebbe in Tracia, per altri in Tessaglia e per la maggior parte, invece, in Italìa. La mitica città secondo molti autori antichi deve essere identificata con Metaponto. La prima citazione del nome si trova nell’Odissea di Omero (XXIV, v.v. 302-306). L’astuto Ulisse presentandosi al vecchio padre Laerte con il desiderio di verificare la sua capacità di riconoscerlo dopo tanti anni, si dichiara nelle vesti di Epèrito, proveniente da Alybante. Stefano di Bisanzio, grammatico vissuto tra la fine del V ed il VI sec. d.C., autore di un importante dizionario geografico, alla voce Alybas scrive che corrisponde alla Metaponto d’Italìa e che l’etnico è Alibantio. Nell’Etymologicum Magnum, grande dizionario etimologico composto credibilmente nella seconda metà del X secolo attingendo a fonti più antiche d’ambiente alessandrino, è riferito che Metabos è figlio di Alybas e che il nome deriverebbe dal fatto che Herakles durante il suo viaggio in Occidente, impegnato nella decima fatica alla ricerca della mandria di Gerione, fosse stato ospite di Alybas e che questi avrebbe chiamato il figlio Metabos (meta bous, dopo i buoi) in onore proprio dell’eroe. Sempre Stefano di Bisanzio alla voce Metapòntion precisa che è una città d’Italìa, chiamata in precedenza Siris, e che deriva il proprio nome da Metabos, figlio di Sisiphos, figlio di Aiolos. Per la popolazione locale, infatti, il nome della città è Metabos. A conferma delle sue affermazioni porta un ulteriore esempio. A proposito di Caulonia, colonia greca della costa ionica calabrese, dice che questa avrebbe cambiato più tardi il proprio nome da Aulonia, perché posta in mezzo ad una valle, in Caulonia, cosa che avrebbe fatto anche Metaponto. In origine, infatti, si sarebbe chiamata Metabos dal nome di un eroe. I vari scoliasti di Omero ed i numerosi commentatori bizantini concordano quasi tutti, credibilmente per aver attinto 191


a fonti comuni, nello stabilire un rapporto di familiarità, in alcuni casi di discendenza diretta tra Alybas e Metabos. Entrambi gli eroi sono indicati anche come eponimi delle rispettive città, e Metaponto rappresenterebbe pertanto l’esito finale, l’epilogo di un lungo processo di cambiamenti, di trasformazioni urbanistiche e di eventi mitico-storici. In ogni episodio è sempre sottesa o marcata la presenza di una componente indigena locale, precoloniale. Inoltre, a Metabos la tradizione greca assegna per via del nome anche un legame forte e significativo con Herakles, eroe simbolo adottato dalla popolazione italica e molto diffuso in ambienti con economia prevalentemente pastorale. Per completezza si deve aggiungere che un altro eroe Metabos/Metabus è conosciuto dalla tradizione letteraria antica come re dei Volsci, padre di Camilla e fondatore di Priverno nel Lazio. A questo proposito si deve subito precisare che l’orizzonte all’interno del quale sembrano potersi collocare le varie vicende è chiaramente un orizzonte mitico ed i personaggi citati che s’intrecciano tra loro in un passato volutamente nebuloso ed incerto, costituiscono spesso il sostrato leggendario necessario per spiegare etimologie, miti, tradizioni ed anche eventi politici più tardi. Esiste una sicura relazione tra l’invenzione e la diffusione di queste narrazioni mitiche e la storia politica e religiosa della colonia greca di Metaponto. Antioco di Siracusa (in Strabone VI 1,15), storico del V secolo a.C., conoscitore attento e scrupoloso delle vicende politiche più importanti delle colonie greche dell’Italia meridionale, scrive che “Metaponto precedentemente si chiamasse Metabos e che il suo nome si fosse modificato in seguito; ritiene inoltre che Melanippe (argomento di una tragedia di Euripide) fosse stata condotta non presso questo (Metabos), ma presso Dios. Il primo fatto sarebbe provato dalla presenza dell’Heroon (tomba o luogo sacro dell’eroe) di Metabos; il secondo dalla testimonianza del poeta Asio. L’attendibilità dello storico siracusano è fuori discussione, nonostante alcune sue posizioni denuncino atteggiamenti filotarantini ed antiachei, e non è escluso che abbia avuto modo di conoscere una tradizione ben radicata nel VI secolo, attribuibile con molta credibilità ad Ecateo di Mileto. Infatti, il particolare del cambiamento del nome riferito a Caulonia, e quindi anche a Metaponto, è molto probabile che possa essere attribuito allo stesso Ecateo. Tutto questo conferma che già nel VI secolo, quindi in un periodo ancora di formazione della compagine politica cittadina, gli storici greci erano a conoscenza di questa presenza indigena all’interno della colonia achea e che il nome della città è in qualche modo derivato da un eroe locale. A questi importanti elementi della tradizione storiografica antica si deve aggiungere l’altra annotazione di Strabone, in parte ripresa sempre da Timeo (VI 1,15), secondo cui Metaponto sarebbe stata una fondazione dei Pilii, guidati da Nestore al ritorno della guerra di Troia. Lo confermerebbe il particolare rito locale in onore dei Neleidi, originari proprio da Pilo in Messenia. La città sarebbe stata distrutta in seguito dai Sanniti e sul luogo abbandonato, secondo l’esplicita citazione di Antioco di Siracusa, sarebbe stata impostata la colonia degli Achei del Peloponneso chiamati dai vicini Sibariti in palese opposizione a Taranto. 192


Gli storici moderni hanno molto discusso sulla credibilità di una presunta ‘fondazione pilia’ di Metaponto e sul significato da attribuire al ‘luogo abbandonato’ prima dell’arrivo dei coloni achei. Appare evidente che il Geografo greco di Amasea che scrive nel I secolo ha messo insieme, sintetizzando, versioni differenti, conosciute ed ugualmente accreditate. Molte di queste tradizioni con relative genealogie, però, sono state create in età arcaica e rispondono probabilmente alle esigenze di propaganda e di autoaffermazione delle ricche aristocrazie fondiarie locali impegnate nella lotta politica interna. Esse hanno la prevalente funzione di nobilitare le origini dei singoli gruppi, consolidare le alleanze, costituire nell’immaginario collettivo una memoria facilmente identificabile e dare forme di forte identità. La stessa esperienza tirannica vissuta a Metaponto intorno alla metà del VI secolo a.C. ha sicuramente contribuito alla istituzione di particolari rituali ed alla invenzione di legami genealogici con gli Achei vincitori della guerra di Troia. A questo proposito risulta particolarmente significativo il motivo iconografico rappresentato sul più antico sacello del territorio metapontino, ritrovato nel santuario extraurbano di San Biagio alla Vinella, con la partenza dell’eroe armato, credibilmente Achille, per la guerra di Troia. Lo scontro politico deve essere stato piuttosto violento in età arcaica. La morte violenta del tiranno ed i successivi interventi per la bonifica agraria e per la formazione di un modello di occupazione della campagna basato sull’unità produttiva unifamiliare sono la dimostrazione dell’esistenza di un periodo piuttosto travagliato per la città con lotte sociali seguite da riforme radicali. In questo quadro la componente indigena preesistente, numerosa e sicuramente integrata in vario modo nella nuova comunità coloniale, può aver avuto un ruolo importante nel favorire i processi di cambiamento e nel riconoscimento di determinati diritti civili. Il radicamento e la valorizzazione di un eroe locale di nome Metabos che palesemente precede Metapontos, e nel VI secolo questa tradizione appare già consolidata, possono con molta probabilità essere interpretati come il tentativo della compagine indigena di opporre un proprio eroesimbolo ai temi della propaganda achea. Antioco di Siracusa ritiene che il luogo occupato dai nuovi coloni fosse del tutto abbandonato, ma che la traccia degli eventi precedenti fosse riconoscibile nella presenza a Metaponto dell’Heroon di Metabos. Nell’agorà della città lo scavo ha permesso di riconoscere il santuario di Apollo ed Aristeas descritto da Erodoto. La scoperta della base per la statua del dio, dell’altare e delle numerose foglie dell’albero di alloro in bronzo assicura la certezza che si tratti del monumento visto dallo storico di Alicarnasso nel V secolo a.C. L’immagine con la statua e con l’altare vicino compare anche sulle prime emissioni a doppio rilievo coniate in argento. Con molta probabilità la stessa immagine è riportata su un vaso a figure rosse, attribuibile al pittore di Dolone, e ritrovato recentemente nella necropoli urbana della proprietà Andrisani. Sull’altare sono sedute le ancelle, ed al centro c’è una preoccupata Elena accompagnata dal vecchio Antenore in colloquio con Ulisse, entrambi impegnati nel tentativo di trovare una pacifica soluzione al problema creato con la fuga 193


della donna allo scopo di evitare il conflitto. Sul retro delle figure si riconosce molto bene la statua di Apollo stante con l’arco nella mano. La creazione di questo santuario dedicato ad Apollo delfico sembra coincidere con la trasformazione architettonica del tempio B e con l’abbandono del culto arcaico rivolto ad Apollo Lykaios. Si ha l’impressione, confermata anche da altri importanti indizi, che la fine del VI secolo e la prima metà del V secolo coincidano con una fase di significative trasformazioni politiche e religiose e che i culti legati alle grandi famiglie aristocratiche greche, motivo di scontro e divisione, siano progressivamente eliminati e che al loro posto si affermino forme cultuali più universali, condivise ed accettate dall’intera comunità. A lato del santuario di Apollo ed Aristeas, sempre nell’agorà, appare un altro recinto sacro con all’interno un altare ed una probabile base per una statua. La contiguità topografica ed il risalto architettonico dei due monumenti fanno ritenere che abbiano avuto una forte valenza ideologica-religiosa e che tra loro debba esserci una relazione funzionale. Mancano al momento precise indicazioni archeologiche sulla cronologia dei singoli elementi e sull’attribuzione dell’intera struttura, tuttavia seduce l’ipotesi che possa trattarsi dell’Heroon citato da Antioco ed attribuito a Metabos. La comparsa nelle prime serie monetali a doppio rilievo della statua di Herakles, coeva e molto simile a quella con Apollo/Aristeas, concorre fortemente ad alimentare il sospetto. Del resto, spiegare l’etimologia del nome dell’eroe proprio con il passaggio di Herakles in Occidente e con l’ospitalità offerta dal padre Alybas, significa legare i due personaggi in un rapporto di forte simbiosi, di familiarità ‘mitica’ e di diretta dipendenza. Di conseguenza, la sovrapposizione di Metabos con Herakles ed una sua interpretazione ‘greca’ sono funzionali e servono a ridurre la caratterizzazione in senso locale della figura simbolo, ad annullarne gli effetti identitari. In un possibile scenario di ricercata pacificazione collettiva che vede l’eliminazione sistematica delle tradizioni e delle pratiche religiose legate esplicitamente ai momenti delle origini dei coloni achei, e per questo motivo di scontro politico interno, si colgono anche i cambiamenti riservati ai componenti della comunità indigena ancora presenti nel corpo civico metapontino. Anche l’eroe locale è avvicinato ad una figura più universale, accettata dai Greci e particolarmente cara anche agli Italici, è identificato con Herakles. I culti comuni adottati nell’agorà, quindi, sarebbero il segno di una nuova identità religiosa accettata e condivisa. La comparsa su alcune emissioni monetali metapontine in bronzo della metà del IV secolo a.C. del nome Metabos testimoniano il riemergere in quel periodo di particolari tensioni ed il bisogno di recuperare i motivi della propaganda d’età arcaica, evidentemente mai completamente sopiti, allo scopo di far emergere le differenze etniche, culturali di alcuni componenti della comunità cittadina e utilizzarle nella lotta politica. Questo testo è stato redatto per il “Progetto Metabos” Antonio De Siena, Dal Catalogo Mostra, “Metabos”, La Spiga d’oro di Metaponto, Metaponto, 2007. 194


Sonia Grieco - Matera giornalista esperta d’arte

L’antichità ha le sembianze del moderno: Sebaste in mostra al Museo Archeologico Nazionale di Metaponto È sempre sorprendente scoprire quanto la storia, anche quella, più antica, non recida mai il suo legame con l’attualità. Non tanto perché il presente ne è la naturale conseguenza, ma quanto perché ciò che è stato continua ad avere un senso in quello che è. È questa interminabile relazione tra l’antichità e la contemporaneità, il filo conduttore della mostra «Metabos» dell’artista Salvatore Sebaste, che sarà inaugurata questa sera al Museo Archeologico Nazionale di Metaponto. La pinacoteca metapontina si apre all’esterno e all’arte contemporanea mettendo a disposizione dello scultore i suoi spazi all’aperto. Il risultato è suggestivo ed emozionante: nel prato antistante all’ingresso del museo, tra arbusti e ulivi, spiccano le sculture di Sebaste, essenziali, stilizzate e perfettamente in sintonia con l’archeologia custodita in questi luoghi. Su tutte si erge la statua di Metabos, l’eroe locale e universale dal quale, forse, deriva il nome Metaponto. Una struttura di ferro slanciata (alta 6 metri) che sembra guardare oltre. Una figura di connessione tra un passato e un presente lontani, quelli delle popolazioni autoctone della costa jonica e dell’entroterra lucano e dei colonizzatori della Magna Grecia. Metabos era appunto l’eroe del luogo che attraverso una serie di reinterpretazioni (Metabos, dal greco prima dei buoi, nome scelto dal padre in onore di Ercole) diventa l’eroe di tutti i popoli che vivono in questo territorio. È l’elemento d’integrazione tra la gente dell’antica Lucania e i colonizzatori greci che spesso hanno monopolizzato l’attenzione su questa terra, marginalizzando le grandi civiltà, che lo abitavano prima del loro arrivo. Passato e presente s’intrecciano nell’antichità come ora e questo legame stupisce per la sua grande attualità. Ieri come oggi Metaponto è terra di migranti, d’incontri e di scontri tra culture diverse, tra indigeni e colonizzatori. La mostra Metabos racconta una storia universale, nata da un’idea di Sebaste che ha trovato nel direttore del museo, Antonio De Siena, la possibilità di diventare realtà. “Volevamo far emergere dalla storia e dall’archeologia di Metaponto la componente locale. Metaponto nasce proprio dall’incontro tra gli autoctoni e i colonizzatori” spiega De Siena “e poi abbiamo voluto aprirci all’esterno”. Sonia Grieco, Da “La Nuova”, Matera, 21 luglio 2007. 195


Grazia Tantalo - Matera giornalista esperta d’arte

Sculture di cartapesta e di ferro nella terra degli Dei: miti ed eroi magnogreci sdoganati nella modernità Le sculture si stagliano, perfette, sullo sfondo del prato verde, e restano tra cielo e terra, a raccontare storie di ieri e di oggi, a fondere il mito con la modernità. Come “La sposa”, che nell’armonia tra linee e forme è un po’ l’emblema di quel che dovrebbe essere il rapporto fra uomo e donna. Come “Nike”, che irrompe, potente e primitiva, nella cornice magica che lo accoglie, e sembra fondersi con essa. Come “Metabos”, l’eroe mitologico, universale, raccontato da Omero nell’Odissea, che oggi rivive tra i tesori della Magna Grecia, nella Metaponto contemporanea. “Metabos” è la mostra di scultura di Sebaste, allestita nel parco del Museo Archeologico nazionale di Metaponto, inaugurata sabato sera, in una cerimonia cui intervenivano autorità politiche e istituzioni. “Metabos”, simbiosi tra presente e passato. Sculture in cartapesta che entrano nella cornice antica del Museo con una plasticità contemporanea quasi rumorosa. Ma non le fanno perdere armonia, anzi, lo arricchiscono, come hanno sottolineato, a più riprese, il presidente della Regione, Vito De Filippo, i sottosegretari Filippo Bubbico e Giampaolo D’Andrea, il sindaco di Bernalda, Francesco Renna. La cartapesta, pur trattata con una vernice che la rende resistente alle intemperie, racconta dell’intimo legame di Sebaste con la tradizione. La componente mitologica - le opere hanno nomi come “Atena”, “l’Ombelico di Venere”, “Minerva” -, ricongiunge con un filo invisibile la contemporaneità del contesto alle radici storiche. Anche il gioco pieno/vuoto, geometricità/sinuosità, il contrasto tra la forma che svetta e l’aria che attraversa i trafori, riportano al legame senza tempo tra spazio e materia. Loretta Fabrizi, critico dell’arte intervenuta all’evento, riconosce a Sebaste la preziosa capacita di “rivisitare il passato, recuperando il senso della memoria”. “Metabos” è una nuova tessera nel puzzle del percorso artistico dello scultore e pittore salentino, grande sperimentatore di tecniche e stili, che dal 1998 dirige la Pinacoteca d’arte moderna di Bernalda e Metaponto. “L’idea - spiega lo stesso Sebaste - è nata in Val d’Aosta: dovevo allestire una mostra in un castello, ma non potevo appendere nulla alle pareti. Si pensò prima a una struttura centrale, 196


che però non si armonizzava con il contesto. Allora decisi di realizzare queste forme in cartapesta, i “Fantasmi del castello”. Quella mostra saltò; rimasero le sculture. Questi “fantasmi del passato”, rivisitati, si risvegliano in un museo, luogo che io amo perché pregno di storia, in una terra altrettanto ricca, feconda, amata”. Da “grande promotore di cultura”, come l’ha definito il giornalista Rocco Brancati, che moderava la serata, Sebaste è in grado, con la sua arte, di moltiplicare le potenzialità artistiche e territoriali del Metapontino. Evento perfetto inserito in una cornice che conserva la sua “sacralità”, ma, come ha sottolineato il direttore del Museo, Antonio De Siena, “è struttura dinamica, con un continuo aggiornamento delle esposizioni, aperta a esperienze e stimoli”. Come quello giunto da una nuova, entusiasmante scoperta di poche settimane fa. “Abbiamo trovato - ha proseguito De Siena -, nell’agorà di Metaponto, un luogo sacro all’Apollo universale e, accanto, il monumento a Eracle-Metabos”. Le quindici opere in cartapesta e il Metabos di ferro, che forse resterà qui, si potranno ammirare fino al mese di settembre.

Grazia Tantalo, Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Matera, 23 luglio 2007. 197


Anoall Lejacard - Enschede esperto d’arte

Fugacità e trasformazione delle forme Salvatore Sebaste, versatile sperimentatore, ha saputo crearsi, nell’intersecarsi di stili e tecniche, suggestioni e intuizioni, una coerenza stilistica fondamentale sempre in evoluzione, un suo linguaggio particolare, riconoscibile e inconfondibile, nelle diverse espressioni artistiche: pittura, grafica e scultura, ottenendo esiti sorprendenti. Leccese di nascita e lucano d’adozione, racconta che, da bambino, con la massa del pane (che rubava alla mamma), modellava pupazzi (ispirati ai pupi del presepe realizzati in terracotta o in cartapesta), delineando forme surreali che, illuminate dalla luce delle lampade a petrolio (nel dopoguerra l’energia scarseggiava), si caricavano d’energia cosmica. Negli anni Cinquanta, quando frequentava a Lecce la Scuola d’Arte e poi l’Istituto d’Arte, osservava tutti i giorni, lungo il percorso da casa a scuola, i lavori (santi, Madonne e personaggi) che i cartapestai mettevano sui marciapiedi ad asciugare. Spesso, durante ‘le giornate di sole’, questi artigiani lavoravano all’aperto, dinanzi alla bottega e lui si fermava a osservarli attentamente mentre operavano, cercando di carpire i segreti del mestiere. Il suo vero maestro fu lo scultore Aldo Calò, professore di plastica nella Scuola d’Arte di Lecce, che lo spinse alla conoscenza storica del modellato, spiegandogli lo schiacciato di Donatello o l’alto rilievo dei maestri del romanico e in particolare di Nicola Pisano, dal quale in quel periodo Sebaste era particolarmente attratto. Salvatore Sebaste si esprimeva allora, come ricorda ancora chiaramente, con bozzetti a matita ispirandosi alla realtà salentina, di sapore romanico, seguendo i consigli del maestro Calò che lo invitava a osservare e ricercare forme nuove nel nostro Paese, deturpato dalla guerra, ma avviato alla ricostruzione sociale, politica, economica e architettonica da un popolo laborioso e pieno di speranza per il futuro. Al Magistero di Belle Arti, a Firenze, poiché iscritto alla sezione di arredamento, ebbe modo di osservare e operare in tutti i laboratori, anche in quello di scultura, entusiasmandosi molto alla tecnica del modellato. Le annotazioni dell’insegnante di scultura, tese a perfezionare le tecniche di lavorazione sui vari mate198


riali quali il rame, l’argilla, il marmo, la pietra ecc., lo portarono a modellare e a scolpire. Quando tornava a Lecce, dava forma alla pietra leccese, morbida e facile da incidere e da plasmare. Egli voleva, però, impadronirsi delle tecniche dell’arte scultorea e si cimentava con i più svariati materiali, solo dopo la conoscenza diretta della materia e dei relativi procedimenti esecutivi. Passeggiando, un giorno per le vie di Lecce, si trovò senza accorgersene in un laboratorio di cartapestai, che già aveva osservato da giovanissimo. Rimase profondamente affascinato nel vedere l’artigiano mentre realizzava una statua alta due metri di Sant’Oronzo e cercò di trasferire questa tecnica nei suoi quadri. L’eccitato stupore per la bellezza della cartapesta lo portò ad appuntarsi accanto agli schizzi: “È più facile immaginare una società di muti che una società di ciechi”. Negli anni Sessanta, Sebaste meditava sulla teoria della creazione dell’universo: vedeva un pezzo di materia incandescente staccarsi dal sole e proiettarsi nello spazio, prendendo la forma di una palla; immaginava Qualcuno che si divertiva a trasformare la massa apparentemente morta in materia viva, ricca di pulsazioni, di rumori, di suoni; osservava le forme, createsi nello spazio in continua metamorfosi ed evoluzione, che diventavano la naturale, universale e splendida rassegna di arte creativa, che si offre quotidianamente a tutti noi. Quelle forme gli ricordavano le pietre del Salento tutte corrose, venate da screpolature, logorate dal tempo che si sfaldano totalmente, ritornando al primitivo stato di caos. Nel 1960 divenne docente di Educazione Artistica a Scanzano, una Scuola Media di Basilicata, terra splendida nella sua integrità paesaggistica e culturale. Innamorato di questa regione, si trasferì a Bernalda nel 1963 e la esplorò nelle varie tipologie, fissando con schizzi le forme scolpite nel tufo dei Sassi di Matera, le bellissime sculture lignee delle varie chiese della regione, le figure di donne lucane, i paesaggi e tutto ciò che gli trasmetteva emozioni. Si profilò subito, nell’opera scultorea dell’artista lucano, uno spiccato interesse antropologico, con forti valenze sociali, oltre che puramente estetiche. In lui convivevano complici l’esigenza documentarista e la visione surreale, onirica. Nel 1965 elaborò, nell’officina di Lucio D’Auria a Bernalda, una scultura collocata nell’abside della Chiesa Madre di Policoro, commissionatagli dal parroco della cittadina ionica. L’opera “I Simboli della Chiesa”, è un bassorilievo di ferro battuto di 6x3 metri, raffigurante un Ostensorio, una Croce, una Spiga di grano e un Grappolo d’uva poggiato su una patena. Sempre nel 1965 eseguì il “Cristo in Croce”, la scultura a tutto tondo, in ferro battuto, di 1,50x1x0,40 metri, collocata nella Chiesa della Madonna degli Angeli, a Bernalda. Nel 1968, nella Scuola Media “Pitagora” di Bernalda (ove insegnava), con l’aiuto degli alunni realizzò una struttura policroma in gesso. L’opera rappresenta “La Scuola”: una figura femminile che abbraccia due giovani. Nello stesso anno, nell’aula magna della suddetta scuola 199


ideò un pannello ad alto rilievo: “La Primavera”, in gesso policromo di 6x1,50 metri, che evidenzia il folklore popolare con elementi floreali molto colorati, che rappresentano i giovani nella loro età evolutiva. Sempre nel 1968 progettò per la sua casa (è sposato da tre anni): “La madre”, in cemento color ruggine. In queste opere si coglie l’orchestrazione attenta delle luci e delle ombre, dei vuoti e dei pieni, in una composizione sintetica e assoluta, scarna ed espressionista sempre bilanciata, nonostante la libertà assoluta delle forme. Negli anni Settanta, durante un corso di aggiornamento a Orvieto conobbe lo scultore lucano Donato Linzalata: immediatamente fraternizzarono, collaborarono e s’influenzarono, pur restando unici nelle specifiche personalità. Il Meridione, ricco di tradizioni, è anche depositario culturale di un grande e autorevole passato: quello della Magna Grecia. Le visite ai Musei Archeologici Nazionali di Metaponto e di Policoro, la frequentazione dei parchi archeologici anche in compagnia dell’amico Tono Zancanaro, che soggiornava per lunghi periodi a Policoro (ed era spesso suo ospite nella casa di Bernalda), la sua spiccata propensione per la rievocazione dell’antico lo spingevano a osservare attentamente le statuette votive di sapore magico e i molteplici e interessanti reperti, esposti nei vari musei della regione. Conobbe Sebastian Matta, Raphael Mafai, Enrico Baj. Osservatore curioso e attento, venne a contatto con le opere di Fausto Melotti e Arturo Martini, che lo stimolarono, alla ricerca di forme diverse con materiali di varia natura. Adoperò ancora le pietre del Salento, che scolpì sfruttando le qualità estetiche e la tecnologia della materia ispiratrice. Alcune di queste sculture sono collocate in giardini di ville leccesi. In questi anni, però, Sebaste non si sentiva scultore e negava di esserlo: affermava che si divertiva a produrre sculture e s’interessava alla materia per acquisire esperienze da inserire nelle sue opere pittoriche. Leggeva, in questo periodo, la Bibbia e asseriva di trovare in essa argomenti attualissimi per ispirarsi nei suoi lavori. Realizzò, nel 1974, un bassorilievo di ceramica, dal titolo “La calata delle cavallette”, di 2x1,50 metri, di proprietà privata. Nel 1977 Sebaste fu eletto presidente del noto circolo culturale “La Scaletta” di Matera. In questo periodo conobbe moltissimi artisti importanti, tra cui lo scultore Pietro Consagra, il quale tenne a Matera una grande mostra nei Sassi. Il nostro artista osservò attentamente le opere di Consagra e decise di esprimersi anche con l’ottone. Realizzò, quindi, alcuni bassorilievi alla ricerca di forme antropologiche in una sintesi compositiva di linee, contrapponendo i vuoti ai pieni ed 200


evidenziando il piacere delle avvincenti forme curvilinee. Progettò per la sua casa di Bernalda: “La luce”, un bassorilievo di ottone di 0,90x0,70x 0,10 metri, realizzato nella bottega di Lucio D’Auria. L’artista s’ispirò all’evento della nascita di Cristo: la gente vide la stella cometa (la luce) e si lasciò guidare alla grotta del Salvatore. Negli anni Ottanta, Sebaste generò una serie di lastre di zinco ritagliate, del tutto depurate di accidentalità e peculiarità. Elaborò composizioni che si concretizzarono in combinazioni biomorfe e concrezioni, evidenziando la sua forte creatività e personalità. Nel 1985 l’Amministrazione Comunale di Bernalda gli commissionò una lampada votiva, da offrire al Comune de L’Aquila, per il gemellaggio con Bernalda. Salvatore Sebaste realizzò, in ferro: “Una spiga di grano”, di 1,80x0,40x0,50 metri, ispirandosi all’effigie della moneta magnogreca di Metaponto. Detta scultura si trova nella Chiesa di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila. Nella successiva produzione, il ricorso agli spessori della materia diviene esigenza primaria e componente caratterizzante, rivelando la tensione costante dell’artista al superamento dei limiti oggettivi dei materiali e delle tecniche. Nel 1996 realizzò cinque pannelli di ferro, con la tecnica del traforo con la fiamma ossidrica, per la sua casa di Metaponto, coniugando la struttura artigianale con la fantasia creativa. Ottenne in tal modo forme razionali e contemporaneamente ambigue, che fanno pensare e danno stimoli diversi all’osservatore. Rino Cardone, nella prima monografia “Sebaste“, da lui firmata, asserisce: “Parliamo di alcuni ferri battuti, dove emerge prepotente il segno arcaico di Salvatore Sebaste, quel segno che è del graffitismo metropolitano, ma che appartiene in special modo a quella semantica archetipale cui quest’artista non si è mai sottratto, sin dalle prime esperienze espressioniste e astratto-informali”. Dal 1996 ritornò a lavorare l’argilla, sollecitato e sostenuto dallo scultore Enzo De Filippis, di Grottaglie, realizzando una serie di piccole figure, ispirate alle sculture votive della Magna Grecia. Nello stesso periodo attuò una serie di cartoni bidimensionali, convinto che, per l’arte, la ricerca è molto importante. Le origini leccesi e la remota frequentazione nelle botteghe artigianali lo portarono a riprendere la sperimentazione di forme elaborate di cartapesta che, trattate successivamente con una vernice particolare (usata da un’industria) diventano impermeabili, tanto da poter essere esposte anche all’aperto. Le sculture di Salvatore Sebaste sono pregne d’improvvisi incessanti grumi di materia che ottengono l’effetto di far sentire con la massima evidenza la sensibilità della stessa, che a tratti si fa lievitare come per una luminosità interna e a tratti, si spegne in cupe ombrosità senza fondo, evidenziando la fugacità e la trasformazione delle cose che esistono in natura. Le sculture alte anche alcuni metri, alcune bianche e altre colorate, sono d’ispirazione alla Magna Grecia ed anche agli oggetti plastici popolari, come i cucù. 201


Vibranti verso il cielo, cariche di energia cosmica sembrano fantasmi, venuti dallo spazio. Di queste sculture, la “Forma verde” e “L’intruso”, entrambe del 2000, si trovano: la prima a Matera nella Fondazione Zetema, e l’altra nella Pinacoteca Comunale di Bernalda-Metaponto, dopo essere stata in mostra a Matera al Palazzo dell’Annunziata. Nel 2003, donò alla F.I.D.A.P.A. (sua moglie era la presidente dell’associazione) una serie di quindici sculturine di cartapesta, da regalare a personalità e relatori intervenuti nei vari convegni culturali. Sempre nel 2003 gli fu commissionata dal Comune di Treia (Macerata) una scultura da inserire in un parco cittadino. Sebaste progettò “Forme”, in ferro battuto di 3x0,60x0,70 metri, ispirandosi alle forme del paesaggio marchigiano. Ancora nel 2003 produsse quindici pannelli in terracotta, di 45x60 centimetri, raffiguranti le stazioni della Via Crucis (le quattordici tradizionali, più la Resurrezione di Cristo, come da consiglio di Papa Giovanni Paolo II), collocate nella Chiesa Madre di San Chirico Nuovo (Potenza). Nel 2004, sollecitato da alcuni amici, espose le sculture di cartapesta nel Castello di Lerici, contemporaneamente alla mostra “Il vino di Dioniso”, organizzata dalla Soprintendenza ai Beni Artistici e culturali di Basilicata. In catalogo Antonio De Siena, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Metaponto, dice “l’osservazione delle opere di Sebaste sollecita suggestioni primordiali e favorisce immediati collegamenti con la figura umana, intesa come unità complessa, da cui è possibile scomporre e derivare singole parti, essenziali ma divisibili. Il corpo è completamente destrutturato. La materia trattata rende in maniera efficace i suoi problemi esistenziali, i suoi tormenti di sopravvivenza e di palese conflitto interiore. Il fine bassorilievo e il controllato cromatismo suggeriscono la motilità delle arterie, il tormento delle passioni e il pulsare sostenuto proprio delle grandi emozioni. Traspare subito lo spirito dell’artista, solare, trasversale, eclettico e allo stesso tempo contaminato da tante esperienze e tecniche diverse”. Dopo il successo di Lerici, nel 2005, propose, alla Galleria IdeArte di Potenza, le sue sculture. In catalogo Raffaele Nigro dice “Il Salento è la capitale della cartapesta e dell’artigianato madonnaro. Il barocco si esprime anche attraverso quest’arte popolaresca: statue per la chiesa e pupi per i presepi. Sebaste diresse quel tipo di arte verso una produzione laica e colta, trasformò l’artigianato in arte e restava tuttavia profondamente legato alle sue origini”. La scultura “Bellerofonte a cavallo”, di 2,37x0,79x1,46 metri, dopo essere stata in mostra nella galleria IdeArte, è stata collocata all’ingresso del Consorzio degli Industriali, a Potenza. Convinto che “la civiltà dei consumi ha abituato l’uomo anche al godimento tattile degli oggetti”, l’artista si dibatte tra scultura e pittura producendo una serie di opere che danno tattilità e invitano al compiacimento sensoriale. Una 202


forza nuova abita le metamorfosi segniche di Sebaste, che si sente realizzato esprimendosi in piena libertà. La scultura è per Salvatore un ulteriore mezzo di ricerca espressiva, che si affianca complementare a quella pittorica e grafica, attività sempre praticate dall’artista lucano. Ancora nel 2005, gli fu commissionata dall’Amministrazione Comunale di Etroubles in collaborazione con la Fondation Gianadda di Martigny, un’opera da collocare nel Museo all’Aperto della cittadina della Valle d’Aosta. Salvatore realizzò “Guerra e Pace”, scultura di 6x1x0,78 metri, in ferro battuto, che si trova nel percorso artistico del centro storico, insieme alle opere di sedici artisti di fama mondiale. Elisabetta Pozzetti, in catalogo, scrive “Salvatore Sebaste con Guerra e pace, struttura un obelisco policromo dalla complessa e modulare partitura compositiva. Si succedono o meglio si avvicendano figure antropomorfe dal corpo di lamiera di ferro, in un crescendo formale ritmico, scandito dal variare delle cromie e dal concatenarsi rispettoso delle sagome. L’uomo ancora protagonista (…), perché in realtà sono da sempre connaturati alla natura umana il sentimento bellicoso e quello rappacificatore, la conquista e la convivenza, la violenza e il perdono. Sebaste li mette in scena in un’ardita tensione ascensionale (…) recuperando l’ilarità dei colori”. Nel 2007 realizza una scultura di ferro acciaioso di 6,50x3x3 metri, dedicata a Metabos, l’eroe greco che pare sia stato il fondatore di Metaponto. L’opera sarà situata nell’area antistante al Museo Nazionale Archeologico di Metaponto o in una piazza cittadina di Metaponto. Salvatore Sebaste è un artista poliedrico, con cinquanta anni di ricerca per una storia pittorica, grafica, scultorea ed esistenziale ancora in divenire. Tante sono le pagine da scrivere per uno spirito inquieto e originale, qual è quello di Salvatore Sebaste, mai pago di un approdo sicuro, che solca i mari della sperimentazione con la grande e, ormai, rara capacità di mettersi sempre in gioco e di ripartire con l’entusiasmo di un giovane e la cultura e le capacità di un Maestro.

Anoall Lejacard, Testo Critico Monografia di sculture “Salvatore Sebaste – Palinsesti della Memoria”, La Spiga d’oro, Metaponto, 2007.

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Loretta Fabrizi - Macerata storico dell’arte

Palinsesti della materia. Spazio e tempo nella scultura di Salvatore Sebaste Il rapporto dialettico tra la fisicità della scultura e le tensioni psichiche e immaginative dell’artista rappresentano uno dei grandi “problemi” della scultura in generale. Lo scultore ha a che fare con la durezza della materia che gli resiste e lo stesso suo corpo è “pietra che resiste” (Paul Feyerabend). Dare forma a un’idea significa scontrarsi con una serie di resistenze che la tecnica risolve solo in parte. Scultura e materia, scultura e tecnica, scultura e necessità espressive e comunicative: in questo corpo a corpo, il linguaggio della scultura si definisce come oggetto fisico, portatore di specifici valori di forma e nello stesso tempo come “macchina” per narrare, che reinventa continuamente i propri contenuti nel rapporto che stabilisce con chi guarda. Corpo della scultura, corpo della scrittura. Non è un caso che entrambe esprimano un’originaria, comune radice onomatopeica che traduce lo scavo dello strumento sulla pietra. Prima di essere ciò che rappresentano e che raccontano, scultura e scrittura sono un corpo linguistico e in quanto tale sottoposto alle trasformazioni interne al linguaggio nel corso della sua evoluzione storica. Dalla struttura del discorso come lo voleva Platone – un corpo ben formato con testa, ventre e coda – discende la composizione fatta di relazioni, di proporzioni e di equilibri propria dell’arte occidentale, nonché la sua organizzazione essenzialmente narrativa, che sviluppa un insieme progressivo di elementi significativi che si rinforzano e si spiegano vicendevolmente. Il progetto della “modernità” ha superato la rappresentazione affermando la specificità del mezzo e la valenza del significante formale, non rinunciando tuttavia completamente all’idea di corpo plastico come unità strutturata, chiara e analitica. La “contemporaneità” ha recuperato invece il fattore esperenziale, trasformando la scultura da medium statico e idealizzato a medium materiale e temporale, contestando l’idea stessa del mezzo, in modi vari e diversi assorbito nel reale. Di fronte all’imponente scenario delle pratiche artistiche contemporanee che tendono a polverizzare l’esperienza estetica nella comunicazione mediatica, quale spazio per la scultura e per gli artisti che continuano ostinatamente a praticarla? Dopo l’happening, la performance, l’installazione, che senso ha ragionare ancora in termini di “rilievo-piano-volume-superficie-pieno-vuoto”? Quali le ragioni 204


della scultura? Oltre due secoli e mezzo fa, cercando di definire la scultura e di individuare la categoria generale dell’esperienza cui essa si rifà, G. E. Lessing (Laooconte, 1776), opponendo una sostanziale distinzione, affermava che le arti visive, avendo a che fare con lo spazio – nella scultura si tratta del dispiegamento dei corpi nello spazio – sono essenzialmente statiche. Tuttavia i corpi non esistono solo nello spazio ma anche nel tempo e ogni organizzazione spaziale contiene un’asserzione implicita sulla natura dell’esperienza temporale. Se rileggiamo la storia della scultura moderna e contemporanea alla luce delle categorie interpretative del reale che caratterizzano il nostro attuale presente, emerge con chiarezza che è il tempo, quello reale dell’esperienza, di un senso che non precede, ma nasce col farsi dell’opera e dell’esperienza che se ne fa, il connotato distintivo della presenza di un sentimento del presente che va oltre ogni distinzione disciplinare, stilistica, tecnica. Nella scultura di Salvatore Sebaste questo sentimento del presente si definisce nella prevalenza assegnata ai valori di superficie. Nella puntuale e dettagliata ricostruzione della produzione scultorea di Sebaste fatta da Anoall Lejacard (Fugacità e trasformazione delle forme, 2007) è possibile riconoscere una specie di riassunto della scultura italiana del secondo dopoguerra: dalle prime prove lungo la direzione dell’arcaismo e primitivismo martiniano nella resa della figura umana, al postcubismo intriso di quei fremiti materici e carnali destinati a esplodere con l’Informale e la sperimentazione aperta sulle forme e sui materiali operata da Manzù, Fazzini, Minguzzi, Fabbri, Mastroianni, Leoncillo, Consagra, Mirko; e da Edgardo Mannucci, il grande marchigiano cui chi scrive non può non fare riferimento. Di qui la scultura materica e scabrosa, sottoposta a un processo di corrosione che lasciava lievitare la superficie in una rete di segni animata e viva, con cui veniva espresso tanto il sentimento di vitalità originaria, organica, cosmica, quanto l’inquietudine e il tormento esistenziale di quella generazione di artisti testimone della tragedia dei poteri contro l’uomo, dell’uomo contro l’uomo. Una temperie artistica che ricade su Sebaste, in cui vengono assorbite e filtrate le componenti del proprio, personale vissuto: le memorie lucane e pugliesi, la Magna Grecia e la “luce” di quel Mediterraneo che ha illuminato il mondo. Le tradizioni e i riti di una società ancestrale, la pietra leccese corrosa che reca i segni di una storia millenaria, le botteghe artigiane e la tradizione dei cartapestai, lo straordinario appello ai sensi del barocco leccese. Tutte componenti che “caricano le valenze estetiche di un interesse antropologico dando vita a una semantica archetipale” (Anoall Lejacard) cui l’artista fa costante riferimento e che si concretizza nella tematica mitica e nell’evidente strutturazione totemica delle sue sculture. 205


L’abbandono ai temi mitici va letta come possibilità estrema di restituire all’individuo una consapevolezza storica che lo possa ricongiungere alle forze naturali, mentre nell’espressione potentemente sintetica, ieratica e frontalizzata dell’oggetto totemico si esprime il senso profondo della protezione alla violazione e all’appropriazione dell’oggetto e del suo omologo umano. Spesso è una scultura frontale quella di Sebaste – come in Pietro Consagra – in quanto tentativo di uscire dalla tradizione della statuaria “lingua morta” e favorire il senso dello spazio con la presenza delle aperture, dei trafori e del colore che esalta il rapporto di naturalità. Si diceva della scultura in quanto corpo e del corpo della scultura. Il filosofo contemporaneo Jean-Luc Nancy (Corpus, 1992) sostiene che “I corpi non sono un ‘pieno’, uno spazio riempito (lo spazio è ovunque riempito): sono spazio aperto, lo spazio, cioè che si può chiamare luogo. I corpi sono luoghi di esistenza […] Il corpo-luogo non è né pieno né vuoto, non ha né dentro né fuori, così come non ha parti, né totalità, né funzioni, né finalità”. Noi non abbiamo un corpo ma “siamo” un corpo, vibrazione, apertura, estensione infinitamente rinnovata e singolarmente plasmata, libertà materiale di tinte, toni, luminosità. Corpo che ha luogo al limite, evento di pelle: la pittura è l’arte dei corpi - dice Nancy - perché è pelle da parte a parte. Questo senso della superficie in quanto pelle, incarnato, limite che apre, che distanzia, luogo dove l’anatomia fa posto all’evento (tremare, ridere, godere, soffrire…) è una delle conquiste plastiche del ‘900. Punto d’incontro tra la superficie del corpo, il limite, la frontiera tra ciò che pensiamo come interno e privato ed esterno e pubblico, è il luogo della significazione. Superficie crivellata di segni, di accidenti, protuberanze, scavi, incisioni, grumi, impronte, tracce che evocano forze magiche, primitive, gesti antichi, antichi rituali e il senso di mistero che da questi promana. Le forze interne che condizionano le figure sono ovviamente anatomiche, secondo un vocabolario primitivista, arcaico, stilizzato, geometrico, le forze che provengono dall’esterno vengono dall’artista, la manipolazione, l’artificio, i processi di realizzazione. Come ha rilevato Rosalind Krauss (Passaggi, 1998), mettere l’accento sulla superficie - piano di rappresentazione che oggi potremmo identificare con lo schermo - e sul modo in cui il senso vi è in parte impresso da fattori esterni è una questione fondamentale della scultura di Rodin e di Rosso, i due più importanti scultori alla svolta tra Otto e Novecento. Essa rivela una tensione tra la struttura interna dell’oggetto-scultura che richiama il corpo, e i processi esterni di formazione che ci danno appunto la sensazione di guardare un oggetto foggiato dal “passaggio” delle forze naturali e umane sulla superficie della materia. Negli scriptoria medievali la penuria di papiri e pergamene induceva spesso l’amanuense a cancellare dagli antichi manoscritti, lavandoli e raschiandoli, il te206


sto originario per sostituirlo con un altro. Palinsesto è il multistrato della storia, sedimentazione, frammento irriducibile al suo disegno originario ma che preme sulla nostra coscienza presente con la forza della memoria affiorante. Il palinsesto è l’ottica con cui osserviamo il nostro passato; la stessa natura, il paesaggio, vanno letti come palinsesto, come fatti non solo fisici o geografici ma storici, sociali e culturali. Il paesaggio in effetti, è una metafora di come funziona la memoria, nel senso che nel corso del tempo cancella ciò che vi si è verificato, nasconde, assorbe, e rivela per indizi, tracce, impronte, residui. Raffaele Nigro (2005) chiama appunto le superfici di Sebaste “metafore della memoria”: superfici definite dagli spessori materici che si addensano e si distendono. Escrescenze e scrostature, tessiture di segni sopra fondi sabbiosi, argille screpolate e muri di calcina, dove la tattilità, la policromia, il polimaterismo, la trattazione pittorica della superficie si definiscono come costanti di una ricerca che trova nelle opere in cartapesta un punto di confluenza, in cui il pittore e lo scultore si congiungono in una via unificante motivata da un’unica sostanza espressiva. Tuttavia la scultura di Sebaste dà la sensazione di una struttura interna dell’oggetto che è vero si frammenta ed articola dislocandosi, ma che rimane sostanzialmente unitaria. Qui abbiamo la fusione dei due modi di essere di un oggetto: l’essenza strutturale e l’esistenza contingente che possiede nello spazio reale di fronte alla mutevolezza del contesto e di chi guarda. Opposizione tra un centro statico e un esterno cangiante e in movimento. Ecco che pur nella frammentazione, l’opera tenta di andare oltre il carattere parziale delle informazioni per una percezione globale dell’immagine “trasparente al suo nucleo” (Krauss). Una sola veduta si pone come momento di una circolazione continua intorno all’oggetto, svolto nel tempo e nello spazio, ma unificato dalla trasparenza al suo nucleo. Nella dialettica tra struttura e superficie della scultura di Sebaste, l’esperienza del tempo è dunque riassunta e trascesa nel corpo di un racconto cui un artista intriso di Mediterraneo non può e non deve rinunciare.

Loretta Fabrizi, Testo Critico Monografia di sculture “Salvatore Sebaste” Palinsesti della Memoria, la Spiga d’Oro,Metaponto, 2007 207


+ Giovanni Ricchiuti Arcivescovo di Acerenza

Carissimo Maestro, più volte sollecitato dal parroco della chiesa di San Nicola di Bari in San Chirico Nuovo, don Michele Perriello, pastore zelante e intelligente di quella comunità, scrivo volentieri le mie impressioni sulle opere scultoree plasmate dalle sue mani e che arricchiscono già da qualche tempo con la loro bellezza quella chiesa parrocchiale. Non avevo avuto il piacere di conoscerla personalmente prima di quel nostro incontro, la sera del 6 dicembre 2008, quando inauguravo e benedicevo i pannelli artistici del portale d’ingresso della Chiesa Madre di San Chirico Nuovo. Qualche tempo prima di quel nostro incontro avevo già ammirato i pannelli della Via Crucis e il tamburo del fonte battesimale, opere commissionatele da don Michele che si era premurato poi di mettere tra le mie mani alcuni cataloghi delle sue opere. Uno tra questi, in particolare, aveva attirato la mia attenzione (quello pubblicato dalla Pinacoteca d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto nel 1999) perché ricco di notizie biografiche, sulla Sua persona e su tutta la sua molteplice attività, a firma d’importanti critici di arte, nonché artisti essi stessi, e di splendide immagini fotografiche delle sue opere pittoriche e scultoree. La comune origine pugliese ieri, e oggi lucana, offre già segni eloquenti d’interpretazione, ancorché di non facile lettura, di ciò che le Sue mani hanno lasciato impresso sulla tela e nell’argilla: la luminosità dei colori, l’intensità dei volti, la quotidianità ora drammatica, ora gioiosa, ora indolente delle figure, i paesaggi scrutati nella loro misteriosità. Il tutto immerso in queir orientale (meridionale, aggiungo) lumen che affascina e stupisce. Ma entrando in San Nicola di Bari, a San Chirico, subito lo sguardo è attratto dalle formelle di argilla che ornano il portale e lungo le quali si snodano i racconti della Creazione e della vita di San Nicola. Ella, carissimo Maestro, ricorderà come nelle parole di benedizione misi in rilievo innanzitutto che, in riferimento al tema della creazione, geniale era stata la scelta del materiale, e cioè dell’argilla, perché evocante la narrazione biblica della creazione di Adamo: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo 208


e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen.1,7). La bellezza del creato, la luce che illumina le tenebre del caos primordiale, il sole, la luna e le stelle a scandire il tempo in giorno e in notte, alberi e piante a ricoprire la terra, animali e bestie portatori già della feconda benedizione di Dio e, infine lui, l’uomo, maschio e femmina, ‘immagine’ del Creatore, invitati alla festa della vita: tutto questo il mio sguardo ha osservato, scrutato, contemplato e ammirato. Complimenti vivissimi, Maestro, perché per un momento ho pensato alle Sue mani, mani di artista che plasmano, affondando nell’argilla, e che modellano volti e oggetti e paesaggi per trasmettere il messaggio della bellezza. Messaggio di estrema attualità, oggi più che mai, mentre la nostra umanità sembra volare basso, ‘Impaurita’ dalla straordinaria e irripetibile avventura della vita come grazia e dono ricevuti da Colui che ha voluto mettere al vertice della Creazione I’umanità affidandole tutto l’universo. Anche le formelle raffiguranti la vita santa del vescovo Nicola di Mira, diventato poi il patrono di Bari e di tante chiese parrocchiali nel nostro Sud, raccontano in tratti semplici e incisivi i gesti e i prodigi di un santo pastore della Chiesa e amico dei poveri. La presenza della Sua attività artistica continua all’interno della chiesa parrocchiale nei quadri della Via Crucis in ognuno dei quali il volto sofferente del Cristo e l’orizzonte della croce invitano a contemplare nella sofferenza del Signore la possibilità di camminare con Lui, attraverso la lettura cristiana del dolore, verso la luce della speranza e della fiducia. Infine, la copertura del fonte battesimale, argilla che si fa acqua di purificazione e di salvezza nell’entrare di Gesù nel fiume Giordano, atteso da Giovanni il Battista, e nel suo riemergere Figlio di Dio, fratello di noi peccatori chiamati da Lui a vita nuova. Grazie, maestro Sebaste, per la lezione di vita cristiana che Ella ci ha offerto attraverso l’argilla diventata pagina di alta e profonda spiritualità.

Giovanni Ricchiuti, Arcivescovo di Acerenza, prefazione a “La chiesa di San Nicola di Bari a San Chirico Nuovo”, Ed. Parrocchia di S. Nicola di Bari – S. Chirico Nuovo, 2008. 209


Don Vito Telesca - Potenza esperto d’arte sacra

Figure che, quasi staccandosi dal fondo, ci vengono incontro per farsi contemplare Dal Bollettino diocesano - 1968 - dell’allora Diocesi di Potenza e Marsiconuovo risulta che a Potenza nel mese di giugno si tenne la prima edizione del premio “Potenza Sacra” con l’adesione di ottanta artisti italiani, le cui opere furono selezionate dalla Giuria di accettazione, formata dai proff. artisti Leone e Ranaldi e dal Can. Messina. Di essi soltanto trentaquattro furono ammessi alla Mostra e al Premio perché attinenti, secondo un articolo del regolamento, al tema senza esclusione di correnti e tendenze artistiche. Il premio, recita il verbale del bollettino, ha conseguito un lusinghiero risultato e come ha sottolineato il Vescovo S.E.Mons. Aurelio Sorrentino nell’incontro con i giornalisti il 7 giugno, il Premio voleva essere un incentivo, un richiamo, un invito per un approfondimento e un ripensamento personale di punti fondamentali della dottrina cristiana, da esprimere poi attraverso le varie forme dell’arte, della poesia, del bello. Voleva essere un tentativo di apertura, di dialogo fra la Chiesa e l’Arte, una risposta all’indicazione del Concilio Vaticano II, che nel Messaggio finale auspicava una nuova alleanza fra Chiesa e Artisti. Una giuria allargata rispetto alla Commissione per l’accettazione, composta da illustri nomi alla presenza di Mons. Giovanni Fallani, presidente della Pontificia Commissione per l’Arte Sacra in Italia, all’unanimità non ritenne opportuno assegnare il primo premio perché non si ravvisava la presenza di un’opera che emergeva in maniera eccezionale rispetto alle altre e pertanto fu deliberato di dividere il monte premio nel modo seguente: L.100.000 a Boniello Francesco di Taranto per l’opera “No! alla violenza”. L.100.000 a Sebaste Salvatore di Bernalda per l’opera “Sacrificio e umanità” Ad altri tre artisti fu elargita la somma di L.50.000 ciascuno. L’opera di Boniello, collocata attualmente nell’ufficio della cancelleria della Curia diocesana, da tutti viene considerata un’opera di grande spessore e attualità e ha ben figurato nelle due mostre d’arte sacra, del Giubileo 2000 e del 2006 a Potenza, dove erano presenti opere di molti grandi artisti dell’arte italiana del novecento. L’opera di Sebaste attualmente fa parte di quelle che l’autore ha selezionato per la sua personale collezione d’arte. 210


Perché inizio questa mia presentazione per la via crucis, la porta e il fonte battesimale della Chiesa di San Nicola in San Chirico Nuovo (PZ) realizzata in questi ultimi tempi dall’artista Sebaste, facendo riferimento a questa manifestazione voluta da S. E. Mons. Aurelio Sorrentino all’indomani del Concilio Vaticano II? Quando l’artista e amico Sebaste per telefono mi ha espresso il desiderio di un mio scritto sulle opere realizzate in terracotta per la chiesa madre di San Chirico Nuovo, sono rimasto alquanto sorpreso perché certamente meglio di me critici autorevoli ne possono mediare la lettura. All’incertezza ho subito sostituito la possibilità di collegare quest’evento a quanto sopra descritto per due motivi: mi emoziona pensare che chi mi ha imposto le mani sul capo per consacrarmi sacerdote, per l’appunto Mons. Aurelio Sorrentino, fresco di entusiasmo del dopo-concilio ha subito cercato di rendere concreta la nuova alleanza, auspicata dal Concilio, tra Chiesa e Artisti. Mi sento orgoglioso di continuare oggi nella nostra Chiesa potentina quanto iniziato nel 1968 da questo Pastore illuminato e creativo nell’attenzione verso l’arte pittorica e scultoria e poi improvvisamente sommerso in un lungo silenzio. Il secondo motivo è dato dalla premiazione degli artisti che vede al primo posto, ex - equo con Francesco Boniello, il giovane artista Salvatore Sebaste. La proposta di Sebaste mi ha profondamente incuriosito perché la sua pittura, in questo caso trattasi di scultura, da me conosciuta dagli anni Ottanta non è certamente nella direzione di un’arte sacra specifica per una chiesa, dove la pittura e la scultura devono, sì, esprimersi con i segni e il linguaggio della modernità, ma devono pur sempre essere leggibili e fedeli al principio che ne giustifica la presenza nelle chiese: Dio si è fatto visibile mediante l’Incarnazione del suo Figlio primogenito. Perché l’artista dovrebbe ridargli con la sua arte l’invisibilità, il nascondimento e costringere l’uomo a ricercarlo dietro segni che non sono facilmente identificabili e non sono quelli del mistero cristiano, ma piuttosto sono frutto di una fin troppo accondiscendenza dell’arte a quelle che sono le terribili conseguenze culturali del grido di Nietzsche :”dio è morto”. Il Dio che si presenta carico della croce, il Dio che viene riconosciuto dal centurione come tale sulla croce, non può tradursi in “altro diversamente Dio”. L’Onnipotente, il Dio di Abramo, per farsi presente nella storia ha scelto la croce come luogo e strumento specifico della sua manifestazione, né vi è strumento più epifanico della croce. La pittura e la scultura cui ci ha abituato Sebaste, ampiamente presenti sul territorio lucano, e bene inserite nei circuiti nazionali e internazionali, come evidenzia il suo “curriculum” che ormai registra cinquanta anni d’intensa attività artistica, si presentano accattivanti per le sue “alchimie cromatiche, solari e piene di luce” (Rino Cardone). In esse sono pienamente centrati il linguaggio artistico e i contenuti assai moderni, resi ancora più fascinosi, da quel sottile 211


legame che spesso lo riporta ai miti antichi della Magna Grecia, che egli rivisita e fa rivivere nella modernità delle sue opere con grande maestria e padronanza della materia che di volta in volta sceglie per esprimersi. Sfogliando i suoi cataloghi sembra che non ci sia traccia del sacro propriamente cristiano o di un’attenzione di prima istanza verso le infinite suggestioni che offre ancora oggi il mistero cristiano. Bisogna riandare agli anni Sessanta per trovare dei Crocifissi in metallo a seguito, immagino, di commissioni per i luoghi dove oggi sono collocati; sono i tempi della partecipazione del premio a “Potenza sacra”, e della rinnovata attenzione che la Chiesa aveva ridato all’arte quella sacra in special modo. Gli anni Settanta e a seguire non sono stati di certo favorevoli per il nuovo sodalizio tra Chiesa e Arte, le arti visive così come tutto il variegato modo riducibile alla voce arte, hanno avuto ben altre suggestioni e hanno percorso altre vie e la Chiesa nello stesso tempo, fatte alcune eccezioni, non ha voluto o non ha saputo farsi compagna di strada del mondo del variegato mondo dell’arte. L’intensa preparazione al Giubileo del 2000 e la sua straordinaria realizzazione, la costruzione delle nuove chiese, grazie all’8x1000, hanno ridato improvvisamente ossigeno vitale al colloquio tra Chiesa e arte. Il riaffacciarsi di tanti artisti nel mondo dell’arte sacra cristiana è stata una naturale rioccupazione di uno spazio a loro anticamente familiare. Mi si perdoni l’immagine, ma sembra proprio di pensarlo come un immaginario, ipotetico, spesso anche reale ritorno, di un uomo adulto che si ritrova tra i muri di una casa che l’hanno visto crescere, ma che poi la vita, gli affetti, le mutazioni della città gli hanno fatto lasciare. Sempre nel catalogo di Sebaste nel 2003 ci s’imbatte in una pagina che riproduce le 15 stazioni in terracotta della Via Crucis per la Chiesa Madre di San Chirico Nuovo, paese a me molto caro per i numerosissimi e carissimi alunni affidatimi da famiglie cariche di speranze per il futuro dei loro figli negli anni del mio rettorato al Seminario Minore e al Maggiore di Basilicata 1973-1994. È subito evidente la maestria con cui Sebaste lascia il suo linguaggio artistico con cui ha espresso nell’arco di un cinquantennio, i contenuti a lui cari, per riappropriarsi usando la terracotta, materia a lui cara, di un linguaggio primordiale, chiaramente non preso in prestito, ma di sua appartenenza, direi, “per antico possesso”, ed ecco che delle corpose e nitide figure, quasi staccandosi dal fondo ci vengono incontro per farsi contemplare nel loro dolore così come la tradizione della Via Crucis l’ha raccontato nel corso del secondo millennio fino ai confini della terra. Si lasciano contemplare e ci interpellano. È il dolore provocato dall’ingiustizia di una condanna iniqua e dalla malvagità dei carnefici, è il dolore partecipativo delle pie donne e della veronica, è il dolore solidale del cireneo, è il dolore straziante di una madre che vede dolente e morente il dolce “figlio bianco e vermiglio” Jacopone da Todi e lo riabbraccia senza vita, è il grido lacerante di chi innocente si sente abbandonato e grida il suo perché, è l’immagine di chi ha affrontato la morte ed è risorto, “Mors et vita duello conflixere 212


mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus”. Victimae Paschali. Sebaste racconta tutto questo con il candore di un bambino. A seguire, di recente, gli è stato commissionato sempre per la Chiesa di San Chirico Nuovo un intervento sul battistero e sulla porta, dove campeggiano sulle due ante centrali sei formelle che raccontano i sei giorni della creazione, tema biblico sempre di grande interesse per gli artisti, chiuse in alto e in basso in uno spazio orizzontale con una dimensione verticale molto sacrificata, da quattro formelle che in alto raffigurano il Dio creatore nel porre inizio alla sua opera nell’incontro con la materia informe e in basso le icone di San Nicola di Bari e di San Chirico. Il tutto è stato racchiuso nelle parti laterali, a mo’ di cornice, come spesso capita di vedere nell’iconografia ortodossa, con 12 piccole formelle che narrano la vita di San Nicola di Bari cui è titolata la chiesa. È molto gradevole l’impatto visivo, perché a differenza della Via Crucis, caldo è il colore della terracotta cui si aggiunge di qua e di là un piacevole intervento inteso a creare un habitat che ne allarga gli orizzonti, e le figure, sempre bene evidenziate, si stagliano non più su un fondo neutro, ma al contrario si muovono in un ambiente molto animato. Il tutto visto con un solo colpo d’occhio sembra rimandare ai racconti pittorici e scultorei medievali dove la mancanza di prospettiva dà il primo piano alle figure e le sfumature abilmente collocate aiutano a costruire un fondo che racchiude elementi significativi della scena che diversamente non troverebbero posto, come per esempio accade nel racconto della Via Crucis dove c’è posto solo per i personaggi delle singole formelle. Il colore caldo della terracotta nelle varie tonalità e il primo piano delle figure di sicuro creano un’atmosfera in cui il visitatore o il semplice fedele può solo dare spazio allo stupore. Tuttavia alla bellezza e al fascino di ciò che emana dai lavori in terracotta, si accompagna anche la fragilità cui è esposto tutto il lavoro, essendo la porta di una chiesa un luogo di movimento, di passaggio: È questo un assist per un successivo lavoro di bronzo, materia di certo più appropriata per affrontare continui traumi, dovuti a possibili contatti di ogni genere? No di certo! È solo per riaffermare che la terracotta è sì una materia fragile, ma per adesso godiamoci le emozioni che essa ci comunica.

Vito Telesca, Vicario Generale dell’Archidiocesi di Potenza - Muro Lucano – Marsiconuovo, Da “La Chiesa di San Nicola di Bari San Chirico Nuovo”, ed. Parrocchia di San Nicola, San Chirico Nuovo (PZ), 2008. 213


Don Michele Perriello - San Chirico Nuovo parroco

Sculture di Sebaste: patrimonio culturale della Chiesa Madre Chirico Nuovo

di San

Volendo fissare, per un attimo, lo sguardo sul mio itinerario di vita, fin qui fatto, non posso non scorgere tanti volti di angeli che la Provvidenza ha posto sul mio cammino, e nei momenti più significativi della mia esistenza. E fra questi angeli, che mi hanno sostenuto fin dall’inizio della mia avventura nella sequela di Cristo, in una donazione senza riserva alcuna a Dio e ai fratelli, in modo che io scoprissi, giorno dopo giorno, il disegno d’amore che il Datore d’ogni bene ha predisposto su di me per i suoi fini di salvezza, ecco Salvatore e Jolanda. Era l’estate del 2001 quando me li sono visti davanti, la prima volta, per delle foto da scattare in Chiesa Madre da inserire, se non erro, in un programma informatico della Regione Basilicata a carattere storico-culturale. Da allora, da quel momento, vien fuori il discorso della Via Crucis in terracotta, quasi a suggellare il mio 25° di Sacerdozio, celebrato il 18 maggio 2002. Passa qualche anno, e il nuovo Vescovo di Acerenza, Sua Eccellenza Rev.ma Monsignor Giovanni Ricchiuti, mi suggerisce di mettere il Fonte Battesimale in una posizione più visibile preminente. Nasce l’idea della copertura del Fonte stesso in terracotta, richiamandomi così alla Via Crucis (anno 2007). Rifacendomi poi a un mio sogno o desiderio di vedere il portone d’ingresso della Chiesa Madre con pannelli di bronzo, mai messo in atto, mi viene di suggerire al Professore di rinnovare il portale interno della Chiesa con alcuni pannelli in terracotta che, in sintonia con le opere precedenti, descrivessero: 214


in sei pannelli grandi, i giorni della Creazione, come riportati nel primo libro della Bibbia: la Genesi; in 12 pannelli più piccoli, 6 da un lato e 6 dall’altro, tutt’intorno ai riquadri della Creazione, che si rifanno a episodi salienti della vita di S. Nicola di Bari, titolare della Chiesa Madre; in 4 pannelli rettangolari, due al disopra la Creazione che raffigurano il braccio creativo di Dio, e due al disotto che raffigurano S. Quirico, da cui il nome San Chirico dato al Comune, e S. Nicola. Sul valore artistico delle suddette Opere Sebastiane, non ho titoli né requisiti accademici per esprimermi. Ma una cosa, che parte dal cuore, voglio dire: non finirò mai di ringraziare il buon Dio di avermi fatto incontrare, forse in una maniera fortuita, ma pur sempre da Lui predisposta, Salvatore e Jolanda, che avrò sempre presenti nel mio cuore durante la preghiera e, più ancora nella Celebrazione Eucaristica, momento culminante la mia giornata sacerdotale. Da me forse è partita l’dea, l’ispirazione, ma sono loro, e in particolare Salvatore, non io, che hanno saputo trasfondere nella terracotta, in un modo proprio dell’artista, tutta la loro fede, mettendo a fuoco, nella Via Crucis, il mistero della Redenzione, che si rende a noi accessibile nel Fonte Battesimale attraverso la rinascita alla Grazia, simboleggiata dalle acque fluttuanti della copertura del Fonte, in modo da recuperare quel piano di vita, rappresentato nei pannelli della Creazione affissi al portale, una volta messo a repentaglio dal peccato. Grazie, Salvatore e Jolanda! Il Signore, Lui stesso, sarà la vostra unica e vera ricompensa di quanto, del Suo Mistero d’amore, avete saputo rendere visibile in queste Opere d’arte, che saranno, d’ora in avanti, patrimonio culturale di questa Chiesa Madre, la quale diventa ora, a buon diritto, anche vostra. Qui rimarrà sempre il vostro nome, a ricordo perenne della vostra presenza in mezzo a noi.

Don Michele Perriello, da “La Chiesa di San Nicola di Bari San Chirico Nuovo”, ed. Parrocchia di San Nicola, San Chirico Nuovo (PZ), 2008. 215


Rocco Brancati - Potenza giornalista esperto d’arte

Nuovo Rinascimento Opere plastiche in argilla, realizzate secondo lo stile a mezza strada tra figurativo ed astratto: l’arte moderna si ispira ai grandi maestri del passato. A San Chirico Nuovo un esempio di “Nuovo Rinascimento” per l’inaugurazione del Portale, della Via Crucis e della copertura della Fonte Battesimale, opere del maestro Salvatore Sebaste. Se ancora fosse necessario motivare le ragioni per scegliere una nuova arte per le nostre chiese, antiche e nuove, l’opera di Sebaste dovrebbe dare un buon suggerimento a tutti i committenti di oggi. Dopo la riforma liturgica e l’applicazione dei nuovi rituali, siamo oggi alla riproposizione (ecco perché Nuovo Rinascimento) di un’arte contemporanea attraverso un dialogo continuo con gli artisti di oggi. Sebaste con le sue opere a San Chirico Nuovo e in altre chiese in Basilicata e fuori dai confini regionali lascia in custodia la poesia dell’estetica sacra e santa che scaturisce da una committenza sensibile alle arti applicate al culto. Nella chiesa di San Nicola di Bari l’arcivescovo di Acerenza mons. Ricchiuti e il parroco don Michele nella serata di inaugurazione hanno testimoniato la gioia della comunità locale per un’Arte Sacra che arricchisce le preesistenze presenze artistiche realizzate nel corso dei secoli. Il Portale del maestro Sebaste che ripropone la rappresentazione della creazione individua in un’equilibrata plasticità, figure in rilievo di sapore classico. Sono d’accordo con il giudizio di don Vito Telesca quando afferma che “la pittura e la scultura alle quali ci ha abituato Sebaste, ampiamente presenti sul territorio lucano e bene inseriti nei circuiti nazionali ed internazionali, evidenziano il suo curriculum che ormai registra il mezzo secolo di intensa attività artistica”. Rocco Brancati, Da “La Chiesa di San Nicola di Bari San Chirico Nuovo”, ed. Parrocchia di San Nicola, San Chirico Nuovo (PZ), 2008. 216


Rino Cardone - Potenza giornalista critico d’arte

Artifizio figurativo Trovo che la forza di queste sculture stia nella ricercata “rottura” - da parte tua - dei canoni accademici (ovvero: vuoto/pieno, modellato/grezzo e conformato/ irregolare) a vantaggio dell’espressione diretta, immediata e popolare. La materia in questa maniera non resta “ingabbiata” nei rigidi codici di un’arte plastica, di tipo classico (leggi: proporzione, prospettiva e profondità) ma acquista nella sua dimensione comunicativa, voluttuosa, pragmatica e concreta, fino ad assumere - a tratti - toni addirittura sensuali e carnali, tipici di quella “immediatezza” e “freschezza” che è propria della cultura popolare. Con quest’artifizio figurativo, sei riuscito - in pratica ad avvicinarti al cuore di quella “gente-semplice” cui è diretto, essenzialmente, il messaggio della carità e della pietà cristiana: riuscendo, nel contempo, a esaltare (senza vuota retorica, come negli “affreschi catacombali” della Chiesa proto cristiana) le radici, semantiche e spirituali, della Parola evangelica.

Rino Cardone, testimonianza sulle sculture d’arte sacra collocate nella Chiesa Madre di San Chirico Nuovo (Potenza), 2008. 217


Gianpaolo Palazzo - Milano giornalista

Dio e la creazione secondo Sebaste Nel giorno in cui si festeggia san Nicola di Bari, come ricorda un proverbio, la rondine passa i mari. Quest’uccello con coda biforcuta, dal piumaggio nero sul dorso e bianco sul ventre, è citato più volte nella Bibbia e potrà essere menzionato, forse, proprio domani nella Chiesa Madre di San Chirico Nuovo, alle 18, quando saranno presentate alcune opere di Salvatore Sebaste: il portale, la Via

Crucis e la copertura del fonte battesimale. Oltre allo scultore interverranno l’arcivescovo di Acerenza, monsignor Giovanni Ricchiuti e il giornalista della Rai, Rocco Brancati. Nella sua ricerca concettuale e visiva Sebaste, dopo un lavoro durato più di un anno, è riuscito a dar voce ai temi cari alla tradizione cristiana. Sulle due ante centrali del portale della chiesa spiccano sei formelle in terracotta con i sei giorni della creazione. Ci sono poi quattro ulteriori formelle: quelle in alto raffigurano il Dio creatore e quelle in basso le icone di San Nicola di Bari e di San Chirico. L’opera è incorniciata da altre piccole formelle che narrano la vita di San Nicola

di Bari cui intitolata la chiesa. Nelle opere viene fuori, come confessa anche l’artista leccese ma lucano d’adozione, la totale e libera energia creativa, tradotta in figure che oscillano sempre 218


tra l’astratto e il figurativo. “La terracotta con cui ho lavorato - dice lo scultore – l’ho scelta perché è una materia economica, ma ‘calda’, che si fa guardare”. Ogni personaggio sacro sembra vivere realmente, perché è permeato di sensazioni, tensioni emotive e desideri inconsci. Il vuoto e il pieno giocano tra loro, sfruttando la luce e il buio e regalando ciò che oggi più manca all’arte: la capacità di stupire e di stupirsi veramente.

Sebaste, anche nella Via Crucis, regala ai sanchirichesi e ai fedeli il suo punto di vista, non dimenticando il dolore di Gesù e portando il fedele, stazione dopo stazione, verso una sensibilità spontanea, verso un mondo distante molti secoli da noi eppure così vicino, verso una dimensione terrena e divina.

“Sembra che l’artista, come scrive Anoall Lejacard - voglia penetrare nel nucleo interno della materia, esplorarne le fibre più nascoste, ma solo per trovare in definitiva, una nuova espressione d’armonia”. La Via Crucis, il portale e la copertura del fonte battesimale testimoniano che esiste e resiste ancora, in un mondo sempre più secolarizzato, una capacità di rappresentare, oltre l’umano autentico, il divino, il cristiano, il religioso. Religiosi, infatti, come ricordava il Pontefice Paolo VI, lo siamo tutti “metafisicamente” in qualche misura”.

Gianpaolo Palazzo, Da “Il Quotidiano”, Potenza, 6 dicembre 2008. 219


Anoal Lejacard - Enschede critico d’arte

“Glauco” a Riva dei Greci, a Metaponto Glauco, dio del mare, costruì la nave Argo per partecipare, tra le onde tempestose come timoniere, all’impresa degli Argo­nauti. Secondo una leggenda, in origine, era un pescatore, che gettò un pesce mezzo morto su una certa erba e, quando vide che il pesce riprendeva vita, mangiò quell’erba. Subito dopo si sentì spinto in mare e divenne immortale. Oceano e Teli lo fecero un dio. Glauco è approdato nella scultura di Salvatore Sebaste, a Riva dei Greci, a Metaponto e, proiettato verso il cielo, pare ascolti la musica delle onde del mare. Sulla nave, regge il sole, simbolo di luce, di calore e di prosperità. L’opera, in ferro colorato, vuole essere di buon auspicio a chi vive sulle antiche e gloriose terre della Magna Grecia. Un disco metallico, la forma di una barca, un’onda” dice Sebaste “sono oggetti inanimati, a meno che da loro non si sprigioni ‘qualcosa’ che attrae, ‘qualcosa’ di magico, d’impalpabile, difficilmente definibile”. Nelle composizioni di Sebaste c’è sempre un quid così presente, che costituisce il fascino delle sue sculture, l’attrazione vitale cui contribuiscono in egual misura la leggerezza e il colore, l’eleganza della linea e la repentina vibrazione di un movimento inatteso; persino lo spazio che le circonda diventa un tutt’uno con quelle forme che fanno sentire la silenziosa presenza dell’artista. Sono sculture frontali che escono dalla tradizione statuaria antica e favoriscono il senso dello spazio con la presenza delle aperture, dei trafori e del colore che esalta il rapporto di naturalità. Sono l’espressione della creatività plastica dell’artista che, con mano sicura fora con la fiamma ossidrica lamiere di ferro, che diventano “oggetti tattili”, capaci di trasmettere visibili e forti messaggi di grande significato per lo spettatore. Sebaste fonde i vari elementi compositivi in un nucleo unitario, in un particolare blocco complessivo, dilatato e appiattito, da cui emergono le varie forme. La sua aspirazione è di “esprimere un grande volume con un minimo di materia: una grande colonna regge la barca, l’onda e il sole all’alba, lasciando il piacere di indovinare quello che c’è di là delle forme”. L’aspirazione che si ritrova in quest’opera, come in tutta la produzione più recente dell’artista, sembra avviarsi, però, a una soluzione a tutto tondo.

Anoall Lejacard, Dal Catalogo Mostra “Glauco”, Riva dei Greci, Metaponto Lido, 2009. 220


Giorgio Seveso - Milano storico dell’arte

Alle radici dell’immaginario Sono passati ben 122 anni dalla nascita della Permanente e, con la collaborazione e l’entusiasmo dei soci, si è riusciti a esporre all’interno della sede le opere di proprietà, prima con mostre collettive di tutti gli associati, ora con rassegne “a due”, utilizzando una sala del primo piano, lo “Spazio Atelier”. “La formula della mostra di coppia della Permanente si rivela quanto mai efficace e adatta riunendo due artisti che, per forme e per poetiche, presentano più di un parallelismo. Si sono scelti (…) in quanto c’è il riconoscimento e l’esplorazione di un sotterraneo humus comune, di una condivisa radice profonda, che nutre il loro immaginario e le loro fantasticazioni, che restituisce affinità di tono al lirismo delle loro differenti impostazioni formali e tecniche. E tale radice è quella dell’antica cultura mediterranea, nei miti e leggende, nei suoi eroismi e furori, nei suoi valori fantastici, che si allargano dalle ombre degli antichi popoli delle sue sponde fino agli sparsi lacerti di una Magna Grecia favolosa che ancora trapela dal tessuto del presente. (…) In Sebaste quest’anima antica di un linguaggio contemporaneo prende sembianze infuocate e brulicanti. E ciò avviene nel nome della magìa e del mito, ove il fuoco (di cui del resto si serve per fondere e distribuire i suoi impasti cromatici sul supporto del quadro) è quasi il fuoco delle sibille o quello dei fulmini degli dei, o, ancora, è quello dell’alchimista che, in un territorio di sensibilità plastiche essenziali, di sottili e palpitanti valori simbolici, trasformando le materie e i pigmenti, trasforma anche lo sguardo e fors’anche l’anima di se stesso. Anche qui un altro grande esempio, quello di Jackson Pollock e della sua action painting, è in qualche misura assimilato e metabolizzato dal nostro autore, fondendo l’antico nel moderno in un appassionato susseguirsi di segni e di gesti, di superfici scabre e di guizzanti e tormentati arabescamenti. Ne scaturisce un suggestivo intreccio di contemplazione dell’inconscio ma anche d’impulso, un’espressività allucinata e rorida che si distribuisce tra memoria dell’arcaico e aggiornata raffinatezza del contemporaneo alla ricerca dello spirito primario e del suo senso definitivo nell’economia dell’esistere, quasi come se il gesto della creazione artistica partecipasse alla ricerca di una sorta di quintessenza del significato della vita, di un suo principio definitivo e assoluto. Giorgio Seveso, Dal Catalogo Mostra “Percorsi”, La Spiga d’oro, Metaponto, Palazzo della Permanente – Spazio Atelier, Milano 2009. 221


Maria Torelli - Matera storica dell’arte

Territorialità di una cultura universale Furono le parole del Delfinio a guidare i primi coloni greci in questa terra di facili approdi, tra due foci di fiumi. Giunti a prenderne possesso, non si trovarono di fronte il silenzio ospitale delle terre vergini in cui l’unico suono è il verso incessante dei rospi e delle cicale, ma popoli antichi che dissero di avere conosciuto e sconfitto Minosse, e divinità selvagge che avevano signoria sulle fonti sotterranee, sulle maree, sull’anima e la carne. La vitalità violenta dell’Oinotria, il Giardino del Tramonto vegliato da serpenti e mostri ha avuto bisogno di uno sforzo di comprensione da parte di quegli antichissimi colonizzatori. Una “fatica” culturale che adesso si chiede di compiere nuovamente a chi si accosta alla produzione di Salvatore Sebaste, perché la sua immediatezza nasconde simboli ed emblemi che si sommano fra loro, come frammenti di edifici preesistenti sulle cui fondamenta costruire un concetto più variegato e insieme più autentico di arte. Meftis era, per le genti pregreche, la Grande Madre Montagna, con i capelli verdi e il volto bianco come la roccia, dai cui fianchi nascevano i cavalli. Nel suo ventre perennemente affamato e sempre gravido precipitavano le primizie: i frutti più perfetti dell’anno, gli agnelli, a volte i figli dei re. Saturno era il seminatore celeste, il feroce re destinato a vegliare solo nelle notti più lunghe dell’inverno, mentre tutti dormivano, e a sognare il buio per il resto dell’anno: quando i ceppi che lo stringevano erano allentati, poteva rendere di nuovo fertili gli alberi e i pascoli nel riposo del gelo. Sono, questi, Dei-archetipi fondamentali, più antichi dei Greci, più antichi delle stesse popolazioni italiche: la pittura di Sebaste li ha conosciuti, attraverso i capitoli della storia della propria terra, e li ha fatti suoi in un processo che ha portato l’artista a celebrare la dualità come una ricchezza, non come una dicotomia che va estirpata, in un’interiorizzazione di un concetto che è vicino a quello magico del percorso pagano. Successivamente all’approdo, giunse la necessità, per i nuovi padroni di queste 222


fertili terre, di difendere la conquista da coloro che la contendevano: la Storia racconta di guerre, di massacri, perfino di sacrilegi. La prima caduta di SiriPolieion condusse allo sterminio dei coloni ioni: raccontano gli storici che la statua di Pallade volse ancora una volta gli occhi alla dimora del padre Zeus, come dentro la rocca di Ilio devastata quando Aiace segnò la sua morte in mare, perché il destino è sempre uguale per gli uomini: pirati, mercanti, bestemmiatori e violentatori di donne. Tuttavia, pur rimanendo di questi scontri l’eco crudele nelle tele dell’artista, si assiste alla celebrazione della ciclicità del tempo, dell’ineluttabilità del destino, non con la rassegnazione di chi lo subisce, ma con la serenità di chi percepisce anche nella vita che affronta un evento doloroso, un colore e una forma che mutano. D’altra parte, con il volgere delle generazioni, per i coloni, i legami con le convenzioni e le leggi della terra natale si allentarono, anche se forse non giunsero a spezzarsi, e non restò loro che arrendersi, diventare appunto qualcosa d’altro. Quasi con leggerezza strinsero quell’alleanza, sposarono le donne dei Choni, degli Enotri dai monili di oro pesante, perché il destino è sempre uguale per gli uomini: amanti, traditori, traditi e padri. L’arte di Sebaste è legata al territorio dal momento che è il luogo che plasma chi vive al suo interno mentre questi s’illude di modificarlo a suo piacimento e a sua immagine; vive nella memoria, ma non solo per essa. Come il funzionale degli antichi doveva rispondere anche ai canoni del bello (la kalokagathìa), il personale concetto della bellezza per l’artista è sì funzionale a un principio, ma questo principio è classico, nel senso di sempre valido. È un antico mistero quello per cui la forza di due pensieri, di due culti uniti aumenta fino a divenire assai più grande della loro somma. Così, nel nuovo pantheon magnogreco la Madre Montagna si affiancò all’Hera sotterranea e guerriera che venne dall’Argolide; Apollo divenne il Lupo del Giorno, protettore degli armenti; il Signore dei Pozzi abbracciò come fratello Posdan, il padre dei mostri marini. E trovarono spazio, nella resa, nella carne delle generazioni che vennero, giorno dopo giorno. Le nuove generazioni nate dalle alleanze tra gli - oramai - ex invasori e i primi abitanti pregarono quegli Dei nati dall’abbraccio di due nazioni, portarono le loro effigi sotto le vesti. E la Grande Grecia divenne più ricca e potente della patria lontana, grazie a Loro. L’esperienza profonda di questa comunione con Numi arcaici eppure nuovi, stranieri eppure legati alla Lucania è ciò che questo percorso artistico ci offre: i coloni siamo noi; noi che eravamo reietti, quasi scacciati col divieto di tornare, fummo onorati come grandi guerrieri, diventammo principi di antica nobiltà, gli iniziati del tirso e del sistro. Noi fummo i prediletti del Trace Dioniso, celebrato con l’orgia per la sua morte e rinascita, cantato a ogni coppa di vino. Egli c’insegnò l’intruglio d’amore che si fa con la vite, il miele e il mirto, e con il suo aiuto 223


fummo i primi ad ammaliare Roma, figlia dei Lucumoni. I saggi delle nostre poleis furono seguaci dell’uomo di Samo dalla coscia d’oro, che conosceva il linguaggio degli animali, dei genii fluviali e la magia dei numeri e dell’armonia celeste; di Theano sua sposa, da cui le maghe dei secoli bui trassero la conoscenza delle erbe e le litanie che tolgono il malocchio. Quel che avvenne dopo - la paura della sapienza delle donne, delle Dee dagli occhi di rapace notturno che illuminavano le notti in cui il cielo era vuoto di stelle - non significò la morte della magia divina. È vero, ci fu chi chiamò demoni, o streghe, i sacerdoti guaritori e le profetesse, inventando storie calunniose di patti con mostri infernali e veleni distillati dal sangue uterino: ma l’integrazione era stata troppo profonda, e chi non conosce il vero nome di questa energia, non ha la forza di scacciarla. Ancora oggi il potere di tutti gli Dei si mostra, nella calura meridiana, negli spiriti dei bambini con i berretti rossi, nelle danze delle donne attorno ai noci. La pittura di Salvatore Sebaste è arte raffinata che non ha perso tuttavia il senso dell’immaginario antico e folklorico. Essa ci rende nuovamente intellegibili i gesti, le materie, che sono gli stessi da millenni: le bambole di terracotta tormentate di spilli piangono in eterno per ottenere l’amore o la morte; i Signori dell’Averno, che nulla possono dimenticare, leggono ancora le maledizioni attorte nel piombo malevolo, indistruttibili, poste dentro tombe a camera che ancora tornano alla luce. L’anima primordiale dei primi abitatori non andrà mai via dalla Grande Grecia, per quante messe si celebrino, per quanti nuovi eroi e culti si possano imporre. Perchè anche noi siamo i coloni ed è il nostro sangue che ha nutrito gli altari di questa terra per l’ultima volta, quando ancora esisteva il destino. E la magia attenderà nelle onde, nelle rocce e dentro la luna il momento del ritorno.

Maria Torelli, dal catalogo mostra “Percorsi”, La Spiga d’oro, Metaponto, Palazzo della Permanente - Spazio Atelier, Milano 2009. 224


Carlo Franza - Milano storico dell’arte

Messaggeri nascosti che evocano arie e formule L’artista pugliese, anzi salentino, ha da poco terminato una bellissima mostra alla Permanente di Milano, dove ha dato modo di lasciar leggere ampiamente la territorialità del suo lavoro, e l’incidenza europea della pittura che appare gravida di un substrato sociologico, di un limbale confronto con temi che già lo scrittore materano Rocco Scotellaro ebbe a significare nel suo libro “Contadini del Sud”. È proprio da questa identità e da queste origini, che l’artista si porta dentro, che va letta la sua opera. Si parte dal tema della terra, grande madre, per riflettere sul trascorrere delle stagioni, sulla ricchezza naturale fermentante e sulla storia intima e privata, ma anche pubblica, che da sempre racconta di avvenimenti, di usi e costumanze, di riti e gesti, di pietre e malocchi, di spiriti e angeli, di tabelle e abitini, di devozioni e animali, di sangue e streghe. Potrei così continuare alla luce di titoli ricavati per ogni dipinto su cui Sebaste intesse un clima da espressionismo astratto, dove materia e segno, colature e forme, scrivono e cancellano, compiono movimenti e salti, gestualità e ritmi, aprono finestre e liberano il racconto che le sostiene, facendo sempre più luce su miti antichi e fecondi, con toni a dir poco mediterranei e vitalistici, se non lussuriosi, calcando i percorsi di numerosi artisti americani che negli anni fra i Sessanta e i Settanta del Novecento hanno declinato l’informe. C’è in ogni dipinto una sorta di magia aniconica che assume tracce su fondali sibillini, dove messaggeri nascosti evocano arie e formule, facendo innamorare di questi capolavori quanti ancor oggi giocano a trovare risposte fondanti alla loro creatività. Un fuoco trasporta la materia in un dripping che si accende poi in un cuore, in un ex-voto, in un fantoccio, in un feticcio, in un fantasma, in una chiave filosofi­ca che racconta di uno spirito inquieto e porta alla conoscenza del mondo. II segnale pittorico di Salvatore Sebaste annusa l’arte antica, l’arte primi225


tiva, l’arte greco-ro­mana, l’arte pagana, l’arte avul­sa da schemi ordinati proprio perché generante da un vulca­no incustodito e imprevedibile. Le tracce di un racconto univer­ s ale scandito per capitoli qui trovano non la scienza e la co­ scienza ma la simbologia er­metica che già i poeti maledetti hanno declinato nelle loro vi­ sioni; giacché sono queste a diffonderne la decorazione ero­tica e suggestiva, l’orbita e il cambiamento, gli elementi e l’i­gnoto, fino alle chimere, ai pre­sagi e alle divinazioni. Salvatore Sebaste è artista troppo colto se offre un corredo germinativo come questo, dove popolare e sociale aprono a storicità ed epicità e l’antropolo­gia culturale é chiave di volta di questa pittura ormai scrigno pesante.

Carlo Franza, Da “Leadership medica”, Milano, 2010. 226


Raffaello De Ruggieri - Matera esperto d’arte

‘Per non dimenticare Nassiriya’ di Salvatore Sebaste Da qualche anno Salvatore Sebaste lavora realizzando un tipo di scultu­ra che costruisce per aggregazioni, per sottrazioni, per schemi, per concetti, mirando a ricomporre in un linguaggio modernissimo l’immagine di uno spazio dove penetrano forme e dimensioni della condizione umana. È stato soprattutto il suo rapporto quotidiano con la mediterraneità dei luoghi a coinvolgerlo nella ricerca di costruzioni plastiche quasi per tradur­re i modelli statuari della classicità greca nella monumentalità di strutture espresso con moderni materiali. Tale ricerca ha inaugurato nuove possibilità formali e ha espresso aggiornati messaggi. In questa recente pulsione creativa l’artista, oramai lucano di adozione, non ha potuto tradire la sua origine salentina, dove vive con forza il riconoscimento popolare del salvifico ruolo dell’Arma dei Carabinieri. Una simile coscienza popolare, nel tempo, si è tradotta nella scelta di vita di molti gio­vani di quel territorio che, arruolandosi, hanno sposato la missione civile e militare dell’Arma dei Carabinieri. Questi valori territoriali hanno tonificato il progetto affidato a Salvato­re Sebaste di ricordare nel tempo i militari caduti a Nassiriya, mentre atten­devano alla loro missione di pace, garantititi dal convinto impegno italiano per il rafforzamento civile, culturale ed economico della gracile democrazia irachena. È a tutti noto il contributo assicurato all’Iraq, dalla caduta del regime di Saddarn Hussein nel 2003 a oggi. L’impegno del nostro Paese a favore della libertà del popolo iracheno e della conseguente stabilizzazione democratica è stato, infatti, importante e significativo, sia in termini umani, per il sacrificio di nostri militari e civili, sia in termini di risorse economiche. Con questo spirito e con questi valori è stata realizzata la grande scul­tura in ferro il cui espresso proposito è stato appunto quello di elevare a monumentalità la memoria dei caduti di Nassiriya. E il luogo prescelto non poteva non essere Metaponto, pervaso dall’eroismo del mito e dalle testimo­nianze di una storia mai sconfitta. Sebaste ha trovato naturalmente lo spazio ispiratore, 227


forte di per sé de­gli impulsi e dei sensi segnati, dove inglobare la propria creatività plastica. Attraverso un ricercato mimetismo visivo, l’artista ha divaricato la co­struzione ferrosa in due braccia osannanti, quasi a ricordare la violenza lacerante di un’esplosione e la ricomposizione simbolica di un abbraccio solidale per i militari caduti. Nel rendere visibile il pensato, Sebaste ha scelto una scultura libera­ta dalle tradizionali cadenze di materiali, condizionata dall’immagine umana; è una scultura nuova, empirica, immediata, corsiva, demistificata rispetto ai modelli della mitografia statuaria. Una scultura fondata, ap­punto, strumentalmente sulla corsività gestuale dell’intervento diretto, fiamma ossidrica e saldatura alla mano, e quindi basata sulla dialettica con una materia altrettanto immediata e concreta, una materia come il ferro, universale sotto il profilo della tecnologia contemporanea. Sono frammenti di forme antropomorfiche ricavate in trasparenza dall’iniziale omogeneo supporto metallico, sono figure dai contorni marcati che si formano non per lenti depositi di materia ma per brusche rotture, sprigionando tutta l’energia e l’immediatezza del gesto creativo che le ha strutturate. È una scultura che parla allo spettatore tanto più direttamente e perentoriamente quanto più la quasi virtuosistica certezza di mano del forgiato­re e la sua inesauribile vena nel reperire strumenti inediti al suo linguaggio che si trasformano in forme in cui la figura dell’uomo si ripropone in diversa essenzialità. In questa visione, con Sebaste, l’elemento primario e materico ritorna a un’esaltazione totale. II problema da affrontare e la ricerca di un rin­novato rapporto tra tecnica e uomo, tra tecnologia e umanità e la relativa misura è espressa dall’uomo con la sua capacità critica. Nel nuovo sentiero artistico, rappresentato dalla creatività plastica, Sebaste manifesta appunto il desiderio di sperimentare nuove tecniche di lavorazione della materia che siano più immediate rispetto al tradizionale metodo di comunicazione. Egli allora affianca all’espressionismo mediterraneo delle sue tele il mo­dellato traspirante delle sue sculture fatte da diversi materiali (acrilico, legno, ecc.), ma fermandosi verso la sperimentazione del segno tranciato dalla fiamma ossidrica su un’informe lamiera; si apre, così, una nuova stagione per l’artista ‘lucano’, nella quale egli si allontana definitivamente dagli ultimi retaggi della sintassi espressionistica per intraprendere un nuo­vo percorso che lo porterà a divenire uno scultore dalla forte concettualità del messaggio. II suo è una specie d’inedito totemismo, sottratto all’arte astratta, perché munito di visibili e forti messaggi sui valori assoluti espressi nel tempo dalla vicenda storica dell’umanità. Sono oggetti tattili, investiti di grande significato per lo spettatore, chiamato a viverne i contenuti tragici ed evo­cativi. Con questa opera Sebaste traccia un itinerario, dove la manualità e la concet228


tualità sono in continuo dialogo, passando coerentemente dal pro­getto all’opera, dalla materia alla sua rigorosa elaborazione formale, dal segno immediato all’impegno nella traduzione di un valore simbolico. Egli sostanzia la sua proposta di scultura come progettualità, in un ri­goroso racconto emblematico che ricompone le tracce del passato (gli eroi classici della terra jonica: come il Metabos installato all’esterno del Museo Archeologico Nazionale di Metaponto) e le storie drammatiche del nostro tempo (gli eroi di Nassiriya) in scritture dove prevale la scansione del ritmo evocante antichi procedimenti creativi e la contemporaneità delle produ­zioni seriali. Come già si è accennato per Sebaste la scultura è prima di tutto un mes­saggio traslato in forme e contenuti, una dimensione della scultura che si misura, sfidandoli, con la tecnologia e con i linguaggi del mondo contem­poraneo. Forte di questa temperie ispiratrice e dell’esperimentato moderno me­todo di lavoro, Salvatore Sebaste ha sublimato, così, nell’opera lo spirito di sacrificio degli eroi di Nassiriya e la costanza della missione di pace attuata in territori lontani dai militari dell’Arma dei Carabinieri.

Raffaello De Ruggieri, Dal Catalogo “Per non dimenticare Nassiriya”, La Spiga d’oro, Metaponto, Metaponto 2010. 229


Maria Torelli - Matera storica dell’arte

Per non dimenticare Nassiriya: forme della memoria. La promessa dell’arte, quando s’ispira a fatti eroici, è quella dell’immortalità nella memoria. In una società in cui compimento del proprio dovere quotidiano è spesso epica impresa contro l’indifferenza e il lassismo, l’arte celebra coloro che combattono per la pace, coloro che costruiscono anziché distruggere. Il primo impatto visivo con la scultura del maestro Sebaste sembra dirci appunto questo, presentandoci al centro ideale dell’opera il simbolo dell’arma dei Carabinieri, che però si regge e fonda la sua vitalità sugli atti e potremmo dire sulle esistenze stesse di coloro che lo compongono, cosicché l’istituzione non si dia senza gli uomini, e questi ultimi affidino senso della propria realizzazione a essa. Per questo il simbolo, chiaro, è al centro di una massa scura di uomini, che lo proteggono e da esso sembrano trarre l’energia del movimento. La scultura appare quasi come il tronco di un enorme albero spezzato in due da una folgore: dal cuore della pianta, però, emerge la caparbia bellezza di un nuovo germoglio. Inevitabili le stratigrafie emozionali di un segno tanto potente ed evocativo. Per il naturale contrasto che le figure monocrome creano con l’ambiente in cui si trovano, dobbiamo tornare con la mente ai segnacoli delle antiche tombe ateniesi del Dipylon: grandi vasi di ceramica brulicanti di figure nere, cavalli e uomini che sfilano in cortei funebri destinati a non spezzarsi mai. Il colore scuro impone all’immagine di non sbiadire, al ricordo di non affievolirsi. L’effetto raggiunto dal maestro Sebaste è simile a quello voluto dall’anonimo ceramografo e altrettanto produttivo. Ma non è solo la ceramica greca a essere rievocata. Hieronymus Bosch, con le sue angosciose assemblee di uomini che svelano molto meno di quello che mostrano, è a un capo di questa immaginaria linea: il polo del dolore, dell’arte ammonitrice contro i delitti dell’umanità; gli articolati intrecci decorativi dello stile pop di Keith Haring vengono invece alla mente per la liberatoria (e 230


positiva) composizione delle forme. Salvatore Sebaste ha saputo fondere in un unico complesso disegno entrambe queste istanze, realizzando un pezzo che si bilancia perfettamente tra la denuncia dei pericoli del mondo e la celebrazione della sacralità della vita, scevro da ogni retorica e capace di arrivare al cuore dell’osservatore per mezzo di un tratto che è avanguardistico e insieme senza tempo. Non a caso i riferimenti per quest’opera sono pittorici, perche la scultura “dipinge” un soggetto che nel mondo circostante ha il proprio rilievo, che chiede di essere visto prima che guardato. Lo sfondo dell’opera di Sebaste è la terra, il cielo, il paesaggio che traspare dai vuoti lasciati nella materia, attraverso gli occhi cavi delle figurine, intorno alle loro membra geometrizzanti e al medesimo tempo espressive. Ciò che colpisce è proprio la chiarezza narrativa, intensa e commovente senza essere artificiosa: è la Iuce che definisce lo spazio creando peculiari giochi di ombre e definendo volumi che solo grazie ad essa appaiono; sono il togliere, il tagliare, iI travagliare la materia che danno senso a quello che poi emerge. In questo monumento per gli eroi di Nassiriya si avverte sì il grido della sofferenza, però forgiato in un serrato e tuttavia elegante incontro di corpi: come un ossimoro artistico che dettaglia il caos in precisi modelli, trovando un’euritmia incalzante laddove sembrava impossibile che ve ne fosse. E cos’è il caos, infatti, se non l’abisso spalancato sul dolore, ma anche la gioia creativa, il valore che sempre si rinnova nella risposta del cuore alla violenza? Come a volerlo dimostrare, il metallo si fa fragile quanto la vita dell’uomo, e inattaccabile quanto la sua anima. La forma cede il passo al gesto e alla sua forza interiore, l’oratoria non ha posto, dove l’emozione dell’artista si comunica in modo istantaneo allo spettatore. Per una volta assistiamo non al dialogo dell’umanità con le voci della Storia, di Dio, dell’Etica, ma a un sommesso messaggio dell’uomo per l’uomo: perché i sacrifici non siano vani, occorre celebrare la vita, ricordare il bene.

Maria Torelli, Dal Catalogo “Per non dimenticare Nassiriya”, La Spiga d’oro Metaponto, Metaponto 2010. 231


Pino Gallo - Metaponto giornalista

Qui i caduti di Nassiriya non saranno dimenticati È stata una mattinata intensa e di grandi emozioni quella dedicata all’inaugurazione del Monumento ai caduti di Nassiriya, dove il 12 novembre del 2003 morirono 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito italiano e due civili italiani, insieme ad altre 9 vittime irachene. L’abbraccio di Metaponto è stato caldo ed affettuoso, col cuore attorno a quegli uomini che sono tornati nelle loro famiglie, avvolti per sempre nei colori della bandiera italiana. “Qui non ci sono che polvere e pallottole”. Queste le parole pronunciate la sera precedente la strage da una delle vittime di Nassiriya, il maresciallo dei Carabinieri Filippo Merlin di Sant’Arcangelo, comunicate per telefono al suo comandante di compagnia, il tenente Pietro Mennone, attuale responsabile della compagnia carabinieri di Pisticci, forse in un momento di amarezza e di sconforto. Due braccia di ferro, trapuntate da brandelli di figure umane, stringono la fiamma dei Carabinieri. È questa la rappresentazione che l’autore dell’opera, Salvatore Sebaste, ha reso con la fiamma ossidrica, precisa come bisturi, e che sembra proiettata all’infinito verso un punto di arrivo, che viaggia nello spazio e nel tempo. Si è commosso anche l’artista quando ha ringraziato il maresciallo Giovanni Moscogiuri, comandante la stazione Carabinieri di Metaponto, “al quale va tutto il merito di averla fortemente voluta e velocemente realizzata con il contributo di alcuni sponsor”. Così il sindaco di Bernalda e Metaponto, Leonardo Chiruzzi, ed il capitano Pietro Mennone hanno scoperto il monumento, fra gli applausi scroscianti e commossi della gente, che ha reso gli onori a tutta la cerimonia in un crescendo di profonda adesione e di vicinanza al dolore dei familiari delle vittime.

Pino Gallo, Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Matera, 4 giugno 2010. 232


Mariadelaide Cuozzo - Napoli storico dell’arte

Il demone della forma Uno degli episodi riportati da Salvatore Sebaste nel suo diario di vita e di lavoro riguarda l’abitudine che egli aveva da bambino, durante le sere trascorse accanto al focolare ascoltando racconti popolari abitati da diavoli, streghe e altre creature magiche, di violare il candore delle pareti domestiche imbiancate a calce tracciandovi dei segni con bastoncini di legno combusti sottratti al camino, mentre immaginava di vedere dei Diavoletti rossi sbucare dal pentolone sospeso sul fuoco. Quei segni scarabocchiati sullo schermo immacolato dei muri della sua casa di Novoli, vicino a Lecce, si sarebbero poi tramutati, nella prima età scolare, in goffi, piccoli demoni che tentava di disegnare sulla carta e che, oltre ad essere il frutto della sua fantasia di bambino stimolata dalle fiabe e dal folklore della sua terra, probabilmente avevano anche una qualche parentela con le bizzarre creature fantastiche di gusto quasi neo-medioevale intagliate nella pietra che gremiscono, a orrore del vuoto, le architetture di quel Barocco leccese che l’artista aveva avuto davanti agli occhi da sempre. L’episodio può essere ovviamente considerato rivelatore di una precoce propensione per l’arte. È però interessante che tale propensione si manifestasse già allora secondo la modalità primordiale del tracciare segni iconici su un supporto scabro e materico, qual è quello delle pareti di una casa contadina (che possono anche rinviare per suggestione analogica a quelle delle grotte rupestri graffite e dipinte dall’uomo preistorico). Ed è lo stesso Sebaste a ritornare ripetutamente, ancora nella sua preziosa raccolta di appunti personali utilissima per lo storico e per il critico, sull’interesse per lui rivestito dal disegno infantile che, sulla scia di Dubuffet ma anche di Kandinskij e di Klee, considera una manifestazione di creatività quasi magica, tanto più espressiva e profonda in quanto primigenia e perciò libera e autentica. È stato dunque il segno grafico, il primo mezzo in cui l’artista si è riconosciuto e tale impronta originaria, persistendo nel tempo, avrebbe dato nuovi frutti verso la metà degli anni Cinquanta, quando Sebaste, ancora studente presso il Magistero di Belle Arti di Firenze, avrebbe scoperto, grazie alle esortazioni di Alessandro Parronchi, suo docente di Storia dell’arte, le tecniche grafiche dell’incisione, in cui avrebbe presto raggiunto risultati eccellenti. Ma come ha più volte sottolineato la critica, anche un’altra impronta delle origini, quella della cultura artistica e popolare leccese e salentina, lo avrebbe seguito costantemente nel tempo manifestandosi in modo evidente, dagli anni Settanta, in un recupero della tecnica artigianale della cartapesta e in un suo inedito riuso come medium artistico. 233


Pure quel piccolo demone tracciato a stento dalla mano dell’artista bambino e che forse, senza che lui lo sapesse, era già simbolo di qualcosa di più grande, era destinato a permanere a lungo in lui, ritornando a più riprese in vari suoi dipinti e incisioni di carattere figurativo. Ma crescendo e modificandosi ulteriormente al punto da liberarsi della sua forma iconica, esso giunse infine a mostrare la sua essenza profonda, rivelandosi come una sorta di dàimon socratico, un potente impulso interiore che in Sebaste si traduce ancora oggi in un fervido istinto creatore di forme generate da una perpetua ricerca linguistica e tecnica. Forme organiche pulsanti di vita che sono il frutto - come testimonia questa mostra antologica che copre un cinquantennio di attività dell’artista, dagli esordi ai nostri giorni - di una scelta attuata progressivamente e non senza periodici ripensamenti, in direzione di un allontanamento, che oggi sembrerebbe definitivo, dai linguaggi di matrice figurativa tradizionale. La storia di Sebaste è per molti aspetti paradigmatica della situazione in cui si trovarono a operare, all’indomani del secondo dopoguerra, diversi artisti provenienti dalle regioni meridionali d’Italia. Se molti fra loro, in mancanza d’istituzioni deputate alla formazione artistica di livello accademico o anche semplicemente d’istituti superiori di educazione artistica, proseguendo una consuetudine plurisecolare continuavano a fare capo a Napoli per compiere i propri studi e per tentare di intraprendere una carriera in campo artistico, altri incominciarono a scegliere destinazioni diverse, più lontane dalle loro terre ma prossime ai centri nevralgici della produzione e del mercato artistici, come Roma e Milano. Sebaste, dopo un primo periodo di formazione presso l’Istituto d’Arte di Lecce, scelse, abbiamo detto, Firenze, come già avevano fatto prima di lui i pittori lucani Remigio e Vincenzo Claps. L’esperienza fiorentina fu fondamentale per l’artista leccese, soprattutto per il raggiungimento di una solida formazione di base di tipo sia tecnico sia storico-artistico, così come ebbe altrettanta importanza il periodo successivamente trascorso a Bologna presso lo studio calcografico di Mario Leoni, dove perfezionò la sua conoscenza delle tecniche incisorie. Tuttavia, come altri artisti meridionali della sua generazione e a differenza della maggior parte di quelli appartenuti alle generazioni precedenti, dopo il periodo di formazione Sebaste decise di ritornare al Sud, dapprima nel suo Salento e poco dopo nella vicina Basilicata, dove nel 1963 scelse di stabilirsi nella piccola e suggestiva Bernalda, arroccata e sospesa sul mare di Metaponto. Ma questa scelta non lo condusse, come pure c’era il pericolo che avvenisse e com’era già avvenuto ad altri, a una chiusura “localistica”, poiché egli avrebbe continuato a intendere il suo territorio, oltre che come un ricchissimo serbatoio di stimoli culturali cui attingere, anche come uno dei tanti possibili punti di osservazione della realtà esterna e come base di partenza per i frequenti spostamenti fuori dai confini regionali e nazionali che il suo inesausto “nomadismo culturale”, insieme a un’attività espositiva via via più intensa ed estesa geograficamente, gli richiedevano. La Basilicata fra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta offriva, oltre ad un habitat naturale ancora quasi integro e al fascino delle testimonianze 234


archeologiche e storico-artistiche, un ambiente culturale ricco di fermenti e di stimoli che furono molto fecondi per l’attività creativa di Sebaste e per quella di un’intera generazione di artisti lucani. In particolare Matera e il suo territorio, in quegli anni, funsero da centro propulsore regionale sul piano artistico e culturale grazie innanzitutto a un flusso continuo di presenze di artisti, letterati, registi cinematografici, fotografi e intellettuali, da Pasolini a Lattuada, da Rosi a Cartier-Bresson, da Franco Pinna - che negli anni Cinquanta svolse in Basilicata una campagna fotografica al seguito del grande antropologo Ernesto De Martino - a Mario Cresci, da Evtuschenko a Dario Bellezza, fino a molti noti pittori e scultori; tutti nomi che hanno contribuito, in fertile sinergia con le forze locali, a rendere la Basilicata un contesto culturale assai più ricco di quanto comunemente si creda. Matera aveva incominciato a emergere progressivamente come centro culturale negli anni Cinquanta, in un primo momento sulla scia di un’attenzione nazionale e internazionale venutasi a creare a causa dell’emersione delle problematiche relative alle condizioni di vita nell’abitato storico, che vennero affrontate, com’è noto, varando un programma urbanistico che prevedeva l’evacuazione della popolazione dai Sassi per trasferirla in quartieri edificati ex-novo, come il borgo della Martella, la cui costruzione fu avviata nel 1951 per opera di un gruppo di architetti guidati da Ludovico Quaroni, il quale chiamò i fratelli Cascella e altri artisti alla realizzazione delle decorazioni e degli arredi della chiesa di San Vincenzo de’ Paoli, da lui progettata. Il cantiere della Martella, di là dalla discutibilità dei concetti sociologici e urbanistici su cui si fondava, funse, anche attraverso il laboratorio di ceramica che vi si venne contestualmente a creare, da prima cellula di quel risveglio culturale cittadino per il quale fu di primaria importanza la fondazione nel 1959 del Circolo Culturale La Scaletta, i cui soci, fra i quali si annoverava anche Sebaste, sono stati e sono tuttora attivi promotori di eventi vòlti tanto alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico e delle risorse culturali locali, quanto alla conoscenza della produzione artistica nazionale e internazionale. Grazie alle numerose mostre organizzate nel tempo da La Scaletta in uno scenario storico, quello dei Sassi, che veniva per la prima volta rivalutato culturalmente e proposto come luogo espositivo per l’arte contemporanea, hanno soggiornato a Matera e nella regione, dagli anni Sessanta a oggi, artisti di rango internazionale come Josè Ortega, Pietro Consagra, Lucio Del Pezzo, Mino Maccari, Ernesto Treccani, Sebastian Matta e molti altri, che hanno lasciato nella città e altrove tracce del proprio lavoro. Artisti che Sebaste ha conosciuto personalmente e che hanno costituito per lui, come ha spesso dichiarato, degli importanti termini di confronto, così come ha avuto grande rilievo per la sua maturazione artistica e culturale la sua frequentazione di artisti e intellettuali del luogo o attivi anche sul luogo, come il pittore Luigi Guerricchio, il critico d’arte Giuseppe Appella, il poliedrico ingegnere, poeta e disegnatore Leonardo Sinisgalli e i poeti Mario Trufelli, Raffaele Nigro e Leonardo Mancino; con questi ultimi quattro ha collaborato nella realizzazione di libri d’arte editi dalla sua casa editrice “La Spiga d’Oro” e corredati da incisioni da lui stesso eseguite presso il suo laboratorio calcografico. Dunque alla crescita culturale del suo territorio Sebaste 235


ha contribuito anche attraverso l’attività editoriale e prima ancora con la fondazione nel 1966, insieme alla moglie Jolanda Carella, del laboratorio d’incisione Sebaste - Carella a Bernalda, allora l’unico esistente in Basilicata, cui fece seguito a Matera la Scuola Libera di Grafica, fondata nel 1976 da Sebaste insieme a diversi altri artisti lucani, come “costola” del Circolo La Scaletta, allora da lui stesso presieduto. Raccogliendo un suggerimento del suo ex-maestro di grafica Mario Leoni, Sebaste concepì per Matera l’idea di una scuola - laboratorio che fosse anche un centro di aggregazione e di scambio culturale; nel 1988 la scuola assunse il nome di Grafica di via Sette Dolori ed è tuttora operativa grazie a due dei suoi soci fondatori, Vittorio Manno e Angelo Rizzelli, che vi portano avanti un’attività grafica di notevole interesse. Fin dalla loro fondazione questi laboratori d’incisione hanno avuto un ruolo rilevante sul territorio sotto il duplice aspetto della produzione incisoria autonoma o di mano di altri artisti lucani e della conservazione di preziose testimonianze grafiche del passaggio in Basilicata di molti fra gli artisti italiani e stranieri che abbiamo citato, i quali hanno eseguito opere in entrambi i laboratori. Presso la Pinacoteca di Bernalda ad esempio, si conservano delle incisioni firmate da Joseph Beuys, così come disegni e acqueforti di Levi, Ortega, Consagra e Tono Zancanaro, pittore e incisore veneto che strinse con Sebaste un rapporto privilegiato. Direttore della Pinacoteca è fin dal 1998, anno della sua apertura, lo stesso Sebaste, che in questa veste ha confermato e consolidato il suo interesse a impegnarsi anche sul fronte della promozione culturale; interesse che d’altronde è pienamente coerente con la sua convinzione, più volte ribadita, dell’importanza per l’artista e per l’arte di assolvere anche a un compito di comunicazione sociale. In passato, aveva già costituito un segno di tale propensione la sua partecipazione alla Cooperativa Arti Visive Quinta Generazione, fondata a Potenza nel 1982 da un gruppo di artisti e critici d’arte che produssero fra l’altro l’interessante esperienza editoriale della rivista “Perimetro”, assolutamente innovativa per la Basilicata, coinvolgendo in essa personalità culturali di primo piano, fra cui Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Enrico Crispolti, oltre a vari altri critici d’arte allora emergenti. Sebaste non è stato il solo, in Basilicata, ad affiancare all’attività artistica quella da operatore culturale: su una strada simile si sono mossi fra gli anni Sessanta e oggi, con finalità auto-promozionali e di promozione artistica e culturale in genere, anche altri artisti, come ad esempio Franco Di Pede a Matera e Nino Tricarico e Francesco Ranaldi a Potenza, i quali hanno lungamente tentato di sopperire con la loro iniziativa a una sostanziale mancanza, protrattasi fino agli anni Ottanta Novanta, sia di proposte istituzionali locali, che di un coinvolgimento degli artisti operanti sul territorio in manifestazioni 236


di carattere nazionale. Nella sua scansione cronologica, la mostra odierna documenta per esempi salienti le varie tappe segnate nel tempo dalla produzione artistica di Sebaste, che ha esordito alla fine degli anni Cinquanta nell’alveo di un neorealismo in chiave popolare con forti accenti espressionistici, per giungere progressivamente, dalla metà degli anni Settanta, a una forma di astrazione a metà strada tra Informale materico, Espressionismo astratto e Surrealismo organico, nutrita da una continua sperimentazione di materiali e tecniche (cera, catrame, polveri e sabbie, cartapesta, olio, collage) e da una grande varietà dei campi di applicazione, dalla pittura alla scultura, dall’incisione al libro d’artista. Le prime opere esposte parlano un linguaggio figurativo duro e scarno, di chiara ascendenza espressionista, anche quando, come nel caso del Paesaggio del 1963, vi si possono rintracciare pure influenze diverse di marca toscana, in direzione di una semplificazione formale risalente da Rosai fino a Giotto; lezioni apprese da Sebaste, insieme a molte altre, durante il suo soggiorno fiorentino. Tuttavia, diverse da quegli esempi sono la qualità del colore e la sua stesura: un colore spesso e talvolta opaco e gessoso, come in Donna lucana, anch’essa del 1963, e già in questa fase tendenzialmente materico, applicato sulla tela ad ampie spatolate con una ricercata brutalità che può a buon diritto richiamarsi ai precedenti della Brücke, di Nolde o di Rouault, così come sembra guardare anche a Munch l’interpretazione cupa fino all’angoscia di una figura umana vista sempre in chiave “antigraziosa”. In questa fase i soggetti, siano essi paesaggi, figure o scene di vita quotidiana, attingono a una realtà lucana caratterizzata da marginalità e indigenza, alla cultura agro-pastorale e ai suoi rituali ancestrali, seguendo una strada che era stata aperta in Basilicata da Carlo Levi, il quale negli anni Trenta, con i suoi tormentati dipinti “del confino” e successivamente con il suo ben noto capolavoro letterario Cristo si è fermato a Eboli, aveva fornito ad artisti e scrittori delle nuove lenti attraverso cui guardare alla loro terra. Nella struttura formale dei dipinti appartenenti a questa fase della produzione di Sebaste è già possibile cogliere un’iniziale tendenza a una semplificazione delle figure per piani e segmenti cromatico-lineari approssimativamente geometrici, come rivela ad esempio, fra le opere esposte in questa mostra, la Testa di musa del 1961, enigmatica icona tricefala dalle inflessioni post-cubiste che sembra segnalare anche una qualche inclinazione, per il momento sporadica, verso un uso simbolico dell’immagine. Sul finire del decennio Sessanta, dopo avere prodotto interessanti lavori scultorei in ferro per committenti ecclesiastici e avere realizzato dipinti in cui il moti237


vo naturalistico di partenza tendeva a essere assorbito da un impasto cromatico di tipo già quasi informale - come l’ardente e quasi soutiniano Vaso di fiori del 1968 o i Calanchi del 1969, oppure, fra le opere non esposte oggi, il pannello in gesso policromo la Primavera - inaspettatamente l’artista, con uno di quei “colpi di coda” che sarebbero stati ricorrenti nella sua carriera, cambiò direzione, compiendo un singolare processo a ritroso rispetto al linguaggio tendenzialmente astratto che aveva appena incominciato a sperimentare. La strada intrapresa fra il 1969 e la prima metà del decennio seguente fu, infatti, quella di una ritrovata e rinnovata figurazione neorealistica dagli accenti popolareschi spinti talvolta fin quasi alla naïveté, incentrata su tematiche tratte dalla vita popolare lucana e pugliese e sottoposta a forzature e deformazioni espressionistiche che appaiono memori dell’espressionismo sociale di Renato Birolli e Fausto Pirandello, oltre che, com’è stato scritto, di Migneco, Guttuso e Brindisi. Sulla luminosità calcinata di vuoti fondi bianchi si stagliano con un risalto e con una fissità, come rileva Spadoni, quasi araldici, compatti nuclei figurali campiti in colori accesi fino allo squillo, aggregati in blocchi geometrizzanti e astraenti che erano stati preannunciati dalle taches cromatiche informali sperimentate dal pittore nel 1967, in dipinti astratti ispirati al paesaggio urbano materano come Alba al Sasso e Il Sasso. Dunque Sebaste recuperò la figurazione solo dopo averne preventivamente operato una riduzione all’essenza che venne a fungere da filtro attraverso cui guardare al reale con una sensibilità nuova e da una distanza atta a consentirne una resa mentale, più che mimetica. In questa fase della ricerca dell’artista si segnala un’opera come La spia, notevole per la sua visionarietà allucinata dall’eco goyesca, esaltata da un’ardita e originale soluzione compositiva, in cui dal centro del fondo di un bianco assoluto emerge, quasi uscisse da un’invisibile fenditura, una minacciosa figura femminile velata intenta a spiare un groviglio di personaggi concentrati nella parte bassa della tela, dai volti grotteschi e dai corpi deformi e contorti come in un sabba di streghe o in un cupo e inquietante rituale magico. La magia e le credenze popolari sono tematiche ricorrenti in questo ciclo pittorico (si vedano anche, in questa mostra, Magia lucana e Tarantolati), dove la tendenza alla deformazione espressionistica giunge talvolta a risultati accostabili agli esiti visionari della produzione pittorica degli anni Sessanta - Settanta di Guerricchio. La lente antropologica attraverso cui Sebaste, lettore di De Martino, guardava con occhio disincantato e scevro da intenti pittoreschi alla cultura popolare lucana e salentina, non bastava a scongiurare il pericolo di una lettura di questi suoi lavori in una chiave localistica e dialettale, direzione verso la quale si orientò, di fatto, una parte dei giudizi critici, seppure favorevoli all’artista. È forse anche in risposta a queste interpretazioni che avrebbero rischiato di relegarlo entro gli angusti confini di un folklorismo di maniera, che fra il 1972 e il 1975, in dipinti come L’uomo uccello, 238


esposto in questa mostra, o come Venditore di pannocchie e I suonatori, l’artista sviluppò il suo linguaggio figurativo in una direzione maggiormente aggressiva, sfigurando i volti dei suoi personaggi fin quasi a cancellarne le fisionomie e attuando così un violento processo di de-figurazione che sembra riagganciarsi ai furiosi attacchi inferti da Bacon all’immagine antropomorfa. Sono, queste, raffigurazioni drammatiche che lasciano trapelare una visione angosciosa e violenta del mondo naturale cui non sembra estranea anche la conoscenza di Sutherland e Moore e del filone organicistico-astratto del Surrealismo; in esse il corpo umano tende ad assumere una qualità metamorfica fino a diventare motivo genericamente organico, conglomerandosi in catene di protuberanze bulbose di evidenza tridimensionale in cui s’ibridano e si confondono i mondi antropomorfo, zoomorfo e fitomorfo, in un groviglio inestricabile di membra umane e animali e di elementi vegetali arborei o fogliacei (si vedano Uccello rosso; Settima piaga; Ottava piaga). Ben presto tali motivi organici, procedendo nel loro cammino verso un completo affrancamento da ogni sembianza d’illusionismo figurativo, persero anche la loro apparenza volumetrica per appiattirsi e dilatarsi sulla tela in ampie concrezioni astratte sature di un colore opaco e grumoso e riecheggianti, nel loro ricercato primitivismo, l’aggressivo espressionismo astratto di Asger Jorn e degli altri esponenti del gruppo COBRA, i quali oltretutto erano transitati per la Basilicata in quello stesso periodo. Anche sotto questa nuova forma permasero nelle opere di Sebaste riferimenti tanto al mondo naturale - il cordone ombelicale che lo legava al quale non si sarebbe mai sciolto - quanto a quelle manifestazioni della cultura popolare che hanno carattere magico e irrazionale, come evidenziano fin dai loro titoli i dipinti del 1975 che qui si espongono: Natura con uccelli; Elementi magici; Occhio metallico. Il salto che separa questi ultimi lavori dalle opere di poco successive di Sebaste è essenzialmente di tipo tecnico. Alla prassi tradizionale dell’olio su tela egli andò sommando tecniche miste in cui sperimentava l’uso di polveri e sabbia mescolate ai pigmenti, per poi procedere a graffire e raschiare, nella serie dei Grafismi, le superfici materiche così ottenute. In questo periodo incominciò anche a utilizzare materiali extra-pittorici come stracci e carta, che conferendo alle opere consistenza oggettuale e rilievo plastico, gli permisero di superare definitivamente il confine tra pittura e scultura in nome di un polimaterismo in virtù del quale un critico d’eccezione come Leonardo Sinisgalli ha accostato il nome di Sebaste a quello di Prampolini. Inoltre dal 1977 l’artista iniziò a indagare anche le possibilità offerte dalla cartapesta, 239


antica tecnica artigianale propria della cultura popolare salentina e materana. E proprio a Matera, dove era stato invitato nel 1972 dal Circolo La Scaletta, José Ortega, artista esule dalla Spagna franchista che Sebaste conobbe e frequentò, aveva dato per primo il via a un recupero con finalità artistiche della cartapesta, nell’ambito di un suo più ampio programma di rivalutazione dell’artigianato che ebbe notevole influenza sugli artisti locali e che generò capolavori della sua produzione, come i cicli a bassorilievo in cartapesta dipinta Morte e nascita degli innocenti e Passarono, da lui realizzati a Matera nel 1973, in collaborazione con gli artigiani locali. In lavori realizzati fra il 1976 e il 1977, come Uccello ferito, Bosco suonato e Chioma, una forma-colore di ispirazione organica sembra lievitare sul supporto come per uno spontaneo processo di crescita, per fluttuare liberamente nello spazio, al quale si collega con naturalezza grazie ai suoi fluidi profili curvilinei. «In natura», scrive Sebaste nel suo diario, «non esistono linee diritte. Io penso che la linea diritta è essenzialmente un prodotto dell’uomo»; e ancora: «Del resto il corpo umano forse non è composto da linee curve? Qualsiasi movimento del corpo non è forse un movimento curvilineo? L’atto del concepimento di qualsiasi essere vivente non avviene in una cavità priva di linee diritte? Senza contare poi il seme che, già di per sé, è l’insieme di linee curve». L’ispirazione alla natura creatrice per Sebaste, lungi dal comportare un’imitazione delle sue apparenze esteriori, si traduce, sulla scia del biomorfismo di Arp e Moore, nel tentativo di catturarne le leggi generative profonde e di coglierne la segreta armonia estetica. All’esuberanza cromatica caratterizzante la gran parte dei suoi lavori l’artista alternava, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, l’azzeramento coloristico di rilievi dalla dominante bianca, interamente monocromatici oppure interrotti da tenui lacerti di colore (Misteri; Archetipo in piega rossa), dove forme astratte quasi danzanti si susseguivano spesso in un andamento circolare o spiraliforme. Tale ricerca di movimento andò accentuandosi in opere di più risentita intensità cromatica, come, fra quelle che esponiamo oggi, Ultimo volo e Domani l’anima, dove la composizione, contenuta quasi sempre in un supporto di formato quadrato, è spesso strutturata in due nuclei formali che si controbilanciano, l’uno posto in prossimità della base dell’opera e l’altro tendente a sfuggire verso il margine superiore. In queste Forme formanti - come inizialmente Sebaste aveva denominato questi lavori, quali esiti conclusivi di un percorso astrattivo iniziato con i Grafismi del 1976 e poi passato attraverso le Materie e le Forme formate - egli sembra mettere in atto il suggerimento datogli da Sinisgalli di «accostarsi devoto alle larghe cosmogonie di Kandinskij e al laboratorio di Prampolini (…) due insigni speculatori delle Forme e delle Materie non convenzionali». 240


Ma ancora non erano definitivamente acquisiti, per Sebaste, né l’allontanamento dalla figurazione in favore dell’opzione astratta, né l’abbandono della pittura a olio su tela a beneficio del linguaggio informale materico. Dopo la calma apparente, ma gravida in realtà di presagi figurali, costituita dai Frammenti di memoria del principio degli anni Ottanta, dove su schermi bianchi affiorano come fantasmi dei lievi motivi cromatico - decorativi in forma di sottili frammenti serpeggianti, fra quel decennio e la prima metà del successivo, in pieno clima di ritorno alla pittura, di Neoespressionismo e di Transavanguardia, esplose una nuova stagione pittorica dell’artista in una serie di oli su tela di dimensioni spesso ragguardevoli, caratterizzati da un’inedita energia segnico - gestuale e da un recupero soltanto parziale del linguaggio figurativo. In dipinti del 1986 come E creò il sole; Linea verde; Ed Eolo si tuffò nella luce, elementi iconici allo stato larvale sono avvolti in grovigli e matasse di segni grafici dotati di una forte carica cinetica, che sembrano voler stabilire un dialogo a distanza con la produzione incisoria dell’artista. Sono dipinti pregni di un vigore primitivo, dove lo scarabocchio infantile e il graffito metropolitano (Sebaste aveva conosciuto il graffitista statunitense A One) si alleano per concorrere al raggiungimento di un’espressività barbarica e intensamente vitale. In certe opere, come Movimento (1987), il segno grafico prende la forma di sottili e animate figurine antropomorfe d’intonazione arcaica, che appaiono esemplate sul modello dei guerrieri stilizzati presenti nei graffiti rupestri preistorici. Dai primi anni Novanta, mentre in vari pastelli e incisioni di Sebaste la raffigurazione naturalistica continuava a permanere, nella sua produzione pittorica le tracce figurative andarono invece nuovamente scomparendo e al segno grafico si venne sostituendo un fare più largo, impostato su ampie stesure a spatola e sgocciolature di colori, come di consueto, accesi e saturi (I cinti; Canale verde; Grida in arancione). Un’ulteriore svolta tecnica e linguistica nel percorso dell’artista venne segnata, intorno alla metà degli anni Novanta, dalla realizzazione di piccole sculture informali a tutto tondo in cartapesta variopinta e di opere pittoriche su supporto in cartone ondulato e con inserti di altri materiali, dove l’impulso cinetico - gestuale e la pratica polimaterica e oggettuale venivano finalmente a incontrarsi (Gioco nel sonno; Natura morta; Casetta; Forme impazzite). Ne nacque la serie, ancora oggi in corso, denominata in una mostra del 1997 Carta e cartoni; in essa la commistione di tecniche e materiali diversi, dalla cartapesta al cartone e al sughero, dal colore a olio a quello acrilico, dalla sabbia alla colla vinilica e alla fiamma ossidrica, ha condotto a esiti di maggiore ricchezza e complessità rispetto al passato. L’impalcatura formale di queste opere è impostata sulla dialettica che si stabilisce fra una giustapposizione di stratificazioni materiche e cromatiche che tendono spesso a travalicare i margini del supporto rendendoli irregolari, e un tracciato 241


segnico - gestuale di superficie, quasi sempre costituito da colate biancastre di colla che sotto l’azione del fuoco, che annerisce e sfoglia il supporto in cartone, si rigonfiano di bolle ed esplodono in crateri (Rossa schiuma di mare; Acqua della fonte pura; Venti rapidi; Urna di corpi svuotati; Maligna vivanda; Splendido Argonauta, Arsura). Alla moltiplicazione dei mezzi e delle tecniche impiegati, dove si sommano senza escludersi vicendevolmente le esperienze compiute dall’artista nel tempo, corrisponde una fervida proliferazione formale che rende questi lavori brulicanti di una misteriosa vitalità animistica riecheggiante gli esempi di Mirò, Gorky, Matta, Lam. Tra le ambigue forme organicistiche che si avvicendano sulle tele e sui cartoni (l’ambiguità è per Sebaste positivamente connaturata alla genesi della forma e alla sua interpretazione) occhieggiano talvolta altrettanto ambigue creature dalle sembianze androidi, forse lontanamente imparentate con quelle concepite dall’immaginario grottesco di Baj, uno fra gli artisti che Sebaste conobbe personalmente. Nell’ultimo decennio la ricerca dell’artista ha continuato a svolgersi parallelamente in pittura e scultura, ambiti che nella sua produzione, pur comunicando fra loro, hanno mantenuto ciascuno una propria specificità. Ai due elementi - chiave intorno ai quali aveva ruotato finora gran parte dei suoi lavori, la natura e la cultura popolare, nelle sue opere recenti è venuto ad aggiungersene un terzo: quello di una classicità mitica scaturente ancora dalle radici culturali del suo territorio, in questo caso quelle magno - greche, come ha ampiamente documentato una mostra personale svoltasi nel 2009 presso la Permanente di Milano, città con la quale Sebaste ha da tempo stabilito un rapporto privilegiato. Già le denominazioni delle opere sono rivelatrici di quali siano in questa fase i referenti di Sebaste: a titoli, in pittura, come Mare Ionio, Artemide, Masciara, Talismano, rispondono in scultura titoli come Atena, Nike, Alessidamo, Era, Afrodite, Amazzone alata, Divinità, Fertilità, Sparviero, in un’alternanza fra divinità greco - classiche e lucane arcaiche, fra rimandi al paesaggio naturale e alla magia popolare. La dimensione antropologica e il genius loci vengono ora recuperati da Sebaste nell’ambito di un linguaggio che sembra avere definitivamente rinunciato a ogni forma di mimesi per imboccare con decisione la strada dell’astrazione informale. Alcuni lavori degli ultimi anni mostrano dimensioni ipertrofiche, recuperando, nel caso dei dipinti/rilievi su tela a sviluppo orizzontale, una dimensione quasi narrativa, da affresco, e un andamento formale vivacemente ritmico, come nel pannello Emozioni (2000). Spesso i dipinti a sviluppo verticale hanno al proprio centro un elemento lineare saliente che funge da asse ottico della composizione, equilibrandone le parti (Mare Ionio, Talismano). Questi lavori pittorici dalle forti connotazioni mate242


riche e gestuali sono spesso caratterizzati anche dalla presenza di vivide, energetiche cromìe mediterranee. Nelle sculture, che sono tendenzialmente monocrome, Sebaste alterna essenzialmente due registri linguistici, corrispondenti ad altrettanti modi di “abitare” lo spazio: un registro di carattere volumetrico e informale, utilizzato nelle terrecotte, e uno di carattere bidimensionale e geometrizzante, usato nelle realizzazioni plastiche in cartapesta o in metallo. Organico e carnale è il modellato sensibile delle argille, che crescono nello spazio in forme totemiche come fossero germinate dalla terra stessa, riallacciandosi ai precedenti di Leoncillo e del Fontana scultore (che Sebaste ha conosciuto di persona), ma anche a certe statuine femminili di epoca preistorica, come quelle liguri dei Balzi Rossi. Astratte e mentali appaiono invece le bianche sculture in cartapesta su scala umana, frutto di un’originale sperimentazione che l’artista conduce da anni su tecniche d’indurimento e d’impermeabilizzazione tramite particolari vernici della cartapesta, che possano consentirne la collocazione in ambienti esterni. Si tratta di strutture spesso modulari, di consistenza diaframmatica, dove il dato antropomorfico di partenza viene maggiormente concettualizzato rispetto a quanto avviene nelle terrecotte, decantandosi in forme geometriche arcaizzanti e «primitive, non nate col righello e la squadra ma con l’imprecisione della mano che trema e del sole che asciuga e che crepa». La sostanziale bidimensionalità di queste sculture era stata preannunciata, circa un decennio prima, dalla realizzazione di opere scultoree “frontali” in metallo sagomato e traforato che guardavano all’esempio di Consagra, altro importante punto di riferimento per Sebaste (si veda, in questa mostra, Reliquiario messapico). Un rilevante esito recente di questo genere di realizzazioni plastiche di carattere bidimensionale in metallo, che svelano anche influenze picassiane e post-cubiste, è stato costituito dall’installazione scultorea di dimensioni ambientali Mètabos, dedicata all’omonimo eroe mitico, fondatore di Metaponto e collocata nel Museo Archeologico Nazionale di Metaponto. Oggi, con un cinquantennio di carriera alle spalle, l’artista prosegue nella sua inesausta ricerca estetica, continuando a rispondere alle infinite sollecitazioni naturali e culturali offertegli dalla propria terra e tuttavia evitando programmaticamente che queste risposte assumano carattere definitivo, coerentemente con la sua convinzione che un artista non debba mai adagiarsi sulle proprie conquiste e debba invece restare sempre aperto al dubbio e alla domanda. «Io penso», scrive nel suo diario riferendosi ai Sassi di Matera, «che ancora nel nostro Sud si possa parlare di forme spontanee, create tridimensionalmente all’infinito, a modello dell’uomo. In quest’ambiente pieno di stimoli e di riflessioni mi viene naturale chiedermi: che cosa è l’arte contemporanea?». Mariadelaide Cuozzo, Dal Catalogo Mostra “Il demone delle forme”, La Spiga d’oro, Metaponto, Castello Carlo V, Lecce 2010 243


Raffaello De Ruggieri - Matera esperto d’arte

Le metamorfosi creative in un luogo senza tempo Il mio rapporto con Salvatore Sebaste e l’interesse per il suo lavoro culturale sono iniziati in occasione di una lontana mostra allestita nei locali del nostro circolo “La Scaletta” di Matera. Era l’anno 1970 e l’associazione materana, fondata nel 1959, aveva conquistato l’attenzione nazionale per il valore della sua missione, per le attività svolte e per i risultati raggiunti. Eravamo convinti, e lo siamo più fermamente oggi, che la cultura rappresentasse un fattore essenziale del rinnovamento sociale, perché il livello della cultura si è sempre rivelato nel livello strategico delle trasformazioni sociali. Eravamo consapevoli che il Mezzogiorno e la Basilicata avessero compiuto progressi, ma se non fossero riusciti a rafforzare le strutture culturali, rischiavano di retrocedere anche sul piano economico. Per noi il divario civile con il resto del Paese era il problema fondamentale delle regioni meridionali, anche per abbattere la loro debole cultura del futuro come progetto. Questa nostra convinzione si correlava all’altra secondo cui il nostro patrimonio culturale costituiva una formidabile armatura territoriale perché matrice d’identità e strumento di sviluppo. La conservazione e la valorizzazione delle nostre testimonianze e dei nostri valori storici erano la risposta eterodossa a uno stereotipo di lettura della Basilicata, ritenuta un triste spazio geografico senza storia, fatta di povertà e di emigrazione, perché anche priva di una forte radice di appartenenza. I Sassi di Matera erano la traduzione fisica di questa ideologia populista e massimalista in quanto essi rappresentavano la vergogna e l’infamia nazionale. La diaspora di ventiquattromila abitanti fu la scelta politica di tale aberrazione. Contro questa “maledizione” politico-sociologica noi ci opponemmo, perché rifiutammo di essere considerati figli della miseria in quanto sicuri di essere figli della storia, di una storia dimenticata che andava invece riscoperta e riproposta. Bisognava, infatti, riaffermare un sopito sentimento di appartenenza e, sfuggendo a tentazioni di sterile campanilismo, stimolare il coinvolgimento responsabile e partecipato della popolazione alla vita e al destino del proprio territorio ritenuto, per le sue distintive qualità, meritevole di sviluppo. È stata una lunga, solitaria e vittoriosa marcia civile compiuta con caparbietà e costanza e conclusasi nel 1986 con il riconoscimento dei Sassi quale luogo di preminente interesse nazionale e nel 1993 con l’ammissione degli antichi quartieri materani tra i siti identificati dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’Umanità. 244


Fu, quindi, consequenziale formulare una strategia di sviluppo fondata sulla matrice culturale del territorio per attivare le valenze economiche messe dalla storia sul tavolo della competizione. Ma investire in cultura significava che il riconosciuto valore della città dovesse cessare di rappresentare solo uno straordinario archivio della memoria per divenire, invece, laboratorio di attuali funzioni e servizi culturali, uno strumento d’incivilimento e di sviluppo per l’intera comunità. In questo progetto il primo posto spettava al lavoro di sensibilizzazione dei cittadini per raggiungere l’auspicata legittimazione sociale del patrimonio culturale. La nostra era l’affermazione della cultura come motore dello sviluppo perché la conoscenza approfondita del patrimonio culturale, delle sue potenzialità, dei suoi limiti e dei suoi bisogni, congiunta alla stimolazione di risorse umane e creative, rappresentava una delle chiavi strategiche per lo sviluppo dell’intero Mezzogiorno. In quell’epoca si progettò un modello di sviluppo centrato sulla fruizione e sulla valorizzazione del patrimonio culturale, attraverso un’insolita connessione di tutela e di fruizione e più in generale di memoria storica e di nuova produzione culturale. II modello da noi proposto sfuggiva a ogni conformismo e ruotava intorno alla produzione della cultura, una cultura che non si compra e che non si consuma, ma che si produce, che si scambia, che si trasmette, alimentandosi dei valori del territorio. Questo crogiuolo di studio, di ricerca, di azione e di risultati coinvolse totalmente Salvatore Sebaste il quale, in quel tempo, si esprimeva con una personale e originate rilettura delle rappresentazioni mitologiche di un Mezzogiorno rituale e ancestrale. Molti vivevano ancora della fascinazione sociale del mondo contadino di Carlo Levi ed erano partecipi di quel profondo itinerario critico della connessione tra dati culturali e condizione socio-economica di una comunità, confluita nell’umanesimo etnografico di Ernesto De Martino. Fu certamente quest’atmosfera a provocare le costruzioni figurative di Salvatore Sebaste che nei suoi quadri esaltò il rapporto molto proficuo tra la ricerca etnografica e l’arte contemporanea. Di quella mostra conservo il suo lavoro “La Taranta” che esprime appunto i contenuti di una pratica popolare di “catarsi” fisica e spirituale, ma che tradisce l’origine “leccese” di un artista trasmigrato, per sua scelta, in Basilicata. E Salvatore Sebaste ha scelto Bernalda come suo incubatore creativo, non rinnegando la sua origine salentina, anch’essa contadina e primordiale. Ma il territorio di Bernalda testimonia anche la storia nobile di una grecità virtuosa ed eroica. Metaponto, con la sua storia e le sue rovine, ha inciso profondamente nell’ispirazione e nei meccanismi creativi di un artista inquieto perché mai soddisfatto. Salvatore Sebaste, infatti, è stato travolto dai messaggi e dai segni di questi 245


luoghi testimonianti la continuità ininterrotta della storia dell’uomo. Tale particolare condizione diacronica del luogo si è tradotta nella coscienza di essere in un territorio dove la perennità della vicenda umana si è sempre manifestata in nuova storia e quindi in nuova cultura, di qui la naturale stimolazione a sfuggire alla sterile contemplazione del passato per divenire protagonisti della contemporaneità. Ma Salvatore Sebaste non è né uno storico, né un antropologo, né un archeologo. I suoi primi dipinti, dunque, non cercavano la suggestione del reperto o della scena rituale, non riscoprivano il gusto romantico della rovina e non avevano l’intenzione di essere brandelli di un mondo ormai superato. Nascevano piuttosto dalla condizione primordiale dell’archetipo, muovendosi come potenza simbolica di un’icona popolare. Il “passato” funzionava come motore emotivo dell’“oggi”, come repertorio di sensi preziosi e dimenticati, da interrogare e da riproporre come messaggi del tutto diversi dal passato. Da quel momento in poi Sebaste sceglie di praticare linee di continuità e di deroga non solo rispetto alle esperienze precedenti, ma anche nei confronti dell’identità stessa della propria iniziale espressione stimolato dal dubbio radicale del senso, da un’ansia drammatica della forma, da un’insoddisfazione pungente che si traduce nella “metamorfosi continua” delle sue spazialità dipinte. Le sue diverse e spesso contrapposte stagioni creative sono rivelatrici di una scelta di non appartenenza, di una sorta di condizione poetica straniata, solitaria e meditativa, avvinto com’è in un confronto ben più arduo con la vicenda tutta dell’arte, con il suo essere misura di storicità. Questa sua qualità distintiva ha indotto qualcuno a definire l’arte di Sebaste un “espressionismo mediterraneo”. Scrive il critico Paolo Bellini: “A una prima impressione sono due gli aspetti che maggiormente colpiscono osservando l’insieme delle opere: da un lato un continuo e mai domo variare di soggetti, di ambiti figurativi e talvolta anche di stili, mentre da un altro punto di osservazione la varietà non è mai tale da celare una radice comune, sempre presente, una sorta di denominatore che si trova in ciascun’opera, quasi un contrassegno dell’appartenenza dell’autore. Dunque un mutevole cangiarsi accompagnato da una ragionevole costanza, che diviene alla fine l’elemento unificante di tutte le diverse espressioni artistiche tentate. Questo suo incalzante modo di porsi denota un’affinità con la chiave dell’espressionismo, ma tale consonanza si colloca soprattutto a livello formale, cioè è un elemento connesso ai modi della rappresentazione, mentre appaiono ragionevolmente diverse le ragioni interiori che in Sebaste presiedono al proprio fare artistico. Per questa ragione ha senso parlare per Sebaste di un espressionismo ma trattato in chiave mediterranea, perché di quel mare e di quel clima conserva tutto il caldo e spontaneo entusiasmo affidato alle passioni, a un dire e un declamare talvolta concitato, sempre comunque partecipato ed emotivo”. 246


Ma, come ho cercato di precisare, per il tempo e il luogo della sua temperie culturale, l’azione creativa di Sebaste è sempre stata vissuta come responsabilità civile, che proprio per la sua stretta aderenza al mutare delle epoche, delle antropologie, dei panorami storico-culturali, postula una necessità continua di variazione e aggiornamento. In questo suo procedere espressivo, inteso come responsabilità di conoscenza, Salvatore Sebaste realizza a ogni nuova stagione della sua produzione una metamorfosi creativa delle proprie coordinate linguistiche, utilizzate come strumenti d’indagine che si determinano nel proprio stesso investigare, come modelli di esplorazione metodologica e nel medesimo tempo quali sorgenti e riferimenti dialogici in vista di un’inseguita maturazione del proprio messaggio esistenziale. Si spiegano così gli impegni vissuti nella società e le realizzazioni effettuate, partendo proprio dalla sua elezione, negli anni 1975/77, a presidente del Circolo La Scaletta; si spiega così l’impegno e la creazione della Scuola Libera di Grafica nel cuore dei Sassi di Matera, oggi divenuta l’affermata officina culturale de “La Grafica dei Sette Dolori”; l’istituzione in Bernalda della Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna. Pur alimentandosi di costanti e frequenti rapporti con i centri europei più significativi di produzione dell’arte contemporanea, Salvatore Sebaste rimane inchiodato nella sua terra d’adozione, perché solo in quest’ambiente nuove linfe e nuovi fermenti attraversano i suoi sensori creativi. La Basilicata, invero, vive una forte stagione di tensioni e di azioni culturali. Matera si riconferma l’epicentro di tale rilancio culturale, anche attraverso la missione della Fondazione Zetema, costituita nel 1998, quale gemmazione istituzionale del circolo “La Scaletta”. L’esigenza di dar vita alla Fondazione è scaturita dalle recenti sollecitazioni normative sulla politica culturale che, in una prospettiva di decentramento amministrativo, hanno affermato l’utilità sociale delle iniziative private portatrici della funzione di sussidiarietà. Inoltre, Zetema elabora progetti esemplari per la promozione delle attività culturali e per la valorizzazione e gestione delle risorse storico-ambientali, diretti a favorirne l’utilizzazione economica, nonché per sperimentare sul campo la prevista collaborazione tra soggetti pubblici e soggetti privati. La leadership culturale raggiunta dall’istituzione materana non è però legata al valore della missione, bensì alla sua azione concreta e, soprattutto, a come questa si esercita e si attua. Il nome stesso (il termine greco zetema significa “ricerca applicata”) indica l’essenza della Fondazione, che coniuga il rigore scientifico alla concretezza e alla capacità realizzativa. Gli obiettivi che in questi anni sono stati raggiunti sono molteplici e costituiscono, per qualità ed eccellenza, un esempio tra i più rilevanti del Mezzogiorno d’Italia. In particolare, la Fondazione ha saputo riconoscere e trasformare in risorsa il valore identitario del territorio esaltando il legame tra i Sassi di Matera, oggi patrimonio Unesco, e le correnti culturali e artistiche che, dal secondo dopoguerra in poi, hanno riconosciuto nelle vicende storiche e culturali materane i valori universali della civiltà dell’uomo, traendone linfa per ricerche e per progetti esemplari nei cam247


pi dell’arte e dell’economia: da Umberto Zanotti Bianco ad Adriano Olivetti, da Pier Paolo Pasolini a Enzo Siciliano, da Alfonso Gatto a Toti Scialoja, da Luigi Piccinato a Gae Aulenti, da Cartier Bresson a Lucio Del Pezzo, da Nino Rota a Pietro Cascella, da Manlio Rossi Doria a Pasquale Saraceno, da Carlo Levi a Josè Ortega, da Francesco Compagna a Vittore Fiore, da Ludovico Quaroni a Renzo Piano, da Pietro Consagra a Sebastian Matta, da Steve Lacy a Bruno Tommaso, da Vincenzo Baldoni a Rocco Mazzarone. La programmazione del Distretto Culturale dell’Habitat Rupestre della Basilicata, l’esemplarità degli interventi di conservazione e i modelli di valorizzazione e gestione, la manutenzione programmata, le officine della cultura, la collana editoriale rappresentano la “buona prassi” dell’ente, riassunta nella massima ‘contadina’: “Chi impara senza operare vuol raccogliere senza seminare”. L’idea di un Distretto Culturale dell’Habitat Rupestre della Basilicata è nata, poi, con l’obiettivo di creare un’offerta integrata di luoghi e di servizi della cultura per valorizzare questa peculiarità del territorio riconoscendola come matrice d’identità e trasformandola in strumento di sviluppo locale. L’interesse non si è però focalizzato solo e soltanto sugli insediamenti rupestri alto-medievali e sui Sassi di Matera, ma si è voluto ottimizzare l’offerta con una proposta differenziata che va dal Vulture al Materano, dalla preistoria all’arte contemporanea. La scelta vuole testimoniare il valore “perenne” dei luoghi ove la storia dell’uomo si è espressa, senza soluzione di continuità, dalla preistoria ai nostri giorni, dal sito paleolitico di Filiano (9000 a.C.) al Museo della Scultura Contemporanea di Matera, il Musma, luogo del presente. In particolare il progetto museale nasce dal convincimento che i Sassi di Matera, in parte scolpiti nella roccia e in parte modellati dalla sapienza costruttiva popolare, rappresentino un sito straordinariamente adatto a ospitare esposizioni di scultura. Una città “antica” come Matera non può vivere solo di passato, ma deve anche saper trasformare il proprio retaggio storico in testimonianza di nuova cultura. Con il Musma si è voluto, dunque, creare un’area stabile e disponibile per ospitare i nuovi linguaggi dell’arte e per costituire un’opportunità di educazione e di approfondimento delle espressioni della creatività del nostro tempo. L’idea di utilizzare le suggestive ambientazioni rupestri come “sale espositive” per mostre di scultura ha radici lontane: Il MUSMA, con le oltre 350 opere esposte, si distingue per essere uno dei rari musei “in grotta” ed è la stabilizzazione della pluriennale esperienza delle ‘Grandi Mostre nei Sassi di Matera’, organizzate sin dal 1978 dal Circolo “La Scaletta” nel complesso rupestre di Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci. Ancora una volta si ritorna a celebrare il lavoro de “La Scaletta”, fucina feconda di spiriti liberi e di talenti creativi. 248


Di qui siamo partiti in questa presentazione dell’amico Salvatore Sebaste; lì sono avvenuti gli incontri e i confronti con Pietro Consagra, con Mino Maccari, con Leonardo Sinisgalli, con Toni Zancanaro, con Sebastian Matta, con Josè Ortega e con tanti altri poderosi artisti e da ultimo con Kengiro Azuma. Ecco perché il lavoro di Salvatore Sebaste è sempre scaturito da un’intima necessità di conoscenza, da un inseguito arricchimento dialogico, da un obbligo sofferto di approfondimento dettati da un impegno costante connaturato alle vicende del mondo, giornalmente acquisite e vissute in prima persona, sia in termini geografici sia nel senso più ampio di aderenza e partecipazione attiva a una storia estesa e inclusiva. Per queste ragioni le opere di Salvatore Sebaste diventano luoghi, creano spazi e strutture compositive che trascendono la realtà, sono come zone franche in evoluzione da cui poter osservare il mondo. È in questi luoghi privilegiati, in altre parole in queste apparizioni di luoghi, che Salvatore Sebaste ci ricorda che l’arte ha l’obbligo di dare credibilità alle impressioni non ancora diventate certezze.

Raffaello De Ruggieri, Dal Catalogo Mostra “Il demone della forma”, La Spiga d’oro, Metaponto, Castello Carlo V, Lecce, 2010. 249


Antonella Lippo - Bari giornalista esperta d’arte

Salvatore Sebaste dall’espressionismo all’informale

Salvatore Sebaste nasce a Novoli, in provin­cia di Lecce, ma la sua formazione artistica av­viene sulle rive dell’Arno, dove l’incontro con Alessandro Parrochi, suo docente di Storia dell’arte, lo indirizzerà verso la grafica e il segno che incide. Sebaste rientra a Sud, ma sceglie la Basilicata, si trasferisce a Bernalda, poco di­stante da un sito archeologico di clamoroso in­teresse qual è Metaponto. In una terra in cui i brandelli del passato glorioso, le testimonian­ze della Magna Grecia, si legano ai racconti di un vissuto popolare, intessuto di credenze e ar­cani misteri, Sebaste realizza opere come “Ma­gia lucana” o “La partoriente”. Sono questi gli anni di un repertorio figurativo, scandito da volti grotteschi e tenebrosi di donne; ma an­che di paesaggi, che descrivono calanchi attra­versati da sciabolate di Luce. Siamo negli anni Sessanta e l’attenzione di Sebaste è concentra­ta sul dato antropologico. È un momento in­tenso per il territorio lucano che vede ruotare intorno al Circolo La Scaletta, nato nel 1959, artisti di fama internazionale come Josè Ortega, Ernesto Treccani, Mino Maccari, Sebastian Matta, Pietro Consagra. E Sebaste è impegnato in prima persona. Fonda con la moglie Jolanda Carella un labo­ratorio di grafica a Bernalda, dove lascia trac­cia anche Joseph Beuys con 250


le sue incisioni, che sono conservate alla Pinacoteca Comunale di Bernal­da, di cui lo stesso Sebaste è direttore dal 1998. Un’organizzazione sociale importante per una creatività fluida che si esprime negli anni ‘70 attraver­so la sperimentazione di nuovi materiali, sab­bie e polveri che si uniscono ai colori a olio, che vengono poi graffiti e ancora stracci e car­ta. Sono esposti in mostra alcuni dipinti di que­sta serie come “Ultimo volo” o “Eolo che si tuffa nella luce”, dove il segno grafico diventa un groviglio di sensazioni, legate al costante ri­chiamo alla natura. La mostra documenta anche Sebaste sculto­ re, con le sue terrecotte, piccole volumetrie ispirate a divinità e figure mitologiche e forme totemiche monocrome rivolte al cielo, omag­gio a una tecnica antica qual è la cartapesta, ritorno alle origini salentine, reinterpretata.

Antonella Lippo, Da “Il Corriere del Mezzogiorno”, Lecce, 17 settembre 2010. 251


Toti Carpentieri - Lecce storico dell’arte

“Il demone della forma” nel percorso creativo di Salvatore Sebaste Segno e colore in soluzioni polimateriche Nuovo vernissage d’arte nelle sale del Castello di Carlo V a Lecce, dove apre i battenti “Il demone della forma”, l’antologica di Salvatore Sebaste. L’appuntamento è stasera alle diciannove con la partecipazione del sindaco Paolo Perrone, della docente di Storia dell’arte contemporanea alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi della Basilicata Mariadelaide Cuozzo - curatrice della mostra e Raffaello De Ruggieri presidente della Fondazione Zetema di Matera. Moderatore il giornalista Rai Rocco Brancati. L’esposizione si muove nel solco di ciò che ci appare essere un organico percorso lungo oltre cinquant’anni di attività di un artista salentino, ormai da tempo operante a Bernalda, in Basilicata. Ed è dalle radici che parte, a ben guardare, l’intera avventura di Salvatore Sebaste: perfino questa rassegna espositiva che lega il suo titolo a certe fantasie infantili esercitate sulle bianche pareti delle case di quella natale Novoli, così vivace nel campo dell’arte e dell’espressività contemporanee. Altresì ancora oggi l’artista lega il suo nome all’attività indimenticata del «Cre - Centro ricerche estetiche» e del «Piccolo Museo» (entrambi legati alla presenza e al ruolo di Corrado Lorenzo) e del «Lpn - Laboratorio di poesia Novoli» di Enzo Miglietta. Articolata in cinque sale, la mostra - che si concluderà il diciassette ottobre - parte ovviamente da certe soluzioni figurative e paesaggistiche ispirate alla naturalità dei posti, ma anche alle tipiche presenze di una storia fatta di uomini, donne ed oggetti quanto mai radicati nei luoghi e nel tempo, anche quelli della realtà lucana nella quale si era trasferito nel millenovecentosessantatre. Una realtà nella quale dapprima ha riscoperto colore e nuove modalità espressive della forma, tra uccelli rossi e uomini gallo, per poi approdare a soluzioni organiche e polimateriche di chiara matrice informale. Quelle stesse, riviste, rivisitate e corrette, che, dopo un chiaro ritorno all’immagine costruita nel segno e nel colore, (la sua esperienza nella grafica perfezionata presso lo studio calcografico di Mario Leoni, in quel di Bologna) lo stanno accompagnando anche nel primo decennio del terzo millennio, avvalendosi 252


dell’uso della cartapesta - anche questo nel giusto rapporto con la sua matrice salentina - e di ulteriori inserti come amalgamati all’interno di una impaginazione materica e cromatica, al tempo stesso allusiva e rivelatrice. E non possiamo, quindi, non concordare con quanto scrive Raffaello De Ruggieri nel catalogo, edito da la «Spiga d’oro» di Metaponto, allorché afferma: “Salvatore Sebaste realizza ad ogni nuova stagione della sua produzione una metamorfosi creativa delle proprie coordinate linguistiche”. D’altra parte, non sono da leggere proprio in questa direzione le sculture e le terrecotte che completano e arricchiscono il percorso espositivo? Riteniamo di si.

Toti Carpentieri, Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 18 settembre 2010. 253


Salvatore Bianco - Lecce direttore museo della Siridite Policoro

Antichi segni, nuovi percorsi.

Materie, colori e segni sono tra le forze primordiali che dal Caos hanno originato il Cosmos e l’ordine naturale delle cose. Attraverso esse riaffiora e rivive dagli strati profondi di Mnemosine, la Memoria ancestrale collettiva, il ricordo del soffio vitale che governa, costruisce e anima il mondo naturale dei viventi. CosÏ la materia si anima, il colore dà vita e i segni ricordano e indicano gli antichi percorsi, nascosti o dimenticati, che possono riportare lungo filo del tempo alla Dea ancestrale, all’origine del soffio eterno, che ancora protegge ed emana indistruttibili energie vitali. Ed ecco la magia, il soccorso sovrannaturale, che quei percorsi rivela e indica attraverso sibilline materie informi e mutevoli, colori cangianti, luminosi o spenti, e segni ancestrali, linguaggio perduto e conservato solo dai segreti seguaci di Mnemosine. Combinazioni di materie, di colori e segni che si rincorrono e intersecano in infinite rappresentazioni e forme mutevoli, di cui solo alcune, note agli adepti della Dea, possono rispondere ai bisogni vitali dei viventi. 254


È un viaggio nei sogni e nella coscienza del mondo perduto, consentito da antiche conoscenze esoteriche e pratiche sciamaniche, dove rappresentazioni formali ed espressioni cromatiche disvelano messaggi di salvezza e di speranza a conforto delle fragilità umane, ma possono divenire anche abissi di sofferenza e di morte. Tutto ciò s’intravede nella pittura di Salvatore Sebaste, che propone su superfici monocrome ricerche formali, talora in apparente di sordine, fatte di materie ed energie elementari, di motivi segnici, quasi memoria di scritture perdute e di colori carichi di suggestioni simboliche. Su quei fondi monocromi si stagliano antiche materie segnate dal tempo, che riverberano in superficie o riassorbono in oscure profondità i segni e i volti della vita e della morte, simboli in movimento o fissi come sigilli del nomadismo inquieto dell’anima in cerca dell’antica Memoria. Spiriti antropomorfi e sagome animali, braccia protese, suoni, colori e occhi emergenti dal tempo di un perduto passato sembrano indicare nel loro sibillino divenire i veri percorsi della salvezza. Sono segnali di arcaica e magica sacralità sia nella fissità delle figure estratte dall’irrealtà del mito e del sogno sia nei segni e nei gesti dai dirompenti movimenti. Le vie della salvezza non sempre sono percorribili. Spesso sono impedite o rese infide da fluide, amebiche e labirintiche tracce biancastre in grado di avvolgere, trattenere e legare le spinte verso la meta finale, che tuttavia s’intravede nel forte emergere delle forze e delle energie positive della vita. IIn quest’universo materico, cromatico e simbolico di Salvatore Sebaste, immenso e minimale, si colgono i ricordi ancestrali di Mnemosine, e si affermano le energie terapeutiche ed infinite delle tante vite vissute ricolme di antichi saperi, che ancora oggi disvelano le vie della vita agli occhi sapienti e all’intuito visivo degli spiriti puri.

Salvatore Bianco, Dal Catalogo Mostra “Antichi segni nuovi percorsi”, La Spiga d’oro Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Policoro (Matera), 2011. 255


Antonio De Siena - Metaponto Sovrintendente ai Beni Archeologici della Basilicata

La poliedrica capacità del maestro Sebaste di coinvolgere I lavori del maestro Salvatore Sebaste non sono mai ripetitivi e scontati. Ogni sua nuova produzione ha il fascino della sorpresa e il merito di coinvolgere l’osservatore in un percorso esplorativo ricco di emozioni, di sensazioni profonde. Il coinvolgimento è sempre totale e attraverso gli stimoli continui di un’attrazione spontanea si arriva a cogliere lo spessore dell’invenzione, la dimensione universale dei temi trattati, a distinguere la pluralità dei materiali sapientemente manipolati, ad apprezzare le forme di un linguaggio che si declina con scioltezza e grande capacità espressiva. Sebaste caratterizza le sue opere attraverso una forte componente fabbrile, materica. Assume con naturalezza il profilo di un antico artigiano ispirato. Costruisce le sue forme usando e plasmando i vari materiali in un modo solo apparentemente facile, essenziale, sbrigativo. Si tratta invece di risultati raggiunti con tempestose incursioni solitarie e geniali fantasie, sostenute costantemente da processi analitici che sottendono una gioia per la vita. Sebaste tradisce una grande capacità artigianale esaltata da una tecnica raffinata. Scompone figure, distrugge paesaggi, frantuma universi e crea soggetti particolari in cui l’attenzione è sistematicamente rivolta all’essenza, intesa come nucleo primordiale, indistinto, origine di tutto. Le sue pennellate evocano esecuzioni magiche, sono decise e corpose, creano linee e percorsi apparentemente indefiniti, segno trasparente di una razionalità sempre mantenuta e volutamente esibita, ma anche di una sofferenza alimentata da dubbi e tensioni continue. Sebaste manifesta una grande curiosità per quanto proviene dalla sua terra, intesa però nelle sue potenzialità culturali, senza limiti fisici, barriere geografiche o astrazioni amministrative. La sua attenzione rivolta ora a considerare i profumi della Magna Grecia tradisce palesemente questo legame profondo, ancestrale con il territorio, con la sua storia, con l’insieme di miti e tradizioni metabolizzati nel tempo e divenuti patrimonio collettivo. Il maestro affronta la nuova fatica con l’entusiasmo di un giovane alla sua prima esperienza creativa. Travolto dalla consueta passione e seguendo un preciso processo di astrazione e creatività, sa cogliere in ogni elemento naturale indivi256


duato gli aspetti essenziali. Alterna linguaggi apparentemente barocchi, esuberanti, per dare ragione della generosa, benevola capacità di produzione della Madre Terra, ma allo stesso tempo ne suggerisce anche la tempestosa, potenziale violenza distruttiva. Il filo rosso del suo discorso è rappresentato dalla marcata volontà di associare gli odori alle allegorie mitiche, le fragranze odorose alle metafore create dalla letteratura di tutti i tempi, i frutti della terra alla benevola disponibilità della divinità. Nella produzione di sculture e quadri, nell’uso di strumenti espressivi necessariamente differenti e nel desiderio di ricreare le antiche essenze, si apprezza per intero la poliedrica capacità del maestro Sebaste di coinvolgere intensamente l’osservatore, di trasmettere emozioni e conoscenze, di far rivivere sensazioni partendo da argomenti che l’esperienza propone inconsapevolmente e quotidianamente all’attenzione di tutti.

Antonio De Siena, Dal catalogo Mostra “I Profumi della Magna Grecia”, La Spiga d’oro, Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Potenza 2012. 257


Antonio Giambersio - Potenza studioso di archeologia

I profumi della Magna Grecia Dalla fine dell’VIII secolo a.C. sempre più frequentemente nel corredo delle deposizioni dell’aristocrazia delle colonie della Magna Grecia e, più diffusamente, in tutto il bacino del Mediterraneo, si rinvengono vasi che contenevano unguenti e profumi. Si tratta tipicamente di aryballoi e alàbastra. I primi sono dei vasetti globulari o piriformi in terracotta, i secondi dei vasi con un corpo longilineo e allungato e con labbra piatte e fondo ovale in alabastro. Gli aryballoi cominciarono a essere prodotti nella città di Corinto intorno al 720 a.C. La commercializzazione degli alàbastra è invece attestata in Egitto nella città di Naucrati. Queste due grandi città cosmopolite erano dunque a capo di un commercio formidabile che interessava tutto il mondo antico. Per i mari del Mediterraneo si muovevano numerosissimi i mercanti che diffondevano queste preziose e sofisticate mercanzie raggiungendo tutti i porti della Magna Grecia intrattenendo relazioni e commerci con le classi aristocratiche. Ma cosa contenevano questi vasetti? Quali erano i profumi conosciuti e utilizzati nell’antichità e quindi nelle colonie della Magna Grecia? L’arte del profumo Teofrasto, filosofo ateniese, allievo di Aristotele, vissuto a cavallo fra il IV e il III secolo a.C., ci viene in soccorso. Il filosofo, infatti, scrisse il trattato I profumi (Perì osmòn) che ci è pervenuto in ampi frammenti. Dalla lettura di quest’opera conosciamo le principali essenze utilizzate nell’antichità per la produzione dei profumi, delle tecniche per la loro estrazione ed il nome dei profumi più “in voga” all’epoca. All’inizio del suo lavoro il filosofo di Ereso riprende i fondamenti della visione aristotelica sulla percezione degli odori. Tutte le cose, egli dice, animali, piante ed esseri inanimati hanno un proprio odore che l’uomo spesso non è in grado di sentire a causa dell’inadeguatezza del suo apparato olfattivo mentre altri animali, dotati di un migliore odorato, riescono a percepire. Ma mentre gli animali non sono in grado di distinguere in assoluto un buon odore da un cattivo odore in quanto essi sfruttano l’apparato olfattivo solo al fine di procurarsi un 258


vantaggio quale ad esempio del cibo (vale per esempio, osserva il filosofo, il fatto che alcuni animali sono attratti dal cattivo odore prodotto da fenomeni putrefattivi mentre altri si allontanano da piante che emanano un buon profumo); l’uomo, invece, è in grado di apprezzare il buon odore “in sé” e quindi, unico fra i viventi, riesce a distinguere e a ricavare un giovamento interiore da un buon profumo (quale ad esempio l’odore di un fiore) pur non traendo un vantaggio materiale da questa sua capacità1. Quindi la ricerca di un profumo in vista di un piacere non legato a bisogni materiali è caratteristica peculiare dell’uomo e l’arte della profumeria, ossia la tecnica, la téchne, che consente di creare un buon profumo segue una finalità intelligente contrapponendosi ai processi naturali che avvengono a caso e senza previsione o finalizzazione “bisogna ora cominciare a parlare di quegli odori, come anche di quei sapori, che vengono prodotti secondo un’arte e in base ad un progetto deliberato. Nell’uno e nell’altro caso è chiaro che il risultato cui tendiamo è sempre l’elevazione al meglio, l’incremento del piacere: ogni arte, infatti, mira a questo”2. Quindi il profumiere, il myrepsòs cioè “colui che cuoce gli unguenti” esercita un’arte nobile. Teofrasto in seguito passa ad analizzare quali sono i fondamenti dell’arte del profumiere e quali le tecniche per creare essenze profumate. Veniamo così a conoscere che in antichità i profumi erano preparati immergendo le essenze in sostanze grasse quali gli oli. La funzione dell’olio era quindi quella di catturare e conservare i profumi. Veniva utilizzato l’olio di oliva, l’amygdàlinon (olio di mandorle), il sesàminon (olio di sesamo) o l’olio ricavato dal balano, il balanos. Per quanto attiene all’olio di oliva, era preferito quello ottenuto con olive ancora non mature raccolte nei mesi di agosto o settembre. Tale olio si presenta incolore e inodore (era l’onfacium dei latini) e risulta pertanto ideale da usare in profumeria. L’estrazione del profumo poteva farsi “a freddo” o “a caldo” a seconda che si riscaldasse o meno l’olio. Erano utilizzati i fiori (come nel caso delle rose, del giglio, delle viole, del timo e dello zafferano), le radici delle piante (come ad esempio le radici dell’iris, del nardo, della maggiorana) o i frutti (come ad esempio le mele cotogne, le bacche del mirto e quelle dell’alloro). Nella preparazione dei profumi si mettevano a macerare prima le spezie dotate di un aroma meno intenso e per ultimo si aggiungeva la fragranza che si voleva rimanesse più a lungo in quanto l’ultimo ingrediente aggiunto manteneva una nota dominante anche se utilizzato in quantità minore rispetto alle altre essenze. Conosciamo anche il nome dei profumi: il rhòdinon (profumo di rose), il mélinon (che si ricavava per macerazione a freddo in olio delle mele cotogne), il leukoïnon (dalle viole) il sùsinon (dai gigli), l’erpyllinon (dal timo), il krocinon (dallo zafferano) l’irinon (dall’iris), il nàrdinon (dal nardo), l’amaràkinon (dalla maggiorana), il myrtinon (dalle bacche del mirto), il dàphninon (dall’alloro). Vi era poi il Megalèion (ottenuto con resine bruciate, mirra, cinnamomo) ’Aegyption, il Panathenaicum (che era prodotto ad Atene). In alcuni casi si usava colorare le essenze con un’erba, l’Anchusa che dava un colore rossastro, in altri casi si preferiva non dare alcun colore al profumo. 259


È importante segnalare che sul bordo di una lekythos a figure nere attribuita al pittore di Diosphos operante ad Atene intorno al 490 a.C., è presente l’iscrizione hirinon che indica, senza ombra di dubbio, che quel vaso conteneva l’irinon, il famoso profumo ottenuto dall’iris. Teofrasto osserva che alcuni profumi potevano conservarsi per poco tempo, altri invece anche per molti anni. Ancora il filosofo di Ereso osserva che alcune fragranze sono più adatte agli uomini (ad es. il rhòdinon e il kypros) altre alle donne (il Megaleion, l’Aegyption, l’amaràkinon e il nàrdinon). I contenitori più idonei alla conservazione dei profumi erano quelli in alabastro (gli alàbastra) e quelli di piombo in quanto “il piombo e l’alabastro sono adatti a conservare gli unguenti perché, grazie al fatto che sono freddi e compatti, non lasciano scappare all’esterno l’odore e in genere impediscono l’ingresso di corpi estranei”. Anche Plinio ci fornisce preziose informazioni sul mondo dei profumi dell’antichità. All’inizio del XIII volume egli, nella sua Storia Naturale, osserva che non si conosce il nome dell’inventore dei profumi e afferma che “ai tempi della guerra di Troia essi non esistevano e nelle suppliche non si usava l’incenso: perfino nelle cerimonie religiose si conosceva solo il sentore del fumo, più che l’odore, che si levava dalle piante del luogo bruciate, la cedrus e la tuia; era nondimeno già conosciuta l’acqua di rose; anch’essa, infatti, viene ricordata nell’Iliade e lodata come olio”3 e che l’uso dei profumi andava fatto risalire ai Persiani. Plinio scrive che due sono gli elementi necessari per fabbricare un profumo. Il succo e l’essenza, il succo consiste in vari tipi di olio, l’essenza nei vari odori. Un terzo elemento è il colore che può essere ottenuto con il cinabro e l’anchusa. Si addizionavano poi resina o gomma per fissare all’essenza l’aroma. Il filosofo fornisce anche la dettagliata composizione di numerose essenze profumate. Scrive ancora Plinio “I profumi hanno ricevuto i loro nomi in alcuni casi dal paese di produzione, in altri dalle essenze che li compongono, in altri dalle piante di provenienza, in altri ancora da cause particolari; bisogna inoltre sapere, prima di tutto, che la loro importanza ha subito delle variazioni e che essi spesso sono passati di moda”4. Famoso era il profumo di Delo5; Corinto era famosa per il profumo di Iris, Soli e Rodi per quello di zafferano, Cos per quello di maggiorana, Cipro e l’Egitto per quello di henna, Atene per il Panatenaico. Il profumo più costoso e che godeva del più alto pregio ai tempi di Plinio era il “Profumo regale” così chiamato perché preparato per il re dei Parti. Esso si componeva di mirobalano, costo, amomo, cinnamo comaco, cardamomo, spiga di nardo, maro, mirra, cannella, storace, ladano, opobalsamo, calamo aromatico, giunco profumato di Siria, enante, malobatro, sericato, henna, aspalato, panacea, zafferano, cipero, maggiorana, loto, miele e vino. Paestum era famosa nell’antichità per i suoi roseti e per il suo rhòdinon. Virgilio, Ovidio, Properzio e Marziale hanno lodato con i loro versi le rose di Paestum. In effetti, gli scavi effettuati da J.P. Brun hanno permesso d’inviduare nella città 260


una fabbrica di profumi risalente al I secolo d.C. dove sono stati recuperati anche diversi unguentaria. È ipotizzabile che tutta la zona situata nell’angolo a Nord-Ovest del foro di Paestum, dove era collocata questa fabbrica, fosse adibita, almeno dal III secolo a.C., al commercio e alla produzione di profumi sfruttando commercialmente gli immensi roseti (rosaria) che si estendevano anche fuori delle mura della città 6. Da una lettera indirizzata a Nemesio, notabile di Fayoum in Egitto, risalente al I secolo d.C., apprendiamo, infatti, che il famoso rhòdinon Italikòn (cioè il profumo alle rose prodotto in Italia) proveniva dalla Campania ed era ricercatissimo persino in Egitto. Altre importanti e interessanti informazioni sul mondo dei profumi si ricavano da riscontri archeologici. Le tavolette in Lineare B rinvenute nel Palazzo di Pilo ci hanno rivelato che esisteva, nella lingua micenea, un vocabolo specifico per indicare il profumiere: “are-pa-zo-o “ che significava “bollitore di unguenti”. Questo dato, forse più di ogni altro, ci fa intuire l’importanza che avevano i profumi nel mondo antico. Sempre dallo studio delle tavolette in lineare B rinvenute a Pilo e a Cnosso conosciamo il nome di alcune essenze profumate in miceneo come il coriandolo (ko-ri-a-da-na), il profumo di rosa (wo-do-we), il profumo di salvia (pa-ko-we), la menta (mi-ta), il sesamo (sasa-ma), il cumino (ku-mi-no), lo zenzero (ko-no), il terebinto (ki-ta-no). Nel palazzo di Pilo sono stati inoltre portati alla luce una serie di ambienti che avevano la funzione di deposito di oli profumati e due cortili dove avveniva la produzione di queste essenze. In questi ambienti sono stati rinvenuti anche numerosi vasi, alcuni dei quali con il collo stretto e di forma ovalare che certamente dovevano servire per contenere profumi. Inoltre vi sono testimonianze archeologiche di un contenitore cilindrico fornito di coperchio conico che serviva per contenere sostanze aromatiche e il cui nome è un ideogramma trascritto come AROM. Nell’isola di Cipro nella località di Pyrgos-Mavroraki è stata portata alla luce una fabbrica di profumi risalente al II millennio a.C. Sembra che il sito sia stato abbandonato improvvisamente a seguito di un violento terremoto e quindi sono stati rinvenuti intatti tutti gli strumenti utilizzati per la produzione dei profumi. Si è potuto così documentare che già in epoca antichissima era nota e utilizzata la tecnica della distillazione per ricavare le essenze profumate. Gli studiosi hanno anche analizzato e identificato le sostanze ancora presenti nei vasi e nei distillatori (alloro, rosmarino, coriandolo, valeriana, papavero, mirto, trementina, olio di mandorle, prezzemolo, anice). Anche in questo caso ci si serviva dell’olio per trattenere le essenze profumate e non è un caso che questa fabbrica di profumi sorgesse proprio all’interno di un frantoio. Plinio nel XIII libro della Storia Naturale afferma che ai suoi tempi i profumi prodotti nell’isola di Delo godevano della massima considerazione. Riscontri archeo261


logici hanno confermato quanto scritto da Plinio in quanto a Delo è stata portata alla luce una fabbrica di profumi risalente alla fine del II secolo a.C. In questa fabbrica sono state individuate due presse che servivano per ottenere l’olio di olivo necessario per la produzione dei profumi e per recuperare l’olio profumato ottenuto con la tecnica dell’enfleurage a freddo e quattro fornaci che erano utilizzate per la tecnica della macerazione “a caldo” delle essenze profumate. In nostro soccorso, per squarciare un velo sull’affascinante mondo degli antichi profumi, vi sono poi, numerose, le fonti letterarie. Canta Omero nel XXIII libro dell’Iliade che sotto le mura di Ilio, Afrodite unse giorno e notte il corpo di Ettore con un divino olio di rose. Ma anche i frammenti di Saffo, Ibico, Anacreonte, Archiloco, Pindaro ci parlano delle suggestioni dei profumi e del loro potere evocativo e ammaliante. E poi ci sono i miti, le metamorfosi delle essenze profumate. Ovidio ci narra di come la ninfa Dafne fu trasformata in alloro per sfuggire alle attenzioni di Apollo, del disperato dolore di Apollo per la morte di Giacinto della sfortunata vita di Adone trasformato in un fiore tanto bello quanto fragile: l’anemone; Nonno ci racconta la triste storia di Calamo e Carpo . Ci sono tramandati anche i nomi di famosi profumieri dell’antichità come Strattide, Dinia, Perone. Il profumo e la divinità L’euodìa, il buon odore, nel mondo greco, era una caratteristica propria degli dei, un segno della loro condizione sovrannaturale. Plutarco narra che la pelle di Alessandro Magno emanava un gradevolissimo odore e che dalla sua bocca e dal suo corpo spirava un tale profumo che impregnava tutte le sue vesti: questo era considerato un segno di appartenenza a una schiera eletta. L’epifania di Demetra, nell’Inno Omerico alla dea, è caratterizzata proprio da un dolce odore che si effondeva dal suo peplo. Ancora, quando Ermes si recò sull’isola di Ogigia da Calipso per ordinarle di lasciar partire Ulisse “la trovò che era in casa. Gran fuoco nel focolare bruciava e lontano un odore di cedro e di fissile tuia odorava per l’isola”7. D’altronde il vocabolo profumo deriva da “per fumum” e si riferisce proprio al fumo profumato delle offerte che si diffondeva in cielo e raggiungeva le divinità. Il profumo rappresentava quindi un collegamento, una sorta di congiunzione, fra il mondo umano e il mondo divino. Detienne8 osserva che uno dei termini più antichi usati nell’epopea omerica per designare le offerte agli dei, il vocabolo thyos, aveva in origine proprio il significato di sostanza bruciata per ottenere fumi odorosi. Thyòdea neòn è chiamato il tempio di Afrodite a Pafo, cioè profumato con i fumi dei sacrifici; tethyomenos, cioè profumate dai fumi delle offerte sono le vesti di Apollo dell’Inno Omerico indirizzato al figlio di Latona. Nel mondo greco erano, inoltre, in uso i thymiatherion (costruiti in terracotta o in bronzo) che servivano proprio per bruciare essenze profumate nel corso di 262


cerimonie religiose pubbliche e private. Osserva Brigitte Munier “il sacrificio, preludio al consumo della carne, ricorda costantemente agli uomini che il loro nutrimento, cioè le carni morte e marcescibili, è lo specchio dei loro stessi corpi, condannati alla fame, alla corruzione, ai miasmi ed infine alla morte. Gli dèi, al contrario, si nutrono di esalazioni profumate che, in quanto tali, sono incorruttibili e li preservano dalla degradazione cui è soggetta la vita biologica, destinata a invecchiare e perire. I fumi odorosi, l’ambrosia e il nettare sono simboli d’immortalità poiché sfuggono ai processi digestivi” 9. Gli oli profumati venivano anche utilizzati per profumare le statue delle divinità; era la kòsmesis agalmàton. Homolle riporta, ad esempio, che le statue di Hera e di Artemide a Delo venivano lavate e poi profumate con un olio alla fragranza di rosa10. È solo il caso di osservare che l’uso dei profumi per caratterizzare, per sacralizzare riti e cerimonie religiose si è trasmesso fino ad oggi quasi immodificato ed è patrimonio di numerosissime religioni. Il profumo e la seduzione Canta Archiloco: “Odoravan d’unguento chioma e seno: anche un vecchio ella avrebbe innamorato”11. Nel XIV libro dell’Iliade Omero canta come Hera riuscì a ingannare il marito, Zeus. I fatti sono questi: gli achei versavano in grande difficoltà sotto l’incalzare dei troiani e in particolare di Ettore. Zeus parteggiava per Troia e si godeva compiaciuto lo spettacolo dei combattimenti dall’alto del monte Ida impedendo che gli altri numi potessero intervenire in aiuto degli achei. Hera, la moglie di Zeus, parteggiava per gli achei e temeva per l’esito dei combattimenti. L’unico modo per capovolgere la situazione era di distrarre Zeus. Allora Hera pensò di ingannare in questo modo suo marito. Andò da Hypnos, il dio del sonno, e gli rivelò il suo piano: sarebbe andata da Zeus e lo avrebbe sedotto. Dopo l’incontro amoroso, Hypnos doveva intervenire per far addormentare Zeus e poi avvisare Poseidone di scendere nella pianura di Ilio in favore degli achei. Il dio del Sonno fu molto perplesso se accettare o meno il piano di Hera perché temeva l’ira di Zeus, ma alla fine accettò perché la dea gli promise, in cambio di questo favore, di concedergli in moglie Pasìtea, una delle Grazie, che Hypnos desiderava da sempre. A questo punto Hera si ritirò nelle sue stanze, deterse il corpo con ambrosia e poi si profumò con un olio talmente profumato che “ad agitarlo nella dimora soglia di bronzo di Zeus, dovunque in terra e in cielo se ne spande il profumo”12. Così profumata, fu gioco facile per Hera riuscire a sedurre e ingannare Zeus. La dea infatti si recò dal marito sul monte Ida dicendogli di essere lì di passaggio perché si stava recando da Oceano. Alla vista della moglie così profumata Zeus perse letteralmente la testa, dimenticò la guerra che si combatteva e invitò la moglie a giacersi con lui. Ma Hera si schernì e disse che certo non potevano unirsi lì per263


ché sarebbero stati visti dagli altri dei. Allora Zeus immediatamente fece calare una nuvola dorata sul monte tanto densa che neanche lo sguardo di Elios, il sole, che pure stava proprio lì sopra, poteva penetrarla e subito sotto i loro corpi fece nascere un tenero prato con crochi e giacinti profumati. Finito l’incontro amoroso, come concordato, Hypnos fece scendere un dolce sonno sugli occhi del padre degli dei e si recò da Poseidone per avvertirlo che poteva correre in soccorso degli achei. Il dio quindi raggiunse senza perder tempo la pianura di Ilio e riuscì a ribaltare l’esito della battaglia incitando gli achei che riuscirono a mettere in fuga i troiani. Lo stesso Ettore fu ferito. Grande fu l’ira di Zeus quando si svegliò e vedendo Ettore ferito e i troiani incalzati dagli achei capì l’inganno che la moglie gli aveva teso. Quindi il profumo come formidabile arma di seduzione. Numerosi sono i racconti sulle capacità di seduzione dei profumi nel mondo antico. Eliano, ad esempio, racconta la storia di Faone, barcaiolo che viveva traghettando persone. Un giorno si presentò Afrodite e lui senza sapere chi fosse lo accolse con grande cortesia. La dea come ricompensa per la sua estrema gentilezza gli donò un alàbastron che conteneva un olio profumato: unguendosi con esso, Faone divenne il più seducente di tutti gli uomini e tutte le donne di Mitilene s’innamorarono di lui. Anche per quanto riguarda l’uso dei profumi per sedurre, possiamo certamente affermare che nel corso dei millenni nulla è cambiato perché ancora oggi i profumi mantengono questa formidabile valenza. Il profumo e l’effimero Plinio a conclusione della sua trattazione sui profumi definisce il mondo e il commercio dei profumi come il mondo dell’effimero. “Questa è la materia di un lusso che tra tutti è il più vano. Infatti, le perle e le gemme per lo meno passano agli eredi, le vesti durano nel tempo: i profumi si dissolvono istantaneamente e muoiono appena nati. Il loro costo supera i quattrocento denari la libbra; ecco a quanto si compra il piacere altrui, visto che chi è profumato, non si accorge di esserlo”13. Ancora Diogene a un tale che si cospargeva di unguento le chiome disse “Bada che il profumo della tua testa non apporti cattivo odore alla tua vita” 14. Socrate nel Simposio di Senofonte afferma che il profumo dell’olio dei ginnasi è molto più gradevole di quello degli oli profumati. E quando Licone gli chiede quale fragranza profumata convenisse quindi usare per chi, come lui, oramai avanti negli anni, non frequentava più le palestre Socrate stizzito risponde “Di nobiltà d’animo, per Zeus!” 15 e quindi Licone di rimando “E dove uno 264


potrebbe procurarsi questa essenza profumata?” “Non certo dai profumieri, per Zeus” risponde Socrate e cita Teognide: “Imparerai il bene dai buoni; se ti unirai ai malvagi, perderai anche il senno che c’è in te”16. Ateneo scrive che gli spartani allontanavano dalla città coloro che producevano i profumi, accusandoli di sprecare l’olio di oliva e Solone nelle sue Leggi vietò agli uomini di vendere profumi. Nella commedia I cavalieri di Aristofane la bottega del profumiere è rappresentata come punto di ritrovo dei giovani oziosi di Atene e Ferecrate rimprovera la gioventù ateniese di perdere il loro tempo al mercato chiacchierando di sisimbrio e cosmosandalo dilapidando le ricchezze dei padri. Teofrasto nei Caratteri così descrive il comportamento di una persona cerimoniosa “si fa tagliare molto spesso barba e capelli, e i denti li mantiene bianchi, e cambia i vestiti anche se ancora buoni, e si cosparge di unguento profumato” 17. La letteratura ci rimanda episodi di lusso sfrenato. Scriveva Anassandride “Il profumo in vendita da Perone: sì quello che si era comprato ieri Melanopo. Il balsamo d’Egitto che costa una fortuna, con cui ora strofina i piedi di Callistrato” 18. Osserva la Focaroli19 “Ad Atene, la città che più di ogni altra aveva promosso e sostenuto la lotta contro i Persiani, fondamento dell’ideologia e della propaganda elettorale, fioriscono numerose botteghe di profumieri che possiedono negozi nei punti migliori della città, da cui hanno accesso a una clientela benestante e dai gusti raffinati. A contatto con un pubblico aristocratico, pronto a pagare somme elevate per assicurarsi l’unguento più esotico e ricercato, i profumieri hanno la possibilità di intraprendere una rapida ascesa sociale ed economica; la diffusione dei profumi e l’impennarsi del prestigio del profumiere presso una facoltosa aristocrazia cittadina dedita a lussuosi costumi orientali, sollevano aspre critiche nell’ambito del dibattito politico e culturale incentrato sull’educazione dei fanciulli di cui troviamo una vivace testimonianza soprattutto nei poeti della Commedia Antica”. Nuovamente non possiamo non osservare che nulla è cambiato nel corso dei millenni perché anche ai nostri giorni i profumi conservano questa valenza, questo significato, di bene non necessario, di oggetto di lusso e di vanità. E d’altronde il potere e il fascino delle essenze odorose è esperienza comune. Osserva Süskind20 che gli uomini possono chiudere gli occhi e quindi non apprezzare la bellezza di un’opera d’arte, possono turarsi le orecchie e non sentire la bellezza di una musica, ma non possono sottrarsi dal percepire un profumo. Perché il profumo è fratello del respiro e con esso penetra negli uomini e va direttamente al cervello e poi al cuore suscitando simpatia, disgusto, piacere, attrazione, repulsa. Chi domina gli odori, è padrone quindi anche dei cuori degli uomini. I profumi della Magna Grecia Affascinato da queste seduzioni letterarie e archeologiche Salvatore Sebaste, che vive in Magna Grecia, 265


sulle antiche rive del Kasas, custode dei segreti e nume tutelare di questo fiume, ha tratto l’ispirazione, quasi una folgorazione, per produrre 11 sculture e 18 quadri che cantano il mondo dei profumi antichi. Novello “are-pa-zo-o”, con autentica furia creativa, ha rivisitato i miti, le tradizioni, gli oggetti di quest’universo di essenze profumate per reinterpretarli in modo nuovo, autentico, originale. Con arditi accostamenti di tecniche, colori e materiali (tele, cartoni, resine, bassorilievi fittili) utilizzando l’acqua, la terra e il fuoco per rendere più vibranti le sue creazioni, attingendo a piene mani dal mondo incantato di Gea, la Grande Madre Terra, ha recuperato le essenze aromatiche, i frutti, i fiori, inglobandoli, ancora vivi, nelle sculture e nelle tele. Gli antichi aryballoi in terracotta sono stati ripresi, reinterpretati, rivitalizzati con la cartapesta marcandoli con segni e gesti di un antico sacerdote che officia in un sacro temenos. I lavori ci parlano dei miti, delle metamorfosi (Apollo e Dafne, Calamo e Carpo, Apollo e Giacinto, Afrodite e Adone, Narciso ed Eco) degli incanti, delle magie e delle divinità del mondo antico e del mondo moderno e ci dicono che nulla è cambiato in tutti questi millenni perché il nostro stupore è immutato. Le sculture ispirate alle essenze profumate prendono il nome degli antichi profumi (Irinon, Rhòdinon, Erpyllinon, Dàphninon, Myrtinon, Mélinon, Sùsinon). Sono korai e kouroi che ci vengono incontro ora danzando ora con passo lento e misurato ora immobili nella loro ieratica luminosità. Queste opere profumano di nuovo e di antico, l’equilibrio dei “pieni”e dei “vuoti”, i toni ora luminosi ora cupi sono amplificati da un vigoroso gesto creativo che si preoccupa solo di ricercare il bello e nient’altro, dando vita a forme e immagini salvifiche e catartiche di significato “assoluto” che non necessitano di alcuna spiegazione o interpretazione perché vivono di vita propria e si nutrono del mondo e dei miti dalla Magna Grecia, del nostro mondo. --------------------------------------------------Teofrasto I Profumi 1-6; Aristotele Sul senso V 442-445. Teofrasto, I Profumi 7 a cura di F. Focaroli, Milano 2009. 3 Plinio il Vecchio, Storia Naturale XIII 2-3 trad. R. Centi, Torino 1984. Per quanto riguarda la citazione dell’Iliade Plinio si riferisce al profumo di rose che Afrodite versa sul corpo di Ettore (XXIII 186). 4 Op. cit. XIII 2. 5 Nell’isola di Delo è stata, in effetti, portata alla luce una fabbrica di profumi. Brun J.P. Laudatissimus fuit antiquitus in Delo insula. La maison IB du quartier du stade et la production des parfums à Dèlos. Bullettin de correspondance hellénique BCH 123 pag. 87-155, 1999. 1 2

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J.P. Brun Une parfumerie romaine sur le forum de Paestum. Mélanges de l’Ecole française de Rome (MEFRA) 110 pag. 419-472 1998. Scrive Plinio che “fra tutti i paesi, l’Egitto è il più idoneo alla produzione di profumi; segue la Campania per l’abbondanza delle rose”. Op. cit. XIII, 26. 7 Omero, Odissea V 58-60 trad. R. Calzecchi Onesti, Torino 1963. 6

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Detienne M. I giardini di Adone, pag. 50 Milano 2009.

Munier B. Storia dei profumi pag.18-19, Bari 2006. Mohole T. Comptes et inventaires des temples déliens en l’année 279. Bulletin de correspondence hellénique. (BCH) 14 pag. 389-511, 1890. 11 F30 Edmonds Trad. G. Perrotta, Milano 1976. 12 Omero, Iliade XIV 173-174 trad. R. Calzecchi Onesti, Torino 1950. 13 Storia Naturale XIII 4 trad. R. Centi, Torino 1984. 14 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VI 2,66 trad. M. Gigante, Roma 1991. 9

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“Καλοκάγαθίας νή Δί” dice letteralmente Socrate, concetto che esprime allo stesso tempo, come è noto, il significato di bellezza fisica ed eccellenza morale. 16 Senofonte Simposio II 4 trad. A. Giovannelli, Milano 2003. Plinio, tuttavia scrive che l’olio che usavano gli atleti in palestra era profumato “non soltanto con la maggiorana, ma anche con aromi più preziosi, come del resto si fa nei ginnasi, dove l’olio viene aromatizzato con profumi che sono, però, di infima qualità”. Storia Naturale XV 29 trad. A. Agarosti, Torino 1984. 17 V 6 trad. L. Torraca Milano 1994. 18 Riportato in Ateneo I sofisti a banchetto F 41 trad. di A. Rimedio, Roma 2001. 19 F. Focaroli, Teofrasto e l’arte della profumeria antica. In Teofrasto, I Profumi a cura di F. Focaroli, Milano 2009. pag.25-26. 20 P. Süskind Il profumo pag.160-161, Milano1985. 15

Antonio M. Giambersio, Dal Catalogo Mostra “I Profumi della Magna Grecia”, La Spiga d’oro, Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Potenza 2012. 267


Maria Torelli - Matera storica dell’arte

Fragranti ascendenze Evocare nuove dimensioni dell’interiorità, a partire da piccoli segnali, è il potere dell’amore, della memoria e dell’arte. Riuscire a riconnettere queste tre forza in una sola è la dimostrazione di come si possa recuperare quella caduta dallo stato di grazia rappresentata dal nostro essere umani. Raro, prezioso, legato fortemente ai ricordi: il profumo come oggetto d’arte e come espressione della cura di sé è il tema di questo ciclo di opere di Salvatore Sebaste, espresso attraverso la pittura, la scultura e la realizzazione di oggetti di design. Con una profonda ricerca storica che, anche questa volta, prende le mosse dalle radici della cultura greco-italiota, quadri e sculture ci mostrano un’estrema complessità creativa che non è solo immagine di una società edonistica. Al contrario, il profumo è inteso nel mondo greco come paradigma della civiltà: dysosmia, cattivo odore, come quello dei Ciclopi, contro cura del corpo, estremo espediente per avvicinarsi agli dèi. E alla figura del Ciclope, per contrasto, si accosta fortemente quella del più astuto fra gli eroi greci, Odisseo. In Ulisse e Nausicaa si percepisce, dall’assenza di un vero punto fermo nella composizione, come la giovinezza e la bellezza siano doni fragili e passeggeri di cui godere nell’attimo in cui si presentano. Olio di Atena è l’opera, tra quelle pittoriche presentate in questa silloge, che più insiste sul bilanciamento degli opposti: l’eccesso di razionalità è mitigato dall’uso del colore viola, dal cui sfondo emergono, altere custodi dei segreti della civiltà, le civette di Atena. L’olio, simboleggiato dal ramo di ulivo, è immediato protagonista, creatura naturale che, come si vede dalle striature di colori chiari che lo circondano e dalla rottura della superficie pittorica, diffonde intorno a sé l’illuminazione della cultura e dell’apprezzamento dell’individuo. Assistiamo dunque a una magistrale lezione sulla scoperta dell’antico, del sapere quasi dimenticato ma mai del tutto obliterato, nell’uso di un linguaggio non primitivo ma essenziale, cosmico. Il rimando è alle divinità metamorfiche cui spesso fanno riferimento i miti relativi ad alberi e piante odorose, concetto che è sempre presente nell’arte del maestro Sebaste lungo tutta la sua incessante e vitale evoluzione artistica. Gli 268


amori di Febo raccontati in Apollo e Giacinto o Apollo e Dafne, vertono sui toni del verde e sui rimandi alla fisicità acerba, quella degli efebi e delle vergini, che tanto al dio solare appaiono irresistibili. La fragilità delle forme vegetali si scontra con il prorompere sulla tavola di dischi, tronchi d’albero, che suggeriscono, in un’unica immagine, la coordinazione di passato e futuro. Un’opera come Afrodite e Adone mette in luce una grazia femminile nella composizione che bilancia slancio verticale e apertura al fondo, verso l’elemento ctonio: il simbolo del rinnovamento vitale si trova nel centro della tavola, pronto a erompere in lucenti superfici, richiamando così il tema della primavera come tipico delle feste Adonie, antesignane delle celebrazioni pasquali. Al ricordo, al movimento dilatato dall’ispirazione si riagganciano forme e colori nei quadri, sempre più fluidi anche nell’uso del supporto: un gesto visionario nel senso schilleriano del termine, ovvero proprio di colui che vede i fantasmi di cose remote, nascoste nella dimensione del tempo ma sempre presenti, e non perde la capacità di dare loro forme nuove. L’immortalità degli Dei, l’eternità dell’arte, è nel perpetuo fluire a ritmo con le stagioni, come si evince dai lucidi colori che esaltano la bellezza naturale dei fiori, dei frutti e delle foglie; è l’impermanenza di un profumo che svanisce ma la cui traccia perdura per sempre, non fosse altro che nella memoria. La serie delle Essenze imprime nella materia l’immagine (ma anche, appunto la vera essenzialità) delle piante da cui venivano tratti i profumi: lo spazio sembra contorcersi, incapace di contenere tanta vita, sullo sfondo prendono a muoversi figure quasi animalesche, ora più esili, ora più imponenti, simili al carattere stesso della pianta, che sia un’umile erba dal penetrante profumo o un alto albero elegante e flessuoso. Anche i colori diventano vibratili, rispecchiano le tinte dei fiori e dei frutti. Colore intenso, emozionale, che acquista senso per se stesso, steso a pennellate uniformi e increspate. Lo spazio pittorico smette di essere luogo ideale, inattaccabile, e s’infrange aprendo feritoie da cui, non senza qualche vertigine, è possibile guardare le cose da una prospettiva diversa. Così in Afrodite e in Artemide sembra quasi di osservare le due fasi di un processo di crescita: le tinte chiare e tenui che rappresentano Artemide, dea degli incolti e degli animali selvaggi, ma anche dell’età prepuberale, velano appena la perfezione dei frutti che sotto la superficie si fanno prepotentemente largo per emergere. L’insistere su forme tondeggianti è simbolo del fruttificare e del germogliare, e diventa esplosione di rosso e marrone bruciato in Afrodite, terra fertile e sangue, grembo che fruttifica e sembra quasi aprire le braccia all’osservatore. Caratterizza tutte le opere un perfetto equilibrio fra vuoti e rilievi, perché l’arte, come la bellezza, è verità nell’inganno e artificio nella concretezza: una realtà fiabesca e mitica, ma anche condensato profondamente viscerale, che 269


genera una pittura non più liquida, anzi densa come carne dalle forme carezzevoli e sinuose, ricca quale olio o linfa che scorra impetuosa nel tronco e nelle radici di un albero. Il supporto scavato, lacerato, lascia passare aria e luce. L’aria va ovunque, non conosce costrizioni naturali, è emblema della libertà più totale. Aereo e libero è perciò il movimento di queste opere, è la superficie stessa del quadro che si fa mobile, aperta, si emancipa dalle ultime imposizioni; la tensione fra natura e uomo, che è il nodo di potere della società antica e il tragico fallimento di quella moderna, viene esaminata attraverso movimenti ampi e brusche interruzioni delle linee. Senza venire meno agli usuali contrasti di colore, nelle opere che costituiscono questo percorso sui profumi della Magna Grecia Salvatore Sebaste si sofferma su tinte più vicine al mondo vegetale, non solamente quelle dei fiori, ma anche quelle delle cortecce d’albero, dei fili d’erba, della terra bagnata o riarsa. In questo ciclo di opere, più che complementari, pittura e scultura si fanno sempre più affini. Figure come sfolgoranti colonne di fulgore, drammaticamente tese verso l’alto eppure così serene, come le Cariatidi dell’Eretteo, come Atlante che sostiene il peso della volta celeste sulle vertebre del collo. Il dolcissimo bocciolo svettante di Leukoinon si spiega alla ricerca del tepore ed estende il suo virgulto a toccare la sensibilità dello spettatore, porgendo con dolcezza il fiore che stringe al suo apice. Le spigolosità delle foglie lanceolate, dei calici appuntiti, d’altro canto, si possono notare in sculture come Erpyllinon e Irinon, in cui il ritmo della superficie e delle materie ricalca perfettamente la struttura essenziale della pianta che le ispira. Bianco con punti coloratissimi dove la luce indugia, si rifrange, distacca nettamente le superfici senza però accecare. Forme che richiamano l’astrattismo primitivo delle Cicladi, già in nuce contenitore e progenitore di tutto il sentimento greco della forma. In un’opera come Melinon, la massa sembra abbracciare e contornare il frutto della mela cotogna, volerla proteggere a guisa di quel serpente Ladone che custodiva i pomi delle Esperidi. E, infatti, il corpo della scultura si fa tentacolo e sbarra, cornice e schermo per la cascata verde-gialla delle mele, di cui veramente s’intuisce la fragranza. Le antiche teogonie narrano che tutto l’universo nasce da un nucleo solido, e la tridimensionalità sembra riportare a quella origine anche concetti immateriali come bellezza, bontà, armonia. Senza dimenticare la faccia tenebrosa della medaglia: penombre e viscere, oscurità. Dalla morte della bellezza, dal decadimento delle forme naturali nascono i profumi più dolci: un incanto fragile e ossimorico che ricorda, nelle sue superfici scabre e lucenti, che tutto a questo mondo ha una contropartita. 270


Questa duplicità è rappresentata in due sculture speculari entrambe dedicate a Gea, la grande madre. Più significativamente antropomorfe delle altre, ma con un’ibridazione ancora più marcata fra l’umano e il non umano, inteso non solo come vegetale o animale, ma anche come sovrasensibile. Gaia è la titanessa primordiale da cui tutto si genera: nella sua espressione di madre generatrice è una feconda matrona velata con le braccia colme di fiori, che sembra trarre dal suo stesso grembo; bruciata, disseccata, foriera di morte è la sua controparte, in cui l’artista evidenzia anche quella forma di Natura matrigna tanto importante per il Leopardi, la spietata creatura che divora i suoi figli solo per generarli ancora e che per questo è scheletrica, eternamente affamata, offuscata. L’indissolubile legame fra queste due sculture è creato da un gioco di analogie e contrasti che lasciano però la libertà di fruire indipendentemente di ognuna delle immagini.La creatura si fa racconto, il racconto diventa simbolo allegorico, in un percorso che non è mai minimale ma riflette sempre il paesaggio della Terra natale con una sensibilità a metà strada fra la serena austerità e l’interesse per il nuovo. Ed è in questo contesto che si inseriscono gli oggetti d’arte minori: ecco quindi i vasi - unguentari schiudersi dalle forme vegetali di cui riprendono i profumi, eco di reperti emersi da navi affondate, e già ricoperti di balani e bianche incrostazioni. Questi vasi di dimensioni ridotte tracciano la diretta discendenza dalle opere ceramiche della civiltà minoica, brulicanti di raffigurazioni di animali marini, di fiori veri o leggendari, permeati non da un barocco horror vacui ma dal sentimento stupefatto della meraviglia.

Maria Torelli, Dal Catalogo Mostra “I Profumi della Magna Grecia”, La Spiga d’oro, Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Potenza 2012. 271


Rocco Brancati - Potenza giornalista esperto d’arte

I miti profumati e gli odori della vita nell’opera di Salvatore Sebaste. A Delo tra un olivo e una palma di datteri che crescevano sulle pendici settentrionali del monte Cinto, Latona si sgravò di Apollo dopo nove giorni di travaglio. Delo, che fino a quel giorno era stata un’isola vagante, s’immobilizzò nel mare e per decreto divino nessuno può più nascervi o morirvi… I miti profumati e gli odori della vita nell’opera di Salvatore Sebaste. L’artista salentino-lucano ritorna alle sue origini, alla Magna Grecia. Si addentra nei giardini di Adone per ritrovare i profumi del mito, per riscoprire nuove forme che ricordano la nascita di Afrodite “sotto i cui piedi spuntano i fiori più belli ”. Guardando quelle sculture mi viene in mente un famoso romanzo di Patrick Suskind quando scrive “…gli uomini non potevano sottrarsi ai profumi. Poiché il profumo è fratello del respiro. Con esso penetrava gli uomini…e il profumo scendeva in loro, direttamente al cuore…”. Il linguaggio plastico e materico di Salvatore Sebaste ci consente di addentrarci nei miti per ritrovare un mondo classico ma, credo, con una nuova soggettività che è ora legata a una concezione naturalistica e favolistica. Il paesaggio dell’artista è quello del giardino che diventa labirinto della memoria, incanto per la raffinata creatività delle forme. Le sculture diventano spettacolari forme, figure che arrivano a formare storie e immagini sorprendenti. Sculture incastonate di frutti quasi a interpretare un’opera narrativa mitologica ma proiettate nella nostra quotidianità, nell’arte plastica contemporanea.

Rocco Brancati, Dal Catalogo Mostra, “I Profumi della Magna Grecia”, La Spiga d’oro, Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Potenza 2012. 272


Antonio De Siena - Metaponto Soprintendente ai Beni Archeologici della Basilicata

Il mito di Dioniso Il tema scelto da Salvatore Sebaste per questa sua ultima fatica riguarda il mito di Dioniso, una delle divinità più complesse dell’Olimpo greco. La sua natura divina è confermata dalla nascita prodigiosa dalla coscia di Zeus, dopo la seduzione e la morte della giovane madre Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe. Le immagini ritraggono il dio coronato di pampini e viticci, con in mano il calice, spesso seguito da un corteo di ninfe, menadi e satiri che danzano e suonano intorno a lui. L’associazione tra il mito di Dioniso e la diffusione della vite e del vino risulta ampiamente documentata nel repertorio iconografico presente in Grecia, in Etruria, in Sicilia ed in Magna Grecia. Già in età arcaica il dio è associato al vino. Nel noto cratere François, a figure nere, ritrovato nella necropoli Chiusi e conservato nel museo nazionale di Firenze, un Dioniso maturo e barbuto è rappresentato come il portatore dell’anfora di vino per le nozze di Peleo e Teti. Una celebre coppa per consumare il vino dipinta da Exechias nel V secolo a.C., conservata nel museo di Monaco di Baviera, raffigura sul fondo interno una nave guidata dal dio e dai delfini, con una vite gigantesca che al centro avvolge l’albero maestro. Una moneta d’argento emessa probabilmente da una delle comunità enotrie dell’area interna della Basilicata lo propone nel VI secolo con gli attributi tipici del calice e della vite. Dioniso è il dio dell’estasi, dell’euforia, del desiderio, dell’impeto orgiastico e solo l’iniziato ai suoi riti può raggiungere la conoscenza, il sapere ed anche la beatitudine ultraterrena dopo la morte. Nell’aldilà il defunto che ha seguito i suoi insegnamenti, ha partecipato ai suoi riti può accedere all’eterno banchetto. Sebaste si muove con grande maestria nel rappresentare i molteplici aspetti del dio, i suoi legami con la tradizione mitologica che nel tempo ne ha modificato immagine e ruolo. Il carattere della sua produzione artistica passa con estrema naturalezza dalle pennellate tese, precise, nervose all’eleganza essenziale delle rappresentazioni finali. Queste ultime si fissano nello spazio e lo dominano senza limiti fisici precostituiti, con un’armonia esaltata dalla continua circolarità del movimento. 273


Le sue figure sono magiche, ancestrali e trovano ispirazione nell’ampio repertorio della mitologia greca, nel racconto epico degli eroi, nella lirica orale, nelle immagini della grande produzione artigianale. Sebaste scompone le forme secondo la migliore tradizione delle avanguardie e manifesta una notevole capacità espressiva nel rapido recupero dei volumi. Le masse assumono concretezza, sostanza di un linguaggio pittorico capace di costruire figure continuamente cangianti. Gli impasti di colore e la pennellata plastica sono espressione di una maturità ormai raggiunta, anche se perennemente e violentemente tormentata. L’insieme delle sue opere trasmette un senso d’inquietudine e di profonda religiosità allo stesso tempo. Le creature rappresentate non trovano immediate giustificazioni razionali o confronti facili nell’immaginario figurativo. Esse sono animate da un impressionismo avvolgente e catartico, sublimate da un uso sapiente del colore. Sono i corpi impossibili di mitici personaggi che tradiscono palesemente la profonda cultura, l’ambiente, la terra d’origine del maestro Sebaste.

Antonio De Siena, Dal Catalogo Mostra “L’ebbrezza di Dioniso”, La Spiga d’oro, Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Melfi (Potenza), 2013. 274


Antonio Giambersio - Potenza studioso di archeologia

IL Vino di Dioniso Nessun’altra bevanda come il vino ha influenzato la cultura dell’umanità fin dai suoi albori in special modo di quei popoli che si affacciavano sulle rive del Mediterraneo. Si ritiene, infatti, che la domesticazione della Vitis Vinifera sia iniziata in tempi antichissimi. La Mesopotamia sembra essere l’areale di origine della pianta. Vi sono evidenze archeologiche che fanno ritenere che già attorno al 6000 a.C. vi fossero viti domestiche in Georgia, nel sud-est della Turchia e nel Caucaso. In egiziano, il determinativo del geroglifico della parola vite rappresenta un pergolato con i grappoli d’uva e con una tinozza. La pianta della vite sarebbe giunta in Grecia e in Italia intorno al 1000 a.C. Che il vino faccia parte del patrimonio culturale dell’umanità da tempo immemorabile può essere efficacemente compreso esaminando la radice del nome di questa bevanda che risulta essere sostanzialmente simile nelle lingue dei popoli mediterranei e dell’Asia Minore. Infatti, già nel secondo millennio a.C. la lingua ittita utilizzava il vocabolo uiian per indicare la bevanda, in lingua egizia la translitterazione del geroglifico che rappresentava la parola vino fornisce il suono wijana. Nelle tavolette di Pilo in Lineare B il vino è indicato con la parola woinos da cui poi deriverà il vocabolo in greco antico oinos. In latino, com’è noto, la bevanda era chiamata vinum; in arabo wa-yn, in assiro inu, in ebraico vajin. Ai nostri giorni il vino in inglese è wine, in portoghese vinho, in spagnolo vino, in francese vin, in tedesco wein. Possiamo, pertanto, affermare che da sempre questa bevanda è stata indicata sostanzialmente con lo stesso nome da tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo e da qui, in seguito, in tutto il mondo. La coincidenza dell’apparizione della parola vino in letteratura coeva alla stessa invenzione della scrittura, non può essere considerata solo casuale, essa indica, senza possibilità di dubbio, l’esistenza di una “cultura del vino” già profondamente consolidata in tempi lontanissimi, all’alba della nostra civiltà. Numerosissime evidenze archeologiche ci parlano in tempi storici della coltivazione della pianta (i suoi semi sono stati rinvenuti dal V millennio a.C. in Ucraina, 275


nel millennio successivo anche in Egitto e in Siria e quindi, in seguito, sempre più diffusamente, in tutto il bacino del Mediterraneo). Il commercio della bevanda è documentato da numerosissime fonti letterarie (nel codice di Hammurabi, re di Babilonia nel XVIII secolo a.C. erano descritte le imbarcazioni impiegate per trasportare il vino di Fenicia) nonché da riscontri archeologici (si pensi solo alle anfore vinarie che erano utilizzate per il trasporto della bevanda dai fenici ed in seguito dai greci e romani e che si recuperano in abbondanza dalle stive delle antiche navi mercantili naufragate). Conosciamo il nome di vini antichi di particolare pregio quale il Kelbi, il Mareote e il Teniotico egiziano; il vino di Ismara, quello di Pramno, il Myndio, il Lesbio, quello di Alicarnasso, di Coos e di Rodi in Grecia; il Biblino dal Libano; il Falernum, l’Aminaeum, il Lucanum e il Lagaricum, il vino di Sezze, il Cecubo, i vini Mamertini, il Pretuziano, i vini Retici in Italia. Quindi, il vino ha significato, da sempre, qualcosa di più di una semplice bevanda. Non c’è dubbio che a conferirgli questa valenza abbia contribuito in maniera determinante la capacità della bevanda di provocare ebbrezza. È un’ambivalenza troppo evidente per essere sottaciuta: il vino capace di dare gioia, di dare conforto e di intorpidire le menti e ingannare i sensi sovvertendo gli ordini ed i valori fino ad annullare la volontà di chi lo beve consegnandolo nelle mani di una forza più grande di lui. Agave, in preda a un furore dionisiaco ucciderà, dilaniandolo, suo figlio Penteo, scambiandolo per un leone e conficcherà la testa del figlio sulla cima del suo tirso accorgendosi di quanto accaduto solo al momento del suo rinsavimento. Per Tiresia il vino “spegne i dolori delle persone che soffrono, dona loro il sonno, oblio delle pene quotidiane e alle pene offre l’unico rimedio”. Il vino, causa di turbamento perché dello stesso colore del sangue, è farmaco e veleno al tempo stesso. Esso è il tramite per entrare in contatto con il sacro, e sperimentare uno stato di coscienza alterato. Con queste ambivalenze in Grecia la vite e il vino sono associate al culto di Dioniso e diventano immagine ed epifania del dio stesso. “Beato chi riceve la grazia di entrare nei divini misteri: santifica la vita, consacra l’anima nel tìaso, e pio si purifica, celebra sui monti Bacco e i riti della gran madre Cibele; scuotendo alto il tirso, il capo cinto d’edera, si fa ministro di Dioniso” canta il coro nelle Baccanti di Euripide. Dioniso, il “nato due volte” prima da Semele, la madre defunta, e poi dalla coscia del padre, il potente Zeus è il dio dell’ebbrezza. Nel mito il dio muore e rinasce proprio come il ciclo della pianta che rinsecchisce fino quasi a morire per poi riprendere il 276


suo vigoroso ciclo vitale come per un prodigio, per un miracolo. Nonno di Panopoli narra il mito di Ampelos, la vite, e paragona la lanugine sul volto e sulle labbra del giovinetto morto a quella che cresce sui pampini appena sbocciati delle giovani foglie della vite. L’ambivalenza del dio è presente già in Omero che chiama Dioniso mainòmenos cioè folle, pazzo ma anche “letizia degli uomini”, kàrma brotoisin. Il Dio personifica quindi le forze più riguardanti l’istinto della natura umana, anche quelle più violente e irrazionali. Attorno alla figura di Dioniso vi è tutto un corteo, il thiasos dei suoi sacerdoti, le menadi, i sileni, i satiri creature con tratti umani e tratti felini con i loro più tipici attributi, il tirso, il nartece, i corni potori, gli otri colmi di vino, i pampini di vite, i grappoli di uva, non raramente in stato di esaltazione erotica, itifallici che ballano la sikinnos al suono di tamburi, della syrinx, delle lire. Al Dio sono dedicate feste particolarmente sentite quali le Lenee o le Anthesterie. Queste ultime si svolgevano di notte alla luce delle fiaccole com’è ampiamente documentato dalle pitture vascolari perché “l’ombra comporta solennità” afferma lo stesso Dioniso nella tragedia di Euripide. Dioniso è un dio cruento, splendente di bellezza e gioventù, “con riccioli biondi, capelli profumati, gli occhi lucenti per le grazie di Afrodite” come lo descrive Penteo; che affascina e incombe al tempo stesso come una minaccia perché in grado sovvertire l’ordine delle regole e dei ruoli. Egli garantisce, però, ai suoi iniziati un’esistenza gioiosa e voluttuosa, nonché sacra e santa. Il vino è il protagonista indiscusso di uno dei “riti” più diffusi e documentati dell’aristocrazia greca. Si tratta del simposio la cui etimologia deriva dalle parole sym-pìno, cioè bere insieme. Già nei poemi omerici il consumo del vino rappresenta il momento più significativo e caratterizzante delle forme di convivialità aristocratiche. Generalmente il simposio cominciava dopo l’accensione delle lucerne, all’imbrunire, alla fine del pasto serale. Al banchetto partecipavano solo i maschi adulti. Esso si teneva in un’ala separata della casa, nella quale non era consentito l’accesso alle donne sposate e ai bambini. I partecipanti, sdraiati sulle klinai (letti a due posti) nell’ordine stabilito dal padrone di casa, si cingevano il capo con una corona di edera, pianta sacra a Dioniso. All’inizio del simposio s’intonava un peana. Mediante estrazione a sorte si eleggeva il simposiarca che doveva stabilire le norme del bere. La bevanda poteva essere consumata pura solo dagli dèi mentre gli uomini dovevano berla diluita con acqua. Spesso al vino si aggiungevano altri aromi come miele, mirto, anice, mandorle amare, farina. Durante il simposio si svolgevano gare di ballo, musica (con strumenti 277


a fiato quali l’aulos e la lira, crotali o piccoli tamburi), giochi (quali il kottabos) e spettacoli. Le uniche donne ammesse al simposio erano le etere che cantavano, suonavano e danzavano. Spesso, a turno, gli stessi convitati, si esibivano cantando e danzando. Durante il simposio si beveva abbondante vino accompagnato da assaggi della tipica alimentazione greca: formaggio, olive, frutta secca. Giovani coppieri mescolavano il vino all’acqua in grandi vasi (i crateri) e poi versavano il vino così diluito dentro speciali brocche da vino (le oinochoiai), e da queste in tazze per bere: l’elegante e prestigiosa kylix, lo skyphos, la kotyle, i rythà o più raramente e in epoca più tarda il kantharos. Ci rimangono due eccezionali documenti letterari di questa cerimonia quali “Il Simposio” di Platone e quello di Senofonte. In queste opere i commensali discutono di etica, di filosofia, sono allietati da musiche e spettacoli. Le occasioni di un simposio erano diverse, quasi sempre facevano seguito a un pranzo per una festa familiare, o a una festa religiosa o a un pranzo sacrificale. Il simposio di Platone, ad esempio, fu tenuto per celebrare la vittoria di Agatone negli agoni tragici; quello narrato da Senofonte per la vittoria di Autolico nel pancrazio. A volte il simposiarca costringeva a bere grandi quantità di vino: è il bere per costrizione, a comando, al contrario del bere per piacere e queste regole richiamano in maniera sorprendente il gioco popolare del “padrone e sotto” ancora diffuso in Italia meridionale. Alla fine del simposio, spesso all’alba, quei partecipanti troppo ubriachi che non riuscivano a raggiungere la propria abitazione rimanevano a dormire sulle klinai. È infine il caso di sottolineare, se mai ne fosse davvero necessario, che da sempre le grandi feste pubbliche e religiose delle civiltà mediterranee sono state contrassegnate da un abbondante, diffuso consumo di vino. Erodoto narra che in

Egitto, a Bubasti si radunavano oltre settecentomila persone per bere vino e che tale partecipazione di folla non avveniva neanche in occasione delle celebrazioni in onore di Osiride. Sono queste le suggestioni che hanno influenzato i lavori di quest’ultima produzione di Salvatore Sebaste il cui tema è Dioniso e il vino. Si tratta di 24 opere eseguite con tecnica mista tutte accomunate dalla presenza di grappoli di uva trattati con resine e inglobati, sublimati nelle composizioni che marcano i lavori come un sema, un segno identificativo e non equivocabile di questa collezione. 278


Tutte le opere sono arricchite, impreziosite da terrecotte che richiamano il gusto e le suggestioni delle composizioni fittili della Magna Grecia, terra in cui è nato e vive Sebaste. Fonte d’ispirazione per Sebaste sono stati i miti della vita di Dioniso con opere quali la “Nascita di Dioniso”, “L’infanzia di Dioniso”, “Dioniso e i pirati”; egli ha rivisitato i riti delle Antesterie in “Pithoigia”,”Choes” e “Chitroi”, ha rappresentato con tratti primordiali ed essenziali il kòmos bacchico ne “Le Baccanti”, “Il corteo di Dioniso”, “La Furia delle Baccanti”. In questi lavori di Sebaste, le combinazioni materiche, i grumi di colore, i segni primordiali, i graffiti s’inseguono intersecandosi e sovrapponendosi e creano immagini sempre diverse e sempre uguali con cadenze e ritmi di grande suggestione. E in mezzo ai segni, ai colori, alle incisioni si svelano i tirsi delle menadi, la nave con la quale Teseo abbandona Arianna a Naxos, i satiri con le code e le zampe equine, le kylix che “giocano” al kottabos, il volto monocolo di Polifemo inebriato dal vino di Ulisse, la coppa di Nestore descritta nel celebre passo dell’Iliade, la musica e il ritmo dei versi del sommo poeta di Samo, Alceo; e il profumo del gleukos, il primo vino all’apertura dei pithoi, lo scudo magnifico che Efesto forgiò per Achille su incarico di Teti, la barca dei pirati che volevano rapire Dioniso con l’albero trasformato in un grosso tronco di vite, il sangue del giovane Ampelo che è già vino, l’odore e il mistero delle baccanti con il loro incedere ora sacro e misterioso ora primordiale e furioso. L’armonia di queste opere è sempre in bilico fra un equilibrio appena proponibile, ancora possibile e il caos primigenio, dove tutto è consentito senza alcuna regola. Ma segni salvifici ci vengono sempre in soccorso e ci conducono verso terre e approdi sicuri. Gli iniziati ai culti misterici di Dioniso, i bakchòdes, per partecipare al divino dovevano essere disposti a rinunciare a se stessi per lasciarsi trascinare, senza più controllo, nelle mani del dio. È il percorso che ha compiuto Sebaste in questa collezione. Egli rapito e iniziato dalle suggestioni di Dioniso e del suo vino ha rinunciato, ha abbandonato qualsiasi schema e convenzione per parlarci ed emozionarci con un linguaggio senza freni, orpelli, senza veli o regole diretto ed efficace, che ricerca solo l’armonia e il bello, finalmente e completamente libero.

Antonio M. Giambersio, Dal Catalogo Mostra “L’ebbrezza di Dioniso”, La Spiga d’oro, Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Melfi (Potenza), 2013. 279


Rocco Brancati - Potenza giornalista esperto d’arte

Impegno culturale che non cessa mai di esprimersi Salvatore Sebaste è un artista colto. Sa che, in arte, la creatività ha valenza storica e relazionale. Il suo concetto di “informale” è impegno culturale che non cessa mai di esprimersi sia se si riallaccia alla Magna Grecia, sia se si proietta nella contemporaneità, attento com’è a interpretare l’attualità, quella vera, che non è rispondenza servile alle oscillazioni del gusto, spesso sottoposto alle esigenze di una società consumistica e alle speculazioni del mercato. Sebaste riesce sempre a sottrarsi alle oscillazioni superficiali dell’ambiente esterno per manifestare la sua Arte, preoccupato unicamente di esprimere, attraverso la pittura o la scultura, una “rappresentazione” del mondo contemporaneo che non cessa di essere vivo e attuale. Salvatore Sebaste è anche un “maestro”, nel senso pieno della parola. Io stesso, che lo conosco ormai da decenni, posso testimoniare sul suo “altruismo culturale” manifestato fin dai tempi in cui era presidente del Circolo “La Scaletta” a Matera, uno dei sodalizi che più di altri, in tutta la Regione Basilicata, ha rappresentato e rappresenta un punto di riferimento per la crescita civile di una comunità. La frequentazione e l’amicizia di grandi e riconosciuti intellettuali italiani o stranieri, come il poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli o l’artista Tono Zancanaro, solo per citarne due, hanno concorso nella sua formazione che, attraverso un lungo travaglio di maturazione interiore, ha finito per identificare il suo modo di fare arte; un’arte che s’inserisce nel quadro di una cultura artistica contemporanea in modo originale e pregnante. Le sue ultime opere sono idoli, oggetti protettivi dei mali, congegni, totem taumaturgici. Modelli di frutta e legumi che sembrano angeli, cavallucci, farfalle, animali volanti, comignoli dispettosi. Ricordano anche il simulacro della dea Demetra, con ventre enorme e grappoli di seni attaccati al busto. In qualche momento quei totem somigliano alle maschere indiane originarie della costa nordoccidentale del Pacifico. Evocano i miti, il ruolo affettivo degli arcaismi come il rito, la tribù, il feticcio trasformati in oggetti della società mediale. Opere d’arte che, naturalmente, non vanno venerate o temute come 280


nuove e onnipotenti deità che mandano in frantumi i vecchi dei e gli antichi miti ma oggetti moderni capaci di staccarci dai luoghi conservando nella memoria il passato più arcaico, in una dimensione anti-idolatrica. Schivo per natura dai ciarlatanismi e dalle tendenze di parte, Sebaste vive concentrato nella sua opera, in una ricerca attenta che non ha nulla di sdegnoso e nemmeno di altero, ma che risponde unicamente alla sua personalità che si sa specchiare autocriticamente in se stessa . Il suo “fare artistico” non contraddice l’autonomia dell’opera d’arte, ma ne costituisce piuttosto l’interna condizione e garanzia.

Rocco Brancati, giornalista RAI, Dal Catalogo Mostra “L’ebbrezza di Dioniso”, La Spiga d’oro, Metaponto, Museo Archeologico Nazionale, Melfi (Potenza), 2013.

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Mimmo Sammartino - Potenza giornalista scrittore

Ricerca e pensiero e mano C’è un segno sacro che si fonde e si confonde nei grumi materici. C’è il vino che è consolazione delle umane afflizioni. Ma è anche ebbrezza, trasgressione, mano protesa verso l’alterità. Un affidarsi agli dei, alla potenza di Dioniso, alla furia delle Baccanti, al divino che irrompe nell’orizzonte del finito e lo rende immortale. E autentico. C’è ricerca e pensiero e mano che impasta colori ed elementi. E c’è visione. Mitologica, onirica, illuminata. Salvatore Sebaste è immerso, con la sua arte, nell’immaginario magno greco come a ripercorrere una strada che gli appare come la naturale via di casa. Il camminamento dell’artista salentino che ha messo radici nella Basilicata, terra calpestata e impastata dal sogno di uomini venuti dal mare. Dioniso ha nutrito generazioni di visionari, di poeti, di artisti, di cercatori. «Il sontuoso carro di Dioniso / ricolmo di fiori e ghirlande / avanza lento, trainato / da feroci bestie ammansite. / È un percorso che irradia / magia: crollano le barriere / si annullano i bisogni / svaporano divieti e arbitrii. / (...) Soprannaturale. Non camminiamo / più, né più parliamo: / cantiamo e danziamo invasati / simili a dèi rapiti, artisti / dionisiaci dell’ebbrezza». Sono versi scritti per Dioniso da Jim Morrison, mitica voce dei «Doors». E Nietzsche non è certo da meno: «(...) Ecco anche lui fuggì / il mio unico compagno / il mio grande nemico / il mio sconosciuto / il mio dio carnefice! / (...) Oh, torna indietro / mio dio sconosciuto! dolore mio! / felicità mia ultima... / Un lampo-Dioniso si manifesta con una bellezza smeraldina / Dioniso: / Sii saggia Arianna!... / Hai piccole orecchie, hai le mie orecchie: / metti là dentro una saggia parola! / Non ci si deve prima odiare, se ci si vuole amare?... / Io sono il tuo Labirinto...». Dioniso è immaginario condiviso. È fame di archetipi. Vale anche per Sebaste. Ma in fondo a essi, l’artista cerca, con la forma, la materia, il colore, quella che possiamo definire forse l’essenza delle cose. La radice che avvicina terra e cielo. Umano e divino. Corpo e anima. E l’arte consente di rendere palpabile il sacro che è custodito nell’apparente ordinario. La ricerca del sé, della scintilla che concede respiro all’argilla dell’ori282


gine, dell’emozione, del tempo, del senso delle cose. Un’arte che si fa ricerca della sponda al di là di ogni finitezza. Limite alla labilità che impregna i giorni. Argine all’incombenza del dolore. L’arte che consente di conoscere la polvere fino a sprofondarvi per poi innalzarsi. E, in fondo, quel vino che accompagna l’uomo nel suo eroico saliscendi dell’esistenza - fra discese agli inferi e ritorni alla luce - non è solo un nettare che allieta. È bellezza. È infrazione del tempo ordinario. È capacità di cogliere il giorno che c’è concesso. È percorso rituale. Possibilità di concepire e vedere un oltre. Trasfigurazione che si rende possibile solo attraverso l’atto creativo. È con esso che un maestro come Salvatore Sebaste può indossare le vesti dello sciamano e caricarsi sulle spalle (e nelle mani) il peso e la responsabilità della domanda che, dall’oscurità della terra, si alza verso gli dei. Una domanda che diventa sfida. L’interrogativo che non ha speranza di ascolto, né di risposta. Ma che, ciò nonostante, continua a chiedere un perché. E trova l’unico rifugio al silenzio e alla notte nel rinnovarsi dell’atto creativo. In ciò che maggiormente può assimilare l’umano alla grandezza del cielo.

Mimmo Sammartino, Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 16 novembre 2013. 283


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Salvatore Sebaste (Novoli di Lecce 1939), pittore, scultore e incisore. Consegue la maturità artistica all’Istituto d’Arte di Lecce e al Magistero di Belle Arti di Firenze. Vive a Bernalda (MT), in Corso Umberto, 51. Sito internet ed e mail: www.salvatoresebaste.com - info@salvatoresebaste.com Svolge un’intensa attività pittorica, grafica e scultorea negli studi di Metaponto (MT), e Milano. Dal 1975 al 1977 è stato Presidente del circolo culturale “La Scaletta” di Matera, dove ha fondato, la “Scuola libera di grafica”. Nel 1982 ha pubblicato la prima monografia: “Necessaria Poiesi”, a cura di Franco Vitelli. Ed. Centro Studio “Il Subbio”. Matera. Negli anni ’90 suoi “scritti d’arte” sono stati pubblicati su “Basilicata Regione Informazioni Risorsa Cultura” del Consiglio Regionale di Basilicata e sul settimanale “Cronache lucane”. Oggi con “I percorsi d’Arte” dei 131 paesi della Basilicata è inserito sul sito Internet: http://www.basilicatanet.it (Istituzioni, Ente Regione, Consiglio, Conoscere Basilicata, Cultura, I comuni della Basilicata, Il paese) ed ancora su basilicatanet (La Basilicata, cultura, Profili d’artisti lucani). Nel 1992 ha esposto i suoi libri d’arte a “The Museum of Modern Art” di New York ed è inserito nel catalogo “The artist and the book in twentieth - century Italy”, a cura di Ralph Jentsch (Ed. Allemandi, Torino). Nel 1994 ha partecipato alla mostra del libro d’arte al Museo Guggenheim di Venezia ed è presente nel catalogo de “I libri d’artista italiani del Novecento” (Ed. Allemandi, Torino). 1998. Per l’edizione “Novaluna” Associazione Culturale Internazionale di Brescia, ha pubblicato “Pensieri in movimento”, diario di appunti e riflessioni critiche su e intorno all’arte. Nello stesso anno ha fondato la “Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto”. 1999. È stata stampata la monografia di pittura “Sebaste”, per l’edizione “Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto”. Il percorso artistico (oltre quarant’anni d’intenso lavoro) è stato elaborato da Rino Cardone. La prefazione è di Claudio Spadoni. Nel 2005 è socio vitalizio della “Società per le Belle Arti ed Esposizione permanente” di Milano. 2006. È stata pubblicata la monografia di grafica ”Salvatore Sebaste - Grafica”, a cura del Consiglio Regionale di Basilicata. Il percorso artistico è stato ricostruito da Elisabetta Pozzetti. La prefazione è di Paolo Bellini. 2007. È stata pubblicatala la monografia “Scultura” a cura di Loretta Fabrizi e Anoall Lejcard. Edizioni la “Spiga d’Oro” di Metaponto. Nel 2010 in occasione della mostra antologica presso il castello Carlo V di Lecce è stata pubblicata la monografia “Il Demone della forma” a cura di Mariadelaide Cuozzo dell’Università di Basilicata, edizione la ”Spiga d’Oro” Metaponto. Nel 2013, editi dalla Spiga d’oro, sono stati pubblicati “I profumi della Magna Grecia” e “L’Ebbrezza di Dioniso”, a cura di Antonio Giambersio e Antonio De Siena, per le mostre nei musei archeologici di Potenza, Matera, Metaponto, Policoro, Melfi. 285


Indice Parlangeli Oronzo - Glottologo Università Bari Spera Enzo - Docente Università del Molise Cavallari Lino - esperto d' arte Treccani Ernesto - pittore, scultore giornalista Contini Emilio - pittore Solmi Franco - critico d'arte Zancanaro Tono - pittore grafico De Grada Raffaele - pittore Magnone Giovanni - esperto d’arte Generoso Di Paolo - esperto d’arte Trufelli Mario - giornalista scrittore poeta Fourbil Nicole - storico dell’arte Corrado Franco - giornalista critico d’arte Schneider Helga - esperta d’arte Sabia Vittorio - giornalista esperto d’arte Paloscia Tommaso - critico d'arte saggista Tragni Bianca - giornalista, scrittrice Pameijer Joh M. - esperto d’arte Sinisgalli Leonardo - poeta delle due muse Corrado Gerardo - pittore esperto d’arte Vitelli Franco - docente Università di Bari Mancino Leonardo - poeta Pizzarelli Marina - storica dell’arte Mele Filippo - giornalista esperto d’arte Cappelli Gaetano - scrittore Spadoni Claudio - direttore artistico MAR Lejacard Anoal - esperto d'arte Segato Giorgio - storico dell'arte Cardone Rino - giornalista storico dell'arte Vairo Giuseppe - Arcivescovo Amendola Francesca - scrittice esperta d'arte Berchicci Giorgio - esperto d'arte Valli Donato - critico letterario esperto d'arte Laudisa Ilderosa - storica dll'arte Guastella Massimo - giornalista storico dell'arte Max G. Bollag - gallerista De Siena Antonio - Sovrintendente Archeologico Jandoli Alberto - critico d'arte Prosperi Giovanni - esperto d'arte Galante Lucio - storico dell'arte Doria Pasquale - giornalista esperto d'arte Corradini Mauro - storico dell'arte Pontiggia Elena - storico dell'arte RAI televideo Museo Bargellini Pozzetti Elisabetta - storica dell'arte Patruno Franco - esperto d'arte Palazzo Gianpaolo - giornalista esperto d'arte 286

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Abbatino Carlo - giornalista esperto d'arte Fabrizi Loretta - storico dell'arte Museo d'arte delle Generazioni Italiane del ‘900 Nigro Raffaele - giornalista scrittore esperto d'arte Romaniello Margherita - giornalista esperta d'arte Pastore Grazia - critico d'arte Cascino Francesco - Contemporary Art Consultant Russomano Michele - giornalista esperto d'arte Grieco Sonia - giornalista esperta d'arte Tantalo Grazia - giornalista esperta d'arte Ricchiuti Giovanni - Arcivescovo Telesca Vito - esperto d'arte sacra Perriello Michele - parroco Brancati Rocco - giornalista esperto d'arte Seveso Giorgio - storico dell'arte Torelli Maria - storica dell'arte Franza Carlo - critico d'arte De Ruggieri Raffaello - esperto d'arte Gallo Pino - giornalista Cuozzo Mariadelaide - storico dell'arte Lippo Antonella - giornalista Carpentieri Toti - storico dell'arte Bianco Salvatore -Direttore Museo della Siridite Policoro Giambersio Antonio - studioso di archeologia Sammartino Mimmo - giornalista scrittore

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