Quaderni acp 2014 21(3)

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Quaderni acp www.quaderniacp.it bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della

A ssociazione www.acp.it

C ulturale

P ediatri ISSN 2039-1374

I bambini e il cibo

maggio-giugno 2014 vol 21 n°3 Poste Italiane s.p.a. - sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art 1, comma 2, DCB di Forlì - Aut Tribunale di Oristano 308/89

La Rivista è indicizzata in SciVerse Scopus


Quaderni acp Website: www.quaderniacp.it May-June 2014; 21(3) 97 Editorial

Mother did you know? Paolo Siani Training better with less: the FAD (distance learning) of Quaderni acp Michele Gangemi Italian paediatricians decide if they want to protect breastfeeding Sergio Conti Nibali

Epilepsies in paediatrics: a diagnostic framing Giovanni Tricomi 100 Formation at a distance (FAD)

My child suffers from epilepsy Stefania Manetti, Costantino Panza, Antonella Brunelli 110 Informing parents

111 Research letters

XXV meeting Italian Paediatrics Association Red

Q uaderni

acp

bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della

Associazione

Culturale

Pediatri

Presidente Paolo Siani Direttore

Michele Gangemi

Direttore responsabile

Franco Dessì

Indirizzi Amministrazione Associazione Culturale Pediatri

Direttore editoriale

via Montiferru 6, 09070 Narbolia (OR) Tel. / Fax 078 57024

Comitato editoriale

Direttore Michele Gangemi

Giancarlo Biasini

Antonella Brunelli Sergio Conti Nibali Luciano de Seta Stefania Manetti Costantino Panza Laura Reali Paolo Siani Maria Francesca Siracusano Maria Luisa Tortorella Enrico Valletta Federica Zanetto Casi didattici

FAD - Laura Reali Collaboratori

via Ederle 36, 37126 Verona

e-mail: migangem@tin.it Ufficio soci

via Nulvi 27, 07100 Sassari Cell. 392 3838502, Fax 079 3027041

e-mail: ufficiosoci@acp.it Stampa Stilgraf

viale Angeloni 407, 47521 Cesena Tel. 0547 610201, fax 0547 367147

e-mail: info@stilgrafcesena.com Internet La rivista aderisce agli obiettivi di diffusione gratuita on-line della letteratura medica ed è pubblicata per intero al sito web: www.quaderniacp.it Redazione: redazione@quaderniacp.it

118 Info

Francesco Ciotti Giuseppe Cirillo Antonio Clavenna Carlo Corchia Franco Giovanetti Italo Spada

120 A window on the world

Giovanna Benzi

PUBBLICAZIONE ISCRITTA NEL REGISTRO NAZIONALE DELLA STAMPA N° 8949

Ignazio Bellomo

© ASSOCIAZIONE CULTURALE PEDIATRI ACP EDIZIONI NO PROFIT

113 Forum

Infertile couples, medically assisted procreation and child health Pierpaolo Mastroiacovo, Carlo Corchia

Health in Cuba: a right for everybody, a duty for each one Enrico Valletta 122 A close up on progress

The breaking of tolerance in autoimmune diseases and its induction in transplantation medicine Federica Barzaghi, Rosa Bacchetta 124 Learning from stories

A slow course not always benign Brunetto Boscherini, Patrizia del Balzo

HLA and celiac disease: to each one his own risk Enrico Valletta Psychiatry (in paediatric care) betweeen diagnosis and excess of diagnosis Francesco Ciotti 127 Appraisals

Which vaccinations for children with diabetes? Franco Giovanetti 131 Vaccinacipì

Female genital mutilation: a story seems enough to uncover a world Valentina Venturi, Tamara Fanelli, Enrico Valletta 132 Paediatrician among two worlds

136 Book

138 Movies 139 ACP Documents 141 Meeting synopsis

Medical training in the family paediatrician office during paediatric residency Cristina Gagliardo, Salvatore Aversa, Naire Sansotta 143 The world of postgraduate

144 Letters

Organizzazione

Progetto grafico

Programmazione Web

Gianni Piras

LA COPERTINA “Amelia e la mamma”(1927). Ambrogio Alciati 1878-1929. Olio su tela. Non indicata la collocazione NORME REDAZIONALI PER GLI AUTORI. I testi vanno inviati alla redazione via e-mail (redazione@quaderniacp.it) con la dichiarazione che il lavoro non è stato inviato contemporaneamente ad altra rivista. Per il testo, utilizzare carta non intestata e carattere Times New Roman corpo 12 senza corsivo; il grassetto solo per i titoli. Le pagine vanno numerate. Il titolo (italiano e inglese) deve essere coerente rispetto al contenuto del testo, informativo e sintetico. Può essere modificato dalla redazione. Vanno indicati l’Istituto/Ente di appartenenza e un indirizzo e-mail per la corrispondenza. Gli articoli vanno corredati da un riassunto in italiano e in inglese, ciascuno di non più di 1000 caratteri, spazi inclusi. La traduzione di titolo e riassunto può essere fatta, se richiesta, dalla redazione. Non devono essere indicate parole chiave. – Negli articoli di ricerca, testo e riassunto vanno strutturati in Obiettivi, Metodi, Risultati, Conclusioni. – I casi clinici per la rubrica “Il caso che insegna” vanno strutturati in: La storia, Il percorso diagnostico, La diagnosi, Il decorso, Commento, Cosa abbiamo imparato. – Tabelle e figure vanno poste in pagine separate, una per pagina. Vanno numerate, titolate e richiamate nel testo in parentesi tonde, secondo l’ordine di citazione. – Scenari secondo Sakett, casi clinici ed esperienze non devono superare i 12.000 caratteri, spazi inclusi, riassunti compresi, tabelle e figure escluse. Gli altri contributi non devono superare i 18.000 caratteri, spazi inclusi, compresi abstract e bibliografia. Casi particolari vanno discussi con la redazione. Le lettere non devono superare i 2500 caratteri, spazi inclusi; se di lunghezza superiore, possono essere ridotte dalla redazione. – Le voci bibliografiche non devono superare il numero di 12, vanno indicate nel testo fra parentesi quadre e numerate seguendo l’ordine di citazione. Negli articoli della FAD la bibliografia va elencata in ordine alfabetico, senza numerazione. Esempio 1): Corchia C, Scarpelli G. La mortalità infantile nel 1997. Quaderni acp 2000;5:10-4. Nel caso di un numero di autori superiore a tre, dopo il terzo va inserita la dicitura et al. Per i libri vanno citati gli autori secondo l’indicazione di cui sopra, il titolo, l’editore, l’anno di edizione. Esempio 2): Bonati M, Impicciatore P, Pandolfini C. La febbre e la tosse nel bambino. Il Pensiero Scientifico, 1998. Un singolo capitolo di un libro va citato con il nome dell’autore del capitolo, inserito nella citazione del testo. Esempio 3): Tsitoura C. Child abuse and neglect. In: Lingstrom B, Spencer N. Social Pediatrics. Oxford University Press, 2005. Per qualsiasi ulteriore dettaglio si invita a fare riferimento a uno degli articoli già pubblicati sulla rivista. – Gli articoli vengono sottoposti in maniera anonima alla valutazione di due o più revisori. La redazione trasmetterà agli autori il risultato della valutazione. In caso di non accettazione del parere dei revisori, gli autori possono controdedurre. È obbligatorio dichiarare l’esistenza o meno di un conflitto d’interesse. La sua eventuale esistenza non comporta necessariamente il rifiuto alla pubblicazione dell’articolo.


Quaderni acp 2014; 21(3): 97

Lo sai mamma? Paolo Siani Presidente ACP

Lo sai mamma? è un Progetto nato alcuni anni fa e realizzato dal Laboratorio per la Salute Materno-Infantile dell’Istituto “Mario Negri” di Milano, in collaborazione con Federfarma Lombardia e ACP. Oggi è anche un libro per le mamme e i papà, che raccoglie 48 schede in cui vengono affrontati argomenti sanitari (quali la celiachia, il vomito, la congiuntivite) e aspetti di carattere più generale (es. l’alimentazione, i bambini e la TV, le tappe della crescita), realizzate con rigore scientifico, aggiornate secondo i più recenti dati della letteratura e scritte con un linguaggio molto semplice e facilmente comprensibile ai genitori. Il Progetto è innovativo anche per la sua assoluta indipendenza da case farmaceutiche o altri sponsor. Finanziato da ACP, esso vuole offrire ai genitori informazioni indipendenti (aspetto in genere non scontato in Italia) e aggiornate, raccolte sotto forma di schede nel volumetto che trovate allegato a questo numero di Quaderni acp. Dare ai genitori informazioni corrette, e al tempo stesso semplici, e fornire strumenti utili per la crescita dei bambini sono tra gli interventi di sostegno alla genitorialità che ACP ha sempre avuto ben presenti e che ha cercato di realizzare in questi anni in molti modi, nella consapevolezza che la promozione della funzione genitoriale è da considerare “cura” al pari dell’informazione e delle

azioni prettamente sanitarie. Pasquale Causa, nel 2007, ci ricordava che “un genitore competente è anche capace di osservare il suo bambino e reggere il disagio psicologico delle malattie intercorrenti, con una riduzione delle consultazioni per l’acuto banale”. Questo libro è scritto da pediatri amici, amici tra di loro (che, come consuetudine in ACP, hanno svolto questo lavoro gratuitamente) e amici delle famiglie e dei bambini. Sono state selezionate e aggiornate 48 schede. Alcune sono dedicate a consigli di carattere generale: alimentazione, igiene dentale, posizione per la nanna, sicurezza in auto, in bici e in moto, bambini e TV. Altre, più specifiche, offrono informazioni su alcune comuni malattie: la celiachia, la psoriasi, la stipsi, l’asma, le coliche, la congiuntivite, la febbre, il vomito, la diarrea, l’impetigine, ma anche la depressione e i disturbi d’ansia. Due schede infine sono dedicate ai progetti “Nati per Leggere” e “Nati per la Musica”, essendo sia la lettura ad alta voce che l’ascolto della musica due interventi straordinari di supporto alla genitorialità. Tutte le schede sono state valutate da un gruppo di 9 mamme senza competenze in ambito medico-scientifico, con scolarità media inferiore o superiore, con figli in età prescolare o scolare. Il 94% delle schede è stato giudicato dalle mamme facilmente comprensibile;

solo per 3 schede è stata necessaria una revisione più consistente. Lo sai mamma? non vuole essere un libro di ricette ma uno strumento, un aiuto ai genitori a comprendere le nostre ricette e quello che sta dietro alle nostre ricette, come ci diceva il professor Panizon. L’iniziativa è anche una ulteriore prova della possibile collaborazione e condivisione del nostro lavoro con altre associazioni, gruppi, istituzioni. In questo Progetto siamo partner del prestigioso Istituto “Mario Negri” che ci affianca e ci sostiene ancora una volta, dopo la splendida esperienza della ricerca ENBe. Siamo convinti che solo il lavoro di squadra paga e noi stiamo provando a mettere nella grande squadra ACP dei veri top player. Ringraziamo il Pensiero Scientifico Editore e il suo direttore, dottor Luca De Fiore, per aver reso possibile l’operazione anche contenendone i costi. Il libro potrà essere acquistato direttamente online sul sito www.pensiero.it, oppure al prossimo Congresso Nazionale ACP a Cesena (con uno sconto per gli iscritti al Congresso). Infine, tutto questo è stato reso possibile grazie al lavoro di Maurizio Bonati, Antonio Clavenna, Michele Gangemi, Daniela Miglio, Mario Narducci, Aurelio Nova, Laura Reali, Federica Zanetto. A tutti loro va il sincero grazie dell’ACP. u

Per corrispondenza:

Paolo Siani e-mail: presidente@acp.it

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Quaderni acp 2014; 21(3): 98

Formare meglio a meno: la FAD di Quaderni acp Michele Gangemi Direttore Quaderni acp

Si è appena conclusa la formazione a distanza (FAD) 2013 di Quaderni acp, che ha registrato un alto numero di adesioni e un riscontro molto favorevole da parte degli iscritti. La valutazione positiva ha riguardato, per la totalità degli iscritti, sia la rilevanza degli argomenti trattati che la qualità educativa della proposta formativa. Un grazie a tutti per il ritorno indispensabile per verificare la correttezza del percorso e per testare l’utilizzo della FAD anche in contesti non usuali, come quello della pediatria di gruppo. Pensiamo che altri ambiti educativi potrebbero essere valutati per l’introduzione della FAD con conseguente “cooperative learning”. L’iniziativa ha anche permesso alla rivista di contenere i costi a carico dell’ACP, pur confermando la scelta editoriale di assenza di sponsor. Rimandiamo anche all’editoriale “La FAD di Quaderni acp: il perché di una scelta” (Quaderni acp 2013;20(1):1) per approfondire e ripensare al razionale di questa iniziativa di formazione, centrata su “Diagnosi e terapia delle patologie nell’area pediatrica in ambito territoriale e ospedaliero”. Anche il titolo di questo editoriale, “Formare meglio a meno”, vuole riassumere le caratteristiche di tale proposta formativa: 1) Scelta degli argomenti in base ai bisogni formativi del target individuato (pediatri ospedalieri e di libera scelta). La costruzione di percorsi assistenziali nel contesto reale permette di vedere i problemi da vari punti di vista, compreso quello del bambino e della sua famiglia. Gli argomenti di carattere clinico hanno permesso anche il riequilibrio tra la parte più pratica della rivista e la parte inerente ad aspetti di politica sanitaria, peraltro ugualmente importanti. 2) Percorso formativo basato su casi didattici orientati alla riflessività e al problem solving, piuttosto che a risposte mnemoniche. La messa in pratica dei contenuti dei dossier con l’ausilio dei casi didattici permette ai partecipanti di andare oltre la teoria. 3) Assenza di sponsor. 4) Basso costo per i soci ACP in rapporto alla qualità dell’iniziativa e al numero dei crediti ECM erogati (18). Il percorso FAD Per corrispondenza:

Michele Gangemi e-mail: migangem@tin.it

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ha catturato l’attenzione e l’interesse anche dei non soci. 5) Professionalità del provider ECM (Accademia Nazionale di Medicina) che ringraziamo per la collaborazione e il supporto fornito agli utenti. Riteniamo che vada continuata in ambito ACP, e non solo, la riflessione sul futuro della formazione tramite FAD, anche per contenere la pletora di congressi caratterizzati da modesta ricaduta formativa e spesso costosi, sia in termini di iscrizione che di spese di soggiorno. Anche il problema dei costi e del ricorso a sponsor non disinteressati potrebbe essere parzialmente risolto con queste nuove metodologie formative, purché di qualità. La capacità di scelta del singolo pediatra resta infatti il criterio principale per evitare l’adesione a percorsi FAD qualsiasi e con modesta ricaduta dal punto di vista formativo. Il pediatra non può rinunciare a essere protagonista della propria formazione e alla costruzione del proprio portfolio con uno sguardo anche ai bisogni del sistema oltre che del singolo. La creazione del professionista riflessivo secondo Schon resta un obiettivo oggi ancora troppo poco perseguito. In tale consapevolezza ci piacerebbe avviare sulla Rivista un confronto vero con i lettori per sollecitare motivazioni, analizzare bisogni e ricreare la cultura dell’aggiornamento continuo affidabile e di qualità, che sia residenziale, sul campo o a distanza. In ambito ACP il recente percorso di ricerca ENBe è un esempio di aggiornamento attivo, partecipato, collaborativo rispetto a prassi spesso consolidate e non sempre appropriate. Anche i congressi sono necessari alla vita delle associazioni e delle società scientifiche che operano nel campo della salute, come momenti di condivisione di percorsi professionali ed esperienze personali. Come scrive Atul Gawande in Salvo complicazioni (Fusi Orari, 2005), «una volta l’anno, tuttavia, c’è un posto pieno di gente che lo sa. Sono tutti intorno a te. Arrivano e ti si siedono accanto. Gli organizzatori chiamano il loro convegno annuale “congresso dei chirurghi” e l’espressione mi sembra molto giusta. Per qualche gior-

no siamo, con tutti i pro e i contro della situazione, un unico popolo di medici». E ancora, «un congresso dovrebbe differenziarsi da un altro, non fosse altro perché i partecipanti (i soci) sono diversi, i bisogni diversi, le ragioni societarie e associative diverse» e «non importa solo di cosa si discute a un congresso ma anche come si espongono i contenuti e come ci si confronta» (De Fiore L, Bonati M. La fiera dei congressi. Ricerca e Pratica 2010;26:3-8). Concludiamo queste riflessioni in margine alla proposta FAD di Quaderni acp con l’invito all’iscrizione al percorso 2014, che mantiene lo stesso titolo ma ha alcune importanti novità: 1. maggiore interattività con la presenza di un tutor virtuale che aiuterà da un punto di vista didattico. L’avvio di un forum con gli iscritti è una preziosa risorsa da sfruttare per una crescita collettiva. 2. Aumento dei crediti ECM (27) che potranno essere ottenuti per l’anno 2014 se il percorso sarà terminato entro il 31 dicembre 2014, o per l’anno 2015, se concluso entro la scadenza indicata (i crediti formativi ECM possono essere ottenuti anche solo con la formazione a distanza). 3. Costo invariato di 50 euro per i soci ACP, sempre in assenza di sponsor e pur con una maggiore interattività e incremento dei crediti ECM. Tutto questo è possibile grazie all’impegno degli autori e di tutta la redazione. Un grazie particolare va a Laura Reali per la costruzione dei casi didattici, a Gianni Piras per l’assistenza tecnica e al Presidente e Direttivo ACP per l’appoggio costante alla nuova linea editoriale. 4. La rubrica “info genitori” di Quaderni acp pubblicherà informazioni utili per i genitori riguardanti argomento e problemi clinici oggetto del dossier. Anche questo è un ulteriore passo in avanti nella gestione dei percorsi assistenziali che non possono prescindere dal coinvolgimento attento e consapevole dei genitori e da una ricaduta corretta della formazione nella pratica quotidiana. Le norme per l’iscrizione alla FAD 2014 sono indicate al presente link: http://www. acp.it/fad-acp. Vi attendiamo numerosi anche per questa altra, nuova avventura insieme. u


Quaderni acp 2014; 21(3): 99

I pediatri italiani decidano se vogliono proteggere l’allattamento Sergio Conti Nibali (a nome del Gruppo Nutrizione dell’ACP) Pediatra di famiglia, Messina

Preambolo

Al recente Convegno degli Argonauti a Palermo, Monica Garraffa ha presentato i dati di una ricerca multicentrica nazionale (le città interessate sono state Trieste, Bergamo, Milano, Modena, Ancona, Roma, Messina e Palermo, con il coordinamento dell’Unità per la Ricerca sui Servizi Sanitari e la Salute Internazionale dell’IRCCS “Burlo Garofolo” di Trieste) sull’influenza della pubblicità delle formule di proseguimento e sulle conseguenti scelte delle famiglie; le conclusioni erano che le pubblicità delle formule giocano con i dubbi e le incertezze delle mamme, che le aziende, per raggiungere i loro risultati, nascondono al pubblico il fatto che il latte di proseguimento è un prodotto inutile per una mamma che allatta al seno, che la pubblicità dei latti 2 funziona anche per effetto trascinamento sui latti 1, che la maggior parte delle donne incinte e delle madri, a prescindere dal livello di istruzione, ha poca conoscenza dei diversi tipi di formula per le diverse età e che i professionisti sanitari continuano a essere obiettivi prioritari delle attività di marketing. In estrema sintesi, dunque, le ditte hanno aggirato la Legge che vieta la pubblicità dei latti 1 perché sanno che pubblicizzando i latti 2 ottengono lo stesso risultato.

L’importanza della protezione dell’allattamento

Alzi la mano quel pediatra o quel neonatologo (immagino una distesa di mani alzate!) che non abbia appreso, nel corso dei suoi anni di specializzazione, la superiorità dell’allattamento al seno rispetto a quello artificiale e i suoi vantaggi per la salute dei bambini, che non abbia assistito a lezioni magistrali sulle sue proprietà nutrizionali, che non abbia ascoltato da illustri professori che l’allattamento è una priorità di salute pubblica e che va sostenuto e promosso: fiumi di parolone che molto spesso (sempre?) sono state confinate a nozioni, al limbo del “sape-

re”, piuttosto che al molto più incisivo “saper fare”. Alzi la mano (immagino di non vederne!) chi ha appreso durante il suo curriculum formativo come concretamente sostenere l’allattamento sin dalla gravidanza, quali pratiche assistenziali lo favoriscono o lo ostacolano, come aiutare una mamma in difficoltà con l’allattamento. L’Italia ha tassi subottimali di allattamento sia per la prevalenza che per la durata; negli USA recenti ricerche hanno stimato che bassi tassi di allattamento costano al Sistema sanitario 14,2 miliardi di dollari/anno per malattie in età pediatrica (inclusi 911 decessi); 733,7 milioni di dollari (costi diretti) e 126,1 milioni (costi indiretti) per malattie delle donne prevenibili con l’allattamento al seno; sono cifre da capogiro che potrebbero (dovrebbero) essere presentate ai dirigenti della sanità, ai ministri e governanti da chi ha a cuore per davvero la salute materno-infantile (e, quindi, dai pediatri e dalle loro associazioni e società scientifiche); qualsiasi politico, di fronte a questi numeri, ancor di più in un periodo di revisioni e tagli alla spesa pubblica, si renderebbe subito conto che bisognerebbe far qualcosa per migliorare la situazione e per incentivare l’allattamento al seno; e chiederebbe aiuto agli “esperti” del settore, che risponderebbero, probabilmente, con i soliti discorsi che occorre promuovere e sostenere l’allattamento con la formazione dei pediatri e degli operatori sanitari che si occupano del percorso nascita, che bisogna rafforzare gli organici, trasferire più risorse per l’assistenza al neonato, e così via. Tutto giusto e sacrosanto, tranne che per un “dettaglio”; è ormai accertato che il sostegno e la promozione servono a ben poco se non sono accompagnati da una seria politica di protezione. Protezione da cosa? I dati del mercato mondiale dei cibi per l’infanzia descrivono cifre da capogiro (27 miliardi di dollari nel 2010 del fatturato ricavato dalle formule per lattanti e latti di crescita) e con il 10% speso in pubblicità; è chiaro, quindi che,

quando si parla di protezione, si fa riferimento a politiche di difesa dei consumatori dal marketing e quindi, in definitiva, alla messa in pratica di quanto già scritto nel Codice di regolamentazione per la pubblicità dei sostituti del latte materno dell’OMS; Codice citato in tutti i documenti, ma tuttora non applicato nella pratica e solo molto parzialmente recepito nel D.L. 9/2009 n. 82.

La proposta

Dunque il punto è questo: assodato che il sostegno e la promozione senza protezione non potranno mai raggiungere l’effetto desiderato (livelli ottimali di allattamento), e assodato che la protezione deve passare attraverso l’applicazione totale del Codice (che, ricordiamocelo, viene firmato dal 1981 ogni anno con l’impegno della sua diffusione agli operatori sanitari e del suo rispetto da parte dei nostri ministri), se è vero che tutti i pediatri italiani e le loro multivariate sigle che li rappresentano hanno a cuore la salute materno-infantile, allora TUTTE insieme queste sigle dovrebbero chiedere con forza ai nostri politici un nuovo D.L. che recepisca dalla A alla Z quanto scritto nel Codice. Chi fa pubblicità ai sostituti del latte materno ha capito molto bene che in ogni caso, in qualsiasi parte del mondo, questa attività di marketing comporta sempre una diminuzione della prevalenza e della durata dell’allattamento. Le tecniche di pubblicità sono svariate, e alcune di queste coinvolgono gli operatori sanitari e le loro associazioni (sponsorizzazioni per l’organizzazione di congressi, acquisto di attrezzature, disponibilità a venire incontro a “bisogni” di varia natura); anche per questi aspetti i pediatri devono decidere da che parte stare (salute o profitto). Chi ha veramente a cuore la salute materno-infantile e vuole davvero contribuire a ottenere tassi ottimali di allattamento firmi una proposta di adeguamento della Legge italiana al Codice dell’OMS. L’ACP si impegna a scriverla. u

Per corrispondenza:

Sergio Conti Nibali e-mail: serconti@glauco.it

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Quaderni acp 2014; 21(3): 100-109

Le epilessie in età pediatrica: inquadramento diagnostico Giovanni Tricomi UO di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ASL Cesena

Introduzione

Il termine “epilessia” deriva dal verbo greco e<pilambánein (epilambánein) che significa “essere sopraffatti, essere colti di sorpresa”. L’epilessia è un disturbo neurologico caratterizzato dal ripetersi di crisi epilettiche, eventi improvvisi, di durata variabile, derivanti da un’attività neuronale anomala. Un paziente con diagnosi di epilessia presenta una predisposizione, più o meno prolungata nel tempo, a presentare crisi epilettiche e peculiari aspetti di tipo neurobiologico, cognitivo, psicologico e sociale correlati a questa condizione. Le crisi epilettiche si caratterizzano per un’ampia variabilità di sintomi derivanti dalla localizzazione delle popolazioni neuronali coinvolte e dal grado di coinvolgimento dei circuiti nervosi interconnessi. Una crisi epilettica si definisce sintomatica acuta o provocata quando si verifica durante una malattia sistemica o in stretto rapporto temporale con documentato danno/processo patologico a livello cerebrale; si parla invece di crisi epilettiche sintomatiche remote o non provocate quando gli episodi critici si verificano in assenza di fattori precipitanti o in presenza di un danno non recente del sistema nervoso centrale. Una particolare condizione è rappresentata dallo stato di male epilettico, “situazione nella quale una crisi epilettica (generalizzata o focale, motoria o no) si prolunga per più di 20 minuti o nella quale le crisi si ripetono a brevissimi intervalli (inferiori al minuto), tali da rappresentare una condizione epilettica continua”. Accanto a questa definizione, richiamandosi al fatto che una crisi convulsiva isolata dura raramente più di 2-10 minuti e utilizzando un criterio operativo basato sull’importanza della rapidità dell’intervento, è stata recentemente adottata in età evolutiva una definizione operativa (operational definition) finalizzata al-

FIGURA

1

Figura 1a

Figura 1b Tracciato EEG in veglia (a) e sonno (b) di una bambina con epilessia benigna dell’infanzia con punte centrotemporali (BECTS) o epilessia rolandica. Si noti come le anomalie localizzate a livello delle regioni centro-temporali aumentino durante il sonno. La paziente presentava crisi epilettiche durante il sonno, nelle ore del mattino in prossimità del risveglio, caratterizzate da emissione di suoni gutturali, scialorrea e scosse tonico-cloniche generalizzate.

l’avvio tempestivo del trattamento (5-10 minuti). Nel bambino le cause più frequenti di stato di male convulsivo sono rappresentate dalle convulsioni febbrili prolungate, dagli insulti acuti a carico del sistema nervoso centrale e dalle malattie neurologiche pregresse. La diagnosi di epilessia è definita dall’occorrenza di due o più crisi epilettiche non provocate o sintomatiche remote, separate da un intervallo di tempo di almeno 24 ore. Esistono diversi tipi di epilessia, che presentano prognosi diverse. È quindi più corretto parlare di “epilessie” al plurale.

Epidemiologia

In Italia le persone affette da epilessia sono circa 500.000 con una prevalenza di 4-8/1000/anno e un’incidenza di 2453/100.000/anno. Si rilevano due picchi di incidenza interessanti, rispettivamente il primo anno di vita (86/100.000) e l’età avanzata (incidenza sopra gli 85 anni pari a 180/100.000). L’incidenza dell’epilessia in Europa relativa all’età infantile e adolescenziale è di circa 70/100.000.

Classificazione

La classificazione dell’International League Against Epilespsy (ILAE) del 2001

Per corrispondenza:

Giovanni Tricomi e-mail: gtricomi@ausl-cesena.emr.it

a distanza 100

F

A

D


formazione a distanza

utilizza un approccio multiassiale: asse 1 (fenomenologia ictale o semeiologia), asse 2 (tipo/i di crisi), asse 3 (tipo di sindrome epilettica), asse 4 (eziologia), asse 5 (comorbidità e problemi associati relativi alle aree di funzionamento cognitivo, comportamento, tono dell’umore ed effetti della condizione sulla qualità della vita). L’attuale classificazione delle epilessie continua a seguire un approccio multidimensionale, prendendo in considerazione sia le caratteristiche delle crisi sia i fattori eziologici che prognostici, e i grandi progressi conoscitivi in ambito genetico e nelle tecniche di indagine, anche al fine di migliorare la pratica clinica e favorire la ricerca. Le crisi epilettiche possono essere definite focali o parziali quando l’attività elettrica neuronale anomala interessa una regione cerebrale circoscritta di un emisfero; in questo caso la semeiologia dell’episodio critico dipende dalla localizzazione delle popolazioni neuronali coinvolte e dal propagarsi della scarica anomala ai circuiti nervosi connessi; i sintomi prodotti dalla scarica parossistica neuronale possono essere positivi o negativi e manifestarsi con segni clinici motori, sensoriali/sensitivi, psichici o vegetativi (figura 1). Una crisi epilettica focale può evolvere in una crisi generalizzata. Le crisi epilettiche generalizzate si caratterizzano per manifestazioni elettro-cliniche che coinvolgono in modo diffuso entrambi gli emisferi cerebrali fin dall’inizio dell’evento parossistico (figura 2). Una crisi si può definire indeterminata quando le caratteristiche cliniche e semeiologiche non consentono un preciso inquadramento (figura 3). Le crisi epilettiche in ciascun paziente tendono a manifestarsi con le stesse caratteristiche, ciò a espressione del fatto che il circuito neuronale coinvolto viene attivato con specifiche modalità anatomo-funzionali. Il compito del clinico è di cercare di ricondurre le crisi epilettiche che si manifestano in un paziente all’interno di una “sindrome epilettica” definita da un complesso di sintomi/segni costantemente associati e tali da determinare un’entità unica e caratteristica. Le sindromi epilettiche sono definite in base alla presenza di elementi specifici che riguarda-

Quaderni acp 2014; 21(3)

FIGURA

2

Tracciato EEG di paziente con epilessia assenze del bambino (CAE), che si caratterizza per la presenza di una scarica di punte-onde generalizzata, di ampio voltaggio, alla frequenza di circa 3 Hz. Durante questo esame una crisi di assenza viene indotta dall’iperpnea e in concomitanza della scarica di anomalie generalizzate. La bambina presenta una perdita di contatto con l’ambiente circostante di breve durata (circa 6-7 secondi).

FIGURA 3:

CLASSIFICAZIONE DELLE EPILESSIE IN BASE A TIPO DI CRISI, EZIOLOGIA E PROGNOSI

CLASSIFICAZIONE IN BASE AL TIPO DI CRISI Focali o parziali Generalizzate Indeterminate CLASSIFICAZIONE IN BASE ALL’EZIOLOGIA Idiopatiche Sintomatiche Presunte sintomatiche (in sostituzione al vecchio termine “criptogenetiche”) CLASSIFICAZIONE IN BASE ALLA PROGNOSI Sindromi epilettiche a prognosi eccellente (es. crisi neonatali benigne, epilessie focali benigne ecc.) Sindromi epilettiche a prognosi buona (es. epilessia con assenze del bambino ecc.) Sindromi epilettiche a prognosi incerta (es. epilessia mioclonica giovanile ecc.) Sindromi epilettiche a prognosi infausta (es. epilessie miocloniche progressive ecc.)

no età d’esordio, tipo di crisi, aspetti clinici del paziente, caratteristiche EEG, storia naturale, storia familiare, sviluppo psicomotorio/cognitivo, risposta alla terapia antiepilettica ecc. (tabella 1). La diagnosi sindromica, definita dall’insieme delle caratteristiche della specifica condizione, è importante in quanto fornisce al clinico strumenti fondamentali per dirigere l’iter diagnostico, scegliere le strategie terapeutiche e ipotizzare la prognosi. Alcune sindromi epilettiche sono più comuni rispetto ad altre (es. epilessia benigna con punte centro-temporali o BECTS, epilessia mioclonica giovanile o JME) ed è pertanto importante conoscerle perché di frequente riscontro nella pratica clinica. Le crisi epilettiche possono avere diversa eziologia e le cause possono essere fondamentalmente ricondotte nell’ambito di fattori genetici o fattori acquisiti.

Nelle epilessie a eziologia genetica le crisi rappresentano il sintomo centrale di una condizione determinata geneticamente (tabella 2). Non risulta sempre possibile identificare il gene mutato responsabile e pertanto una causa genetica può essere presunta sulla base di specifiche caratteristiche cliniche, anamnestiche e dei dati provenienti da alcuni esami strumentali. Nelle epilessie acquisite le crisi rappresentano il sintomo di una condizione strutturale (es. sofferenza pre-peri-postnatale; anomalie dello sviluppo corticale; esiti di traumi cranici, stroke, infezioni cerebrali e interventi neurochirurgici; tumori cerebrali ecc.) o metabolica. Bisogna comunque tenere in considerazione che molte lesioni strutturali cerebrali come le malformazioni corticali e le malattie metaboliche hanno una causa genetica (figura 4). 101

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1: ESEMPI DI SINDROMI EPILETTICHE RAGGRUPPATE IN BASE ALL’ETÀ DI ESORDIO

Sindromi epilettiche a esordio in epoca neonatale Crisi neonatali familiari benigne (BFNSs) Sindrome rara con esordio tipico a 2-3 giorni di vita. Sviluppo psicomotorio normale. Le crisi sono di breve durata (1-2 minuti) e possono essere molto frequenti (fino a 20-30 al giorno). Molte crisi iniziano con un’attività motoria di tipo tonico con apnea, cui fanno seguito vocalizzi, movimenti oculari, segni autonomici, automatismi motori e clonie focali o generalizzate; non si verifica stato epilettico. Le crisi si risolvono spontaneamente da 1 a 6 mesi dopo l’esordio. Circa il 10-14% dei pazienti svilupperà altri tipi di crisi negli anni futuri. Familiarità positiva per episodi analoghi in epoca neonatale; studi di linkage hanno dimostrato mutazioni sui cromosomi 20q o 8q a livello di geni codificanti per subunità dei canali voltaggio-dipendenti del potassio. Crisi neonatali benigne (BNSs) Descritti casi sporadici. Crisi cloniche di breve durata che diventano progressivamente più frequenti, associate a crisi di apnea e talvolta a stato epilettico. Il bambino nella fase intercritica è normale. L’età di esordio è tipicamente tra i 4 e i 6 giorni di vita (in passato definite come “crisi del quinto giorno”). La prognosi, relativamente al rischio di ricorrenza di altre crisi in futuro e allo sviluppo psicomotorio, è buona. Encefalopatia epilettica a esordio infantile precoce (EIEE o sindrome di Ohtahara) Esordio generalmente nei primi 10 giorni di vita. La crisi tipica è rappresentata da un movimento tipo spasmo tonico di durata maggiore rispetto a quello tipico della sindrome di West. Queste crisi possono manifestarsi isolate o in grappoli con durata di ogni singola crisi tonica da 1 a 10 secondi e una frequenza di questi episodi variabile da 10 a 300 nelle 24 ore. Le crisi possono essere generalizzate e simmetriche o lateralizzate; meno frequentemente possono verificarsi crisi motorie cloniche focali con caratteristiche erratiche. Il più delle volte è presente una grave anomalia strutturale dello sviluppo cerebrale. L’EEG presenta un pattern tipo “suppression-burst”. Prognosi negativa per lo sviluppo psicomotorio e aumentato rischio di mortalità. Possibile, per i bambini che sopravvivono, una futura evoluzione in sindrome di West o in sindrome di Lennox-Gastaut. Epilessia farmacoresistente. Encefalopatia mioclonica precoce (EME) Esordio nei primi giorni di vita. Pattern EEG tipo “suppressionburst”. Si distingue dalla sindrome di Ohtahara per la presenza di un mioclono intenso ad alta frequenza e con caratteristiche migranti; possono verificarsi crisi focali di tipo clonico o crisi di tipo tonico. Spesso associata con malattie metaboliche (es. iperglicinemia non chetotica). Epilessia con crisi focali migranti Condizione con caratteristiche non ancora ben definite a esordio nelle prime settimane di vita. Epilessia ad andamento rapidamente ingravescente con crisi focali o multifocali caratterizzate da variabile (“migrante”) localizzazione del focolaio prevalente. Forma farmacoresistente a prognosi negativa. Sindromi epilettiche a esordio in età infantile Spasmi infantili (ISs o sindrome di West) Età d’esordio in genere tra i 4 e i 6 mesi (più raramente possono verificarsi nel tardo periodo neonatale o dopo i 12 mesi). Le crisi sono rappresentate dai tipici spasmi in grappoli che si verificano soprattutto in veglia; gli spasmi possono essere in flessione o in estensione; un’alterazione cerebrale focale può determinare degli spasmi asimmetrici. Il periodo degli spasmi si associa

a una regressione psicomotoria con riduzione dell’attenzione visiva e dell’interazione e aumento dell’irritabilità. A seconda dell’eziologia si distinguono forme “sintomatiche” (circa il 90%) o “presunte sintomatiche”; sono state descritte delle forme geneticamente determinate (gene CDKL5 nelle femmine e gene ARX nei maschi). La sindrome di West è definita dalla combinazione degli spasmi con un pattern EEG molto caratteristico, definito “ipsaritmia”. Le terapie più efficaci sono rappresentate dalla somministrazione di ormone adrenocorticotropo (ACTH), o di alte dosi di corticosteroidi per via orale o, nel caso di spasmi infantili sintomatici di sclerosi tuberosa, dal vigabatrin. Epilessia mioclonica benigna dell’infanzia (BMEI) Condizione rara (rappresenta circa l’1% delle epilessie generalizzate idiopatiche). Esordio tra i 4 mesi e i 3 anni di vita. Le crisi miocloniche coinvolgono principalmente il capo, gli occhi, gli arti superiori, il diaframma e più raramente gli arti inferiori (in questo caso possono causare occasionali cadute); le crisi miocloniche possono verificarsi isolate o in brevi grappoli. Sviluppo psicomotorio nella norma. Rapporto maschi/femmine = 2:1. EEG intercritico normale; le crisi miocloniche hanno un correlato EEG di scariche di punta-onda o polipunta-onda. I farmaci utilizzati per il trattamento sono l’acido valproico o altri antiepilettici ad ampio spettro. Epilessia mioclonica severa dell’infanzia (SMEI o sindrome di Dravet) Rappresenta probabilmente l’1-3% delle epilessie con esordio nel primo anno di vita; esordio tipicamente tra i 5 e i 12 mesi con ricorrenti episodi di stato epilettico in corso di febbre (crisi spesso focali/lateralizzate). I tipi di crisi che possono verificarsi sono le crisi cloniche associate alla febbre, le crisi miocloniche, le assenze atipiche e le crisi focali complesse. Prima dell’esordio lo sviluppo psicomotorio è normale; dal secondo anno di vita si verificano diversi tipi di crisi con prevalente componente mioclonica (soprattutto a partire dai 18 mesi). Il calore (febbre o anche un bagno caldo) rappresenta un fattore scatenante le crisi. L’EEG intercritico mostra anomalie generalizzate, focali o multifocali, e può rilevare una fotosensibilità. Storia familiare di epilessia e/o convulsioni febbrili nel 15-25%; in circa il 70% dei casi è presente una mutazione nel gene SCN1A. I farmaci più efficaci sono l’acido valproico e il clobazam in associazione con lo stiripentolo; la carbamazepina e la lamotrigina peggiorano la sintomatologia critica. Una evidente regressione dello sviluppo psicomotorio si manifesta tipicamente dopo circa un anno dall’esordio delle crisi. Aumentato rischio di morte improvvisa (Sudden Unexpected Death in Epilepsy o SUDEP). Sindromi epilettiche a esordio in età pre-scolare Epilessia con crisi mioclono- astatiche (EMAS o sindrome di Doose) Condizione rara, leggermente più comune nel sesso maschile e familiarità positiva in circa un terzo dei casi. Esordio all’età di 25 anni con frequenti crisi di caduta; le cadute possono essere causate dalle crisi mioclono-astatiche e/o dalle crisi atoniche. Le crisi mioclono-astatiche, caratteristiche di questa condizione, possono essere associate alle crisi atoniche, miocloniche e alle crisi di assenza; lo stato epilettico mioclono-astatico è comune. L’EEG può essere normale negli stadi iniziali e in seguito caratterizzarsi per rallentamenti a livello biparietale, scariche generalizzate di punta-onda lenta e scariche di punta-onda irregolari associate alle crisi mioclono-astatiche. L’acido valproico è il farmaco più efficace in quanto agisce contro le crisi miocloniche, le crisi atoniche e le “assenze”; nei casi con crisi resistenti la lamo-

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trigina a basse dosi in combinazione con l’acido valproico può essere efficace; altri farmaci utilizzati nelle forme resistenti al trattamento sono l’etosuccimide e le benzodiazepine. La prognosi è variabile. Epilessie miocloniche progressive Questa categoria comprende diverse forme di epilessia (es. epilessia mioclonica con ragged-red fibers o MERRF, malattia di Lafora, malattia di Unverricht-Lundborg ecc.) che all’inizio possono presentare caratteristiche simili a quelle presenti nella sindrome di Doose, ma che in seguito si differenziano da questa forma per la presenza di rilevanti anomalie neurologiche e per il ritardo/deterioramento dello sviluppo cognitivo. La triade presente in questi pazienti è rappresentata da tipi diversi di crisi (incluse le crisi miocloniche), presenza di segni neurologici e deterioramento progressivo. Sindromi epilettiche del bambino Epilessia assenze del bambino (CAE) Anche definita con il termine “picnolessia” (episodi critici che tendono a verificarsi molto frequentemente, da decine fino a centinaia di volte al giorno); le crisi si manifestano con improvvisa e breve perdita di contatto con l’ambiente circostante, associata a mancanza di risposta agli stimoli esterni e all’interruzione delle attività volontarie in corso (durata degli episodi di “assenza” generalmente dai 4 ai 20 secondi); possono essere presenti piccole ipercinesie interessanti i distretti peri-orale e peri-oculare e/o automatismi; le crisi sono in genere tipicamente scatenate dall’iperventilazione (una manovra, che può essere utilizzata in ambulatorio e che può evocare una crisi di “assenza” in più del 90% dei bambini con CAE, consiste nel far respirare profondamente il paziente per circa 3 minuti facendogli tenere le braccia distese in avanti e invitandolo a contare gli atti respiratori). Un EEG standard nelle forme tipiche è sufficiente per la diagnosi. Età di esordio tra i 4 e i 10 anni (picco di età tra i 5 e i 7 anni; più frequente nelle bambine). Forte componente genetica con familiarità positiva in un terzo dei casi e rischio di ricorrenza nei figli di circa il 10%. Possono verificarsi, anche se raramente, crisi tonico-cloniche generalizzate, in genere molto tempo dopo l’inizio delle “assenze” (di solito in adolescenza dopo la remissione delle “assenze”). L’EEG intercritico risulta normale; le crisi di assenza hanno un correlato EEG rappresentato da scariche di punta-onda generalizzate e di ampio voltaggio a circa 3 Hz. I farmaci antiepilettici di prima scelta sono l’etosuccimide (non protegge da eventuali crisi tonico-cloniche generalizzate), l’acido valproico e la lamotrigina; il trattamento con carbamazepina è controindicato in quanto può aggravare l’epilessia. La prognosi relativamente alla scomparsa delle crisi di assenza è molto buona (scomparsa delle crisi in genere prima dei 12 anni); c’è un aumentato rischio in età adulta di sviluppare crisi tonico-cloniche generalizzate. Epilessia con assenze miocloniche (EMA) Età d’esordio tra i 2 e i 13 anni. Prevalenza maschile. Il 50% dei pazienti ha un normale sviluppo psicomotorio/cognitivo all’esordio. Le crisi tipicamente si caratterizzano per delle “assenze” a inizio brusco con marcato mioclono ritmico e sincrono che interessa simmetricamente gli arti; possono essere coinvolti bocca, mento, occhi e palpebre; le crisi durano tipicamente meno di un minuto; in un terzo dei casi possono verificarsi crisi tonico-cloniche generalizzate, “assenze” pure e crisi astatiche. C’è una familiarità per epilessia nel 25% dei casi; molti casi restano a eziologia sconosciuta. Prognosi negativa per lo sviluppo cognitivo e il controllo delle crisi. Il trattamento più efficace è rappresentato in genere dalla combinazione di acido valproico con etosuccimide o lamotrigina.

Epilessia assenze con mioclonie palpebrali (sindrome di Jeavon) Esordio tra i 2 e i 14 anni con picco a 6-8 anni; di più frequente riscontro nel sesso femminile. Crisi brevi (durata circa 3-6 secondi), spontanee o precipitate dalla chiusura degli occhi in ambiente illuminato (non al buio); crisi caratterizzate da deviazione dello sguardo verso l’alto e retropulsione del capo con palpebre che presentano clonie ripetitive con possibile associazione di compromissione dello stato di coscienza. L’EEG rileva brevi scariche di punta/polipunta-onda generalizzate, di ampio voltaggio a 3-6 Hz e fotosensibilità. Epilessia benigna con punte centro- temporali (BECTS o Epilessia rolandica) Rappresenta la più comune epilessia focale del bambino; età d’esordio tra i 3 e i 13 anni; più comune nei maschi. Crisi focali che coinvolgono il distretto facciale/periorale, che possono evolvere con una secondaria generalizzazione; le crisi si verificano nell’80% dei casi in fase di sonno; le caratteristiche tipiche includono una sensazione unilaterale di torpore/parestesie a livello della lingua, gengive o guance, suoni gutturali o arresto del linguaggio, ipersalivazione, difficoltà di deglutizione o scialorrea post-critica, movimenti involontari o contratture toniche della lingua o della mandibola, clonie interessanti una parte del volto. L’EEG intercritico è caratterizzato dalla presenza di punte lente difasiche a livello delle regioni centro-temporali, che possono avere localizzazione monolaterale e che aumentano in frequenza nel sonno. Se le caratteristiche cliniche e dell’EEG non risultano assolutamente tipiche, è consigliabile effettuare un esame RM encefalo per escludere una forma di epilessia lesionale. Il trattamento con farmaci antiepilettici non è generalmente indicato a meno che le crisi siano particolarmente frequenti e/o prolungate e tale condizione crei disagio al paziente e ai familiari; nel 90% dei casi si ha una remissione dopo alcuni anni dall’esordio delle crisi e soprattutto dall’età di 16 anni. In alcuni casi le anomalie presenti in sonno sono molto rappresentate tanto che alcuni Autori parlano di uno spettro che collega l’epilessia benigna con punte (BECTS) alla sindrome di Landau-Kleffner. Epilessia con parossismi occipitali (CEOP forma di Panayiotopoulos) Familiarità positiva per epilessia e anomalie EEG intercritiche in parenti di primo grado. Età d’esordio con picco tra i 3 e i 5 anni. Le crisi tipicamente si verificano all’inizio del sonno; episodi critici caratterizzati da deviazione laterale dello sguardo e vomito, spesso con alterazione dello stato di coscienza; le crisi possono avere una durata prolungata. Molti bambini non presentano più crisi epilettiche prima del compimento dei 10 anni di età mentre altri possono presentare solo 1-2 episodi nell’arco della vita. Sindrome di Landau- Kleffner (LKS) Nota anche come afasia epilettica acquisita, si tratta di una condizione rara a esordio rapido (in un bambino precedentemente normale), caratterizzata da sintomi che fanno apparire il bambino che ne è affetto “come se fosse sordo”; si instaura, ad andamento fluttuante e rapidamente progressivo, un disturbo della comprensione del linguaggio con impossibilità a decodificare il significato di alcuni suoni (agnosia uditiva, es. impossibilità nel comprendere il significato di un telefono che squilla) e una afasia espressiva; possono essere presenti altri problemi cognitivi e comportamentali. L’età d’esordio è tra i 3 e gli 8 anni con rapporto maschi/femmine di 2:1. Possono verificarsi crisi tonico-cloniche generalizzate, assenze atipiche e crisi motorie focali. L’EEG mostra frequenti scariche epilettiche soprattutto durante il sonno e a livello delle regioni

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temporali. Si tratta di una encefalopatia epilettica in cui il funzionamento cerebrale viene compromesso dall’attività epilettica. I farmaci più comunemente utilizzati per il trattamento sono i corticosteroidi e le benzodiazepine; alcuni bambini vengono sottoposti a intervento di chirurgia dell’epilessia. Epilessia con punte-onde continue nel sonno o stato epilettico elettrico in sonno (CSWS, ESES) Il termine stato epilettico elettrico in sonno (ESES) è sinonimo di punte-onde continue nel sonno (CSWS); esiste una sovrapposizione tra l’epilessia con punte-onde continue nel sonno (CSWS) e la sindrome di Landau-Kleffner (LKS) (la prima è definita da caratteristiche EEG, mentre la seconda da aspetti clinici); molti bambini con LKS presentano una forma di CSWS o una condizione simile; la LKS può essere considerata un tipo di CSWS con un focus epilettogeno a livello temporale e una conseguente regressione del linguaggio. La CSWS si caratterizza per la triade: punte-onde continue occupanti più dell’80% del sonno a onde lente, crisi epilettiche e regressione cognitivo-comportamentale. L’età d’esordio è tipicamente tra i 4 e i 6 anni (range 1-11). Possono essere presenti deficit nella memoria, regressione nelle funzioni cognitive e iperattività. I maschi sono più colpiti delle femmine. Il primo evento parossistico è generalmente una crisi generalizzata in sonno (possono in alcuni casi verificarsi crisi focali o focali con secondaria generalizzazione che possono avere caratteristiche simili alla forma BECTS). L’evoluzione di questo tipo di epilessia si caratterizza per la possibile comparsa di altre crisi come le assenze tipiche e atipiche, le assenze miocloniche, le crisi cloniche e atoniche, le crisi tonico-cloniche generalizzate. Il trattamento si basa sull’utilizzo di diversi farmaci antiepilettici (soprattutto benzodiazepine, acido valproico, etosuccimide o levetiracetam) e dei corticosteroidi; la carbamazepina può far peggiorare la sintomatologia critica; alcuni bambini vengono sottoposti a intervento di chirurgia dell’epilessia.

Sindrome di Lennox- Gastaut (LGS) Questa condizione definisce una relativamente rara e grave forma di epilessia caratterizzata dalla presenza di crisi toniche (elemento sempre presente) o anche atoniche e crisi di assenza atipiche; in genere è presente una causa sintomatica individuabile (nel 30% dei casi ci si orienta verso una “presunta sintomaticità”). L’EEG si caratterizza per la presenza di punte-onde lente diffuse e parossismi di attività rapida. La prognosi per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo, le caratteristiche comportamentali e il controllo delle crisi è negativa. Epilessia con parossismi occipitali (CEOP forma di Gastaut) Età d’esordio con picco tra i 7 e i 9 anni. Le crisi sono caratterizzate da brevi sintomi visivi senza alterazione dello stato di coscienza e sintomi post-critici che comprendono cefalea, nausea e vomito; alcune crisi si protraggono con movimenti di tipo versivo, disturbi sensoriali, automatismi, clonie interessanti un emilato o diffuse. Questa forma di epilessia rispetto alla forma di Panayiotopoulos ha una prognosi leggermente peggiore per quanto riguarda la scomparsa delle crisi. L’EEG ha caratteristiche simili a quanto si riscontra nella forma di Panayiotopoulos e presenta come elemento caratteristico anomalie epilettiformi a livello delle regioni occipitali che vengono soppresse dall’apertura degli occhi (“fixation-off sensitivity”) e attivate dal sonno.

Sindromi epilettiche a esordio in età adolescenziale Epilessia assenze giovanile (JAE) Età d’esordio con picco a 12 anni, tipicamente in prossimità del periodo puberale. A differenza della CAE si verificano pochi episodi di “assenza” al giorno e il grado di compromissione dello stato di coscienza sembra minore anche se le anomalie elettriche tendono ad avere una durata prolungata. Circa l’80% dei pazienti presenterà crisi tonico-cloniche generalizzate mentre il 15% manifesterà anche crisi miocloniche (meno intense di quelle che si verificano nell’epilessia mioclonica giovanile). L’EEG mostra anomalie generalizzate costituite da complessi puntaonda a 3 Hz, spesso indotte dall’iperventilazione; la fotosensibilità è inusuale. Molti pazienti rispondono al trattamento con acido valproico anche se la prognosi, relativamente alla scomparsa delle crisi a lungo termine, è meno buona rispetto alla CAE. Epilessia mioclonica giovanile (JME) Esordio tra i 12 e i 18 anni. Le crisi sono di tipo tonico-clonico generalizzate e miocloniche, e si verificano tipicamente subito dopo il risveglio; la coscienza è conservata durante le crisi miocloniche; le crisi tonico-cloniche generalizzate sono spesso precedute da una serie di crisi miocloniche in crescendo; le crisi di assenza si verificano in circa un terzo dei casi. Una storia di oggetti che cadono dalle mani mentre si prepara la colazione è tipica. L’eccessiva stanchezza, la carenza di sonno e l’alcol sono potenziali fattori scatenanti. L’EEG tipicamente mostra scariche di polipunte seguite da onde lente irregolari a frequenza compresa tra 1 e 3 Hz; le crisi di assenza hanno un correlato EEG di complessi polipunta-onda a 4-6 Hz che rallentano fino a 3 Hz (queste scariche epilettiche sono molto meno regolari rispetto a quanto si vede nell’epilessia assenze del bambino o nell’epilessia assenze giovanile). I farmaci antiepilettici generalmente utilizzati sono l’acido valproico, il clonazepam e il levetiracetam; la lamotrigina può causare un aumento delle crisi miocloniche ma risulta essere efficace in combinazione con l’acido valproico; il trattamento con carbamazepina è controindicato. La prognosi per quanto riguarda il controllo delle crisi è buona ma è in genere sconsigliato interrompere il trattamento antiepilettico per l’alto rischio di ricorrenza delle crisi in assenza di terapia. Epilessia con crisi tonico- cloniche generalizzate (GTCS) al risveglio Esordio in genere nella seconda decade di vita. La diagnosi di questo tipo di epilessia è principalmente clinica e deve essere sospettata quando si verificano crisi tonico-cloniche generalizzate (GTCS) subito dopo il risveglio, in assenza di frequenti ipercinesie di tipo mioclonico; le crisi possono essere facilitate dalla riduzione delle ore di sonno; frequenza delle crisi piuttosto bassa. La prognosi è favorevole sia per la bassa frequenza delle crisi che per la buona risposta al trattamento (molti pazienti hanno una ricomparsa delle crisi dopo la sospensione di un trattamento antiepilettico efficace). Alcuni pazienti che hanno presentato in passato altre forme di epilessia (es. CAE) possono avere un’evoluzione in questa condizione. L’EEG tipicamente si caratterizza per la presenza di scariche di punta-onda o polipunta-onda, irregolari, con frequenze comprese tra i 2 e i 4 Hz (queste alterazioni non vengono tuttavia riscontrate in tutti i pazienti con esami EEG di routine; in tal caso un EEG in sonno può fornire informazioni diagnostiche aggiuntive); una discreta percentuale di pazienti presenta fotosensibilità.

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EPILESSIE IDIOPATICHE

Trasmis. Locus AD 20q13 8q24 AD 2q24 AD 16p11 2q24

Crisi neonatali benigne familiari Crisi neonatali-infantili benigne familiari Crisi infantili benigne familiari Crisi infantili benigne familiari ed emicrania emiplegica familiare Epilessia autosomica dominante notturna del lobo frontale

AD AD

Epilessia familiare del lobo temporale laterale Epilessia genetica con convulsioni febbrili plus (GEFS+)

AD AD

Epilessia mioclonica familiare infantile (FIME) Epilessia mioclonica giovanile (sindrome di Janz)

AR AD

Epilessia generalizzata idiopatica con fenotipi variabili (incluse assenze precoci) Epilessia generalizzata idiopatica e Atassia episodica Encefalopatie epilettiche Encefalopatia epilettica a esordio precoce (periodo neonatale/primo anno di vita)

Spasmi infantili e fenotipo rett-like Epilessia mioclonica severa dell’infanzia/ Sindrome di Dravet Epilessia e ritardo mentale nelle femmine EPILESSIE MIOCLONICHE PROGRESSIVE Malattia di Unverricht-Lundborg (EPM1) Malattia di Lafora (EPM2) MERRF/MELAS Sialidosi - Tipo 1, 2 - Galattosialidosi Ceroidolipofuscinosi - Infantile tardiva di Jansky-Bielschowsky “Finlandese” “Variante” - Giovanile di Spielmeyer-Vogt-Sjogren - Adulta di Kufs AMRF (action myoclonus-renal failure syndrome) - variante simil-ULD senza interessamento renale PME con atassia precoce Atrofia dentato-rubro-pallido-luisiana Malattia di Gaucher tipo III Malattia di Huntington giovanile Gangliosidosi GM2 EMP con inclusione di neuroserpina EMP a esordio precoce

1q23 20q13 1p21 8p12 10q24 2q24 19q13 2q24 5q 16q13 5q34 6p12

Gene KCNQ2 KCNQ3 SCN2A PRRT2 SCN2A

ATP1A2 CHRNA4 CHRNB2 CHRNA2 LGI1 SCN1A SCN1B SCN2A GABRG2 TBC1D24 GABRA1 EFHC1

AD AD AD

1q35 2q22 19q

SLC2A1 CACNB4 CACNA1A

AR de novo AR de novo X-linked de novo X-linked X-linked

11p15 9q34 16p13 20q13 Xp22 2q24 Xq22 Xq22

SLC25A22 STXBP1 TBC1D24 KCNQ2 CDKL5 SCN1A PCDH19 PCDH19

AR AR AR Materna AR

21q22.3 6q24 6q22 Mt-DNA n-DNA

EPM1 (Cistatina B) EPM2A (Laforina) EMP2B (Malina) t-RNA (8344,8356,8363) POLG1

AR AR

6p21.3 Neuraminidasi(NEU) 20q13.1 PPCA

AR AR AR AR AR AD AR AR AR AD AR AD AR AD AR

11p15 13q21 15q21 16p 15q21 20q13.33 4q21 4q21 12q12 12p13 1p21 4p16 15q23-q24 3q26 7q11

CLN2 CLN5 CLN6 CLN3 CLN6 DNAJC5 SCARB2 SCARB2 PRICKLE1 B37 (Atrofina) Glucocerebrosidasi Huntingtina Hexa PI12 KCTD7

9q32 16p13

TSC1 TSC2

MALFORMAZIONI CEREBRALI SU BASE GENETICA Malformazioni dovute a proliferazione neuronale anomala Sclerosi tuberosa AD AD

In termini generali le epilessie vengono distinte in tre grandi categorie eziologiche: forme “idiopatiche”, forme “sintomatiche” e forme “presunte sintomatiche”. Le epilessie idiopatiche comprendono sia forme generalizzate che focali e si caratterizzano per l’assenza di lesioni cerebrali strutturali; sono causate da fattori genetici definiti o presunti. Il termine “idiopatico” non è sinonimo di epilessia a evoluzione benigna. Esempi di epilessie idiopatiche sono l’epilessia assenze del bambino, l’epilessia mioclonica giovanile, l’epilessia con parossismi occipitali forma di Gastaut, ecc. Le epilessie “sintomatiche” sono caratterizzate da crisi che sono la conseguenza di una causa primaria identificabile. Esempi di epilessia sintomatica includono la sclerosi tuberosa e le displasie corticali focali. Le crisi sintomatiche acute sono il risultato di un insulto cerebrale immediatamente precedente l’evento parossistico (es. ipossia, febbre) (le crisi acute sintomatiche ricorrenti non sono classificate come epilessia). Le epilessie da causa sintomatica remota sono secondarie a un danno cerebrale pregresso (es. stroke, meningoencefalite). Le epilessie “presunte sintomatiche” (termine che sostituisce la vecchia dizione “criptogenetiche”) rappresentano le forme in cui non risulta chiaramente identificabile una causa primaria (es. normalità dell’esame neuroradiologico) ma che non possono essere inquadrate nell’ambito delle forme idiopatiche; in tal senso il termine epilessia “presunta sintomatica” definisce un’epilessia a eziologia non nota e la necessità di effettuare ulteriori approfondimenti diagnostici. Molte forme gravi di epilessia dell’infanzia rientrano all’interno di questo gruppo. In relazione alla prognosi le epilessie possono essere distinte in: sindromi epilettiche a prognosi eccellente (epilessie a evoluzione benigna con remissione spontanea delle crisi età-correlata e non associate ad alterazioni dello sviluppo psico-fisico); sindromi epilettiche a prognosi buona (epilessie farmaco-sensibili in cui la terapia può essere sospesa dopo un certo periodo di tempo); sindromi epilettiche a prognosi incerta (epilessie farmaco-dipendenti che possono rispondere bene al trattamento antiepilettico ma che si caratterizzano per crisi che possono 105

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Trasmis. Locus Gene Malformazioni dovute a migrazione neuronale anomala Lissencefalia isolata (ILS)/eterotopia sottocorticale (SBH) AD 17p13.3 LIS1 Lissencefalia isolata (ILS)/eterotopia sottocorticale (SBH) AD Xq22.3-q23 DCX Lissencefalia isolata (ILS)/eterotopia sottocorticale (SBH) AD 12q13.12 TUBA1A Sindrome di Miller-Dieker AD 17p13.3 LIS1+YWHAE Lissencefalia X-linked con genitali ambigui (XLAG) X-linked Xp22.1 ARX Lissencefalia con ipoplasia cerebellare (LCH) AR 7q22.1 RELN Lissencefalia con ipoplasia cerebellare (LCH) AR 9p24.2 VLDLR Eterotopia periventricolare bilaterale classica X-linked Xq28 FLNA Eterotopia periventricolare e sindrome di Elhors-Danlos X-linked X28 FLNA Eterotopia periventricolare, dimorfismi facciali e costipazione severa X-linked X28 FLNA Eterotopia periventricolare AD 5p15.1 Eterotopia periventricolare AD 5p15.33 Eterotopia periventricolare e sindrome di Williams AD 7p11.23 Eterotopia periventricolare AD 4p15 5p14.3-15 Eterotopia periventricolare AD Eterotopia periventricolare e agenesia del corpo calloso AD 1p36.22-pter Eterotopia nodulare periventricolare (PNH) e microcefalia AR 20p13 ARFGEF2 Distrofia muscolare congenita di Fukuyama o sindrome di Walker-Warburg (WWS) AR 9q31.2 FKTN “Muscle-eye-brain disease (MEB)” o WWS AR 19q13.32 FKRP “Muscle-eye-brain disease (MEB)” AR 22q12.3 LARGE “Muscle-eye-brain disease (MEB)” AR 1p34.1 POMGnT1 “Muscle-eye-brain disease (MEB)” o WWS AR 9q34.13 POMT1 “Muscle-eye-brain disease (MEB)” o WWS AR 14q24.3 POMT2 Sindrome CEDNIK AR 22q11.2 SNAP29 Malformazioni dovute a organizzazione corticale anomala Polimicrogiria bilaterale perisilviana (BPP) X-linked Xq22 SRPX2 Polimicrogiria bilaterale fronto-parietale (BFPP) AR 16q13 GPR56 Polimicrogiria asimmetrica AD 6p25.2 TUBB2B Polimicrogiria con agenesia del corpo calloso e microcefalia AD 3p21.3-p21.2 TBR2 Polimicrogiria (con anidria) AD 11p13 PAX6 1p36.3-pter Polimicrogiria AD Polimicrogiria e microcefalia AD 1q44-qter Polimicrogiria, PNH e agenesia del corpo calloso AD 6q26-qter 2p16.1-p23 Polimicrogiria e dimorfismi facciali AD Polimicrogiria, microcefalia e idrocefalo AD 4q21-q22 Polimicrogiria AD 21q2 Polimicrogiria e sindrome di Di George AD 22q11.2 Polimicrogiria e sindrome di Goldberg-Shprintzen AR 10q21.3 KIAA1279 Polimicrogiria e sindrome di Warburg Micro AR 2q21.3 RAB3GAP1 ANOMALIE CROMOSOMICHE ED EPILESSIA Cromosoma 1 Delezione 1p36 Cromosoma 4 Delezione 4p16.3 (sindrome di Wolf-Hirshhorn) Cromosoma 6 Delezione 6q terminale Cromosoma 12 Trisomia 12p Cromosoma 14 Cromosoma 14 ad anello Cromosoma 15 Delezione 15q11-13, disomia uniparentale, mutazioni “Imprinting Center”, mutazioni Gene UBE3A, Inv dup 15 Cromosoma 17 Delezione 17p13.3 (sindrome di Miller-Dieker) Cromosoma 20 Cromosoma 20 ad anello Cromosoma X Sindrome del cromosoma X fragile, sindrome di Klinefelter (XXY), duplicazione (X) (p11.22-p11.23) Cromosoma Y 47, XYY

(modificata da Update relativo ai geni implicati nelle epilessie - Commissione Genetica LICE - Bianchi A, et al., aggiornata al 15 maggio 2012).

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verificarsi nuovamente dopo sospensione della terapia); sindromi epilettiche a prognosi infausta (epilessie resistenti al trattamento) (figura 3). In alcune specifiche condizioni si pensa che l’attività epilettiforme stessa possa contribuire ad alterare il normale funzionamento cerebrale (es. ridotto stato di vigilanza o deficit cognitivi); si parla in tal caso di “encefalopatia epilettica”. Questo concetto implica che la disfunzione cerebrale possa essere parzialmente reversibile quando si tratta l’epilessia con una terapia antiepilettica adeguata. Diagnosi La diagnosi di epilessia è un percorso spesso molto complesso che deve tener conto del tipo di crisi (fenomenologia, topografia), del contesto clinico (età d’esordio, familiarità, condizioni cliniche generali e presenza di altri sintomi associati) e delle caratteristiche di alcuni esami strumentali specifici (es. EEG critico e intercritico, dati neuroradiologici ecc.). Il primo passo verso una diagnosi di epilessia consiste nello stabilire se un evento parossistico sia o no una crisi epilettica; esiste infatti, specie nel bambino, tutta una serie di eventi parossistici di natura non epilettica (es. mioclono neonatale benigno, iperecplessia, spasmi affettivi respiratori, reflusso gastro-esofageo, parasonnie, vertigine parossistica, atassie episodiche, episodi sincopali, tics, stereotipie, comportamenti di autostimolazione, disturbi psicogenetici ecc.), la cui conoscenza è fondamentale per non incorrere in errori diagnostici. In questi casi l’anamnesi e la ricostruzione dell’evento parossistico risultano fondamentali; un’esame video-EEG con polimiografia viene spesso richiesto per una valutazione dirimente. Secondo studi recenti una percentuale tra il 3,5% e il 43% di bambini inviati per effettuare un esame video-EEG presenta una diagnosi di fenomeno parossistico di natura non epilettica. Bisogna inoltre essere sicuri che siamo di fronte a un’epilessia e non a una condizione sintomatica che si manifesta clinicamente con crisi epilettiche acute ricorrenti. Distinguiamo nel percorso diagnostico delle epilessie alcune tappe fondamentali: anamnesi, esame obiettivo (generale,


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FIGURA

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Figura 4a

Figura 4b

Tracciato EEG di paziente con epilessia focale sintomatica di sindrome di Sturge-Weber. Si noti come le anomalie EEG presenti a livello delle regioni parieto-temporo-occipitali destre (a) correlino con le sedi anatomiche delle alterazioni documentate dall’esame RM encefalo (b). La sindrome di Sturge-Weber è una malattia neurocutanea congenita sporadica, che si caratterizza clinicamente per la presenza di un emangioma capillare del volto che segue la distribuzione della branca oftalmica del trigemino, angiomi leptomeningei, glaucoma, crisi epilettiche, eventi infartuali cerebrali e ritardo cognitivo di grado variabile. È stato recentemente dimostrato che tale condizione può essere determinata dalla mutazione a livello del gene GNAQ.

psichico e neurologico), indagini neurofisiologiche, neuroimmagini, indagini di laboratorio e genetiche, valutazione neuropsicologica. – Anamnesi: l’approccio a un paziente con epilessia o che ha presentato uno o più episodi parossistici di sospetta natura epilettica trova nell’anamnesi un momento fondamentale, senza il quale è impossibile pensare di poter correttamente programmare tutte le indagini di approfondimento necessarie per giungere a un preciso inquadramento della condizione in esame. L’analisi dei dati clinici raccolti attraverso l’anamnesi consente di formulare una corretta diagnosi in circa la metà dei casi. Gli obiettivi principali dell’anamnesi si realizzano grazie alla raccolta del maggior numero di informazioni con la finalità di definire il tipo di crisi, la presenza di eventuali fattori eziologici e/o scatenanti, e le circostanze di occorrenza dell’episodio parossistico (es. veglia, sonno, digiuno, esposizione a stimoli luminosi intermittenti o a fattori ambientali che causano aumento della temperatura corporea ecc.). Secondo i livelli di evidenza, cianosi, scialorrea, morsus e stato confusionale post-critico sono gli elementi clinici che inducono ad accentuare il sospetto diagnostico di crisi epilettica. Particolare importanza riveste anche l’analisi dei sintomi che precedono la crisi, qualora

presenti, e che caratterizzano la fase di recupero (sintomi post-critici). I dati clinici vengono spesso forniti da un testimone dell’evento parossistico ed è pertanto fondamentale ricavare gli elementi anamnestici direttamente da chi ha assistito all’episodio, soprattutto quando il paziente non è in grado di riferire nulla o poco dell’accaduto. La semeiologia è rappresentata da ciò che un osservatore esterno vede e/o da ciò che il paziente percepisce di una crisi epilettica. L’analisi accurata di ciò che accade immediatamente prima, durante e dopo l’episodio critico può fornire fondamentali elementi per ipotizzare la localizzazione dell’area epilettogena. I segni clinici di una crisi epilettica si manifestano non appena la scarica epilettica si sviluppa nel tempo e nello spazio; i sintomi clinici si manifestano con una latenza temporale dall’inizio della scarica che può variare a seconda del tipo di crisi (es. le crisi temporali si propagano più lentamente rispetto alle crisi frontali). La semeiologia delle crisi e l’identificazione del circuito neuronale precocemente interessato dalla propagazione della scarica epilettica sono presupposti fondamentali per formulare ipotesi di localizzazione dell’area epilettogena. Esempi di segni/sintomi altamente localizzatori sono rappresentati dalle illusioni/allucinazioni uditive, dalle allucinazioni visive lateralizza-

te e dalle posture tonico-cloniche lateralizzate. I segni/sintomi che non risultano essere localizzatori sono la deviazione del capo/occhi, le manifestazioni tonicocloniche del distretto buccale, le posture distoniche, le allucinazioni olfattive e la perdita di contatto con l’ambiente. Gli elementi clinici vanno integrati con gli esami strumentali. – Esame obiettivo generale, psichico e neurologico: la visita del paziente rappresenta un momento fondamentale del percorso diagnostico. I principali aspetti da valutare, per quanto riguarda l’esame obiettivo generale, sono altezza, peso, circonferenza cranica, cute (con particolare attenzione alla rilevazione di eventuali aree cutanee con ipo- o ipercromia o angiomi), organi esplorabili alla palpazione dell’addome, eventuali aspetti dismorfici. L’esame obiettivo psichico con osservazione del comportamento fornisce dati sullo stato di vigilanza/orientamento, sullo sviluppo psicomotorio/cognitivo e sull’eventuale presenza di disturbi del comportamento. L’obiettività neurologica può rilevare la presenza di segni neurologici maggiori in grado di orientare la diagnosi verso una forma sintomatica. – Indagini neurofisiologiche: l’elettroencefalogramma (EEG) è un esame di fondamentale importanza per la diagnosi di epilessia e per il monitoraggio dei pa107

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zienti affetti da tale condizione. L’EEG può fornire elementi specifici che orientano/confermano il sospetto diagnostico del clinico; da questo esame vengono inoltre ricavati dati fondamentali relativi all’organizzazione/funzionamento dell’attività elettrica cerebrale sia in veglia che in sonno. L’EEG consente inoltre di valutare in modo approssimativo il rischio di ricorrenza di nuovi episodi critici in base alla maggiore/minore ricchezza di anomalie nella fase intercritica e, insieme ai dati clinici, la risposta al trattamento antiepilettico. Bisogna però sempre tenere in considerazione che l’EEG non è uno strumento magico e che il medico refertatore ha bisogno di informazioni molto precise che descrivano con la massima accuratezza le caratteristiche del paziente in esame (età, condizioni generali, patologie di cui è affetto) e le motivazioni che hanno portato a effettuare l’indagine in oggetto (es. descrizione accurata dell’evento parossistico e delle circostanze/modalità di occorrenza). La ripetizione dell’esame in uno stesso paziente va valutata e definita in base al tipo di epilessia, alla risposta al trattamento antiepilettico e ad altre variabili cliniche. L’esame EEG può essere effettuato con diverse modalità che dipendono dal quesito diagnostico e più nello specifico dal tipo di crisi, dalla loro frequenza e talvolta da fattori contingenti (es. condizioni di urgenza, pazienti non collaboranti). Così, mentre per alcuni casi è sufficiente richiedere un EEG di routine (S/EEG, Standard EEG), per altri può essere necessario effettuare una registrazione prolungata nelle 24 ore con EEG dinamico (A/EEG, Ambulatory EEG), un EEG con videoregistrazione (video-EEG) o un monitoraggio videoEEG a lungo termine (LTVEEG Monitoring). L’EEG di routine consiste in una registrazione in veglia in condizioni basali (a occhi chiusi e aperti) per almeno 20 minuti, seguita da una registrazione durante tecniche di attivazione (iperventilazione e stimolazione luminosa intermittente); un’altra tecnica di attivazione è rappresentata dalla registrazione in sonno (spontaneo o dopo privazione ipnica). Un EEG standard può rilevare anomalie epilettiformi intercritiche o critiche in soggetti con sospette crisi epilettiche in circa il 50% dei casi; la percentuale aumenta fino al 90% con regi-

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strazioni ripetute o in sonno; la possibilità di registrare anomalie durante un EEG standard è di circa il 90% se l’esame viene effettuato entro le 24 ore da una crisi epilettica (soprattutto nei bambini) ed è per questo che nel caso di una prima crisi è indicata l’esecuzione di un EEG il più presto possibile. Anomalie EEG a un esame standard sono rilevabili nello 0,54% di soggetti che non hanno mai presentato crisi epilettiche; questo dato deve far riflettere sul fatto che l’EEG può essere disinformativo e quindi non raccomandato in alcune situazioni (es. soggetti giovani con sincopi neuro-mediate). L’EEG dinamico si realizza grazie ad apparecchi portatili che consentono la registrazione per tempi variabili da 12 a 72 ore mentre il paziente svolge le sue normali attività di vita quotidiana; tale metodica non aggiunge informazioni diagnostiche nel 50% dei casi. La registrazione video-EEG con possibile aggiunta di poligrafia consente una più precisa analisi dell’evento parossistico e permette di distinguere gli episodi di natura epilettica da quelli di natura non epilettica. L’utilizzo del monitoraggio video-EEG a lungo termine (LTVEEG monitoring) viene riservato a condizioni molto particolari ed effettuato in centri altamente specializzati, con la finalità di cercare di individuare l’origine delle scariche epilettiche (vengono utilizzati speciali elettrodi di superficie o elettrodi che possono essere impiantati in profondità in diverse aree cerebrali). – Neuroimmagini: le neuroimmagini forniscono un importante contributo nello stabilire eziologia, prognosi e trattamento delle epilessie di nuova diagnosi. Questo tipo di indagini è raccomandato quando la crisi presenta caratteristiche cliniche che fanno presupporre un focolaio epilettogeno localizzato, o quando non è stato ancora raggiunto un preciso inquadramento diagnostico dell’epilessia o quando si sospetta una condizione sintomatica. Quando disponibili, le tecniche di risonanza magnetica (RM) sono preferibili a quelle di tomografia computerizzata (TC) sia per la migliore risoluzione e accuratezza delle immagini, che per evitare l’esposizione del paziente a radiazioni. L’esame neuroradiologico è generalmente non necessario in alcune forme di epilessia idiopatica (epilessia assenze del

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bambino, epilessia assenze forma giovanile, epilessia mioclonica giovanile, epilessia benigna con punte centro-temporali) quando la diagnosi è chiaramente definita sulla base dei dati clinici e delle caratteristiche EEG. Vanno infine ricordate alcune tecniche di neuroimaging funzionale (PET, SPECT), di utilizzo non diffuso, che possono essere utili in alcuni casi particolari per una più precisa definizione/localizzazione dell’area epilettogena. – Esami di laboratorio e genetici: gli esami ematochimici di base non sono generalmente indispensabili in fase diagnostica iniziale, anche se possono essere utili per escludere particolari condizioni come uno squilibrio elettrolitico, uno scompenso metabolico, fattori endocrinologici o tossici e per l’inizio di una terapia antiepilettica. La rachicentesi con esame del liquor è indicata in tutte le condizioni in cui si pone il sospetto diagnostico di un processo infettivo/infiammatorio interessante il sistema nervoso centrale; in tali condizioni, oltre all’esame liquorale chimico-fisico di base, possono essere utili specifiche indagini sierologiche e liquorali finalizzate a isolare marker di agenti infettivi specifici o di reazione autoimmunitaria; altre indagini più specifiche su liquor (es. dosaggio lattato/piruvato, glicina ecc.) possono essere effettuate nel sospetto di specifiche condizioni (es. malattie metaboliche). Gli esami genetici possono essere effettuati in alcuni casi particolari, quando le caratteristiche del paziente, il tipo di epilessia e alcuni esami strumentali (es. EEG e RM encefalo) orientano la diagnosi verso una condizione geneticamente determinata, come per esempio alcune encefalopatie epilettiche a esordio in età infantile o nel sospetto di una condizione sindromica specifica associata a epilessia (es. sindrome di Rett, sindrome di Angelman ecc.); tali esami andrebbero richiesti da professionisti esperti in epilettologia e vanno coordinati e integrati con una consulenza genetica che coinvolga il bambino e i familiari. – Valutazione neuropsicologica: questo tipo di valutazioni risulta fondamentale per indagare il funzionamento cognitivo, la presenza di disturbi neuropsicologici in comorbilità, per monitorare l’evoluzione clinica e gli eventuali possibili


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effetti indesiderati del trattamento antiepilettico (es. disturbi della memoria, dell’attenzione, sintomi comportamentali ecc.).

Conclusioni L’inquadramento diagnostico del bambino con epilessia è un percorso molto complesso, all’interno del quale i dati clinici si integrano con la conoscenza e l’esperienza del medico che programma e successivamente interpreta gli esami di approfondimento necessari. L’espandersi delle conoscenze, soprattutto nel campo della genetica, sta ampliando in modo rapido il panorama conoscitivo in ambito epilettologico. Il raggiungimento di una corretta diagnosi è presupposto fondamentale per l’ottimale applicazione delle strategie terapeutiche disponibili e per fornire adeguate informazioni sulla prognosi. u Bibliografia di riferimento Beghi E, Carpio A, Forsgren L, et al. Recommendation for a definition of acute symptomatic seizure. Epilepsia 2010;51(4):671-5. doi: 10.1111/j. 1528-1167.2009.02285.x. Beghi E, De Maria G, Gobbi G, Veneselli E. Diagnosis and treatment of the first epileptic seizure: guidelines of Italian League against Epilepsy. Epilepsia 2006;47(Suppl 5):2-8. Berg AT, Berkovic SF, Brodie MJ, et al. Revised terminology and concepts for organization of seizures and epilepsies: report of the ILAE Commission

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IL PREMIO “BERTRAND RUSSELL AI SAPERI CONTAMINATI” 2014 A FRANCO PANIZON Claudio Magris ha così commentato la figura di Franco Panizon nel suo intervento nell’aula del consiglio comunale di Trieste all’indomani della scomparsa di un “amico non facile”: «È stato, anche in modo imbarazzante, se stesso: mi piacerebbe assomigliargli un po’». Parole simili le ho sentite nel febbraio dello scorso anno da Paolo Rumiz, con cui ero a cena a Milano a casa di comuni amici. Perché il Premio “Bertrand Russell ai Saperi contaminati” a Franco Panizon? Non solo perché Panizon è stato per la Pediatria italiana ciò che Franco Basaglia ha rappresentato per la Psichiatria ma anche perché è stato “maestro” di professionalità, impegno civile e, direi, di vita per una buona metà dei pediatri di base che oggi operano sul territorio di Reggio Calabria. A più di un anno dalla sua scomparsa, la Fondazione Mediterranea insieme all’Università Mediterranea gli rende omaggio attribuendo alla sua memoria l’edizione del 2014 del Premio “Bertrand Russell ai Saperi Contaminati” per il suo impegno civile e di fine umanista che ha accompagnato la sua attività professionale. Panizon, stravagante e imprevedibile, da ragazzo della Repubblica di Salò diventato comunista e poi, dopo anni di un laicismo integrale, cattolico, ha sempre inseguito le sue idee e, così facendo, ha inventato e prodotto: per esempio il “day hospital pediatrico”, che consente ai minori di rientrare a casa a fine cura giornaliera, per non parlare dell’umanizzazione delle cure pediatriche negli ospedali con l’apertura della corsia ai genitori dei piccoli pazienti. Oggi queste sono realtà acquisite (chi lascerebbe più suo figlio in una corsia di ospedale “abbandonato” alle cure dei soli infermieri?) ma non lo erano negli anni Settanta, gli anni in cui avveniva la coeva rivoluzione di Basaglia negli ospedali psichiatrici, gli anni in cui ancora riverberava in corsia l’impianto di una Pediatria baronale e sclerotizzata oltre che maldisposta verso i diritti dell’infanzia. La sua fu una rivoluzione silenziosa, mai assurta come quella di Basaglia all’attenzione dei media, che ha letteralmente trasformato la Pediatria italiana. Ma non è solo per questo che, oggi, gli viene assegnato il Premio Russell: Franco Panizon, professore emerito di Pediatria nel Dipartimento di Scienze della Riproduzione e dello Sviluppo dell’Università di Trieste, in cui ha diretto la Clinica pediatrica dell’IRCCS “Burlo Garofolo”, è stato anche quel fine umanista, pittore e critico d’arte che, da laico, ha concluso la sua vita curando i bambini dell’Ospedale cattolico “Divina Providencia” di Luanda in Angola. Concludo citando Panizon: «Questo vale per tutti gli uomini, ma specialmente per i medici e specialmente per i pediatri: guardare in là, più in là possibile, non pensare solo all’oggi del tuo paziente, pensa anche al suo domani; non pensare solo ai tuoi pazienti, pensa anche a tutti i pazienti; non pensare solo ai presenti, ma pensa anche ai lontani e ai futuri». Vincenzo Vitale, Pediatra di famiglia, Presidente Fondazione Mediterraneo 109

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Il bambino che soffre di epilessia Stefania Manetti*, Costantino Panza**, Antonella Brunelli*** *Pediatra di famiglia, Piano di Sorrento (Napoli); **Pediatra di famiglia, Sant’Ilario d’Enza (RE); ***Direttore del Distretto ASL, Cesena

La parola epilessia fa paura, richiama alla memoria immagini spaventose e situazioni poco controllabili. Nell’articolo sull’inquadramento diagnostico delle epilessie scritto per i pediatri lettori di questa rivista, leggiamo che la parola epilessia deriva da un termine greco che significa “essere colti di sorpresa”.

Come si manifesta?

L’epilessia o le convulsioni si manifestano con movimenti muscolari, sensazioni o comportamenti provocati da una serie di scariche elettriche anomale che partono dal nostro cervello. A seconda poi di quanti muscoli sono interessati da queste scariche elettriche si possono avere scosse e contrazioni diffuse a tutta la muscolatura o a una parte (per esempio un braccio e una gamba), oppure un completo rilassamento della muscolatura con perdita del tono muscolare. La crisi epilettica che spaventa di più è generalmente quella che si manifesta con scosse rapide e violente di tutto il corpo e spesso perdita di conoscenza. A volte queste crisi possono essere precedute da movimenti di piccole parti del corpo e poi propagarsi a tutti i muscoli. Alcuni bambini possono invece avere altri tipi di crisi epilettiche definite “assenze”, momenti (anche pochi secondi) durante i quali il bambino perde il contatto con l’ambiente che lo circonda.

Qual è la causa?

Si parla di epilessie e non di epilessia perché ci sono tipi diversi di questa malattia. Le epilessie possono dipendere da fattori genetici o da cause acquisite; la storia clinica e quella familiare possono spesso essere utili per ricercare le cause.

Tutte le convulsioni sono epilessie?

No, non tutte le convulsioni sono epilessie; a volte i bambini possono avere episodi simili alle crisi epilettiche ma che in realtà non sono epilessie. Ecco alcuni esempi: Per corrispondenza:

Stefania Manetti e-mail: doc.manetti@gmail.com

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– gli spasmi affettivi, improvvisi “svenimenti” che un lattante può avere durante il pianto quando va in apnea e “trattiene il respiro”; – le sincopi, episodi di perdita di conoscenza legati a cause diverse dall’epilessia; – i disturbi del sonno, come gli episodi di pavor notturno e il sonnambulismo. Sarà il pediatra a formulare un sospetto diagnostico e quindi a consigliare, se necessari, altri esami o visite utili per arrivare a una diagnosi.

Come si fa la diagnosi?

È necessario riferire al pediatra tutte le informazioni sulla storia familiare e dare una descrizione precisa dell’episodio: la durata, i sintomi iniziali, le parti del corpo interessate e la perdita o meno di conoscenza. Tutto quello che accade prima e dopo la crisi convulsiva è un indizio importante per capire la sede del cervello da cui sono partite queste “scosse elettriche”. Per arrivare alla diagnosi sono necessarie una consulenza con il neuropsichiatra infantile e alcuni esami strumentali. L’elettroencefalogramma (EEG) viene richiesto per capire se siamo di fronte a una forma di epilessia, per identificare la sede da cui partono le scosse elettriche, l’efficacia di una terapia e per valutare il rischio di avere una nuova crisi. L’EEG da solo non dice tutto quello che c’è da sapere ma dev’essere integrato sempre alla storia clinica e familiare del bambino. È un esame indolore e semplice: si applica una cuffia con piccoli elettrodi in testa e si registra in questo modo l’attività elettrica del cervello. A volte può essere necessario effettuare questa registrazione durante il sonno del bambino. Dopo una prima crisi epilettica è utile effettuare subito un EEG, perché i risultati ottenuti sono più indicativi e precisi. In alcuni casi, se la diagnosi è difficile da effettuare, sono necessari esami come la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) o la Risonanza Magnetica Nuclea-

«Drago vago, serpe di mago Figlio e nipote di pesce di lago Dura, scura, nera paura Brutto fantasma di brutta figura… ». B. Tognolini, Filastrocca contro tutte le paure, in Rime Raminghe, Salani 2013

re (RMN) per poter avere delle “fotografie” speciali del cervello. Questi esami vanno prescritti se veramente necessari e su consiglio dello specialista.

Con l’epilessia bisogna assumere farmaci per sempre?

No. Dopo la prima crisi epilettica si può decidere di non assumere farmaci e monitorare nel tempo l’eventuale ricorrenza della crisi. Non sempre è necessario assumere farmaci per tutta la vita; in alcuni casi e per alcuni tipi di epilessie i farmaci, dopo uno-due anni senza crisi, vengono sospesi, sempre su decisione dello specialista. Qualora occorresse prendere una medicina per controllare le crisi epilettiche, sarà necessario fare degli esami di laboratorio per dosare i livelli del farmaco, regolarne le dosi e monitorare gli effetti collaterali della terapia.

Il bambino con epilessia è meno intelligente?

Le crisi epilettiche non riducono l’intelligenza o le capacità di apprendimento; ci sono farmaci per curare l’epilessia che possono però avere effetti negativi sull’apprendimento scolastico; sarà lo specialista in questi casi a valutare ogni situazione e a prescrivere, se necessario, il farmaco più adatto. Il bambino con epilessia potrebbe sentirsi umiliato dai compagni oppure i genitori potrebbero essere troppo protettivi limitando le sue normali esperienze e attività di gioco. Specie durante l’adolescenza questo può creare un disagio psicologico notevole.

Che cosa non può fare?

Al di fuori di sport estremi (alpinismo, paracadutismo, automobilismo, motociclismo, pugilato, immersioni subacquee…) si può praticare ogni sport, sempre sotto la sorveglianza di un adulto. Per praticare sport agonistici o ottenere la patente di guida è invece necessaria una valutazione dell’Autorità competente. u


Quaderni acp 2014; 21(3): 111-112

Sessione Comunicazioni orali al XXV Congresso Nazionale dell’Associazione Culturale Pediatri Pubblichiamo quattro abstract di ricerche e casi clinici selezionati per la presentazione orale al XXV Congresso Nazionale dell’ACP. Irradiazione medica in una popolazione pediatrica con MICI: cosa stiamo facendo? Giovanna Ventura, Floriana Zennaro, Mario de Denaro, F. Bulfone, Andrea Taddio IRCCS Materno-Infantile “Burlo Garofolo”, Trieste Per corrispondenza: e-mail: gioviventura@gmail.com

Background Ci sono evidenze crescenti che l’esposizione a radiazioni ionizzanti a basse dosi aumenti il rischio di tumore. I bambini affetti da malattia infiammatoria cronica intestinale (MICI) rappresentano una popolazione pediatrica particolarmente esposta a radiazioni ionizzanti. Obiettivi Valutare la dose efficace cumulativa (CED) di una popolazione pediatrica affetta da MICI seguita presso un centro di riferimento. Pazienti e metodi Si tratta di uno studio retrospettivo. Sono stati selezionati per lo studio tutti i pazienti che hanno ricevuto diagnosi di MICI e sono stati seguiti presso la Clinica Pediatrica dell’IRCCS “Burlo Garofolo” dal 1996 al 2012. Sono stati raccolti il numero e il tipo di indagini radiologiche irradianti l’addome. La CED è stata stimata tenendo conto della tecnica radiologica e dello strumento utilizzati, dell’epoca dell’esame e delle caratteristiche del paziente. Risultati preliminari Tra il 1996 e il 2012 sono stati diagnosticati e/o presi in cura 373 casi di MICI a esordio pediatrico. Di questi, 206 (55%) non hanno fatto esami radiografici. I risultati si riferiscono quindi a 167 soggetti che hanno fatto esami radiologici (70 femmine, 97 maschi, età media alla diagnosi 10,5 anni, follow-up medio 10 anni). Di questi, 148 pazienti avevano il morbo di Crohn (CD), 19 la rettocolite ulcerosa (RCU). La CED media è risultata 13,52 mSv. I pazienti con CD hanno una CED media di 14,10 mSv, quelli con RCU di 9,02 mSv. La dose di esposizione media nel primo anno è pari al 42,2% della CED (5,71 mSv). TAC addome, scintigrafia gastrointestinale, clisma opaco e serigrafia dell’intestino tenue hanno un peso relativo sulla CED rispettivamente di 42,8%, 19,7%, 9,2%, 14,1%. Conclusioni e discussione Circa la metà dei nostri pazienti non è mai stata sottoposta a esami irradianti. La dose efficace cumulativa dei pazienti che hanno ricevuto radiazioni ionizzanti è risultata inferiore rispetto a studi analoghi pubblicati in letteratura, mentre sono sovrapponibili la distribuzione della dose per diagnosi (CD o RCU) e il peso di ciascuna tecnica radiologica. Questo è probabilmente attribuibile alla specificità del nostro Centro e in particolare ai fattori che portano a privilegiare indagini non irradianti (la radiologia pediatrica, la sedazione procedurale per le endoscopie, la videocapsula senza studio fluoroscopico). Lo studio dimostra che la popolazione di bambini affetti da MICI diagnosticata nel nostro Centro è stata esposta a una dose di radiazioni moderata, secondo i range di riferimento in letteratura. Si tratta di una irradiazione importante, vista l’elevata probabilità di successiva irradiazione diagnostica durante l’età adulta. Il maggiore utilizzo della RMN in luogo della TAC nel prossimo futuro potrà ridurre ulteriormente

l’irradiazione dei pazienti con MICI seguiti presso il nostro Centro. La dose di radiazioni già ricevuta dal paziente in età pediatrica dovrebbe essere inclusa come informazione rilevante nel processo di transizione dal pediatra al gastroenterologo dell’adulto.

Cosa complica una diagnosi Elena Malpezzi, Valentina Decimi Scuola di Specializzazione in Pediatria, AO “San Gerardo”, Università di Milano-Bicocca, Monza Per corrispondenza: e-mail: elenamalpezzi@hotmail.it

Caso clinico Descriviamo il caso di Marco, giunto alla nostra osservazione a 8 mesi con una storia di rettorragia cominciata nel periodo perinatale, quando veniva riscontrata una ragade perianale, a cui si attribuiva l’origine del sanguinamento. A 6 mesi la ricomparsa del sintomo portava il bambino a due ricoveri, durante i quali veniva riscontrata un’anemia microcitica. Nel sospetto di allergia alle proteine del latte vaccino, veniva pertanto posta indicazione a dieta con latte idrolisato, con scarsa compliance familiare, che ne rendeva difficile la valutazione dell’efficacia. Visti prick test negativi e una sintomatologia sfumata e in regressione, dopo poche settimane veniva liberalizzata la dieta. Il nostro paziente manifestava inoltre alterazioni rapide dello stato neurologico associate a ipertono e tachipnea, senza perdita di coscienza, quasi sempre in concomitanza di rialzi della curva termica: tali episodi venivano interpretati come crisi convulsive febbrili e trattati con diazepam endorettale. Marco viene ricoverato da noi dopo uno di questi episodi, trasferitoci dalla Terapia Intensiva (TI), dove era stato ricoverato per episodio settico. Giunto alla nostra osservazione, notiamo un bambino in buone condizioni generali e con indici di flogosi in rapido calo; soprattutto conosciamo la mamma, da cui risulta difficile ricostruire l’anamnesi, in quanto ci presenta dei racconti caotici nella cronologia, incoerenti e dai quali sembra emergere che gli episodi di convulsioni siano in realtà brividi in corso di rialzo termico e che la rettorragia sia attribuibile a una ragade (tutt’ora presente), seguita da episodi di febbre e gastroenterite (coprocoltura positiva per ADV). Dopo due settimane di degenza dimettiamo il piccolo, sereni del fatto che l’ematochezia appare risolta e che sia stato un caso ingigantito da una famiglia inattendibile. Ma dopo tre giorni Marco torna: ha ripreso a presentare rettorragia. Nelle settimane seguenti il percorso diagnostico ricomincia: gli indici di flogosi fanno propendere per uno stato infiammatorio (PCR modesta, VES aumentata), la curva termica presenta picchi di febbre elevata, indipendenti dalle terapie antibiotiche, la rettorragia è quasi costante. Una ileocolonscopia (MICI? Polipi intestinali? Diverticoli?) mostra un’ansa ileale con mucosa iperemica, edematosa, microerosa, con un quadro istologico indicativo per lieve colite cronica aspecifica: anche la dieta priva di proteine del latte vaccino, iniziata ex adiuvantibus, non porta ad alcun beneficio clinico. Dall’età di 9 mesi però, iniziano a delinearsi più chiaramente episodi postprandiali di verosimile “dolore addominale”, caratterizzati da sudorazione profusa e pianto: dopo aver eseguito un Rx del transito intestinale (esclusi ostruzioni, volvolo, malrotazione), una scintigrafia intesti-

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research letters

Quaderni acp 2014; 21(3)

nale (negativa per diverticolo di Meckel), ecografie seriate, in corso degli episodi dolorosi, documentano un ispessimento di 3 mm dell’ultima ansa ileale con invaginazione del tratto a monte. Il successivo intervento in laparotomia evidenzia la presenza di un tratto di ileo-cieco edematoso e tumefatto, facilmente sanguinante, che viene asportato: un’angiomatosi diffusa all’istologia. Conclusioni Gli angiomi intra-addominali sono neoplasie benigne rare, che interessano prevalentemente bambini sotto i 2 anni. La diagnosi è spesso difficile: ecografia, TC e RMN, utili per la diagnosi di angiomi di altre sedi, hanno bassa sensibilità. Il sanguinamento intestinale è talora l’unico “sintomo-guida” che conduce alla loro diagnosi.

con ecografia, e in caso di dubbi con RMN. Le immagini alla nascita possono costituire utile termine di paragone in caso di patologia successiva o sovrainfezione. In caso di meningite atipica o ricorrente in un soggetto con fossetta spinale, la presenza di tramite fistoloso va sempre sospettata e riconsiderata come causale, anche in presenza di pregresso imaging negativo, soprattutto se effettuato in epoca precoce. L’intervento chirurgico è solitamente preferibile in elezione dopo risoluzione dell’acuzie infettiva, a meno di una mancata risposta alla terapia medica che mette a rischio il paziente di mortalità e morbilità a distanza per l’infezione protratta.

Meningite polimicrobica in bambina con cisti dermoide intrarachidea infetta

Naire Sansotta, Orsiol Pepaj, Franco Antoniazzi Unità Operativa di Pediatria, Università degli Studi di Verona Per corrispondenza: e-mail: pepaj.orsiol@gmail.com

Federica Zucchetti*, V. Tono*, Francesco Canonico**, Carlo Giussani***, Elena Sala*, Maria Luisa Melzi* *Clinica Pediatrica, Fondazione MBBM, AO “San Gerardo”, Monza **Unità di Neuroradiologia, AO “San Gerardo”, Monza ***UO di Neurochirurgia, AO “San Gerardo”, Monza Per corrispondenza: e-mail: federica.zucchetti@gmail.com

Caso clinico Presentiamo il caso di una bambina di 3 anni, ricoverata per sospetta spondilodiscite; la paziente presentava, al momento del ricovero, febbre da dieci giorni e dolore lombare. Da segnalare all’esame obiettivo angioma mediano lombosacrale con fossetta lombare, indagato all’età di 6 mesi con risonanza con riscontro di fossetta a fondo cieco, non in comunicazione con il sacco durale. All’ingresso in reparto viene posta in terapia con cefazolina e vengono eseguiti radiografia del rachide dorso-lombare e del torace, ecografia addome, ecocardiogramma e indici di flogosi: nella norma. Per il persistere della sintomatologia e il peggioramento delle condizioni cliniche, viene eseguita rachicentesi in terza giornata di ricovero con evidenza di pleiocitosi neutrofila, ipoglicorrachia e iperproteinorrachia. È stata quindi sospesa cefazolina sono stati iniziati ceftriaxone e desametasone. Durante la terapia steroidea apiressia, rachialgia e rigor persistenti. Per il riscontro di positività liquorale per Enterococcus faecalis e per la ripresa della febbre viene aggiunta alla terapia vancomicina, poi sostituita da ampicillina e amikacina, sospendendo ceftriaxone, senza beneficio. Alla rachicentesi ripetuta in quarta giornata il liquor è in peggioramento, positivo per Proteus mirabilis ed enterovirus: viene quindi modificata la terapia associando linezolid ad ampicillina e gentamicina, sospendendo amikacina. Per il quadro inedito e la presenza di fossetta sacrale è stata effettuata una risonanza del rachide nel sospetto di focolaio occulto; le immagini, confrontate con la RMN effettuata a 6 mesi di vita, hanno permesso di evidenziare una raccolta ascessuale intrarachidea a partenza dalla fossetta lombare, con indicazione a eseguire evacuazione chirurgica della stessa. In sede di intervento riscontro di tratto di seno dermico a partenza dalla fossetta lombare esteso fino a livello durale. All’incisione della dura, fuoriuscita di liquor purulento e riscontro di voluminosa cisti dermoide a prosecuzione dal seno dermico. Il decorso post-operatorio è stato regolare con sfebbramento, normalizzazione della clinica e degli esami ematici. Dopo l’intervento sospesa terapia con ampicillina e gentamicina, sostituita con meropenem, associato a linezolid per tre settimane. È stato inoltre proseguito desametasone a basso dosaggio per dieci giorni a scopo antiedemigeno. Nel post-ricovero la bambina ha eseguito visita fisiatrica, audiometria e test di sviluppo intellettivo per il follow-up di eventuali sequele. Attualmente la bambina è in buone condizioni di salute e non presenta esiti di malattia. Conclusioni In presenza di anomalie cutanee suggestive di malformazione spinale occulta è opportuno effettuare accertamenti strumentali e valutazione neurochirurgica alla nascita in prima battuta 112

La sete passa, ma… Caso clinico Francesca è una ragazzina di 11 anni e 8 mesi che giunge presso il nostro ambulatorio di Endocrinologia pediatrica per arresto di crescita (< 3º percentile), calo ponderale di 5 kg negli ultimi cinque mesi, in recente quadro diagnosticato come potomania. Anamnesi patologica remota poco significativa: lieve prematurità (32 settimane) senza esiti, due-tre episodi di infezioni delle vie urinarie nei primi anni di vita, non associati a malformazioni. Un anno prima, comparsa di polidipsia (assume circa 4 litri al giorno) e poliuria (riferite 8-9 minzioni). Per tale motivo, è stata ricoverata presso altra sede dove era sottoposta a esami ematochimici (osmolarità plasmatica 290 mOsm/kg, osmolarità urinaria 347 mOsm/kg) e test dell’assetamento che ha documentato un incremento della concentrazione urinaria con parametri laboratoristici di osmolarità sierica e ioni sempre entro i range di normalità. I valori di ormone antidiuretico (ADH) risultavano indosabili, ma venivano interpretati come secondari a eccesso di introito di liquidi. Viene posta diagnosi di potomania e consigliata restrizione idrica (1,5 l/die). Francesca ci racconta che ora pratica la restrizione idrica senza particolare sofferenza, ma perde peso, anche se il suo appetito le sembra normale e lamenta cefalea frontale a frequenza plurisettimanale. Alla nostra visita si presenta in buone condizioni generali, a eccezione di un aspetto pallido, occhi alonati e un’alopecia areata già in terapia topica. Si pensa: patologia ipofisaria (deficit di ormone della crescita = GH, diabete insipido parziale) o potomania con disturbo dell’alimentazione? Agli accertamenti emato-chimici: profilo biochimico nella norma a eccezione di lieve ipovitaminosi D, assetto tiroideo, assetto ormonale (ACTH, cortisolo, FSH, LH, HPRL) e ioni nella norma (Na 141 mEq/l). Al carico di arginina si evidenzia deficit di GH (picco 3,8 mg/l). Esame urine: ps 1004, pH 5,5, resto nella norma; volume urinario: 2500 ml/24 ore (80 ml/kg/24 ore); osmolarità plasmatica: 288 mOsm/kg/H2O; osmolarità urinaria: 161 mOsm/kg/H2O e ADH: in corso. Sottoponiamo pertanto Francesca a RMN encefalo e ipofisi che mostra una neoformazione della cavità sellare di 26 x 22 mm con coinvolgimento del seno cavernoso, chiasma ottico e recesso sovra-ottico del terzo ventricolo. Alla scansione TAC encefalo non si evidenziano calcificazioni: pertanto i radiologi concludono per verosimile macroadenoma ipofisario. Sottoposta a intervento chirurgico di resezione transfenoidale per via endoscopica nasale, Francesca inizia terapia sostitutiva (idrocortisone, levotiroxina e desmopressina). Ma la sua storia non finisce qui! All’esame istologico si evidenzia germinoma cerebrale e intanto arrivano i risultati dell’ADH: concentrazione indosabile. Dovrà essere sottoposta a chemioterapia. Ma quel test di assetamento era veramente negativo o si trattava già di diabete insipido parziale? Attenzione perché, se dopo deprivazione di fluidi, l’osmolarità urinaria è < 300 mOsm/kg può essere posta diagnosi di diabete insipido, se invece questa è compresa tra 300 e 750 mOsm/kg può essere potomania, ma anche diabete insipido parziale! u


Quaderni acp 2014; 21(3): 113-117

Coppie infertili, procreazione medicalmente assistita e salute infantile Pierpaolo Mastroiacovo, Carlo Corchia ICBD, Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects and Prematurity, Roma

La procreazione medicalmente assistita (PMA) è un atto medico ed è quindi necessario conoscerne i vantaggi e soprattutto i rischi, secondo il dettato “primum non nocere”. Il contributo pubblicato in questo numero di Quaderni è, per l’appunto, focalizzato sui rischi della PMA per la salute infantile e integra da una prospettiva diversa i precedenti due interventi, che si muovevano nella sfera del sentire comune e del diritto. Gli Autori sono Pierpaolo Mastroiacovo e il sottoscritto. Nel frattempo, l’8 aprile scorso c’è stato un altro pronunciamento della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge 40 per la parte che riguarda la fecondazione eterologa. Questo è il comunicato stampa della Corte: “La Corte Costituzionale, nell’odierna Camera di Consiglio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3, 9, commi 1 e 3 e 12, comma 1, della Legge 19 febbraio 2004, n. 40, relativi al divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita”. Il Forum sulla PMA sta per terminare. I vostri commenti possono essere inviati collegandosi al sito di Quaderni (www.quaderniacp.it) e cliccando su “invia un articolo o scrivi alla redazione”, oppure direttamente al mio indirizzo di posta elettronica (corchiacarlo@virgilio.it). Carlo Corchia

La procreazione medicalmente assistita (PMA) è un atto medico, nel quale vengono impiegate tecnologie, procedure, conoscenze e professionalità. Come per ogni atto medico è necessario conoscerne vantaggi e rischi. In questo articolo ci occuperemo dei rischi, cioè dei possibili esiti sfavorevoli associati alla PMA in generale e, in particolare, alle tecniche di riproduzione assistita (Artificial Reproductive Techniques, ART), che comprendono essenzialmente la fecondazione in vitro (IVF) e la iniezione intracitoplasmatica di spermatozoo (ICSI). I rischi della procreazione assistita, soprattutto per i feti e i bambini, sono stati oggetto di attenzione crescente da quando, nel 1978, nacque nel Regno Unito la prima neonata concepita con IVF. L’interesse è motivato: a) dal fatto che con le ART i gameti sono manipolati al di fuori dell’apparato riproduttivo materno; b) dalla diffusione di sempre nuove tecniche di prelievo e di conservazione degli stessi gameti, di modalità di fecondazione, conservazione e trasferimento degli embrioni. In questo articolo viene illustrato lo stato attuale delle conoscenze su tali aspetti, ricorrendo ai risultati delle revisioni sistematiche e dei grandi studi di coorte più recenti pubblicati nella letteratura in lingua inglese. In via preliminare vengono fatte alcune brevi considerazioni metodologiche, allo scopo di rendere più chiari i termini del problema e di facilitare l’interpretazione dei risultati delle ricerche.

Considerazioni metodologiche

Quando studi diversi confermano la presenza di un’associazione tra un fattore di rischio e un esito, occorre sempre escludere la possibilità che si tratti di un’associazione spuria derivante da confondimento o bias. Nel nostro caso l’età della coppia, il suo stato socio-economico, la durata del periodo di infertilità e i motivi dell’infertilità (confondimento da indicazione) sono variabili confondenti; è fondamentale pertanto includerle nel piano di rilevazione per poterle poi prendere in considerazione nell’analisi dei dati. I bias provocano distorsioni nella stima della direzione e della forza delle associazioni, cioè dei Rischi Relativi (RR) e degli Odds Ratios (OR). Alcuni esempi sono i bias da ricordo (recall bias) e soprattutto, per quel che riguarda la PMA, i bias da accesso ai servizi sanitari e quelli da sorveglianza o da attenzione medica. Poiché le persone che si rivolgono alla fecondazione assistita tendono a utilizzare i servizi sanitari di più e meglio del resto della popolazione, questo può influire positivamente sugli esiti perinatali, riducendo la differenza di rischio tra i due gruppi. Al contrario, la sorveglianza e l’accertamento degli esiti possono essere migliori in caso di PMA, con aumento della frequenza dei problemi diagnosticati e, di conseguenza, del differenziale di rischio rispetto a chi ha avuto una gravidanza naturale. Se i vari bias non vengono previsti in fase di progettazione dello studio e non se ne tiene conto nella raccolta dati, i risultati delle ricerche possono essere più o meno

viziati, e sarà impossibile conoscere l’entità della distorsione ed effettuare correzioni in fase di analisi. È necessario, inoltre, chiedersi che cosa della PMA contribuisce all’aumento di rischio: i farmaci impiegati, le procedure di laboratorio, la manipolazione degli embrioni, la fisiologia materna, le caratteristiche materne e paterne? Alcune di queste variabili sono veri e propri confondenti, altre sono variabili intermedie nella catena causale che va dal motivo che induce a richiedere la fecondazione assistita (infertilità o altro) agli esiti in gravidanza e per i bambini. Non tenerne conto non è d’aiuto per la ricerca che mira ad aumentare le possibilità di successo della PMA riducendo i rischi, anche attraverso modifiche delle tecniche impiegate [1]. Quando non esistono sistemi di sorveglianza e follow-up specificamente disegnati per studiare in modo approfondito questi aspetti, spesso vengono utilizzati registri e basi di dati creati per altri scopi [2]. In Italia, il Registro Nazionale della Procreazione Medicalmente Assistita raccoglie i dati dei Centri di PMA in forma aggregata, con l’obiettivo di valutare le percentuali di successo, e solo poche informazioni sulle caratteristiche dei neonati al momento del parto, in particolare sulla prematurità [3]. In mancanza di record-linkage individuali tra i dati del registro e quelli di morbosità, mortalità e follow-up, nessuna indagine approfondita è, pertanto, possibile. Gli studi della letteratura sono prevalentemente retrospettivi, spesso usano differenti definizioni per l’esposizione e per gli esiti, possono avere popolazioni di

Per corrispondenza:

Pierpaolo Mastroiacovo e-mail: icbd@icbd.org

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controllo inappropriate, frequentemente sono di dimensioni ridotte e solo recentemente hanno iniziato a presentare dati di follow-up a distanza [4]. Tutto ciò non agevola l’analisi e l’interpretazione dei loro risultati.

Gravidanze plurime

Le gravidanze plurime rappresentano la “complicanza” più frequente della PMA; la loro quota è in relazione col numero di embrioni trasferiti. In Italia i parti plurimi dopo PMA costituiscono circa il 18% del totale*. La maggior parte dei nati plurimi dopo fecondazione assistita è dizigote e origina dal trasferimento multiplo di embrioni. Vi è comunque anche una quota di monozigoti, compresa tra l’1% e il 5% dei casi di ART; tale frequenza è più elevata di quanto si riscontra nella popolazione generale (0,4%) e appare essere in relazione con alcune particolari tecniche di coltura in vitro e di trasferimento di blastocisti [2]. Il problema dei parti plurimi è sostanzialmente quello della prematurità e dei rischi a essa associati [5]. In Europa il tasso di prematurità nei nati da gravidanza plurima varia dal 42% al 78%, e la proporzione di tutti i nati pretermine attribuibile alla pluralità è compresa tra il 17% e il 27% [6]. In Italia la quota di pretermine fra i gemelli e i nati da gravidanze plurime dopo ART è rispettivamente del 46% e dell’84%, mentre, come è noto, la frequenza di prematurità nella popolazione generale è intorno al 7% [3]. La gravidanza gemellare dopo IVF o IVF/ICSI comporta, rispetto alla gravidanza gemellare naturale, un aumento del 23% del rischio di prematurità; l’incremento di rischio è ancora più elevato (+63%) per la nascita a età gestazionali (EG) <32-33 sett. [7]. Per quanto a parità di EG i nati pretermine da gravidanza plurima dopo PMA non siano maggiormente affetti da problemi neonatali di quelli concepiti naturalmente, i nati pretermine sono comunque ad alto rischio di esiti sfavorevoli [8]. L’azione più efficace per ridurre la probabilità di questi esiti è prevenire la nascita pretermine e quindi, nel caso della PMA, evitare che una gravidanza gemellare o plurima abbia inizio, in particolare mediante norme e procedure che consentano il trasferimento in utero di non più di uno-due embrioni per volta [2]. 114

Quaderni acp 2014; 21(3)

CHE

NE PENSI?

In questo articolo abbiamo scelto di presentare i valori di incremento o diminuzione di rischio come percentuale e senza intervallo di confidenza al 95%, essendo tutti statisticamente significativi, cioè con intervallo di confidenza che non include l’unità. Per esempio abbiamo espresso un OR o RR di 1,47 (IC 95%: 1,23-1,61) come “incremento del rischio del 47%” oppure (+47%). Questa scelta tende a una maggiore immediatezza e semplicità del messaggio. Non ne siamo convinti del tutto. Voi che ne pensate? Scrivete al Direttore della Rivista o al curatore della rubrica. TABELLA 1: INCREMENTO DI RISCHIO DI ESITI OSTETRICI E PERINATALI ASSOCIATI A FECONDAZIONE ASSISTITA IN GRAVIDANZE SINGOLE Autori

Esiti

Incremento % di rischio

Pandey S, et al. 2012 [9]

Emorragia ante-partum Ipertensione in gravidanza Diabete gestazionale Limitazione di crescita in utero PROM Parto pretermine Anomalie congenite Travaglio indotto Taglio cesareo Mortalità perinatale

+ + + + + + + + + +

McDonald S, et al. 2009 [10]

Nascita a 32-36 sett. EG Nascita < 32-33 sett. EG

+ 052 + 127

Schieve LA, et al. 2007 [11]

Incompetenza cervicale Placenta previa Distacco di placenta

+ 500 + 280 + 280

Henriksson P, et al. 2013 [12]

Tromboembolia venosa Embolia polmonare (1º trimestre)

+ 077 + 597

149 049 048 039 016 054 067 018 056 086

TABELLA 2: INCREMENTO DI RISCHIO DI DIFETTI CONGENITI ASSOCIATI A TECNICHE DI FECONDAZIONE ASSISTITA (ART) Autori

Esiti

Wen J, et al. 2012 [14]

Tutti i difetti Sistema nervoso Sistema genitourinario Apparato digerente Sistema circolatorio Sistema muscoloscheletrico Occhio, orecchio, faccia e collo

+ + + + + + +

037 101 069 066 064 048 043

Reefhuis J, et al. 2009 [15] (gravidanze singole)

Difetti cardiaci settali Labioschisi Atresia esofagea Atresia ano-rettale

+ + + +

110 140 350 270

Halliday JL, et al. 2010 [16] (gravidanze singole)

Difetti della blastogenesi, IVF/ICSI IVF ICSI Tecniche a fresco Congelamento

+ 180 + 224 + 133 + 265 + 060*

* Non statisticamente significativo

Incremento % di rischio


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Gravidanze singole ed esiti ostetrici e perinatali

Un aumento di rischio di esiti ostetrici e perinatali associati a PMA è stato riscontrato soprattutto nelle gravidanze singole (tabella 1). In una metanalisi di 30 studi di coorte, la fecondazione con IVF/ICSI è risultata associata a incrementi di rischio da un minimo del 16% per la rottura prematura delle membrane (PROM) a un massimo del 149% per l’emorragia ante-partum. L’aumento di probabilità di nascita pretermine è risultato del 50% circa [9]. Stime simili, tratte da altre tre revisioni sistematiche, erano state presentate in uno studio precedente [5]. In un’altra revisione sistematica, che ha preso in esame l’effetto dell’IVF sulla prematurità nelle gravidanze singole, l’incremento di rischio è risultato tanto più alto quanto più bassa era l’EG [10]. In uno studio di popolazione su gravidanze singole nel Massachusetts, un aumento di rischio è stato osservato anche per incompetenza cervicale, placenta previa e distacco di placenta [11]. In uno studio svedese in cui le donne erano state accoppiate per età e anno di osservazione è stato riscontrato un aumento di rischio per problemi tromboembolici venosi associato a IVF durante tutto l’arco della gravidanza ma soprattutto nel primo trimestre. Nello stesso studio è risultato notevolmente aumentato anche il rischio di un esito raro come l’embolia polmonare, ma solo nel primo trimestre di gravidanza [12]. Le cause dell’aumento di frequenza di esiti ostetrici e perinatali in caso di IVF nelle gravidanze singole non sono ancora chiare. In uno studio che ha utilizzato i dati di un registro nazionale di IVF, la primiparità, il fumo, il BMI elevato e la presenza di un “gemello evanescente” erano associati a rischio aumentato di nascita prima di 32 sett.; l’età materna, la primiparità, il fumo, il BMI elevato e gli anni di infertilità erano associati a limitazione di crescita in utero; il rischio di placenta previa era aumentato in presenza di età materna avanzata e di trasferimento di blastocisti, e diminuito in caso di primiparità; il distacco di placenta, infine, era associato al fumo in gravidanza [13].

Difetti congeniti

Un rischio aumentato di avere bambini con difetti congeniti dopo IVF o ICSI è

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stato confermato in una metanalisi di 46 studi, con un incremento medio del 37% [14]. La relazione era presente per tutte le categorie di difetti, con aumento massimo del 101% per i difetti del sistema nervoso e minimo del 43% per quelli di occhio, orecchie, faccia e collo. Nello stesso studio nessuna differenza è emersa tra IVF e ICSI (tabella 2). Il rischio sembra aumentare in particolare per alcuni difetti. Da una analisi dei dati delle gravidanze singole del National Birth Defects Prevention Study statunitense è stata osservata un’associazione tra ART e i difetti cardiaci settali, la labioschisi con o senza palatoschisi, l’atresia esofagea e l’atresia ano-rettale [15]. Dai dati di un registro australiano di popolazione l’impiego di ART (IVF e ICSI) è risultato soprattutto associato a un aumento di rischio dei cosiddetti difetti della blastogenesi [16]. Si tratta di difetti gravi che originano nelle prime 4 settimane dal concepimento e che comprendono, tra quelli più noti, i difetti della parete addominale, i difetti di segmentazione vertebrale, la fistola tracheo-esofagea, i difetti del diaframma, i difetti del tubo neurale, l’atresia ano-rettale, l’agenesia renale, la sindrome di regressione caudale e il teratoma sacro-coccigeo. Nelle gravidanze singole l’incremento di rischio è risultato di +180% per tutte le ART insieme, di +224% per l’IVF e di +133% per l’ICSI. Sempre nello stesso studio e sempre per i difetti della blastogenesi l’aumento di rischio era collegato soprattutto all’impiego di tecniche a fresco (+265%), mentre era inferiore e statisticamente non significativo in caso di trasferimento di embrioni congelati (+60%). Da segnalare, infine, l’aumento di rischio, a seguito di ART, di fenotipi da imprinting, come le sindromi di SilverRussell, di Beckwitt-Wiedemann e di Angelman, anche se la frequenza complessiva di questi difetti, a seguito di ART, rimane comunque bassa, inferiore a 1:5000 [17]. I motivi che provocano l’incremento di rischio non sono ancora chiari, ma è probabile che possano essere collegati a modifiche epigenetiche durante le primissime fasi di sviluppo dell’embrione, momento in cui l’epigenoma è altamente vulnerabile [18].

Tecniche di riproduzione assistita o infertilità?

La domanda più rilevante è se l’aumento dei rischi ostetrici, perinatali e per difetti

congeniti, sia dovuto alle tecniche di riproduzione assistita o a fattori parentali collegati all’infertilità. Usualmente si parla di infertilità in assenza di concepimento dopo un anno o più di rapporti sessuali non protetti, ma le definizioni sono eterogenee, anche per gli studi inclusi nelle metanalisi. In uno studio di coorte in Sud Australia l’aumento di rischio di difetti congeniti in gravidanze singole derivanti da PMA a confronto con gravidanze naturali in donne senza storia di infertilità è risultato pari al 28%; un aumento di rischio è stato rilevato per l’ICSI in caso di uso di tecniche a fresco, non per l’impiego di embrioni congelati, mentre per l’IVF non è stata rilevata alcuna differenza [19]. Un’associazione con un rischio aumentato di difetti congeniti è stata anche osservata per tutti gli altri metodi di fecondazione assistita, in particolare per l’uso isolato del clomifene (+219%). Nel caso di gravidanze spontanee in donne che avevano avuto un precedente figlio con concepimento assistito e in donne con documentata storia di infertilità ma che non avevano fatto ricorso a PMA il rischio era aumentato rispettivamente del 26% e del 37%. Questi risultati confermano quelli di un precedente studio danese e dimostrano che i fattori collegati all’infertilità hanno un ruolo indipendente, rispetto alle tecniche di PMA, nell’aumento di rischio di difetti congeniti, anche se, come sottolineano gli stessi Autori, non si può escludere la presenza di confondimento residuo per variabili non rilevate dai registri, come per esempio l’uso di clomifene [20]. Il congelamento potrebbe svolgere il suo “effetto protettivo” sullo sviluppo di difetti congeniti attraverso la selezione degli embrioni “migliori” e più vitali; alternativamente o in aggiunta, le tecniche a fresco potrebbero compromettere la recettività endometriale, e quindi l’ambiente endouterino, in conseguenza dell’esposizione alle alte dosi di ormoni utilizzate prima del prelievo degli ovociti, i quali, una volta fecondati, vengono immediatamente trasferiti in utero [16]. Il trasferimento di embrioni conservati con tecniche di congelamento, piuttosto che l’impiego di tecniche a fresco, comporterebbe anche un rischio inferiore di altri esiti perinatali, quali prematurità e crescita fetale limitata, come sembrano indicare i risultati di uno studio di popo115


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lazione retrospettivo effettuato in Danimarca, Norvegia e Svezia [21]. L’associazione tra ART e prematurità, basso peso, limitazione di crescita in utero e mortalità perinatale è stata riscontrata anche in uno studio di coorte norvegese in gravidanze singole indipendentemente dall’impiego di tecniche a fresco [22]. In una metanalisi di 14 studi, inoltre, il rischio combinato e aggiustato di parto pretermine in caso di lungo intervallo temporale, non meglio definito dagli Autori, prima dell’inizio naturale di una gravidanza desiderata è risultato aumentato del 38%. [23]. Gli Autori concludono che i rischi delle tecniche di PMA non potranno essere adeguatamente valutati fino a quando non saranno chiariti gli effetti dell’infertilità e di tutti i fattori a essa connessi. In un’altra metanalisi di 65 studi in gravidanze singole, se il periodo di infertilità era stato >1 anno, il rischio di parto pretermine associato a IVF/ICSI a confronto di gravidanze iniziate spontaneamente è risultato aumentato del 55%; se il periodo di infertilità era stato <1 anno, l’incremento (+45%) di prematurità era presente quando il concepimento era avvenuto dopo l’uso di induttori dell’ovulazione e/o inseminazione intrauterina [24]. Il rischio è risultato aumentato (+27%) in caso di impiego di IVF/ICSI in madri che avevano avuto anche un’altra gravidanza insorta spontaneamente. Una riduzione del rischio si è osservata per l’ICSI a confronto con l’IVF (-20%) e quando erano stati impiegati embrioni congelati invece che ottenuti con tecniche a fresco (-15%). Pertanto, nonostante l’infertilità sia un fattore di rischio indipendente di nascita pretermine, l’incremento di rischio derivante dall’uso della PMA sembra essere reale ed è probabilmente in relazione anche con le tecniche impiegate, in particolare con l’uso di induttori dell’ovulazione e di tecniche a fresco con lunghi periodi di coltura.

Effetti a distanza

I risultati delle indagini sugli esiti a distanza nei nati da PMA vanno analizzati e interpretati con cautela. Alcuni piccoli studi di follow-up suggeriscono un possibile aumento della frequenza di ipertensione, iperglicemia a digiuno, aumento del grasso corporeo, età ossea avanzata e disordini subclinici della tiroide nei bambini e adolescenti nati con IVF [25]. È probabile comunque che la 116

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relazione non sia di tipo causale ma dovuta all’associazione con altre variabili confondenti legate alla PMA, come quelle cui abbiamo già accennato nelle considerazioni metodologiche. Da oltre un decennio diversi studi hanno riscontrato un aumento di rischio di paralisi cerebrale (PC) nei nati da fecondazione assistita. In uno dei più recenti, effettuato in Australia e nel quale sono stati esclusi i casi di malattia originatisi in periodo post-natale, è stato riscontrato un aumento di PC nei nati da gravidanza singola pari al 120% [19]. È stato ipotizzato che tale incremento possa essere dovuto alla più alta frequenza di prematurità, di gravidanze plurime e di casi di “gemelli evanescenti” nei nati con fecondazione assistita, oltre che a fattori legati all’infertilità. In effetti, nell’indagine australiana appena citata, il risultato non era stato aggiustato per EG. In uno studio danese che ha utilizzato i dati di una coorte nazionale di nati e quelli del registro nazionale delle PC, nessun incremento di rischio di PC è stato riscontrato in relazione alla durata del periodo precedente l’inizio naturale della gravidanza; in caso di IVF/ICSI, invece, l’incremento di rischio, aggiustato per EG e gemellarità, è risultato pari al 130% [26]. Non è possibile pertanto escludere che le ART comportino, indipendentemente da altri fattori, un aumento della probabilità di sviluppare PC nei bambini concepiti per mezzo di queste tecniche. Una revisione sistematica di 80 studi ha preso in esame gli esiti cognitivi e comportamentali, lo sviluppo emotivo e psicomotorio e la presenza di malattie mentali [27]. Al momento e nonostante i limiti di molti studi inclusi nella revisione, si può ritenere che lo sviluppo neuroevolutivo dopo concepimento con ART sia nel complesso sovrapponibile a quello che si osserva in caso di concepimento naturale. In un altro studio, gli stessi Autori di questa revisione, utilizzando i dati del registro danese e tenendo in considerazione anche variabili in relazione con le condizioni sociali, non hanno riscontrato alcuna relazione tra problemi mentali e IVF o ICSI; hanno invece osservato un aumento di rischio associato all’uso di induttori dell’ovulazione, con o senza successiva inseminazione, per quel che riguarda problemi mentali nel complesso (+20%), disordini dello spettro autistico (+20%), disturbi ipercinetici (+23%), disturbi della con-

dotta, emotivi e sociali (+21%) e presenza di tic (+51%) [28]. Secondo osservazioni per ora limitate, e che pertanto richiedono conferme da studi metodologicamente ben condotti, è stato anche riscontrato un aumento della frequenza di depressione e di tendenza ad abuso di alcol in giovani adulti nati dopo IVF [29]. In base ai risultati di una metanalisi di 25 studi, i bambini nati dopo trattamenti per l’infertilità hanno un rischio aumentato di cancro in generale (+33%), di tumori linfoemopoietici (+59%), di tumori del sistema nervoso (+88%) e di altri tumori solidi (+119%). Per quel che riguarda particolari tipi di tumori, il rischio è più elevato per leucemie (+65%), neuroblastoma (+304%) e retinoblastoma (+62%) [30]. Anche in questo caso, tuttavia, le conclusioni degli Autori sono che i risultati non escludono la possibilità che all’aumento di rischio contribuiscano, in parte o totalmente, fattori legati all’infertilità. Dall’analisi dei dati del registro svedese delle nascite è stata riscontrata un’associazione persino tra asma in età pediatrica e IVF; tale associazione, tuttavia, scompare se nell’analisi si tiene conto della durata del periodo di infertilità [31].

Infine, cosa si può dire?

Nonostante i limiti metodologici degli studi e pur tenendo conto dell’infertilità e dei molti fattori ancora sconosciuti a essa collegati, l’associazione tra la PMA e il rischio di esiti perinatali e in età pediatrica sembra essere reale. Vanno ricordati, in particolare, alcune complicanze della gravidanza, la gemellarità, la prematurità, certi difetti congeniti, la mortalità perinatale. Al momento non si può del tutto escludere che vi sia un aumento di rischio anche per problemi e patologie dell’età pediatrica, fra cui problemi neurologici e neuroevolutivi e malattie tumorali. Peraltro, parlare in generale dei rischi della PMA è poco informativo e di scarsa utilità. L’uso di induttori dell’ovulazione da soli o associati a inseminazione intrauterina, il trasferimento di embrioni a fresco e le colture embrionali prolungate appaiono le tecniche che più di altre comportano un rischio maggiore di esiti sfavorevoli. Che cosa poi sia responsabile a livello biologico e molecolare dell’incremento di rischio è ancora oggetto di studio e di ipotesi [32]; come abbiamo visto per alcune patologie, è possibile vi contribuiscano anche fattori epigenetici e


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QUALI

SONO GLI ASPETTI SALIENTI DI CUI ABBIAMO PARLATO?

La PMA, indipendentemente dai fattori legati all’infertilità di coppia, si associa a un rischio aumentato di alcuni esiti perinatali, in particolare prematurità e difetti congeniti e, forse, anche di patologie in età pediatrica. Il fattore di rischio più rilevante è rappresentato dalle gravidanze gemellari e plurime. Fra le tecniche, quelle maggiormente associate a esiti sembrano essere l’uso di induttori dell’ovulazione e le tecniche a fresco. Molti sono ancora i fattori non completamente noti responsabili dei rischi associati alla PMA, tra cui fenomeni epigenetici e di imprinting genomico.

legati all’imprinting genomico [1]. È fuor di dubbio che la più efficace misura preventiva per ridurre la probabilità di esiti negativi legati alla PMA è quella di evitare, per quanto possibile, le gravidanze plurime [33]. In questo intervento nel Forum sulla PMA si è solo parlato di associazioni e di incremento di rischio, per cercare di fornire delucidazioni in merito alle eventuali relazioni causali tra i metodi impiegati e gli esiti. Altri due aspetti sono tuttavia fondamentali. I risultati delle ricerche devono prima di tutto essere utilizzati per informare le persone che si rivolgono alla fecondazione assistita. A questo scopo è necessario tener conto non solo dei rischi relativi, ma conoscere anche la frequenza di base dell’esito in questione; solo così, infatti, è possibile fornire una stima dell’incremento assoluto di rischio. In secondo luogo, gli stessi risultati possono essere utilizzati per conoscere l’impatto della PMA sulla popolazione nel suo complesso; per questo, tuttavia, è necessario non solo conoscere la frequenza di base degli esiti e stimare il rischio relativo legato all’esposizione, ma anche sapere la quota, sul totale, della popolazione esposta. Tutto ciò si può ottenere solo disponendo di registri con informazioni quanto più complete possibili sulle donne che si rivolgono alla PMA, sulle tecniche impiegate e sugli esiti perinatali e a lungo termine dei bambini nati con questi metodi, con possibilità di analizzare i dati individuali, ancorché resi anonimi, e non solo in forma aggregata. In Italia, purtroppo, date le regole e la legislazione vigente sull’uso dei dati sanitari, è molto difficile fare ricerca in questo campo. u Bibliografia La bibliografia è disponibile nella versione online.

* Ministero della Salute. Relazione del Ministro della Salute al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita. Roma 2013.

CANDIDATURE PER IL CONSIGLIO DIRETTIVO da votare al prossimo Congresso ACP - 2014 Pubblichiamo i nomi e i curricula dei candidati al Consiglio direttivo ACP pervenuti in tempo utile per le scadenze della rivista. Si ricorda ai soci che può essere votato qualsiasi socio ACP, anche non ufficialmente candidato, purché iscritto da almeno un anno. LAURA DELL’EDERA Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1979, Specializzazione in Puericultura nel 1982, perfezionata in Neonatologia nel 1985, presso l’Università degli Studi di Bari. Pediatra di famiglia presso la ASL BA nel Comune di Rutigliano (BA). Animatore di formazione. Iscritta all’ACP dal 1996, vicepresidente dell’ACP Puglia e Basilicata dal 2007 al 2009, ha collaborato alla organizzazione di numerosi corsi per il Gruppo ed è stata fino al 2010 webmaster del sito dell’ACP Puglia e Basilicata. Attualmente impegnata in veste di pediatra nell’ambito degli incontri del Percorso Nascita presso il Consultorio di Rutigliano. Tutor incaricato nella Scuola di Specializzazione di Pediatria dell’Università di Bari. Interessi: sostegno e promozione dell’allattamento al seno, approfondimenti in tema di maltrattamento e abuso sui minori. DANIELE DE BRASI Nato a Napoli il 30-1-1965. Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Napoli “Federico II” nel 1989. Dal 1989 al 1993 ha svolto il Corso di specializzazione in Genetica medica presso l’Università “La Sapienza” di Roma e ha frequentato la Struttura di Genetica medica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Nel 1992 ha esercitato attività di ricerca presso il laboratorio dell’Institute of Cancer Research - Columbia University, a New York. Successivamente ha frequentato il Corso di formazione in Biotecnologie avanzate presso il CEINGE (Centro di Ingegneria genetica) di Napoli fino al 1993. Ha quindi conseguito la Specializzazione in Pediatria presso l’Università “Federico II” di Napoli e successivamente il Dottorato di ricerca in Scienze pediatriche XIV ciclo presso il Dipartimento di Pediatria della stessa Università. Attività ospedaliera pediatrica in qualità di dirigente medico a tempo indeterminato nel 2001. Attualmente svolge attività di reparto presso l’Unità complessa di Pediatria sistematica dell’Ospedale pediatrico “Santobono” di Napoli. Svolge, inoltre, attività di consulenza di Genetica clinica presso i reparti dell’AO Santobono-Pausilipon ed è responsabile dell’ambulatorio e del Day Hospital aziendale dedicato ai bambini con malattie genetiche. È docente di Genetica del Corso di Laurea in Infermieristica pediatrica dell’Università di Napoli “Federico II”. È autore, in tali ambiti, di numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali, e ha partecipato in qualità di relatore/moderatore a numerosi congressi e convegni locali e nazionali. È attualmente responsabile della segreteria ospedaliera dell’ACP, membro del Direttivo ACP Campania e socio ACP. È inoltre socio della Società Italiana di Pediatria (SIP), della Società Italiana di Malattie genetiche pediatriche e Disabilità congenite (SIMGePeD) e della Società italiana di Genetica Umana (SIGU). FRANCO MAZZINI Pediatra di libera scelta e di comunità a Cesena dal 1992. Da subito iscritto ad ACP, presidente del gruppo ACP Romagna e coordinatore del gruppo regionale dell’Emilia-Romagna dal febbraio 2009. Diploma in Adolescentologia clinica e preventiva conseguito presso l’Università Ambrosiana di Milano nel 1999. Master in Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) organizzato dalla Regione Emilia-Romagna nel 2007. Dal 2000 impegnato in un ambulatorio di Medicina dell’adolescente, inserito stabilmente tra i servizi del Consultorio giovani dell’ASL di Cesena. Membro del gruppo aziendale che segue il percorso diagnostico-terapeutico dei DCA, con la gestione di uno spazio settimanale dedicato. Pubblicazione di alcuni lavori in tema di adolescenza e interventi a seminari, corsi ECM o congressi su questa tematica. Coautore del testo Curarsi dell’adolescente (SEE, 2003) e collaborazione alla realizzazione del libro Una pediatria per la società che cambia, curandone la parte dedicata alla Pediatria di Comunità (Editore ‘Tecniche Nuove’, 2007). Referente dell’Unità Pediatrica di Cure Primarie dell’ASL di Cesena dal 2009 e coordinatore della Segreteria Adolescenti ACP dal gennaio 2013. “Mi piace lavorare assieme a colleghi e amici per sviluppare idee, iniziative e crescere nella mia professione. Ho avuto la fortuna di conoscere persone importanti che mi hanno insegnato ad apprezzare e valorizzare il mio ruolo di pediatra al fianco di bambini, adolescenti e famiglie, e cerco di promuovere queste cose che ho imparato, alle persone e ai colleghi che incontro quotidianamente”.

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Rubrica a cura di Sergio Conti Nibali

Buoni spesa per le mamme che allattano? Si tratta di un Progetto pilota per studiare la fattibilità di offrire buoni spesa alle mamme di due quartieri delle contee di Derbyshire e South Yorkshire; interesserà 130 madri tra quelle a reddito più basso nei due quartieri. Se tale Progetto dimostrerà che l’iniziativa è fattibile, inizierà un vero e proprio Progetto di ricerca, con un campione maggiore di madri a basso reddito, per valutare i potenziali effetti positivi in termini di prevalenza e durata dell’allattamento e per escludere che vi siano effetti negativi. Come per tutti i progetti di ricerca, i risultati finali saranno pubblicati e resi noti alle Autorità sanitarie locali e nazionali; se queste valuteranno che l’iniziativa offre più vantaggi che svantaggi, rispetto ai costi, potrebbero decidere di estenderla facendola diventare programma di governo. Come tutte le decisioni di questo tipo, le Autorità sanitarie locali e nazionali prenderanno in considerazione anche la convenienza politica dell’intervento, oltre che i possibili benefici per individui e collettività. Il Progetto si muove in un ambito ben conosciuto; quello degli incentivi finanziari per la promozione della salute. Sono interventi che si fanno da anni per gli obiettivi di salute più diversi: dalle vaccinazioni alla nutrizione, dai controlli prenatali al parto protetto. Incentivi simili si usano anche in ambito extrasanitario, come iscrivere i figli a scuola o acquistare dei giocattoli educativi. In inglese questo si chiama “conditional cash transfer”, cioè trasferimento di denaro condizionato al raggiungimento di un obiettivo. Le ricerche svolte finora in decine di Paesi in tutti i continenti mostrano in generale risultati positivi, tanto che molti governi (dall’India al Brasile, dal Quebec alla Norvegia) usano da anni i “conditional cash transfer” per raggiungere obiettivi di salute che ritengono prioritari. Ancora più importante: essendo i “conditional cash transfer” dei veri e propri trasferimenti di risorse dai ricchi ai poveri (il denaro solitamente lo si prende dalle 118

tasse pagate dai più ricchi), molti governi li considerano strumenti per ridurre diseguaglianze e iniquità, per far raggiungere cioè anche ai poveri uno stato di salute ottimale. Questo è sicuramente il razionale dei ricercatori dell’Università di Sheffield. Essi sanno benissimo, perché lo mostrano statistiche e studi provenienti non solo dall’Inghilterra, ma da moltissimi altri Paesi (Italia compresa), che le donne di bassa classe sociale allattano molto meno delle donne ricche, istruite e con un buon lavoro. E vogliono vedere se un incentivo finanziario può contribuire a ridurre tali disuguaglianze. Non sarà sicuramente sufficiente: se una donna che allatta ha difficoltà ad attaccare al seno il suo bambino, o è affetta da una mastite, a nulla le serviranno i buoni spesa. Avrebbe bisogno di poter rivolgersi a una persona, operatore sanitario o mamma alla pari, che sia in grado di darle un aiuto pratico per risolvere il suo problema concreto. E può darsi che la ricerca mostri che, più che i buoni spesa, è necessario garantire accesso universale e gratuito all’aiuto di cui ha bisogno. (Fonte: Ibfan Italia)

Riviste scientifiche: sì o no? Le riviste scientifiche dovrebbero smetterla di pubblicare ricerche sponsorizzate dall’industria farmaceutica? È un quesito che il BMJ ha posto a Richard Smith (già direttore della Rivista), Peter Gøtzsche (direttore del Centro Cochrane di Copenhagen) e a Trish Groves (responsabile delle ricerche del BMJ); i primi due hanno risposto con un “sì”, il terzo con un “no”. Smith e Gøtzsche ritengono che la questione sia molto simile alla decisione del BMJ e di altre riviste di non pubblicare ricerche finanziate dall’industria del tabacco; i farmaci rappresentano la terza causa di morte, specialmente a causa delle ricerche false pubblicate; si sa bene, infatti, che i risultati favorevoli ai farmaci derivano quasi sempre da ricerche sponsorizzate dalle industrie e si sa altrettanto bene che la metà delle ricerche non viene pubblicata proprio perché

non riesce a produrre i risultati attesi dalle ditte. La differenza con l’affaire degli studi finanziati con i soldi dell’industria del tabacco è che quelli sono comunque rari, mentre le ricerche sui farmaci finanziate da Big Pharma costituiscono i due terzi delle ricerche pubblicate da The Lancet e dal NEJM. Big Pharma spende milioni di dollari per la riproduzione degli articoli e per distribuirli ai medici che così sono ingannati proprio dall’autorevolezza della rivista che ha pubblicato i dati: insomma, un gigantesco conflitto d’interesse. Loro pensano che ci possa essere un nuovo modello da implementare. Un modello basato sulla trasparenza nell’impostazione degli studi; si dovrebbe prima presentare sul web una revisione sistematica su quanto già si conosce dell’argomento; si dovrebbero chiaramente enunciare i metodi e i modelli statistici che si vorrebbero applicare; i dati sui quali lavorare dovrebbero essere a disposizione di tutti e non dell’industria, in modo che chiunque, in tutte le fasi della ricerca, possa intervenire; il ruolo delle riviste sarebbe solo quello di pubblicare i risultati delle revisioni sistematiche e l’analisi dei dati, anche contrastanti, da parte di gruppi indipendenti; le riviste, inoltre, dovrebbero fare a meno di qualsiasi sponsorizzazione di Big Pharma, come fa Prescrire. Risultato? I farmaci non sarebbero più la terza causa di mortalità dopo le malattie cardiovascolari e il cancro! Anche Groves nel motivare la sua risposta negativa parte dall’esempio delle ricerche sponsorizzate dall’industria del tabacco che, se pur vero che, come Big Pharma, mira a far soldi, ha obiettivi molto diversi. Big Pharma difatti produce e vende prodotti destinati al miglioramento della salute, così come le riviste si sforzano di pubblicare lavori che contribuiscano a migliorare lo stato di salute; l’industria del tabacco, al contrario, vende prodotti che nuociono alla salute. A meno che non vogliamo estremizzare e dire che i farmaci, come le sigarette, sono prodotti per uccidere il consumatore. Groves è consapevole dei problemi delle


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salute ricerche sponsorizzate dall’industria, ma pensa che si potrebbe intervenire utilizzando alcune strategie: coinvolgere i pazienti nel definire l’agenda della ricerca, rendere un obbligo di legge la trasparenza nella valutazione di un farmaco, richiedere risorse indipendenti per la valutazione dei farmaci e la prova di un valore aggiunto per tutti i nuovi farmaci. Una maggiore apertura potrebbe contribuire a trasformare l’immagine di Big Pharma e, in cambio, i governi potrebbero estendere i tempi di brevetto. Una soluzione per la trasparenza degli studi potrebbe essere quella proposta dalla campagna “AllTrials”. Proprio in questa ottica il BMJ sta pubblicando studi dall’iniziativa RIAT (una sorta di ripristino degli studi finora invisibili e abbandonati) e sta invitando gli accademici che trovano prove precedentemente non pubblicate a scrivere e a pubblicare i dati, se gli investigatori originali non vogliono farlo; inoltre il BMJ intende promuovere la pubblicazione di ricerche con risultati negativi e trials di efficacia comparativi; e si impegnerà a pubblicare dati provenienti dall’industria solo se avrà garanzie circa la possibilità di accedere ai dati. E conclude con una domanda: noi redattori abbiamo paura o non siamo in grado di estendere il divieto di pubblicazione anche alle ricerche finanziate dall’industria del farmaco perché i nostri giornali ricevono soldi? No, non è questo il motivo; lui è d’accordo con la direttrice del BMJ, Godlee, che ha detto: “Se questi sforzi non portano al più presto a un cambiamento epocale nel modo con cui vengono prodotti gli studi finanziati dall’industria, il BMJ potrebbe decidere di interromperne la loro pubblicazione”.

L’Ospedale “Meyer” nell’occhio del ciclone

Ha suscitato una corale presa di posizione la decisione dell’Ospedale Pediatrico “Meyer” di Firenze di concedere all’azienda che produce il latte di crescita “Mukki Bimbo” (la Centrale del latte di Firenze, Pistoia e Livorno, società a partecipazione pubblica) di scrivere sull’etichetta del prodotto «studiato in collabo-

razione con gli esperti di nutrizione infantile dell’Ospedale Pediatrico “Meyer”». Mai finora si era verificato che un Ospedale pubblico patrocinasse il lancio di un prodotto commerciale destinato all’alimentazione infantile. Le reazioni da parte di associazioni dei consumatori, di singoli operatori sanitari, di associazioni no profit, di Ibfan Italia, dell’Unicef Italia e del coordinamento della rete italiana degli Ospedali Amici dei Bambini non si sono fatte attendere e sono state particolarmente dure. Nel Comunicato stampa si auspica che l’episodio rappresenti l’occasione per una riflessione collettiva e istituzionale non solo sulle collaborazioni di presìdi sanitari con le industrie, ma anche e soprattutto sull’effettiva utilità dei latti di crescita e sull’opportunità di proporli ai bambini. Infatti oggi, grazie alle martellanti campagne pubblicitarie che fanno leva sul giusto e legittimo desiderio di ogni genitore di fare il meglio per il proprio bambino fin dai primi anni, è ormai diffusa l’abitudine di sostituire il latte materno o artificiale di proseguimento con il latte di crescita, proposto per bambini da 1 a 3 anni. Tuttavia è evidente che non sempre il mercato alimentare offre le migliori soluzioni per il consumatore e non sempre utilizza pratiche di marketing obiettive e trasparenti. Questi latti sono presentati come utili a favorire una crescita sana ed equilibrata; tuttavia la realtà è ben diversa: sono inutili, costosi, possono interferire con l’allattamento materno, la loro promozione è in contrasto con il Codice internazionale sulla Commercializzazione dei Sostituti del Latte materno ed è in contrasto con l’educazione alimentare, impegno condiviso di ogni Regione. I latti di crescita non sono prodotti “ricchi di natura”, come recita lo slogan del “Mukki Bimbo”, ma vere e proprie formule industriali grazie all’aggiunta di acqua, saccarosio, lattosio, aroma di vaniglia, vitamine, minerali, ferro, fibre, acidi grassi essenziali. L’educazione alimentare dovrebbe fare parte delle politiche di ogni Regione, di ogni istituzione

sanitaria e di ogni pediatra con modalità sia pure diversificate, ma coordinate e indipendenti da interessi commerciali. La promozione, il sostegno e la difesa dell’allattamento rimangono al centro delle attenzioni dedicate alla prima infanzia, seguita da una costante attenzione al consumo di alimenti freschi, naturali e diversificati (facenti parte della normale dieta della famiglia) e al mantenimento di corretti stili di vita. L’alleanza tra istituzioni sanitarie, specialmente se pubbliche, e consumatori, specialmente se bambini, è la condizione perché questo diventi un progetto di salute efficace. Per tutti questi motivi viene chiesto che venga tolto dalle confezioni di “Mukki Bimbo” e dalle pubblicità ogni riferimento a istituzioni sanitarie pubbliche.

Quanta strada per l’ortofrutta prima di arrivare a tavola!

Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti il viaggio di spinaci, broccoli, piselli e altri prodotti ortofrutticoli consumati in una città come Chicago per raggiungere gli scaffali dei supermercati è in media di 2400 km! Facendo un po’ di calcoli si scopre che solo il 20% dell’energia necessaria per produrre e commercializzare questi prodotti è da addebitare al settore agricolo; la rimanente quota è assorbita dalle fasi di trasporto, refrigerazione, lavorazione, confezionamento e distribuzione. Anche in Italia è normale trovare al supermercato mele e pere provenienti dal Cile, kiwi importati dalla Nuova Zelanda, ananas dal Kenya. C’è anche l’uva proveniente dal Sudafrica, i salmoni dalla Norvegia, i vini dalla California e potremmo continuare l’elenco di prodotti non proprio a km 0. Sul sito inglese “Food Miles” è possibile scoprire quanti chilometri percorre il cibo che mangiamo: basta inserire il luogo in cui ci troviamo, quello di provenienza dell’alimento e il nome in inglese. Per provare a “giocare”, andate direttamente sul sito, dove compare il calcolatore virtuale. 119


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La salute a Cuba: un diritto per tutti, un dovere per ciascuno Enrico Valletta AUSL della Romagna, Dipartimento Materno-Infantile, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, Forlì

“… without affecting quality of health [care], provided at no cost to all citizens – and even improving it – expenditures can be reduced appreciably.” Raoul Castro, 20 dicembre 2009

Cuba è, da oltre cinquant’anni, una spina nel fianco degli Stati Uniti (USA). Paese dove l’idea socialista ha trovato una declinazione concreta che ha resistito all’evaporazione dello storico riferimento sovietico, trovando le motivazioni per proseguire il proprio originale cammino di modernizzazione. L’embargo commerciale, imposto dagli USA in questo mezzo secolo, non ha risparmiato il cibo, i farmaci e le tecnologie mediche e ha richiesto al Sistema Sanitario (SS) cubano un ulteriore sforzo organizzativo per affrancarsi da una situazione tipicamente terzomondiale e migliorare quegli indicatori di salute che oggi permettono a Cuba di confrontarsi alla pari con buona parte dei Paesi a elevato sviluppo. Questo nonostante il prodotto interno lordo (2012) pro capite (US$ 10.000) sia circa il 20% di quello degli USA (US$ 49.000) e del Canada (US$ 42.000) e che la percentuale di quanto investito in sanità (2010) sia di gran lunga inferiore (Cuba 10,2%, USA 17,6%, Canada 11,4%) [1-2]. Da tempo le scelte strategiche, la programmazione e l’assetto organizzativo del SS cubano hanno meritato l’attenzione degli osservatori internazionali per la capacità di raggiungere importanti obiettivi di salute per tutta la popolazione, salvaguardando i princìpi dell’universalità e dell’equità, a fronte di una ridotta disponibilità di risorse.

Le strategie, la programmazione, l’organizzazione

Cuba ha una superficie pari a un terzo del territorio italiano, una popolazione di poco più di 11 milioni di abitanti, il 75% dei quali risiede nelle città, con oltre 2

milioni di abitanti nella sola Avana. Agli inizi degli anni Sessanta la gran parte delle risorse sanitarie era concentrata nella capitale, esisteva un solo ospedale rurale e la mortalità infantile era pari al 5-10%. L’azione del nuovo governo di Fidel Castro si rivolge subito al contrasto della povertà nelle zone rurali, dell’analfabetismo e delle diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari [3]. Il SS nazionale invia centinaia di professionisti nelle zone rurali e nel 1970 gli ospedali rurali sono già 53. Il ruolo di questi operatori sanitari non è solo clinico, ma anche educativo e di prevenzione nei confronti delle malattie infettive più diffuse (malaria, diarrea, malattie soggette a vaccinazione). Tra il 1976 e il 1983, la Costituzione e la Legge di Salute Pubblica fissano i capisaldi delle successive riforme sanitarie: • Le cure sanitarie sono un diritto accessibile a chiunque, gratuitamente. • Lo Stato è responsabile delle cure sanitarie. • I servizi di prevenzione e cura lavorano in maniera integrata. • I cittadini sono partecipi dello sviluppo e del funzionamento del SS. • Cure sanitarie e sviluppo socio-economico si muovono in maniera integrata. • La cooperazione sanitaria globale è compito fondamentale del SS e dei suoi professionisti. Il Ministero della Salute Pubblica si fa carico della programmazione dei percorsi universitari e professionali delle diverse figure sanitarie, in termini di numeri, competenze e distribuzione sul territorio, incentivando la decentralizzazione nell’intento di rendere il SS effettivamente accessibile in ogni regione del Paese. In quel periodo viene concepito un nuovo e basilare modello operativo, quello degli “ospedali di comunità” nei quali convergono le discipline fondamentali delle cure primarie (Ostetricia, Ginecologia,

Pediatria, Medicina interna e Odontoiatria) in grado di fornire l’assistenza di base. Progressivamente, le competenze di questi “policlinici” vengono integrate con ulteriori servizi in grado di offrire 20-30 diverse prestazioni specialistiche e diventano sedi di tirocinio universitario e professionale [4]. Nel 1983 parte il programma di medicina di famiglia che porterà alla costituzione dei team medicoinfermieristici, capillarmente diffusi in tutto il Paese, con responsabilità diretta sulla salute delle piccole comunità (8001500 persone) loro affidate. Nel 1989, con la disgregazione dell’Unione Sovietica, inizia un nuovo periodo di grave crisi economica per Cuba che, tuttavia, continua nella propria politica di forte indirizzo centrale sulla programmazione della sanità pubblica e di grande flessibilità periferica nell’applicazione delle strategie di prevenzione e cura che tengono conto dei bisogni delle microrealtà locali. È un sistema articolato in livelli crescenti di complessità, destinati a filtrare il ricorso alle strutture d’eccellenza e alle tecnologie più dispendiose che pure esistono e sono disponibili. Attraverso quindici anni di continue riorganizzazioni dettate dalla scarsità di risorse, ma sostenute da una costante tensione politica sui temi della salute, dal 2006 alcuni indici di performance e di soddisfazione dei cittadini sembrano nuovamente in crescita e c’è spazio per ragionare di ricerca e divulgazione scientifica in termini di priorità e di beneficio per la comunità [5-6]. Oggi il sistema di cure primarie costituisce il pilastro del SS cubano, con oltre 13.000 team medico-infermieristici di prossimità, 488 ospedali di comunità, 336 case della maternità, centri di salute mentale e centri diurni per anziani in grado di risolvere l’80% dei problemi di salute dei cittadini, a fronte di meno di 215 strutture che operano a livelli di complessità maggiori [3-7]. Il 48,5% dei medici e dei dentisti opera nelle cure primarie.

Per corrispondenza:

Enrico Valletta e-mail: e.valletta@ausl.fo.it

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internazionale


osservatorio internazionale

Cosa ci dicono gli indicatori di salute?

La disponibilità di dati sulle performance dei Sistemi Sanitari Nazionali in tutto il mondo consente di avere un’idea complessiva della situazione nei singoli Stati e di operare alcune interessanti comparazioni [1-2-7]. Nel 2011, l’attesa di vita alla nascita era di 78 anni a Cuba, 79 anni negli USA e 76 anni nel continente americano nel suo complesso. La mortalità infantile (<1 anno) è passata da oltre 40/1000 nati vivi nei primi anni Sessanta a 4,3/1000 nel 2012 (figura 1) [8]. È un dato migliore di quello registrato negli USA (6,1/1000) e che ha recentemente indotto ricercatori dell’Alabama (9,2/1000) ad analizzare più a fondo il modello cubano di assistenza maternoinfantile [9]. Ne emerge un 5% di nati di basso peso a Cuba contro l’8% circa negli USA e il 10,4% in Alabama. Il 100% delle gravidanze è monitorato nelle strutture pubbliche; le donne sono visitate mensilmente entro le 33 settimane di gestazione, due volte al mese tra la 34ª e la 38ª settimana e, se la donna non si presenta alla visita, il medico delle cure primarie si reca a domicilio. Dopo il parto, bambino e mamma vengono visitati una volta alla settimana fino ai 3 mesi e una volta al mese fino al compimento del primo anno di vita. La copertura vaccinale oscilla tra il 96% e il 99%. Secondo Save the Children, Cuba è al primo posto tra i Paesi meno sviluppati (livello II) per la cura alla condizione materna (Mother’s Index, 2012); il 100% delle partorienti è assistito da personale addestrato e il 72% delle donne utilizza i moderni metodi anticoncezionali (73% in USA e Canada, 41% in Italia) [10]. Tutto questo richiede evidentemente, oltre all’organizzazione, personale adeguato e motivato. Il 6,8% della popolazione cubana in età lavorativa è impiegato nella sanità pubblica e i medici sono 67/10.000 abitanti (24/10.000 negli USA) (anni 2005-

Quaderni acp 2014; 21(3)

FIGURA 1: TASSO DI MORTALITÀ INFANTILE (< 1 ANNO) A CUBA E NEGLI USA (ANNI 1965-2012) [8]

2012). Come elemento costitutivo della propria mission, il SS cubano offre assistenza gratuita, al di fuori del proprio territorio, con oltre 35.000 operatori a più di 70 milioni di persone in almeno 70 nazioni. L’attenzione del governo cubano ai temi della salute è evidentemente elevata, costante nel tempo, orientata al raggiungimento degli obiettivi, con un forte impegno a rendere le cure primarie accessibili a tutti i cittadini in qualsiasi zona del Paese. Oltre ai criteri di equità, sostenibilità e qualità dei servizi, il sistema conta fortemente sul coinvolgimento attivo di ogni cittadino e delle comunità locali per la prevenzione e il contrasto alle più importanti malattie croniche non-trasmissibili (cardiovascolari, respiratorie, cancro e diabete) e per contribuire al continuo miglioramento dello stato di salute di tutta la popolazione [11]. Responsabilità personale, coesione sociale e partecipazione della comunità per trasformare i cittadini da users with rights in actors with duties. u

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Quaderni acp 2014; 21(3): 122-123

La rottura della tolleranza nella patologia autoimmune e l’induzione della tolleranza nella medicina trapiantologica Federica Barzaghi*°, Rosa Bacchetta* *San Raffaele Telethon Institute for Gene Therapy (HSR-TIGET), Division of Regenerative Medicine, Stem Cells and Gene Therapy, Istituto Scientifico “San Raffaele”, Milano; °Università Vita Salute San Raffaele, Milano Abstract

The breaking of tolerance in autoimmune diseases and its induction in transplantation medicine The two main roles of the immune system are protection from infections and maintenance of immunological tolerance (avoiding “self-aggression”). Impairment of these functions results in the onset of immunodeficiency and/or autoimmunity. Here are summarized the mechanisms of immunological tolerance and the main characteristics of two paradigmatic monogenic diseases due to the loss of a tolerance mechanisms. Finally, three examples are reported regarding how the knowledge acquired on immune tolerance paved the way for the definition of new therapeutic interventions in the context of transplantation and genetic diseases with immune dysregulation. Quaderni acp 2014; 21(3): 122-123

Il sistema immunitario ha un ruolo fondamentale non solo nella difesa contro i patogeni ma anche nel mantenimento della tolleranza immunologica, che protegge l’organismo dalla “autoaggressione” contro antigeni self. Esistono malattie genetiche (e non), in cui queste proprietà vengono meno, determinando l’insorgenza di immunodeficienza e/o autoimmunità. In questo lavoro sono sintetizzati i meccanismi che consentono il mantenimento della tolleranza immunologica e le caratteristiche di due malattie monogeniche paradigmatiche, caratterizzate ciascuna dalla perdita di uno dei due principali meccanismi di tolleranza. Infine, si forniscono tre esempi di come le conoscenze acquisite circa la tolleranza immunologica abbiano dato spunto per nuovi interventi terapeutici nell’ambito dei trapianti e delle malattie genetiche da immunodisregolazione.

Introduzione

Il sistema immunitario esercita due attività fondamentali: l’eliminazione dei patogeni e la protezione dell’organismo dalla “autoaggressione” verso antigeni self, cioè espressi dai propri tessuti e organi. L’anomalo funzionamento di tali meccanismi protettivi determina l’insorgenza rispettivamente di immunodeficienza o autoimmunità. In particolare, per impedire che il sistema immunitario reagisca impropriamente contro antigeni self, esiste un sistema di regolazione definito “tolleranza immunologica”, che consiste nel riconoscimento antigenico non seguito da eliminazione dell’antigene stesso [1]. Esistono una tolleranza immunologica centrale e una periferica. Quella centrale ha sede nel timo ed è correlata alla capacità da parte delle cellule epiteliali del timo di esprimere antigeni self, con lo scopo di presentarli ai linfociti T per selezionarli negativamente. Infatti, i linfociti T che legano antigeni self con elevaPer corrispondenza:

Federica Barzaghi e-mail: barzaghi.federica@hsr.it

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ta affinità vengono eliminati perché considerati potenzialmente autoreattivi. Tale meccanismo non è però infallibile ed è pertanto possibile che alcuni linfociti autoreattivi vengano immessi in circolo. A fronteggiare tale evenienza è chiamato il secondo sistema di controllo immunologico, quello periferico, rappresentato principalmente da una sottopopolazione di linfociti a funzione regolatoria. Tali linfociti T, o cellule T regolatorie, si occupano di spegnere la riposta immune ai patogeni quando questa non sia più necessaria e di eliminare, mediante vari meccanismi soppressivi, i linfociti autoreattivi che erroneamente sono sfuggiti ai meccanismi di tolleranza centrale [2-3].

La rottura della tolleranza nella patologia autoimmune

La patogenesi delle patologie autoimmuni è ancora oggi oggetto di intenso studio. Si ipotizza che in molte di esse (es. diabete mellito di tipo 1, malattie infiammatorie croniche intestinali, artrite reu-

matoide, …) ci sia un’interazione tra caratteristiche genetiche e fattori ambientali, che determina un’alterazione della regolazione del sistema immunitario con perdita della tolleranza verso il self [4]. In rari casi tale difetto può essere di origine genetica, dovuto alla mutazione di un singolo gene. In particolare, esistono due patologie monogeniche rappresentative della perdita dei meccanismi di regolazione: Autoimmune PolyEndocrinopathy-Candidiasis-Ectodermal Dystrophy (APECED) e Immune dysregulation, Polyendocrinopathy, Enteropathy, X-linked syndrome (IPEX), paradigmi rispettivamente della perdita di tolleranza centrale e periferica. Si tratta di immunodeficienze primitive caratterizzate non tanto da infezioni gravi e frequenti, quanto dall’aumentata incidenza di multiple manifestazioni autoimmuni. Mutazioni del gene Autoimmune Regulator (AIRE), fattore di trascrizione preposto a favorire l’espressione di peptidi self a livello delle cellule timiche, determinano la perdita della tolleranza centrale. Pertanto i linfociti autoreattivi vengono eliminati in maniera meno efficiente a livello timico e mediano l’aggressione autoimmune di molteplici organi. La patologia che ne deriva prende il nome di APECED. Fin dalla prima infanzia i bambini affetti possono sviluppare poliautoimmunità, principalmente caratterizzata da insufficienza surrenalica, ipoparatiroidismo e candidiasi mucocutanea. Recentemente è stato dimostrato che anche quest’ultima manifestazione è di natura autoimmune, in quanto è dovuta alla presenza di anticorpi contro una particolare citochina (IL-17), che ha un ruolo importante nella difesa contro la Candida [5]. Durante l’infanzia e l’adolescenza, questi bambini hanno un’elevata probabilità di sviluppare altre patologie autoimmuni quali alopecia, vitiligine, tiroidite, diabete, epatite, gastrite atrofica, insufficienza ovarica e/o testicolare. Al momento non esiste una terapia risolutiva per l’APECED e spesso la diagnosi avviene


aggiornamento avanzato

quando la funzione degli organi bersaglio (es. surrene, paratiroidi, pancreas) è già stata compromessa. Pertanto, i pazienti sono trattati con terapia ormonale sostitutiva, nel caso di endocrinopatia, e con terapia antifungina per la candidiasi. Mutazioni del gene FOXP3, fattore di trascrizione che regola la funzione delle cellule T regolatorie, determinano la perdita della tolleranza periferica e quindi le cellule T regolatorie non sono più in grado di sopprimere i linfociti autoreattivi circolanti. I bambini affetti sviluppano molto precocemente una malattia autoimmune multisistemica molto grave, definita sindrome IPEX, il cui quadro clinico è caratterizzato dalla triade: enteropatia autoimmune, diabete mellito di tipo 1 ed eczema [6]. L’enteropatia rappresenta il sintomo prevalente nella quasi totalità dei casi e spesso la diarrea insorge in lattanti ancora allattati al seno. Nei più grandi non risponde a variazioni dietetiche e persiste anche in corso di nutrizione parenterale totale. Altre manifestazioni aggiuntive possono essere tiroidite, epatite e citopenie autoimmuni, alopecia, ipereosinofilia e aumento delle IgE sieriche. A oggi, sono riportati in letteratura 138 casi, di cui circa la metà diagnosticata negli ultimi tre anni, forse a testimoniare anche un recente aumento della conoscenza della patologia da parte dei clinici. Una diagnosi precoce è indispensabile per assicurare al bambino l’inizio tempestivo della terapia immunosoppressiva che consenta di superare la fase acuta della malattia e di mantenere sotto controllo l’aggressione autoimmune. L’immunosoppressione non è sufficiente a curare la malattia. L’unica possibilità per impedire l’insorgenza di altre manifestazioni, seppure gravata da elevati rischi, è il trapianto di midollo osseo. Le possibilità terapeutiche sono quindi limitate dalla disponibilità di un donatore compatibile e dalla rapidità con cui si avvia il paziente al trapianto. Bisogna infatti garantire che tale procedura venga avviata prima che il danno d’organo sia troppo avanzato e la funzionalità definitivamente compromessa.

L’induzione della tolleranza nella medicina trapiantologica

Da quanto detto finora nell’ambito delle patologie autoimmuni, si può dedurre quale possa essere il ruolo fondamentale della tolleranza immunologica in ambito trapiantologico. Il trapianto allogenico è infatti gravato da due principali rischi: – il rigetto del trapianto, che determina l’aggressione dell’organo trapiantato (nel trapianto di organo solido) oppure delle cellule infuse (trapianto di cellule staminali ematopoietiche = CSE) da parte del sistema immunitario del ricevente;

Quaderni acp 2014; 21(3)

– la malattia del trapianto contro l’ospite (Graft Versus Host Disease = GVHD), che è peculiare del trapianto di CSE, e che consiste nell’aggressione di organi del ricevente (es. cute, intestino, fegato) da parte delle cellule del donatore. Recentemente, sono state elaborate strategie per la prevenzione della GVHD e del rigetto del trapianto mediante l’utilizzo di una particolare sottopopolazione di cellule T regolatorie (Tr1) che producono una citochina molto immunosoppressiva chiamata IL-10 [7]. Nei trapianti di cellule staminali ematopoietiche per malattie linfoproliferative, l’equilibrio tra Graft Versus Leukemia (GVL) e GVHD è un fattore critico per il successo della terapia, in quanto si vogliono eliminare le cellule maligne (GVL) del ricevente senza ledere la funzionalità degli organi (GVHD). Per questo è stato creato un protocollo clinico definito ALT-TEN, nell’ambito del quale cellule T del donatore vengono messe a contatto con cellule presentanti l’antigene del ricevente in presenza di IL-10. Questo ha lo scopo di generare delle cellule T del donatore tolleranti (Tr1) verso antigeni presentati da cellule del ricevente. Le cellule Tr1 vengono infuse nel ricevente dopo il trapianto di CSE in modo da favorire la tolleranza da parte dei linfociti del donatore nei confronti dei tessuti del ricevente. Finora, il numero dei soggetti trattati è stato molto limitato e tuttavia il trattamento è risultato fattibile e alcuni pazienti hanno risolto la malattia completamente, con follow-up di circa 7 anni (Bacchetta et al. Frontiers in Immunology, in corso di stampa). Nell’ambito del trapianto di organo solido, invece, è in corso uno studio collaborativo europeo (ONE study), che consiste nella prevenzione del rigetto nel trapianto di rene da donatore vivente, mediante l’utilizzo di diversi tipi di cellule regolatorie in ciascun centro, che hanno in comune l’obiettivo di indurre tolleranza immunologica nel ricevente. Una possibilità implica il prelievo dal ricevente di linfociti T che, in vitro, vengono messi a contatto con cellule presentanti l’antigene derivate dal donatore. Questo determina la creazione di cellule Tr1 del ricevente “tollerogeniche” (cioè in grado di mantenere la tolleranza immunologica) nei confronti di antigeni dell’organo trapiantato presentati dalle cellule del donatore [8-9]. Questi studi hanno dato impulso anche alla elaborazione di nuove prospettive terapeutiche per le malattie monogeniche da immunodisregolazione come la sindrome IPEX. Negli ultimi anni la ricerca in questo ambito si è concentrata sulla creazione di un vettore lentivirale contenente il gene FOXP3 con la finalità di

prelevare linfociti T o CSE da pazienti affetti da IPEX e creare delle cellule ingegnerizzate in vitro, contenenti il costrutto del gene corretto e quindi in grado di ripristinare una popolazione di cellule T regolatorie FOXP3-positive, capaci di ristabilire la tolleranza periferica [10]. Questa opzione potrebbe dare una possibilità ai bambini affetti che non possono affrontare un trapianto di CSE perché privi di donatore compatibile e rappresenterebbe una terapia mirata e razionale.

Conclusioni

Lo studio delle malattie autoimmuni e in particolare delle rare malattie monogeniche autoimmuni (come APECED e IPEX) ha notevolmente implementato la conoscenza dei processi fisiologici e patologici inerenti alla tolleranza immunologica. Ciò ha gettato le basi per l’applicazione di nuove strategie terapeutiche mediante cellule indotte o manipolate in vitro, non solo nell’ambito trapiantologico (GVHD e rigetto), ma anche nell’ambito di rare malattie genetiche (come la sindrome IPEX) le quali, finora, non conoscevano altra possibilità terapeutica che il trapianto di midollo osseo (se possibile) o lunghi periodi di immunosoppressione gravata da notevoli effetti collaterali. u

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Un decorso lento non sempre è benigno Brunetto Boscherini*, Patrizia del Balzo** *Professore ordinario, Clinica Pediatrica, Università Tor Vergata, Roma; **Pediatra di famiglia, Roma Abstract

A slow course not always benign The patient described is a four year old female with pubarche, mild clitoris hypertrophia and body height below her genetic target. Laboratory findings showed significant high levels of 17OH-Progesterone and Testosterone (T) and slightly increased DEAS levels. An ACTH test with a molecular analysis excluded the diagnosis of non classical congenital adrenal hyperplasia (NC CAH) but confirmed an heterozygosy for CYP21A. In the following 12 months height velocity increased and DEAS and T levels remained high. In order to exclude a virilizing adrenal tumor (VAT) characterized by a progression of symptoms and very high levels of DEAS (> 600-700 mcg/dl), adrenal ultrasound and a MRI were performed. An “atypical” form of VAT was confirmed. A VAT must be suspected even in the presence of mild and slowly progressive signs of hyperandrogenism and slightly increased levels of adrenal androgens. Quaderni acp 2014; 21(3): 124-126

Viene descritto il caso di una bambina di 4 anni con pubarca insorto all’età di 3,8 anni, modesta ipertrofia del clitoride e statura al di sotto del bersaglio genetico. I dosaggi ormonali mostravano un aumento significativo del 17OH-Progesterone e del Testosterone (T) mentre i valori di DEAS erano modicamente aumentati. L’ACTH test e l’indagine molecolare consentivano di escludere il sospetto di sindrome adrenogenitale non classica (SAG NC) mentre svelavano un’eterozigosi per il gene CYP21A. Nel corso dei dodici mesi successivi l’incremento della velocità di crescita e il persistente aumento dei valori di T e DEAS portavano a considerare la diagnosi di tumore virilizzante del surrene (TVS), il cui quadro clinico è più frequentemente caratterizzato da un decorso clinico ingravescente e da livelli di DEAS > 600-700 mcg/dl. L’ecografia e la Risonanza Magnetica (RM) confermavano la presenza di un TVS, nella sua forma “atipica”. Un TVS va sospettato anche in presenza di modesti segni di iperandrogenismo a evoluzione lenta e livelli di androgeni poco elevati.

La storia

Giulia viene condotta dai genitori a consulenza endocrinologica all’età di 4 anni per la comparsa di peluria pubica da 3-4 mesi. I genitori non riferiscono modificazioni della velocità di crescita sia staturale che ponderale. La piccola è in buone condizioni generali e lo stato nutrizionale è ottimo: pesa 16 kg (50º percentile), è alta 101 cm (50º percentile), con bersaglio genetico al 75º percentile. All’esame obiettivo presenta peluria sessuale nella regione pubica (pubarca 2º stadio) e la conformazione dei genitali è normale a eccezione di una modesta ipertrofia del clitoride. Assenza di telarca e di ircarca, non sintomi cushingoidi, PA 105/70. L’età ossea, all’età di 4 anni, è di 5 anni e 9 mesi. Sintetizzando, il quadro clinico è caratterizzato da: Per corrispondenza:

Brunetto Boscherini e-mail: brunetto_boscherini@fastwebnet.it

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– pubarca prematuro (PP), iniziato a 3 anni e 8 mesi – modesta ipertrofia clitoridea – assenza di telarca – statura al 50º percentile, inferiore al bersaglio genetico - età ossea di 5 anni e 9 mesi, quindi superiore all’età cronologica - velocità di crescita staturale (VCS) non valutabile per mancanza di precedenti dati antropometrici. – decorso clinico lento.

Il percorso diagnostico

L’endocrinologo richiede alcuni esami: DEAS: 209 mcg/dl (v.n. 5-35), 17OHP: 618 ng/dl (v.n. < 200); Testosterone (T): 85 ng/dl (v.n. < 10), che risultano aumentati; Cortisolo: 6,2 mg/dl (v.n. 5-20), che risulta normale.

Quali ipotesi diagnostiche prendere in considerazione in base alla storia, all’esame clinico e ai risultati degli esami di laboratorio? Sostanzialmente quattro: 1. Adrenarca esagerato atipico (tabella 1) È una variante del pubarca prematuro idiopatico. I pazienti, prevalentemente femmine di età media di 6-7 anni, spesso in sovrappeso, presentano oltre alla peluria pubica alcuni sfumati sintomi di iperandrogenismo, come modesta ipertrofia del clitoride, acne cistica, accelerazione della VCS e dell’età ossea, inizio anticipato della pubertà ma con prognosi della statura finale nell’ambito del bersaglio genetico [1-3]. I valori del T sono appena superiori ai limiti massimi per l’età, quelli di DEAS possono essere elevati, anche fino a 200-300 µg/dl, mentre il 17OHP è nella norma [1-2]. Giulia ha alcune caratteristiche cliniche in accordo con questa ipotesi diagnostica, ma i valori elevati del 17OHP e soprattutto del T la escludono.

2. Tumore virilizzante del surrene (TVS) (tabella 2) La presenza di pubarca associato a ipertrofia del clitoride, l’età ossea avanzata e i valori francamente elevati di T sarebbero a favore di questa ipotesi, ma il decorso clinico di Giulia è lento, mentre di regola in questa patologia il decorso è rapido e ingravescente. Inoltre la statura di Giulia è inferiore (invece che superiore) al bersaglio genetico e il dosaggio di DEAS che la bambina presenta non è molto elevato (in questo tipo di tumore si trovano, in genere, valori superiori a 600-700 µg/dl). Pertanto sembra di poter escludere anche questa ipotesi. 3. Sindrome adrenogenitale non classica (SAG NC) da deficit di 21 idrossilasi (tabella 3) A favore di questa ipotesi sono: pubarca precoce [4], ipertrofia del clitoride, decorso relativamente lento, età ossea avanzata, 17OHP basale elevato (oltre 200 ng//dl). Inoltre anche l’aumento del T fa


il caso che insegna

parte della SAG NC, seppure in misura minore rispetto a quello del caso in esame. Per escludere l’ipotesi di una SAG NC, che si ritrova nel 5-20% dei pazienti con adrenarca prematuro, viene effettuato un test all’ormone adrenocorticotropo (ACTH) [5-6]. Il 17OHP dopo stimolo raggiunge il valore di 920 ng/dl. Tale risposta (< 1000 ng/dl) caratterizza gli eterozigoti per la mutazione del gene CYP21A2, condizione per definizione asintomatica e molto frequente (circa 1/60 nella popolazione generale) [7]. Viene quindi effettuata un’indagine genetica che conferma lo stato di eterozigote (portatore sano) per la mutazione del gene CYP21A2 ed esclude la presenza di una mutazione omozigote o una doppia eterozigosi per la CYP21A2.

4. Deficit dell’enzima 3 beta-idrossisteroidodeidrogenasi Può presentarsi, nella forma non classica, con una sintomatologia simile a quella di Giulia. Pertanto è stato sequenziato il gene HSD3B2, ma non sono state trovate anomalie. L’endocrinologo decide a questo punto di aspettare e di rivalutare la bambina con controlli regolari periodici, in considerazione del decorso clinico lento e del risultato non dirimente degli accertamenti effettuati. Nel corso dei dodici mesi successivi alla prima osservazione il pubarca e l’ipertrofia del clitoride si mantengono stazionari, ma la VCS mostra un’accelerazione per cui la statura raggiunge il 75º percentile, mentre il T rimane costantemente elevato (tra 85 e 200 ng/dl). In base a ciò l’endocrinologo riconsidera l’ipotesi di un TVS. A favore di questa ipotesi depone la scarsa risposta del 17OHP all’ACTH (da 618 ng/dl a 920 ng/dl), tipica del tumore surrenalico, che diventa indipendente dal controllo corticotropinico. Viene pertanto praticata un’ecografia del surrene che mostra una voluminosa formazione del surrene sinistro, ipoecogena, solida, a margini regolari, reperto confermato anche dalla RM.

La diagnosi

A circa un anno dall’inizio della sintomatologia la bambina, che ha raggiunto i 5 anni, viene operata per l’asportazione

Quaderni acp 2014; 21(3)

TABELLA • • • • • • • • • •

1: ADRENARCA “ESAGERATO” ATIPICO

Età media 6-7 anni, prevalenza sesso femminile Frequente il sovrappeso Pubarca precoce e modesta ipertrofia del clitoride Velocità di crescita staturale accelerata Età ossea superiore all’età cronologica Prognosi della statura finale nell’ambito del bersaglio genetico Tendenza a sviluppare iperandrogenismo, PCO, sindrome metabolica 17OHP normale Testosterone modicamente elevato DEAS di poco superiore a limiti massimi per l’età, in genere intorno a 200-300 µg/dl

TABELLA

2: TUMORE VIRILIZZANTE DEL SURRENE (FORMA CLASSICA)

• Età preferita prima dei 4 anni e tra 12 e 14 anni • Pubarca associato a evidenti sintomi di iperandrogenismo (ipertrofia del clitoride, acne, irsutismo) • Decorso veloce, ingravescente • Velocità di crescita staturale molto accelerata • Età ossea di regola aumentata • DEAS sempre elevato, in genere > 600-700 µg/dl • Testosterone sempre elevato, anche > 150-200 ng/dl • 17OHP modicamente elevato • Eco/RM positivi per massa surrenalica TABELLA • • • • • • • • • •

3: SAG NC DA DEFICIT DI 21 IDROSSILASI

Età di comparsa variabile Pubarca isolato o associato a ipertrofia del clitoride o del pene, acne, irsutismo Statura superiore al bersaglio genetico Velocità di crescita staturale moderatamente accelerata Età ossea superiore all’età cronologica di circa 2 anni Previsione della statura inferiore al bersaglio genetico 17OHP basale > 200 ng/dl e > 1000 ng/dl dopo ACTH Testosterone modicamente aumentato DEAS normale Indagine molecolare: delezione o mutazioni del gene CYP21A2

in laparoscopia della massa surrenalica (dimensioni: 57 x 48 x 46 mm; peso: 52 g). L’esame istologico conferma: adenoma corticale del surrene, con invasione vascolare focale. Il decorso post-operatorio è ottimo e i successivi controlli sono risultati sempre negativi. La diagnosi definitiva è quindi: forma atipica di tumore virilizzante del surrene in bambina con eterozigosi per il gene CYP21A2.

Commento

TVS è il più frequente (90%) dei tumori funzionali del surrene, che comprendono

anche la meno comune sindrome di Cushing. Sono rari e rappresentano lo 0,2% di tutti i tumori in età pediatrica [8]. Negli USA si riscontrano circa 15 nuovi casi/anno, ma in Brasile l’incidenza è 15 volte superiore ad altre aree geografiche [9]. L’età di presentazione più frequente (60%) è prima dei 4 anni (nel 12% nel primo anno di vita, eccezionalmente anche nel neonato) e a 12-14 anni. I tumori virilizzanti sono sporadici, a volte associati alla sindrome di Li Fraumeni (cancro familiare a trasmissione dominante), alla sindrome di BeckwithWiedemann e all’emipertrofia [8-10]. 125


il caso che insegna

Il rapporto femmine/maschi è di 1,6:1 ma varia a seconda dell’età: prima dei 3 anni è molto più frequente nel sesso femminile. I TVS possono essere maligni o benigni e questi ultimi sono più frequenti nella femmina e nel surrene sinistro. La maggioranza (75%) è localizzata e il 10% invade le aree adiacenti. Nel 5% dei pazienti al momento della diagnosi si trovano metastasi nei polmoni o nel fegato o in entrambi [8]. I sintomi della forma classica sono riportati nella tabella 2. Una massa addominale è presente in circa la metà dei pazienti e l’ipertensione arteriosa si manifesta nel 55% dei tumori con sintomi misti (virilizzanti e cushingoidi), ma anche nella metà di quelli con soli sintomi virilizzanti [11]. Nel bambino in cui i sintomi virilizzanti si associano a quelli cushingoidi si deve sempre sospettare un tumore del surrene, per cui è giustificato ricorrere, già in prima battuta, all’ecografia o, meglio, alla RM del surrene [11-12]. La forma atipica del TVS (tabella 4) è meno comune della forma classica e in questi pazienti la sintomatologia è meno evidente. Il pubarca può essere inizialmente l’unico sintomo, tanto che in Brasile, dove il TVS è frequente, il pubarca, anche isolato, che compare prima dei 4 anni viene considerato un TVS fino a prova contraria [11]. Inoltre il decorso può essere così lento che l’intervallo di tempo tra i primi sintomi e la diagnosi può essere di molti anni, anche fino a 8 anni, specie se il tumore è di piccole dimensioni [13]. Questo lungo intervallo è spiegabile per le condizioni generali del bambino che si mantengono buone per lungo tempo, la lenta progressione della sintomatologia e la modesta o inesistente accelerazione della VCS, come in effetti è avvenuto nel caso descritto [9]. Anche il comportamento degli androgeni surrenalici è atipico. Il DEAS, che nei pazienti con la forma classica risulta molto elevato [11], oltre 600-700 µg/dl e fino a 10 volte superiore alla norma, nella forma atipica è meno elevato [11-13]. La diagnosi differenziale del TVS si pone essenzialmente con la SAG NC, diagnosi spesso erroneamente formulata [13]. Infatti la sintomatologia della forma atipica del TVS differisce poco da quella della SAG NC; inoltre, sia il 17OHP basale che il T sono elevati in entrambe le condizioni. La terapia è chirurgica con asportazione del tumore; se permangono residui o sono presenti metastasi il trattamento si avvale del mitotane o di altri regimi chemioterapici. La radioterapia è utilizzata di rado [9]. La prognosi è considerata non buona, ma migliora se: 1. la resezione del tumore è completa; 2. l’età < 3 anni; 3. il tumore è localizzato; 126

Quaderni acp 2014; 21(3)

TABELLA

4: TUMORE VIRILIZZANTE DEL SURRENE (FORMA ATIPICA)

• • • • •

Pubarca associato a modesta ipertrofia del clitoride Decorso lento Velocità di crescita staturale normale o poco accelerata Età ossea moderatamente avanzata DEAS meno aumentato rispetto alla forma classica, con valori nell’ordine di quelli del pubarca precoce esagerato ed, eccezionalmente, del pubarca prematuro idiopatico • Testosterone sempre elevato • 17OHP può essere aumentato (> 200 ng/dl) • Eco/RM positivi per massa surrenalica COSA

ABBIAMO IMPARATO

– Il tumore virilizzante del surrene si può presentare, oltre che nella forma “classica”, in una forma “atipica”. In questa il decorso è lento, invece che rapido, l’entità delle manifestazioni androgeniche modeste invece che vistose. Anche l’elevazione degli androgeni surrenalici è minore rispetto alla forma classica. – L’associazione di pubarca e ipertrofia del clitoride deve far sospettare, specie nei primi anni di vita, un tumore virilizzante del surrene. Pertanto è giustificato richiedere, già in prima battuta, oltre al dosaggio degli androgeni surrenalici, l’ecografia e la RM del surrene. – Un DEAS di poco superiore ai limiti massimi della norma, quindi molto inferiore a 600-700 µg/dl, non esclude la diagnosi di tumore virilizzante del surrene. – Un valore costantemente elevato di testosterone è fortemente a favore di un processo tumorale del surrene.

4. i sintomi cushingoidi sono assenti; 5. la pressione arteriosa è normale. La sopravvivenza a distanza di cinque anni è intorno al 50%. Quasi tutti i bambini con stadio avanzato del tumore presentano metastasi. L’exitus dopo due anni e mezzo dall’inizio riguarda circa un terzo dei pazienti, spesso per complicazioni ipertensive o per massiva emorragia durante l’intervento. La dimensione del tumore è il più importante fattore prognostico: se il peso è <100 g, la prognosi è favorevole. Questi dati ribadiscono l’importanza di una diagnosi precoce. Nel caso di Giulia la diagnosi di TVS è stata formulata dopo dodici mesi dalla prima osservazione. I fattori che hanno contribuito a ritardarla sono stati: 1. la statura al di sotto del bersaglio genetico alla comparsa del pubarca; 2. un iperandrogenismo limitato al pubarca e una modesta ipertrofia del clitoride, che sono rimasti immodificati nel corso di un anno. Inoltre il dato di un 17OHP basale elevato, che dopo stimolo raggiungeva un valore al limite tra SAG NC ed eterozigosi, ha reso necessaria l’indagine molecolare. u Bibliografia [1] Paterson WF, Ahmed SF, Bath L, et al. Exaggerated adrenarche in a cohoort of Scottish children: clinical features and biochemistry. Clin Endocrinol 2010;72(4):496-50. doi: 10.1111/j.1365-2265.2009.03739.x.

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Quaderni acp 2014; 21(3): 127-130

HLA e celiachia: a ciascuno il proprio rischio Enrico Valletta AUSL della Romagna, UO di Pediatria, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, Forlì Abstract

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DQ2 e che buona parte dei rimanenti è DQ8-positiva anche se, in Italia, questi valori appaiono un po’ inferiori rispetto al Nord Europa [5-7]. La negatività per DQ2 e DQ8 rende, comunque, assai improbabile lo sviluppo della malattia, pur se con alcune differenze di rischio all’interno di questo gruppo. Il 30% circa della popolazione generale è DQ2/DQ8-positivo con un rischio di CE attorno al 3%.

La determinazione degli HLA predisponenti alla celiachia (CE) è una risorsa importante nella diagnosi dei casi con sierologia e clinica suggestivi e per individuare i soggetti (principalmente famigliari di celiaci) che sono a rischio di sviluppare la malattia o nei quali, al contrario, possiamo escluderla con ragionevole certezza. Secondo l’European Society of Paediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition (ESPGHAN), la presenza di una sierologia francamente positiva, di sintomi compatibili e di HLA predisponenti può essere sufficiente per concludere la diagnosi senza ricorrere alla biopsia duodenale [1]. D’altra parte, in un contesto a elevato rischio di CE, la presenza o l’assenza degli HLA “giusti” ci consiglierà, rispettivamente, un atteggiamento di vigile sorveglianza piuttosto che di consapevole rassicurazione. Stiamo parlando degli HLA di classe II -DQ2 e -DQ8 che lo specialista richiede sempre più frequentemente, ma che anche il pediatra di famiglia può trovarsi a dovere interpretare perché sollecitato dai famigliari di un soggetto affetto. Le informazioni che possiamo trarre dal referto del laboratorio sono più di quante immaginiamo, a condizione di avere

Approfondire le definizioni che il laboratorio ci dà degli HLA è utile per interpretare meglio i referti e la letteratura di riferimento. Il genotipo HLA-DQ2 è codificato dagli alleli DQA1*05 (catena α) e DQB1*02 (catena β) e viene oggi identificato con la sigla DQ2.5, l’HLA-DQ8 dagli alleli DQA1*0301 e DQB1*0302. Determinando il DQ, il laboratorio ci restituisce due copie del DQA1* e due copie del DQB1*. I soggetti DQ2.5-positivi possono essere suddivisi in tre sottogruppi a seconda che esprimano due copie di DQB1*02 (gruppo G1), una copia di DQB1*02 in trans (su alleli diversi) con DQA1*05 (gruppo G2) o una copia di DQB1*02 in cis (sullo stesso allele) con DQA1*05 (gruppo G3). I soggetti DQ2.5-negativi sono divisi in due gruppi: uno che include i portatori di due copie di DQB1*02 (in assenza del DQA1*05), dell’HLA-DQ8 o di una copia di ciascuno di questi (gruppo G4) e l’altro che include tutti gli altri genotipi DQ (gruppo G5). Nella popolazione italiana il rischio di sviluppare la CE è più elevato (fatto pari a 1) nel gruppo G1 e decresce progressivamente per i soggetti appartenenti a G2 (0,68), G3 (0,23), G4 (0,10) e G5 (0,02) [8]. Questi dati ci consentono già alcune interessanti osservazioni. La prima è che la presenza di DQ2.5 (DQA1*05/DQB1*02) si conferma il fattore di rischio più elevato nell’ambito dell’assetto HLA, soprattutto in presenza di una doppia copia di DQB1*02; la seconda è che DQ8

HLA and celiac disease: to each one his own risk HLA typing is frequently used to support clinical and serological suspect of celiac disease and to assess genetic predisposition in first-degree relatives of affected individuals. It is well known that the greatest proportion of celiac subjects carry HLA-DQ2 or -DQ8 molecules. People negative for DQ2/DQ8 are at a very low risk to develop gluten intolerance. A careful evaluation of HLA markers can help us in stratifying predisposed individuals in different classes of risk. Knowing these differences is useful to be able to give parents a more precise and accurate communication. Nella celiachia, la determinazione dell’assetto HLA è frequentemente impiegata come supporto in fase diagnostica e per definire la predisposizione a sviluppare la malattia nei famigliari dei soggetti affetti. È noto che la celiachia si manifesta quasi invariabilmente solo nei soggetti positivi per HLA-DQ2 e -DQ8. In assenza di questi HLA, si può ritenere che il rischio di sviluppare l’intolleranza al glutine sia trascurabile. Una più attenta interpretazione dell’assetto HLA ci può aiutare a distinguere, nell’ambito dei soggetti predisposti, diversi livelli di rischio. Conoscere queste differenze è utile per poter dare ai genitori una comunicazione più precisa e puntuale. sotto mano qualche semplice chiave di lettura.

HLA, glutine e celiachia

Il legame tra HLA-DQ2 e -DQ8 e glutine è, per così dire, “strutturale”. Determinate sequenze aminoacidiche contenute nelle diverse componenti del glutine (α-, γ-, ω-gliadina e glutenina) hanno un’elevata affinità per alcuni siti di legame presenti sulle molecole DQ2 e DQ8 espresse sulle cellule che presentano l’antigene ai linfociti T. La transglutaminasi tessutale modifica (deaminazione) la struttura della gliadina in modo da aumentare ulteriormente questa affinità. In realtà, il DQ2 è in grado di riconoscere un numero maggiore di peptidi derivati dal glutine rispetto al DQ8 e già questo rappresenta un primo elemento per differenziare il rischio di sviluppare la malattia [2-4]. In presenza di HLA diversi dal DQ2/DQ8 il legame con il glutine (nativo o modificato dalla transglutaminasi) è di gran lunga meno efficiente e rende molto meno probabile l’attivarsi dei meccanismi immuno-mediati propri della CE. È ormai noto che circa il 90% dei pazienti con CE è portatore dell’eterodimero

HLA a rischio, ma quanto a rischio?

Per corrispondenza:

Enrico Valletta e-mail: e.valletta@ausl.fo.it

127


il punto su

(DQA1*0301/DQB1*0302) ha un rischio relativo inferiore a DQ2.5; la terza è che anche i portatori di una doppia copia di DQB1*02 (in assenza di DQA1*05), pur non essendo né DQ2.5né DQ8-positivi, hanno un rischio relativo paragonabile a quello dei soggetti DQ8-positivi. Infine, chi ha un assetto HLA-DQ diverso dai precedenti ha un rischio di CE cinquanta volte inferiore a chi è DQ2.5-positivo. L’esistenza di una graduazione del rischio all’interno dei cinque sottogruppi è stata confermata anche successivamente, assegnando valori di rischio pari a 21% per G1, 17% per G2, 6% per G3, 5% per G4 e 0,6% per G5 [9]. Lo studio di Megiorni e coll. descrive meglio le differenze del rischio, non solo in relazione all’assetto HLA, ma anche al sesso, tenendo come riferimento un rischio di CE pari a 1:100 nella popolazione generale [10]. La tabella mostra che: il rischio più elevato di CE sta nella contemporanea presenza di DQ2.5 e di DQ8; la positività per DQ2.5 conferisce un rischio maggiore nei soggetti con doppia copia di DQB1*02 rispetto a quelli con singola copia; la doppia copia B1*02, anche nei soggetti DQ2.5/DQ8negativi conferisce un elevato grado di rischio (1:26) e che la presenza di una sola copia di B1*02 porta con sé un rischio dimezzato rispetto alla popolazione generale ma comunque non trascurabile (1:210); la presenza del solo DQA1*05, seppure marginale (1:1842), non è del tutto irrilevante, soprattutto nei maschi. La positività per DQ8 (1:89) conferisce un rischio aggiuntivo (1:24) se associata a una copia di B1*02. Un’analoga (pur con qualche lieve differenza) graduazione del rischio all’interno degli HLA di predisposizione è stata osservata in celiaci italiani anche da Piccini e coll. [7]. Già dieci anni fa Karell e coll. [11] avevano segnalato che un’elevata percentuale di celiaci DQ2.5/DQ8negativi risultava positiva, comunque, per una metà dell’eterodimero DQ2.5; aveva cioè o DQA1*05 o DQB1*02, e raccomandavano di non limitarsi alla definizione di DQ2.5/DQ8-positivo/negativo ma di valutare anche l’eventuale presenza di metà dell’eterodimero DQ2.5. Nei soggetti DQ2.5/DQ8-negativi merita una particolare attenzione anche l’eterodimero DQA1*0201-DQB1*0202 128

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TABELLA:

RISCHIO DI CELIACHIA IN RELAZIONE ALL’ASSETTO HLA E AL SESSO [6-7]

HLA DQ2.5 e DQ8 DQ2.5 (B1*02/02) DQ8 (B1*02 pos.) B1*02/02 DQ2.5 (B1*02/X) DQ8 (B1*02 neg.) B1*02/X A1*05 Altro

Rischio

Maschi

Femmine

1:7 1:10 1:24 1:26 1:35 1:89 1:210 1:1842 1:2518

1:8 1:13 1:52 1:26 1:54 1:157 1:208 1:1027 1:2497

1:7 1:8 1:16 1:27 1:26 1:62 1:211 1:8327 1:2530

(HLA-DQ2.2) che ha strette analogie con DQ2.5 e che è stato associato alla CE in alcune casistiche europee [12]. Studi ulteriori hanno dimostrato che la CE è più frequente nelle femmine rispetto ai maschi (F:M = 1,8), che le femmine sono più frequentemente DQ2.5/DQ8positive (F = 94%; M = 85%), mentre c’è una prevalenza dei maschi (F:M = 0,7) tra i celiaci DQ2.5/DQ8-negativi [5].

Il rischio nei parenti di primo grado

La determinazione HLA è utilizzata per individuare chi, tra i famigliari di un celiaco, potrebbe sviluppare la CE (i DQ2.5/DQ8-positivi) e chi, al contrario, può essere ragionevolmente esentato da ripetuti controlli sierologici (i DQ2.5/DQ8-negativi). L’informazione che di solito viene data ai genitori è che la probabilità di un altro caso di celiachia tra i fratelli è circa il 10%. Anche in questo contesto, sapere interpretare alcuni assetti può aiutarci a essere più precisi nella valutazione del rischio. In una recente casistica italiana, il 65% dei fratelli/sorelle e il 58% dei genitori di un celiaco avevano un assetto HLA predisponente a rischio molto elevato o elevato (DQ2.5, DQ8, DQB1*02/02) ma, tra questi, la percentuale di celiaci era molto diversa: 20% tra i fratelli/sorelle e 6% tra i genitori [10]. Ne discendeva un rischio di CE del 13,6% nella fratria – maggiore per le femmine (17,6%) rispetto ai maschi (10,8%) – e solo del 3,4% nei genitori. All’interno del gruppo dei fratelli/sorelle, le femmine avevano meno frequentemente dei maschi un HLA a rischio (57% vs 71%), ma in questo caso la probabilità di CE era raddoppiata (F =

Valutaz. del rischio Molto Molto Alto Alto Alto Alto Basso Molto Molto

alto alto

basso basso

29%; M = 15%). Il dato, già segnalato più sopra nella popolazione generale, conferma che la positività per DQ2.5/DQ8 rappresenta un rischio di CE maggiore per le femmine rispetto ai maschi, soprattutto se l’aplotipo predisponente è ereditato dal padre [5]. In sintesi, circa il 40% della fratria di un soggetto con CE avrà un rischio trascurabile di malattia, mentre sui rimanenti con HLA predisponenti si potrà ragionare cercando di graduare il rischio in relazione ai diversi aplotipi presenti.

Quando gli HLA?

Le raccomandazioni dell’ESPGHAN assegnano un ruolo importante agli HLA sia in fase diagnostica che di gestione dei contesti famigliari a rischio [1]. Nei bambini con segni e sintomi suggestivi di CE e anticorpi transglutaminasi (TGA) fortemente positivi (oltre dieci volte la norma), la presenza di HLA predisponenti consente di concludere la diagnosi senza ricorrere alla biopsia. Al contrario, l’assenza di HLA a rischio mette in forte crisi (anche se non esclude in assoluto) l’ipotesi diagnostica. Gli HLA hanno un loro spazio anche nelle situazioni dubbie, nelle quali gli elementi clinici, sierologici e istologici sono discordanti o quando l’iter diagnostico è stato anomalo o complicato. Recentemente, sembra emergere una linea speculativa che riterrebbe superflua la tipizzazione HLA nei bambini sicuramente sintomatici e con TGA positivi a titolo elevato; in questi casi c’è da attendersi la (quasi) certa presenza di HLA predisponenti e si potrebbe forse concludere per una diagnosi di CE “risparmiando” un esame non indispensabile. Si tratta di un


il punto su

ulteriore tentativo di semplificazione e razionalizzazione per il quale, tuttavia, mancano allo stato attuale evidenze sufficienti. In presenza di fratelli/sorelle o genitori con CE è possibile utilizzare gli HLA per individuare i soggetti (circa il 40%) a bassissimo rischio ed esentarli da ulteriori e ripetuti accertamenti sierologici. Per tutti gli altri è raccomandata la sorveglianza clinica e sierologica ogni due-tre anni; una più precisa graduazione del rischio, sulla base degli aplotipi rilevati, può essere data per completare l’informazione ai genitori ma non modifica, nella sostanza, i tempi e i modi della sorveglianza.

In sintesi

La genetica della CE è argomento complesso e in continua evoluzione. I rapporti tra sistema HLA e CE rappresentano la parte di questo mondo a noi più vicina sia come comprensibilità che come possibilità di utilizzo nella pratica. In realtà, la CE è malattia multifattoriale a forte componente genetica, ma il sistema HLA risponde solo per 40% circa del rischio genetico. E gli altri 39 loci genetici non-HLA, individuati e ritenuti rilevanti per la CE, contribuiscono per non più di un ulteriore 5% [3]. C’è quindi ancora molto da scoprire e da capire. Per

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il pediatra può essere utile avere dimestichezza con l’assetto HLA-DQ che viene frequentemente richiesto come supporto nelle diagnosi molto “facili” (per evitare la biopsia), in quelle molto “difficili” (casi dubbi o complessi), e per selezionare i famigliari potenzialmente a rischio da seguire nel tempo. La terminologia che i laboratori utilizzano nelle risposte non è sempre uniforme e può indurre in inganno. Lo schema riassunto nella tabella ci dice che esistono diversi gradi di predisposizione all’interno del sistema DQ2/DQ8 e che qualche attenzione va posta anche alla composizione allelica per evitare di sottovalutare quote di rischio potenzialmente significative (B1*02/02 e B1*02/X). Possono apparire differenze non sempre decisive ai fini di un “consiglio genetico” (si tratta, pur sempre, di una malattia assolutamente benigna), ma utili per rispondere con maggiore precisione ad alcune domande poste dai genitori. u Bibliografia [1] Husby S, Koletzko S, Korponay-Szabó IR, et al. European Society for Pediatric Gastroenterology, Hepatology, and Nutrition guidelines for the diagnosis of coeliac disease. J Pediatr Gastroenterol Nutr 2012;54(1):136-60. doi: 10.1097/MPG.0b013 e31821a23d0. [2] Trynka G, Wijmenga C, van Heel DA. A genetic perspective on coeliac disease. Trends Mol Med

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La psichiatria (anche infantile) tra diagnosi e diagnosticismo Francesco Ciotti Neuropsichiatra infantile, Cesena

Allen Frances, capo della task force del DSM IV americano, ha scritto nel 2013, in contemporanea all’uscita del DSM V in USA, un libro durissimo contro l’ultima edizione della classificazione psichiatrica americana delle malattie mentali, dal titolo Primo, non curare chi è normale (Bollati-Boringhieri). In una conferenza tenuta a Bologna per la rivista Per corrispondenza:

Francesco Ciotti e-mail: fran.ciotti@alice.it

Psicoterapia e scienze umane ha illustrato le ragioni della sua avversione all’ultima classificazione psichiatrica, ma ancor prima nella sua relazione ha messo in discussione a posteriori la classificazione IV, da lui stesso diretta, per le conseguenze che ha prodotto in USA dopo la sua diffusione successiva al 1994 nella edizione originale e al 2000 nell’edizione rivista. Le conseguenze nefaste delle classificazioni rivedute e corrette sono, secondo Frances, le false epidemie, ovvero l’invenzione di nuove malattie e nuove diagnosi che portano bambini e adulti a sot-

toporsi a visite inutili e a psicofarmaci dannosi. In particolare il DSM IV ha prodotto la diffusione di tre false epidemie in età evolutiva: 1. L’epidemia del disturbo bipolare. Assimilando i disturbi di comportamento e della condotta in età preadolescenziale e adolescenziale al disturbo bipolare dell’adulto (depressione-mania), ha condotto molti giovani a prognosi non dimostrate e a trattamenti con antidepressivi senza dimostrazione di efficacia. 2. L’epidemia di ADHD. Limitando la diagnosi alla presenza di sola inattenzione e di sola iperattività e in un solo 129


il punto su

contesto di vita, ha allargato la sindrome e i bambini trattati con farmaci. 3. L’epidemia di autismo, con l’estensione della diagnosi di autismo di Asperger o ad alto funzionamento ai bambini temperalmente molto riservati, e con trattamenti antipsicotici dannosi e per l’umore e per l’obesità. Questo si è prodotto nonostante la task force del DSM IV avesse scientemente obiettivi conservativi della nuova classificazione rispetto alla precedente del DSM III. Gli effetti probabili della DSM V saranno ancora più disastrosi perché la nuova task force ha volutamente perseguito obiettivi rivoluzionari rispetto alla precedente, nonostante le nuove conoscenze neuroscientifiche, che hanno introdotto nuove informazioni sul funzionamento normale del cervello, nulla abbiano apportato di significativo per la conoscenza delle malattie mentali, fatta eccezione forse per la demenza di Alzheimer. Il DSM V crea nuove diagnosi perché amplia il confine tra normalità e devianza, in quanto si prefigge esplicitamente lo scopo della identificazione precoce dei disturbi ai fini di un intervento precoce che modifichi la storia naturale di quel disturbo da lieve a grave. È il metodo dello screening che, se è fallace, coi falsi positivi crea più danni che benefici non solo in psichiatria ma in tutta la medicina: ne sono esempio recente le conclusioni sullo screening del cancro alla prostata, che non salva vite ma produce danni. Uno screening per essere efficace deve soddisfare due criteri: 1. permettere una diagnosi accurata con pochissimi falsi positivi e negativi; 2. disporre di una terapia-intervento efficace e sicura che modifichi la storia

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Quaderni acp 2014; 21(3)

naturale della malattia-disturbo. Ora in psichiatria queste due condizioni non esistono quasi mai. Pochi gli strumenti standardizzati capaci di distinguere chiaramente tra normalità e patologia. Costosi, poco efficaci, molto insicuri gli psicofarmaci. Attraverso questo metodo fallace il DSM V medicalizza la variabilità individuale, deresponsabilizza le persone, crea queste nuove diagnosi: 1. il “rischio psicotico”, da trattare con gli antipsicotici per impedire l’evoluzione in psicosi (crea il 70% di falsi positivi); 2. la “disregolazione del temperamento” che sostituisce il disturbo bipolare (categoria introdotta da un solo gruppo di ricerca al mondo, che mette a rischio farmacologico inutile bambini e adolescenti); 3. “ansia-depressione” mista, transitoria (rende pazienti un 10% di persone che realizzano normali e necessari sintomi di adattamento agli stress del vivere; 4. alimentazione incontrollata o binge eating con una abbuffata settimanale (in USA una nuova inarrestabile epidemia); 5. disturbi neuro-cognitivi minori, prodromici dell’Alzheimer (crea ai test clinici il 50% di falsi positivi, devastati dal falso allarme); 6. depressione post-lutto (conduce inutilmente dal medico chi avrebbe bisogno di famiglia e di amici); 7. ADHD dell’adulto (allarga inutilmente l’uso dei farmaci psicostimolanti); 8. disturbo d’ansia generalizzato (senza porre confini chiari tra ansia fisiologica e devianza). Si calcola che questi criteri porteranno il 35% della popolazione ad avere una

nuova diagnosi psichiatrica in un anno e il 100% ad avere una diagnosi psichiatrica nella vita. Probabilmente la classificazione psichiatrica descrittiva delle malattie mentali ha già progredito per quanto più poteva e non dispone, al momento, di scoperte scientifiche che riguardino la patogenesi dei disturbi da autorizzare modifiche significative. Su questo piano la psichiatria oggi è al tempo dell’astronomia prima di Keplero, della biologia prima di Darwin e della fisica prima di Einstein. Del resto, il cervello è il sistema più complesso dell’universo. Probabilmente dietro un disturbo grave della schizofrenia si celano cento malattie diverse, per le quali disponiamo di un farmaco sintomatico utile, l’antipsicotico, come l’antipiretico per la febbre. Abbiamo farmaci e psicoterapie utili, ma li usiamo male. Un terzo delle depressioni gravi non è adeguatamente trattato, mentre i medici di base prescrivono gli antidepressivi a persone che non ne hanno bisogno. I servizi psichiatrici di secondo livello rischiano di essere sommersi da una domanda e da invii inappropriati, mentre non trovano risorse e tempo per trattare i disturbi gravi. Curare chi è normale o per normalizzare le differenze e le sofferenze della vita e della società crea danni alle persone e profitti alle case farmaceutiche. Il primo dovere del medico, come ci ha insegnato Ippocrate, è non nocere, specie per gli psichiatri, specie per la mente dell’uomo. La prossima edizione del DSM forse va affidata, non più a una task force ristretta di ricercatori che vedono pazienti e cavie in laboratorio, ma a un gruppo più vasto di specialisti, medici e non, sanitari, epidemiologi, politici, filosofi, sociologi. Perché, come ci insegnava Basaglia, la malattia mentale non è definita dalla natura, ma dalla definizione sociale di essa. u


vaccin

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Quali vaccinazioni nel bambino affetto da diabete mellito? Franco Giovanetti Dirigente medico, Dipartimento di Prevenzione, ASL CN2, Alba, Bra (CN)

Il diabete mellito fa parte di un gruppo di malattie croniche molto diverse tra loro, ma con una caratteristica comune: l’aumentato rischio di sviluppare determinate malattie infettive o di manifestare le complicanze a esse correlate. In particolare, le infezioni da virus influenzali e le malattie invasive da Streptococcus pneumoniae sono responsabili di un aumentato rischio di ospedalizzazione e morte nei bambini con malattie croniche, in confronto ai bambini sani [1-3]. Queste osservazioni dovrebbero rappresentare la base razionale per garantire a tutti i bambini con malattie croniche non solo le vaccinazioni di routine appropriate all’età, ma anche le vaccinazioni supplementari raccomandate per la loro patologia. Sappiamo da tempo che non è così. L’indagine a cluster ICONA condotta in Italia nel 2008 ha evidenziato nei bambini a rischio una copertura vaccinale contro l’influenza di gran lunga inferiore al 10%, mentre contro lo pneumococco risultava vaccinato solo il 49% dei soggetti al di sotto dei 2 anni [4]. Un’indagine effettuata nei centri specialistici di tre Regioni italiane sui soggetti con malattie croniche da 6 mesi a 18 anni ha evidenziato una bassa copertura vaccinale e un ritardo nella somministrazione dei vaccini di routine e di quelli raccomandati in base alla patologia [5]. In particolare, i bambini con diabete di tipo 1 erano quelli con i maggiori ritardi vaccinali. Tra le cause del ritardo riferite dai genitori, la più frequente era la presenza di una malattia intercorrente o la riattivazione della patologia di base, ma non mancavano la carenza d’informazione, la paura del vaccino e l’aver ricevuto un parere contrario alla vaccinazione. A tal proposito uno studio ha evidenziato che il ricevere una raccomandazione specifica per l’immunizzazione contro l’influenza da qualsiasi medico (può trattarsi del pediatra di famiglia o dello specialista o altro medico) è un agente forte determinante dell’adesione alla vaccinazione nei bambini con malattie croniche [6]. L’influsso positivo risulta indipendente da variabili quali le caratteristiche sociodemografiche, il numero di contatti con operatori sanitari e la malattia di base. Questa osservazione coincide con l’espePer corrispondenza:

Franco Giovanetti e-mail: giovanetti58@alice.it

rienza quotidiana degli operatori dei centri vaccinali, i quali possono confermare il ruolo centrale (in positivo ma purtroppo, alcune volte, anche in negativo) dello specialista o del pediatra di fiducia nelle scelte vaccinali operate dai genitori dei bambini con malattia cronica. Negli ultimi anni le tecniche di biologia molecolare (PCR) hanno permesso di valutare l’efficacia dei vaccini influenzali sull’influenza confermata in laboratorio, anziché sulle Influenza-like Illness (ILI), come invece accadeva in precedenza. Una metanalisi degli studi condotti con tale metodologia ha evidenziato un’efficacia vaccinale moderata negli adulti sani e risultati inconsistenti nei bambini per quanto riguarda i vaccini inattivati; sicuramente migliore è apparsa l’efficacia dei vaccini vivi attenuati, con evidenza di protezione elevata (83%) nella fascia d’età da 6 mesi a 7 anni [7]. In generale si può dire che le stime di efficacia del vaccino inattivato nei bambini di età ≥ 6 mesi variano anche notevolmente a seconda della stagione e del disegno dello studio. Complessivamente sono disponibili limitati dati di efficacia nei bambini da studi che hanno utilizzato la PCR. Tra questi un recentissimo studio caso-controllo, condotto durante le stagioni influenzali 2010-11 e 2011-12 negli Stati Uniti, ha riscontrato nei bambini vaccinati una riduzione di tre quarti del rischio di sviluppare forme severe di influenza [8]. Se è difficile valutare l’efficacia del vaccino influenzale nella popolazione generale e nelle varie fasce d’età, considerato anche il differente matching tra ceppi vaccinali e ceppi circolanti in corrispondenza delle varie stagioni influenzali, ancor più difficile è trovare evidenze di efficacia nelle singole patologie. Nel caso del diabete non sono disponibili revisioni sistematiche o studi randomizzati e controllati sull’effetto dei vaccini influenzali inattivati vs placebo o nessun intervento: ciò non deve stupire, in quanto non sarebbe etico nei soggetti ad alto rischio promuovere studi sperimentali che prevedano un gruppo di controllo non vaccinato [9]. Per quanto riguarda il vaccino contro lo pneumococco la situazione appare sicuramente più lineare. Dopo l’era del vaccino coniugato 7-valente, l’introduzione del vaccino 13-valente promette risultati importanti nella riduzione delle malattie invasive da S. pneumoniae [10]. Attual-

mente il vaccino è registrato per un amplissimo range di età, che si estende dalle 6 settimane di vita sino all’anziano. Il bambino diabetico di qualsiasi età può quindi ricevere il vaccino 13-valente, qualora non sia stato vaccinato nel primo anno di vita, come prevede il calendario vaccinale vigente. u

Conflitto d’interessi. L’Autore dichiara di non avere rapporti di tipo economico con aziende farmaceutiche. Sporadicamente ha accettato inviti da Wyeth (ora Pfizer), Sanofi-Pasteur, Novartis Vaccines e GSK per la partecipazione a convegni.

Bibliografia [1] Bhat N, Wright JG, Broder KR, et al. Influenzaassociated deaths among children in the United States, 2003-2004. N Engl J Med 2005;353(24): 2559-67. [2] Wong K, Jain S, Blanton L, et al. Influenzaassociated pediatric deaths in the United States, 2004-2012. Pediatrics 2013;132(5);796. doi: 10.1542/peds.2013-1493. [3] van Hoek AJ, Andrews N, Waight PA, et al. The effect of underlying clinical conditions on the risk of developing invasive pneumococcal disease in England. J Infect 2012;65(1):17-24. doi: 10.1016/j. jinf.2012.02.017. [4] Gruppo di lavoro ICONA. ICONA 2008: Indagine di Copertura vaccinale nazionale nei bambini e negli adolescenti. Rapporti ISTISAN 09/29. http: //www.iss.it/binary/publ/cont/09_29_web.pdf /. [5] Pandolfi E, Carloni E, Marino MG, et al. Immunization coverage and timeliness of vaccination in Italian children with chronic diseases. Vaccine 2012; 30(34):5172-8. doi: 10.1016/j.vaccine.2011.02.099. [6] Pandolfi E, Marino MG, Carloni E, et al. The effect of physician’s recommendation on seasonal influenza immunization in children with chronic diseases. BMC Public Health 2012;12:984. doi: 10.1186/1471-2458-12-984. [7] Osterholm MT, Kelley NS, Manske JM, et al. The Compelling Need for Game-Changing Influenza Vaccines. An Analysis of the Influenza Vaccine Enterprise and Recommendations for the Future. Center for Infectious Disease Research and Policy (CIDRAP), University of Minnesota, ottobre 2012. http://www.cidrap.umn.edu/compellingneed-game-changing-influenza-vaccines/. [8] Ferdinands JM, Olsho LE, Agan AA, et al. Effectiveness of influenza vaccine against lifethreatening RT-PCR-confirmed influenza illness in US children, 2010-2012. J Infect Dis 2014. Advance access doi:10.1093/infdis/jiu185. First published online: March 26, 2014. [9] Michiels B, Govaerts F, Remmen R, et al. A systematic review of the evidence on the effectiveness and risks of inactivated influenza vaccines in different target groups. Vaccine 2011;29(49):915970. doi: 10.1016/j.vaccine.2011.08.008. [10] Martinelli D, Pedalino B, Cappelli MG, et al. Towards the 13-valent pneumococcal conjugate universal vaccination: Effectiveness in the transition era between PCV7 and PCV13 in Italy, 20102013. Hum Vaccin Immunother 2014;10(1):33-9. doi:10.4161/hv.26650.

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Le mutilazioni genitali femminili: basta una storia per svelare un mondo Valentina Venturi*, Tamara Fanelli**, Enrico Valletta*** *Pediatra di libera scelta, AUSL della Romagna, Forlì; **Ufficio Minori, Questura di Forlì; ***AUSL della Romagna, Dipartimento Materno-Infantile, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, Forlì Abstract siderando che in numerosi Paesi africani

Female genital mutilation: a story seems enough to uncover a world Female genital mutilation/cutting (FGM/C) is a common practice among populations of North and Central Africa, from the Atlantic coast to the Horn of Africa, and of Middle East. As many as one hundred to one hundred and forty million girls have been cut worldwide and three million girls are at risk of being cut every year. Most of them are cut before 15 years of age. A number of young women and girls migrating from Africa to Italy are likely to have been cut, or their parents are planning to cut them in the future. Such practice is banned and punished both by Italian and international legislation. The case described shows how important it is for the paediatrician to be aware and informed of the cultural and legal implications in order to act properly.

la maggioranza delle bambine subisce una MGF entro i 5 anni età, non è improbabile che anche il pediatra possa imbattersi in problematiche di questa natura e ne debba riconoscere le complessità socio-sanitarie e medico-legali. Il caso che descriviamo ci aiuta a rendere più realistica questa ipotesi [2].

Gli interventi rituali sui genitali femminili sono una pratica antichissima presso le popolazioni che appartengono alla fascia centro-nord africana, dalla costa atlantica al Corno d’Africa fino al Medio Oriente. Sono circa 100-140 milioni le donne che in tutto il mondo hanno subìto una mutilazione genitale (MGF) e ogni anno circa 3 milioni rischiano uguale trattamento. La maggioranza di questi interventi avviene entro i 15 anni di età. I crescenti flussi immigratori rendono attuale questa problematica anche in Italia ed è ragionevole ritenere che un certo numero di bambine, provenienti da Paesi nei quali le MGF sono consuetudine, siano state o possano essere sottoposte a mutilazioni di questo tipo. La legislazione italiana e larga parte di quella internazionale condannano e puniscono questa pratica. Il caso che descriviamo dimostra che il pediatra deve essere consapevole di questo fenomeno e conoscere il contesto culturale e normativo nel quale potersi muovere con avvedutezza ed efficacia.

“Anya (nome di fantasia) ha 9 anni ed è nata in Italia da genitori che provengono dal Burkina Faso. Sono la sua pediatra da quando aveva 2 anni; dopo di lei sono nati un fratellino che ha ora 5 anni e la sorellina S. di 4 anni, entrambi miei pazienti dalla nascita. Sono quasi sempre venuti in ambulatorio con la mamma che, pur parlando poco l’italiano, è abbastanza autonoma e non aspetta che il marito torni dal lavoro per farsi accompagnare da me, come è spesso abitudine delle donne immigrate. All’inizio è stato difficile farsi capire: la mamma mi portava Anya solo quando era malata, senza prendere appuntamento e faceva fatica a comprendere le indicazioni che le davo. In seguito ha iniziato a seguire meglio le mie prescrizioni, a presentarsi agli appuntamenti dei bilanci di salute e non solo per le malattie dei bambini, a non utilizzare il Pronto Soccorso per situazioni di mia competenza: ero convinta di aver instaurato una buona relazione con questa famiglia. Certamente la differenza culturale permaneva, era evidente nel modo di vestire della madre, nel modo un po’ sbrigativo e rude (per me) di trattare i bambini e nelle abitudini alimentari che l’hanno portata a svezzare i figli con i cibi tipici del proprio paese d’origine. ... ma l’Africa era presente nelle loro vite più di quanto io potessi immaginare e l’ho percepito il giorno in cui sono stata contattata da un’ispettrice dell’Ufficio Minori della Questura per informazioni su Anya e sulla sua famiglia. Dalla scuola di Anya era pervenuta la segnalazione che la bambina si era detta preoccupata per un “taglio” nelle parti intime che avrebbe dovuto subire l’estate successiva, così come era accaduto alla sorella minore S. quando era stata in Africa. Costernata per la mia ignoranza dei fatti

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Gli interventi rituali sui genitali femminili sono una pratica antichissima tra le popolazioni della fascia centro-nord africana, dalla costa atlantica al Corno d’Africa fino al Medio Oriente. Sono circa 100-140 milioni le donne che in tutto il mondo hanno subìto una mutilazione genitale e, ogni anno, circa 3 milioni rischiano un uguale trattamento [1]. Tutti gli organismi internazionali, coinvolti nella tutela dei diritti umani e attenti alle condizioni socio-sanitarie dei Paesi in via di sviluppo, hanno espresso condanna nei confronti delle pratiche di mutilazione genitale femminile (MGF), avviando indagini epidemiologiche e programmi di monitoraggio, promuovendo campagne educative e incoraggiando provvedimenti legislativi che mettessero al bando qualsiasi intervento non terapeutico di questa natura. Tra i documenti più recenti, il pronunciamento dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Intensifying global efforts for the elimination of female genital mutilations, dicembre 2012) e l’ampio report dell’UNICEF (luglio 2013) Per corrispondenza:

Enrico Valletta: e-mail: e.valletta@ausl.fo.it 132

che fotografa lo stato attuale del fenomeno alla luce delle dinamiche socio-culturali intervenute negli ultimi 20 anni (figura 1) [1-2]. Molti Stati africani e del Medio Oriente hanno ratificato disposizioni e leggi che scoraggiano o bandiscono qualsiasi MGF incontrando, peraltro, grandi difficoltà nella loro attuazione. I flussi migratori provenienti dall’Africa hanno portato la consapevolezza del problema anche in Italia. L’art. 4 della Legge n. 7 del 9 gennaio 2006 (vedi oltre) formula Linee Guida di comportamento per le figure professionali sanitarie e sociali, tese alla prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine sottoposte a MGF; nel 2007 il Ministero della Salute pubblicava una ricognizione delle risorse regionali dedicate al monitoraggio di questa pratica [3-4]. Già alcuni anni prima la Regione Emilia-Romagna aveva condotto un’indagine conoscitiva ed elaborato raccomandazioni per supportare i professionisti nell’approccio culturale, ancor prima che sanitario, a un tema così complesso [4-5]. Gli operatori dell’area ostetricoginecologica sono evidentemente in prima linea rispetto alle possibili ripercussioni di natura funzionale, sessuale e infettiva, e alle complicanze connesse alla gravidanza e al parto. Tuttavia, con-

La storia di Anya, raccontata dalla sua pediatra


pediatri fra due mondi

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FIGURA 1: PERCENTUALE DI DONNE SOTTOPOSTE A MGF

TABELLA

1: CLASSIFICAZIONE DELLE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI [3-5-6]

Tipo I

Asportazione del prepuzio, con o senza l’asportazione di parte o di tutto il clitoride In evidenza l’area di tessuto rimosso

Tipo II

Parziale o totale rimozione del clitoride e delle piccole labbra con o senza escissione delle grandi labbra In evidenza l’area di tessuto rimosso e dopo sutura

Tipo III

Tipo IV

0%

20%

40%

60%

80%

100%

(mai avevo avvertito alcun timore in Anya, né notato nulla di strano in S.!), guardo nella cartella della sorella minore e vedo che S. aveva saltato il bilancio di salute dei 2 anni, recuperato malamente con un peso, un’altezza e qualche annotazione sullo sviluppo psico-motorio in occasione di una visita per patologia acuta verso i 2 anni e mezzo (nessun appunto sui genitali!). Cerco nella mia cartella qualche traccia di un suo precedente soggiorno in Africa, ma non trovo prove certe (nell’ottobre del 2010 avevo prescritto la profilassi antimalarica per Anya e per il fratellino che, presumibilmente, erano andati in Africa, ma non per S.!). Mi accorgo di avere in programma per S. un appuntamento per il bilancio di salute dei 3 anni di lì a poco, per cui mi congedo dalla dottoressa dell’Ufficio Minori con l’impegno di ricontattarla a breve per fornirle informazioni più precise. Nel frattempo lei avrebbe convocato con discrezione la famiglia per un colloquio. Al bilancio di salute S. è accompagnata dai genitori; sul libretto sanitario verifico che si era recata in Africa nel 2010 (la

Riduzione del canale vaginale con taglio e avvicinamento delle piccole e/o grandi labbra fino a sigillarle anche mediante sutura (infibulazione), con o senza escissione del clitoride.

In evidenza l’area di tessuto rimosso e dopo sutura

Operazioni, non specificamente classificate, che includono: perforazione, penetrazione o incisione del clitoride e/o labbra, stiramento del clitoride e/o labbra, cauterizzazione mediante ustione del clitoride e del tessuto circostante, raschiamento del tessuto circostante l’orifizio vaginale o incisione della vagina, introduzione di sostanze corrosive o erbe in vagina per causare emorragia o allo scopo di serrarla o restringerla

profilassi antimalarica era stata probabilmente prescritta dal medico dell’Ufficio di Igiene che l’aveva vaccinata per la febbre gialla). Ancora prima che io inizi a visitare la bambina, il padre mi comunica che il giorno precedente erano stati convocati in Questura per rispondere ad alcune domande rivolte alle famiglie di immigrati. Nel corso di quell’intervista avevano ammesso di aver sottoposto S. a una pratica di chirurgia rituale femminile come era consuetudine per tutte le bambine della loro famiglia (era stato così anche per la madre di S.). Il fatto si era verificato nel 2010 quando erano tornati in Africa dai loro parenti (S. aveva circa un anno e mezzo). Anche Anya avrebbe dovuto subire lo stesso intervento ma era stato rimandato perché in quei giorni non stava bene. Nel colloquio avuto in Questura avevano capito di aver fatto “qualcosa di sbagliato” per la nostra Legge ed erano preoccupati. Non ho quindi dovuto addurre alcuna giustificazione per esaminare i genitali della bambina e per verificare che le piccole labbra erano state ridotte a due piccoli lembi mucosi in corrispon-

denza della commissura vulvare anteriore e che il clitoride era appianato. Durante la visita, il padre mi ripete che nella loro famiglia si tratta di una pratica abituale, come la circoncisione per i maschi, ed effettivamente durante lo stesso viaggio in Africa il fratellino di Anya era stato circonciso, anche lui in casa, come la sorella. Mi dice anche che in Burkina Faso le donne che non sono sottoposte a quella pratica da bambine, trovano marito con difficoltà, sono considerate “diverse”. Mi permetto di far osservare al padre che, anche se diffuse e accettate nel suo Paese, sono pratiche molto dolorose e dannose per la salute delle bambine. Gli spiego che la Legge italiana vieta le pratiche di questo tipo e che sono tenuta a riferire il tutto alla dottoressa della Questura. Alcuni giorni dopo ho rivisto la piccola S. insieme a una ginecologa esperta in questo tipo di lesioni, che ha confermato la presenza di una MGF di III tipo con clitoridectomia e asportazione delle piccole labbra (una delle più diffuse in Africa). Ricevuto il referto congiunto mio e della ginecologa, l’Ufficio Minori della 133


pediatri fra due mondi

Questura ha avviato il successivo iter giudiziario”.

Disposizioni e leggi in tema di mutilazioni genitali femminili

Le pratiche di MGF appartengono a retaggi di culture ancestrali, nell’ambito dei cosiddetti “riti di passaggio”, volti a scandire le fasi della vita sociale all’interno dei gruppi umani. Si tratta di pratiche che portano alla rimozione (o al danno) parziale o totale dei genitali esterni femminili (compiute sulla base di motivazioni non terapeutiche), che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha classificato in quattro tipologie (tabella 1) [6]. Nel 2001, il Parlamento dell’Unione Europea ha adottato una Risoluzione di condanna delle MGF in quanto violazione dei diritti umani fondamentali e ha chiesto agli Stati membri di considerare reato qualsiasi tipo di MGF [7]. Il legislatore italiano, con la Legge n. 7 del 9 gennaio 2006, “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile” (G.U. n. 14 del 18 gennaio 2006), ha introdotto nel Codice penale uno specifico reato che punisce queste pratiche. Nel panorama del diritto italiano è il primo esempio di cultural crime, o reato culturalmente motivato: un “comportamento realizzato da un membro appartenente a una cultura di minoranza (immigrato), […] considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni”. La Legge, intervenendo in un contesto di evidente conflitto normativo/culturale, si propone di individuare “le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di MGF quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine”. I Ministeri per le Pari Opportunità, della Salute, dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, del Lavoro e delle Politiche Sociali, degli Affari Esteri e dell’Interno hanno individuato, congiuntamente, programmi diretti a informare le comunità degli immi134

Quaderni acp 2014; 21(3)

grati sulle leggi italiane che vietano le MGF, sui diritti fondamentali delle donne e delle bambine e sulla corretta preparazione al parto per le donne infibulate. Sul versante socio-sanitario si è operato sull’aggiornamento degli insegnanti della scuola dell’obbligo, sul monitoraggio dei casi già conosciuti e sulle attività di prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine che hanno subito una MGF. Il Ministero dell’Interno ha istituito un numero verde (800 300 558), “finalizzato a ricevere segnalazioni da parte di chiunque venga a conoscenza dell’effettuazione, sul territorio italiano, delle pratiche di MGF, nonché a fornire informazioni sulle organizzazioni di volontariato e sulle strutture sanitarie che operano presso le comunità di immigrati provenienti da Paesi dove sono effettuate tali pratiche”. La Legge italiana prevede sanzioni pecuniarie e amministrative nel caso in cui la MGF sia attuata all’interno delle strutture sanitarie del nostro Paese (D.L. 8.6.2001, n. 231). Per l’operatore sanitario responsabile di taluni di questi delitti è prevista l’interdizione dalla professione da 3 a 10 anni. La stessa Legge del 2006 intende garantire non solo l’integrità fisica e la salute, ma anche il benessere psico-sessuale della donna, la sua dignità e libertà di autodeterminazione. Individuando come illecite le mutilazioni dei genitali esterni, si è voluto tutelare la donna nei suoi diritti sessuali proteggendola da pratiche mutilanti intese a controllarne l’esercizio della sessualità pur senza incidere sulla sua capacità di procreare. Qualsiasi tipo di MGF, da chiunque provocata e per qualsiasi motivo in assenza di “esigenze terapeutiche”, è considerato reato. Se da questo deriva una “malattia nel corpo o nella mente” o se la mutilazione ha l’intento specifico di “menomare le funzioni sessuali”, il reato è considerato ancora più grave. Si è voluto, così, eliminare qualsiasi spazio di impunità anche per le menomazioni della funzione sessuale che non si accompagnino, necessariamente, a una mutilazione (es. incisione del clitoride o della vagina o restringimento dell’organo femminile). Il reato è considerato più grave se commesso a danno di un minore o per fini di lucro. Le stesse disposizioni si applicano

quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia e, previa richiesta del Ministro della Giustizia, quando la vittima sia un cittadino italiano o uno straniero residente in Italia. Se il responsabile del fatto è il genitore o il tutore, si può arrivare, rispettivamente, alla decadenza della potestà genitoriale o alla interdizione perpetua dalla tutela. Per questi reati c’è l’obbligo di procedere d’ufficio. L’esercente un servizio di pubblica necessità (sanitario libero professionista) ha l’obbligo di redigere il referto entro 48 ore, mentre il Pubblico ufficiale (dipendente pubblico) o l’incaricato di Pubblico servizio (professionista convenzionato con il SSN), che abbia avuto anche solo “notizia” dell’esecuzione di una MGF, deve redigere “senza ritardo” la denuncia (rapporto). Entrambe le comunicazioni devono essere trasmesse o al Pubblico Ministero o a un ufficiale di Polizia giudiziaria.

Anya, tra cultura e legge

Le cose iniziano a muoversi attorno ad Anya nell’aprile 2012, quando una sua compagna di classe riferisce alla propria madre, assistente sociale, una frase che poteva rimandare a pratiche di MGF (“questa estate in Africa mi taglieranno e cuciranno la passerotta”). L’assistente sociale inoltrava la segnalazione all’Ufficio Minori della Questura. L’Ufficio prendeva contatto con la pediatra di Anya e convocava i genitori affrontando, in termini prudentemente generali, il tema delle MGF. Nel colloquio i genitori di Anya ammettevano, senza difficoltà, di avere sottoposto in Burkina Faso, nel novembre del 2010, la figlia terzogenita a un intervento di chirurgia rituale. L’intervento, che trovava la loro piena adesione, poiché “una donna non è una donna” se non ha subìto questa procedura, era stato effettuato da personale non medico. Le verifiche successive della pediatra e della ginecologa sulla sorellina di Anya definivano il quadro dal punto di vista sanitario. Vale la pena ricordare che il pediatra ha l’obbligo di denunciare le ipotesi di reato a danno dei minori rilevate nell’ambito della sua attività, inoltrando il referto al Pubblico Ministero o a un ufficiale di Polizia Giudiziaria (es. Ufficio Minori). Nel nostro caso, il refer-


pediatri fra due mondi

to della pediatra e la denuncia sanitaria della ginecologa avevano evidenziato una “mutilazione genitale di terzo grado”, reato specificamente contemplato dall’art. 583 bis c.p. L’iter giudiziario proseguiva con la comunicazione alla Procura della Repubblica per accertare la responsabilità penale dei genitori e al Tribunale per i Minorenni al fine di garantire la tutela dei minori appartenenti al nucleo familiare. I genitori erano, infatti, imputabili del reato in quanto entrambi residenti in Italia così come la sorella di Anya in qualità di persona offesa. Il Tribunale per i Minorenni emetteva un Decreto provvisorio di sospensione dalla potestà genitoriale, nominando tutore provvisorio il Servizio sociale perché effettuasse, assieme ai Servizi sanitari della AUSL, una stretta vigilanza sulla crescita psicofisica dei bambini e sui loro rapporti con i genitori. Attraverso un’appropriata mediazione culturale si predisponeva un progetto educativo e psicologico di sostegno al nucleo familiare e, in particolare, a S., vittima della mutilazione. Ai genitori veniva fatto divieto di condurre i minori fuori dal territorio italiano, per impedire che anche Anya potesse subire lo stesso intervento all’estero. La successione degli eventi mette in luce l’importanza della tempestiva segnalazione dell’assistente sociale all’Ufficio Minori: essa ha consentito di verificare la menomazione di S., di accertare la responsabilità dei genitori ma, soprattutto, di scongiurare analogo destino per Anya. La stretta integrazione tra l’autorità giudiziaria e i servizi socio-sanitari coinvolti ha dato l’avvio a un percorso virtuoso di tutela dei minori e di affiancamento di tutto il nucleo familiare in un’ottica di maggiore consapevolezza e di integrazione socio-culturale. Ci è noto un solo caso analogo in giurisprudenza, nel quale il Tribunale di Verona (sentenza del 14 aprile 2010) condannava due coppie di genitori e una mammana nigeriani per avere effettuato,

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in territorio italiano, ripetute pratiche di MGF e di circoncisione su bambini connazionali.

Alcune considerazioni

La storia di Anya riassume alcune delle molte problematiche che accompagnano il tema delle MGF. Si tratta di un fenomeno con implicazioni antropologiche, religiose, storiche, sociali e culturali talmente vaste da sconsigliarne una trattazione sommaria e superficiale. Ci limiteremo pertanto a qualche considerazione pratica suggerita dal caso descritto. Il primo messaggio per il pediatra è che, in conseguenza dei crescenti flussi migratori in atto e della giovane età (entro i 15 anni) alla quale vengono quasi sempre attuate le pratiche di MGF, è del tutto possibile che tra le proprie assistite possa esserci qualche bambina che è stata sottoposta a chirurgia rituale. È bene esserne a conoscenza per motivi legati alla salute della paziente (rischio infettivo, disturbi della minzione, regolarità della dinamica mestruale, difficoltà di ordine sessuale), per una migliore comprensione del contesto culturale del suo nucleo familiare e per vigilare – come nel caso di Anya – sul possibile reiterarsi di un intervento oggi considerato gravemente lesivo dei diritti fondamentali dell’individuo e della sua integrità psico-fisica. Il secondo messaggio è che la pratica delle MGF è reato contemplato dal nostro Codice penale e, come tale, impegna ogni operatore sanitario a un’opera di prevenzione oltre che di immediata segnalazione all’Autorità giudiziaria, anche nel semplice sospetto che possa verificarsi entro e fuori i confini italiani. Non tanto e non solo perché la Legge possa dispiegare i propri effetti punitivi, ma soprattutto perché possano essere messe in atto azioni volte a favorire un mutamento culturale e il consapevole rifiuto di qualsiasi pratica di MGF. I dati raccolti dall’UNICEF dicono che qualcosa sta cambiando anche nella cultura

dei Paesi interessati e che la percentuale delle donne operate è passata dal 54% al 36%, con una diminuzione particolarmente evidente in Kenya, Benin, Repubblica Centrafricana, Iraq e Liberia [2]. Nello stesso Burkina Faso, è punibile non solo chi provoca una MGF, ma anche chi venga a conoscenza del fatto e non lo riferisca. L’ultimo messaggio, trasversale a tutto il percorso descritto, è che la comunicazione su questo tema, con le famiglie e con le bambine/adolescenti, deve essere improntata alla massima prudenza e rispetto di culture e tradizioni a noi pressoché sconosciute. È una raccomandazione contenuta in qualsiasi documento che tratti l’argomento MGF, a partire dal termine stesso “mutilazione” che, pur formalmente corretto per la nostra cultura, potrebbe risultare altrove offensivo e ostacolare ogni ulteriore tentativo di comprensione reciproca. u Bibliografia [1] World Health Organization, Eliminating Female Genital Mutilation: An interagency statement, WHO, UNFPA, UNICEF, UNIFEM, OHCHR, UNHCR, UNECA, UNESCO, UNDP, UNAIDS, WHO. Geneva 2008. http://www.who.int/reproductivehealth/publications/fgm/9789241596442/en /index.html/. [2] Risoluzione del Parlamento Europeo, 20.9.2001 n. 2035 (INI), GUCE C 77 E 28.3.2002. [3] Regione Emilia-Romagna. Progetto n. 9. Le mutilazioni genitali femminili (MGF) nella popolazione immigrata (dicembre 2000 - febbraio 2001). Raccomandazioni per i professionisti. www.saluter.it. [4] United Nations General Assembly resolution, Intensifying global efforts forthe elimination of female genital mutilations, UN document A/RES/67/ 146, 20 December 2012, United Nations, New York. www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/67/146. [5] United Nations Children’s Fund, Female Genital Mutilation/Cutting: A statistical overview and exploration of the dynamics of change. UNICEF, 2013. [6] www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_769_allegato.pdf. [7] Regione Emilia-Romagna. Progetto n. 9. Le mutilazioni genitali femminili (MGF) nella popolazione immigrata (dicembre 2000 - febbraio 2001). Risultati dell’indagine regionale. www.saluter.it

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Rubrica a cura di Maria Francesca Siracusano

Cosa pensano i bambini del loro essere malati

Anna Rosa Favretto, Francesca Zaltron Mamma, non mi sento tanto bene Donzelli editore, 2013 pp. 202, euro 25

Questo libro di due ricercatrici di cultura sociologica, ma abituate a lavorare con i pediatri, affronta un problema poco analizzato: che cosa pensano i bambini della loro salute e specialmente (“specialmente” perché questo riguarda molto i pediatri) cosa pensano di se stessi quando si ammalano o “non si sentono tanto bene”. Lo star bene o lo star male, in verità, non sono stati assoluti ma confinanti e quindi è particolarmente interessante il problema delle “soglie”, cioè della percezione del passaggio dallo stato di salute a quello di malattia. Il problema, che dovrebbe destare molto interesse fra i pediatri e fra i genitori, si colloca su un piano più generale: quanto si tiene conto, nella vita quotidiana, della capacità dei bambini di essere persone attive e progressivamente sempre più competenti? Il libro colloca il problema nella triade genitore/bambino/pediatra e cerca risposte con una ricerca alla quale hanno partecipato 151 bambini fra 7 e 10 anni residenti a Torino e nella provincia di Asti e i loro 20 pediatri del Gruppo ACP dell’Ovest, cioè del Piemonte e Valle d’Aosta. Oltre ai pediatri hanno partecipato alla ricerca 50 madri, 13 padri e 26 insegnanti. Il punto di vista di genitori e insegnanti è ovviamente di grande interesse nella comprensione, la più completa possibile, di cosa pensano i bambini. Si è trattato di una ricerca qualitativa, metodo più efficace per la comprensione del senso di quello che si voleva indagare, condotta attraverso focus group e interviste semistrutturate. Cosa pensano i bambini del loro star bene o star male comporta anche di interrogarsi sul ruolo che, nella corrente pratica ambulatoriale, viene assegnato al bambino all’interno della 136

relazione di diagnosi e cura. Molto spesso (quasi sempre?) il rapporto è fra adulti (pediatra e genitori) e tende a escludere il bambino. La ricerca ha messo in evidenza una buona presenza, anche in bambini abbastanza piccoli, verso il 7° anno, di una discreta competenza sui più frequenti “star male” che affollano lo studio del pediatra e che spesso vengono classificati come il famoso acuto banale; e anche una discreta comprensione della efficacia, nel far passare lo “star male”, sia dei farmaci che dell’attesa che passi e quindi della capacità di arrangiarsi da soli. Circa la capacità dei bambini di raccontare il loro malessere, è emerso che ne sono capaci se ascoltati e aiutati in ciò che raccontano. Esiste nella pratica corrente un certo scetticismo su queste loro capacità e l’aiuto alla comprensione che il libro, in qualche tratto faticoso, produce può essere di aiuto. E occorre dire che tale scetticismo non è solo dei pediatri, ma anche degli adulti che hanno partecipato alla ricerca. Al Convegno di Tabiano si è proposto ai partecipanti un questionario su cosa pensassero di tutto questo i pediatri di quel Convegno. Il quesito riguardava “Simone di 5 anni in studio con i genitori per mal di pancia”. Ha partecipato all’indagine il 79,3% dei convegnisti. Un risultato molto buono, ma non inatteso dato che Franco Panizon chiamava quelli di Tabiano pediatri consapevoli. Vi sapremo dire. Giancarlo Biasini Uno svezzamento a 3 stelle

Alain Ducasse, Paule Neyrat Ducasse bebè. 100 ricette semplici, sane e buone dai 6 mesi ai 3 anni L’Ippocampo, 2013 pp. 167, euro 15

Al primo sguardo siamo catturati dalle bellissime fotografie di invitanti piatti colorati che si alternano a illustrazioni divertenti. Proviamo allora a leggere qualche ricetta e ci viene l’acquolina in bocca e il primo pensiero è: “Ma è proprio necessario avere un bambino da svezzare?”. Sarebbe sicuramente bello

iniziare un lattante ai piaceri della tavola ma… in assenza del medesimo perché non provare qualche ricetta noi adulti? Sono semplici, gustose e, oltre a educare al gusto, insegnano a rispettare il susseguirsi delle stagioni e dei loro prodotti. La frutta e la verdura, che spesso i bambini rifiutano, vengono proposte insieme a yogurt, formaggi, pastina, cereali e “impiattati” in modo invitante. In tutte le ricette non viene mai usato zucchero o miele ma solo succo d’agave in piccole dosi. Non mancano ovviamente le erbe aromatiche, il cui uso permette di dare sapore alle pietanze, riducendo o eliminando i condimenti meno sani come il sale e i dadi. Un importante effetto collaterale dello svezzamento attuato seguendo le ricette di Ducasse sarà una regressione di tutti i componenti adulti della famiglia che vorranno mangiare le pappe del più piccolo! Un’unica critica: le tabelle stilate dalla nutrizionista che ha collaborato alla stesura del libro non sono completamente condivisibili, come l’indicazione a usare il latte di proseguimento o crescita sino ai 2 anni, indicazione che il bambino stesso, dopo aver assaggiato le gustose pietanze, forse rifiuterà! Se quindi decidete di consigliarlo a qualche vostra paziente, dovrete forse chiederle di non seguire alla lettera le tabelle e i suggerimenti di Paule Neyrat. Buona lettura e… buon appetito. Patrizia Elli Una storia personale

John Williams Stoner Fazi editore, 2012 pp. 332, euro 17,5

La prima edizione americana è del 1965 ma in Italia il romanzo è arrivato solo adesso. Perché l’ho letto? Il tam tam ristretto di qualche amico e il fatto curioso che il nome del protagonista del libro, William, è in realtà il cognome dello scrittore così come l’origine contadina e l’attività di professore universitario: l’Autore però giura che non c’è nulla di


libri

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« Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».

buona autobiografico. Di solito queste dichiarazioni sono in realtà una confessione, e questo mi ha intrigato molto. La storia racconta la vita di un professore di letteratura, dalla sua adolescenza fino alla sua morte. Una storia speciale? No! Una storia normale, si potrebbe dire. Ma la normalità è un’ideologia, una falsità che inghiotte tutto senza riconoscere l’unicità di ogni persona e di ogni vicenda umana. L’Autore del libro questo lo sa e dentro questa apparente normalità racconta una storia di eroica quotidianità. La narrazione di John Williams, sempre in terza persona, è dolce, delicata, ma netta, senza orpelli e non fa trapelare alcun giudizio morale. Una scrittura ricca di attenzione, compassione e affetto per ogni personaggio del romanzo. Questa delicatezza tuttavia nasconde sciabolate di profonda introspezione che colpiscono non il protagonista, William Stoner, bensì il lettore. Come arriva Stoner alla fine della sua vita? È felice? Ha avuto un’esistenza compiuta? È stato quello che voleva diventare? Oppure ha scoperto quello che era? Riuscirà Stoner ad assolvere l’imperativo “conosci te stesso” e avrà coltivato l’amore, non quell’amore che pensiamo come uno stato di grazia ma quella parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore? E noi scegliamo o scopriamo quello che siamo? Condividiamo l’amore come lo ha vissuto Stoner? Quante domande con cui confrontarsi con chi ha letto il romanzo. Le ultime due pagine, infine, mi hanno riportato alla memoria gli ultimi momenti di vita di Adriano nella indimenticabile prosa di Marguerite Yourcenar. Stoner è un libro di grande potenza e delicatezza e volevo condividere con voi questa bella lettura. Costantino Panza La faticosa adolescenza Daniela Corbella, Luca Ercoli, Laura Locatelli Adolescenza e Autonomia: che fatica! Soprattutto per le madri di figli maschi Pubblicato dall’Autore, 2014 pp. 176, euro 16

Italo Calvino Perché leggere i classici

Il libro è stato scritto da una pediatra, da un educatore e da un giornalista, e indaga le relazioni tra genitori e figli adolescenti. Utilizzando le interviste semistrutturate mirate a entrambi i genitori, o solo ai padri. La prima scoperta è che le relazioni tra madri e figli di sesso diverso, e padri e figli di sesso diverso non sono uguali, e che la fatica di crescere un figlio maschio da parte della madre sembra maggiore. Il libro scorre su due binari: il primo dedicato alla riflessione sull’adolescenza di oggi e sulla storia che ci ha portato fin qui, il secondo sulle strategie educative. Quindi vengono trattati l’identità sessuale e il cervello maschile e femminile; i racconti aneddotici di mamme e ragazzi aiutano a capire come vengono vissuti. Il secondo aspetto riguarda la quotidianità educativa dei genitori, e il modello proposto è quello che mira ad aumentare le competenze relazionali dei ragazzi e il raggiungimento dell’autonomia attraverso lo sviluppo di life skill, definite dall’OMS come “competenze sociali e relazionali che permettono ai ragazzi di affrontare in modo efficace le esigenze della vita quotidiana, rapportandosi con fiducia a se stessi, agli altri e alla comunità”. La difficoltà che i genitori incontrano è quella della comunicazione dell’educazione, che deve basarsi sull’equilibrio tra il codice normativo, tradizionalmente legato alla figura paterna, e il codice affettivo, considerato un codice per lo più materno. Nelle relazioni familiari contemporanee, in una società in cui i ruoli di uomini e donne si sono ridefiniti sugli attuali stili di vita, entrambi i genitori sono spesso portatori di tutti e due i codici, e gli esempi di “piccole storie” riportate nel libro ci danno uno spaccato di questo cambiamento. Chi, alla fine della lettura del libro, volesse concorrere ad ampliarne i contributi alla base, può partecipare inviando le risposte alle domande poste nelle interviste ai genitori e riportate nell’appendice del libro indirizzandole a info@adolescenzaeautonomia. Maria Francesca Siracusano

Emozione, socialità, musica

Silvia Azzolin, Emilia Restiglian Giocare con i suoni. Esperienze e scoperte musicali nella prima infanzia Carocci Faber, 2013 pp. 192, euro 13

Lo studio della musica come attività della mente e del corpo è una delle più recenti scoperte delle neuroscienze. Non è passato molto tempo da quando lo psicobiologo Colwyn Trevarthen affermava che la comunicazione tra gli umani è un affare esclusivamente musicale, una competenza che organizza tutte le caratteristiche temporali e sociali dell’essere umano. Questa musicalità umana, in altre parole la capacità di entrare in comunicazione con i nostri congeneri in modo interattivo, è fondamentale nei primi periodi della nostra vita, quando un bambino non esiste di per sé, ma esiste un bambino solo se sono presenti intorno a lui le cure del genitore. Attualmente sono presenti studi scientifici che confermano i profondi legami tra emozione, socialità e musica e, conoscendo il significato delle emozioni come regolatrici delle attività psicologiche e componenti essenziali per agire secondo ragione, non possiamo ignorare l’influenza di un’attività musicale nella crescita del bambino. Questo agile volumetto di 190 pagine, scritto da una pedagogista e da una docente di metodologia dell’educazione musicale, ha il pregio di fornire alcune basi scientifiche sulla relazione tra musica e cervello umano e le prospettive didattiche per l’intervento musicale. A entusiasmare, tuttavia, sono soprattutto i percorsi ludico-musicali nella prima infanzia: canti, danze, filastrocche, ninnananna, storie sonore, esperienze concrete d’interazione utilizzabili da genitori ed educatori. Una rapida carrellata di sperimentazioni in corso in Italia, tra cui l’intervento del nostro Stefano Gorini e di Cecilia Pizzorno su Nati per la Musica, e una ventina di pagine di utile bibliografia concludono questa interessante lettura. Costantino Panza 137


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ragazzi La moltiplicazione dei rapporti familiari nel secondo film di Francesco Bruni Noi 4 Italo Spada Comitato cinematografico dei ragazzi, Roma

Lo aveva detto Fedro duemila anni fa; lo dice Francesco Bruni in questa sua seconda regia; lo dice chi va a vedere Noi 4 con la convinzione di assistere a una delle solite commedie all’italiana: “Non sempre le cose sono come sembrano”. Può accadere infatti di trovare in un film, che sembrava ricalcare le commediole all’italiana, la descrizione di una famiglia in crisi e i tentativi per recuperare i rapporti logorati, ma non estinti. Da una parte un padre (Ettore) fallito e una madre (Lara) superattiva e superansiosa; dall’altra la figlia maggiorenne (Emma) contestatrice e il figlio adolescente (Giacomo) alle prese con la prima cotta della sua vita. Mondi solo apparentemente separati che hanno lasciato momenti di felicità in uno scatto fotografico. A dispetto di ogni previsione pessimistica, proprio quando ormai sembra impossibile ricostruire i cocci di ciò che fu, ecco la svolta. L’evento che fa cambiare direzione ai 4 coincide con il colloquio orale che il figlio più piccolo si accinge a sostenere per superare gli esami di licenza media. Padre, madre e sorella si ritrovano uniti alle sue spalle, lasciando da parte interessi personali, impegni di lavoro, ansie affettive. È già estate, prime ore del pomeriggio. C’è tempo per andare a festeggiare con un tuffo nel lago e con un rientro collettivo nella tana della serenità. Domani sarà per tutti un altro giorno; non quello della resurrezione totale, ma della speranza. L’alba li ritroverà più determinati, meno nevrotici, più entusiasti, più felici. Potrebbe finire qui la lettura di questo film che intreccia e moltiplica il tema affrontato da Bruni nel 2011 con Scialla!, ma sarebbe un’analisi incompleta. C’è ben altro, infatti. Non più la ricucitura di un solo rapporto tra padre e figlio, ma una fitta trama di relazioni trasversali da ricostruire: marito e moglie, padre e figlia, padre e figlio, madre e figlia, madre e

Per corrispondenza:

Italo Spada e-mail: italospada@alice.it 138

figlio. E non è tutto, perché ognuno dei quattro personaggi si trascina problemi personali più o meno gravi, più o meno condivisi con gli altri: Ettore, le malcelate frustrazioni per la mancanza di ispirazione e di impiego; Lara, il nervosismo di un superlavoro e l’ossessione di una bellezza al tramonto; Emma, le aspirazioni artistiche sospese nell’occupazione del Teatro Valle, le delusioni d’amore e la paura di una maternità non desiderata; Giacomo, la nostalgia di un’infanzia felice, la paura provocata da sogni e incubi, i turbamenti affettivi accentuati dalla timidezza. Allo scompiglio di relazioni e affetti fa da sfondo una Roma cantiere aperto, caotica e infocata dall’afa di giugno. Bruni, da bravo sceneggiatore, conosce bene il linguaggio delle immagini e non si lascia sfuggire il ricorso a metafore, simboli, allegorie, rimandi. Qualche citazione: avere concentrato tutto in una sola giornata quasi in funzione del finale che ai cinefili dovrebbe ricordare quel “dopo tutto domani è un altro giorno” di Via col vento; avere presentato Lara (Ksenia Rappoport) come una donna che pedala da sola senza mai avanzare, convinta che il percorso della palestra come quello della vita sia sempre in salita; avere fatto perdere il falso treno della felicità a Emma (Lucrezia Guidone) per farle trovare un meno veloce, ma più tranquillo, mezzo sul quale viaggiare aggrappata al guidatore, averla bloccata un attimo prima di cedere alla tentazione di annegare, averle ridato il sorriso solo quando ha trovato la complicità della madre precipitatasi in suo aiuto da una sponda all’altra del Tevere. E ancora: Giacomo (Francesco Bracci) che ha paura dell’avverarsi di un sogno nel quale naufraga l’intera famiglia, Ettore (Fabrizio Gifuni) che agli occhi del figlio esaurisce il credito del bancomat e la credibilità di genitore, Lara ed Ettore che si ritrovano senza volerlo in mezzo alla strada e chiedono aiuto alla figlia per rientrare a casa, l’amuleto portafortuna che emerge dagli scavi di Roma antica… Accostamenti che, in un’arte che è essenzialmente immagine, non possono essere – e non sono – casua-

li. Come non è casuale l’intelligente montaggio di Marco Spoletini che, più di una volta, non chiude immediatamente la sequenza e lascia ogni conclusione allo spettatore: Emma è incinta, o no? Ettore si lascerà sfuggire una seconda volta la proposta di lavoro? Lara, dopo la felicità di una sera, sarà meno nevrotica? Giacomo riandrà altre volte al mare con la cinesina Xiaolian? E, soprattutto, quei 4 ritorneranno a essere 1? u

Noi 4 Regia: Francesco Bruni Con: Fabrizio Gifuni, Ksenia Rappoport, Lucrezia Guidone, Francesco Bracci, Raffaella Lebboroni, Milena Vukotic Italia, 2014 Durata: 90’, col.


documenti

Quaderni acp 2014; 21(3): 139-140

Due documenti dell’ACP Pubblichiamo due documenti che esprimono importanti prese di posizione dell’ACP su temi fondamentali per la salute infantile. Il primo riguarda il presunto legame tra vaccini e autismo, di cui si fa un gran parlare più per faccende legali che di salute pubblica. Il secondo si riferisce al mercato dei latti di crescita e alla loro presunta utilità. In entrambi i casi la posizione dell’ACP non è viziata da alcun conflitto di interesse. (Red)

Autismo-vaccini, un allarme infondato

L’ipotesi che la vaccinazione antimorbillo-parotite-rosolia (MPR) possa essere associata ad autismo è stata sollevata da uno studio inglese pubblicato nel 1998 su The Lancet, e successivamente riesaminata da numerosi studi nessuno dei quali ha confermato che possa esserci una relazione causale tra vaccino MPR e autismo. Nel 2010 la rivista The Lancet ha formalmente ritirato tale articolo. Il caso della bambina alla quale è stata diagnosticata una “sindrome autistica post-vaccinale” ha riacceso in Italia una campagna contro la vaccinazione MPR. L’ACP, che ha da sempre sostenuto l’importanza dell’indipendenza del mondo scientifico-sanitario rispetto agli interessi dell’industria, ribadisce la propria posizione nel comunicato di seguito pubblicato, in cui si afferma che la “sindrome autistica postvaccinale” è una diagnosi che non esiste; che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e la letteratura scientifica smentiscono categoricamente ogni connessione tra autismo e vaccino MPR; e che la copertura attuale di vaccinazione MPR è ferma in Italia a circa il 90% dei bambini di 2 anni di età, un dato assolutamente troppo basso per scongiurare il rischio di nuove epidemie. Giustamente il ministro Lorenzin invita a non creare allarmismi non sostenuti da evidenze scientifiche.

Il documento

Noi pediatri ACP abbiamo sempre messo le politiche vaccinali tra le priorità per la Salute pubblica e da sempre chiediamo alle istituzioni politico-sanitarie una particolare attenzione rispetto a diversi punti di sofferenza del Sistema: • Manca una cabina di regia sulle politiche vaccinali di cui è prova la frammentazione del calendario vaccinale nelle diverse realtà regionali. • Il sistema di sorveglianza epidemiologica è carente sul capitolo vaccinazioni, sia sugli obiettivi vaccinali raggiunti sia sugli effetti collaterali. • Scarsa attenzione ai conflitti di interesse nei confronti delle aziende farmaceutiche. L’ACP ha da sempre sostenuto l’importanza dell’indipendenza del mondo scientifico-sanitario rispetto agli interessi dell’industria e per questo si è data, fin dal 1999, un Codice di autoregolamentazione, recentemente aggiornato per ribadire la necessità di salvaguardare la professione medica dalle ingerenze dei produttori di farmaci, baby food, dispositivi medici e qualsiasi altro ambito che possa condizionare il lavoro e l’autonomia del medico e di ogni operatore sanitario. La politica di trasparenza e autonomia della classe medica che contraddistinguono da sempre l’operato ACP ci permette di ribadire che: • La “sindrome autistica postvaccinale” è una diagnosi che non esiste: si tratta di una prognosi formulata in modo subdolo e scorretto, e auspichiamo che la Procura di Trani, sul caso della diagnosi che stabilisce nesso (mai provato) tra vaccino trivalente e autismo, si affidi a una commissione scientifica indipendente. • L’OMS e la letteratura scientifica come il British Medical Journal (BMJ) smentiscono categoricamente ogni genere di connessione tra autismo e vaccino MPR, ma c’è un dato che più di tutti lo smentisce: l’evidenza dei dati epidemiologici mondiali che, a fronte delle molte centinaia di milioni di dosi

di vaccino somministrate, non trova alcuna correlazione con una contemporanea diffusione dell’autismo, la cui diagnosi negli ultimi anni è sicuramente aumentata, ma solo perché oggi giungono a diagnosi non solo i casi eclatanti del passato, ma anche i tanti casi più sfumati del cosiddetto spettro autistico una volta non individuati. • La copertura attuale di vaccinazione MPR è ferma in Italia a circa il 90% dei bambini di due anni di età, un dato assolutamente troppo basso per scongiurare il rischio di nuove epidemie. Solo il vaccino può evitare le complicanze del morbillo, che sono per la gran parte curabili, ma che possono avere esiti mortali o invalidanti, ed è una patologia in grande aumento e che continua a fare vittime nei Paesi dove la copertura vaccinale non è garantita. E non tralasciamo che la rosolia resta tra le principali cause di incurabili malformazioni fetali e di aborti. • Una nota sulle campagne di “informazione” contro specifici vaccini, che di fatto portano a una diffidenza generalizzata anche verso vaccinazioni di provata efficacia e sicurezza come l’antipolio, con inevitabili danni per la salute pubblica. Il Consiglio Direttivo ACP

I latti di crescita: utili solo a chi li produce

Una nota informativa allegata all’ultimo numero di Pediatria news riporta la posizione della SIP rispetto alla necessità di utilizzare i latti di crescita nel bambino da 1 a 3 anni di vita. A sostegno della bontà dell’utilizzo di latti rafforzati nel bambino di questa fascia di età, nella nota vengono portate alcune motivazioni (peraltro non supportate da alcun riferimento bibliografico) come “fornire un maggiore apporto di acidi grassi vegetali, di ferro” e micronutrienti. L’OMS, EFSA, IBFAN, sulla base di evidenze scientifiche solide, dichiarano che i latti di crescita sono prodotti inutili nell’alimentazione dei bambini se non addirittura negativi, in quanto l’alto contenuto di zuccheri e il conseguente sapore dolce potrebbero influenzare le preferenze del bambino per i cibi dolci e favorire sovrappeso e obesità [2-4]. L’ACP sostiene tali evidenze scientifiche e ha espresso la sua posizione nel comunicato che di seguito riproduciamo.

Il documento

L’uso dei latti di crescita non può e non deve essere lo “strumento offerto al pediatra (e dal pediatra alla famiglia) in vista di una nutrizione più bilanciata”. Il pediatra deve saper proporre fin da subito uno stile di vita sano, suggerendo un divezzamento flessibile, complementare a richiesta, variegato e adeguato al modello dietetico della famiglia. Inoltre, secondo le ditte produttrici, i bambini dovrebbero bere 500 ml di latte formulato ogni giorno: ciò non è supportato da alcuna evidenza scientifica ed è anche in netto contrasto con le raccomandazioni sull’allattamento al seno. Ciononostante, nell’ultimo numero di Pediatria news, è stata allegata una nota informativa attraverso la quale la SIP prende posizione rispetto alla necessità di utilizzare i latti di crescita nel bambino da 1 a 3 anni di vita. A sostegno della bontà dell’utilizzo di latti rafforzati nel bambino di questa fascia di età, nella nota vengono riportate alcune motivazioni (peraltro non supportate da alcun riferimento bibliografico) quali “fornire un maggiore apporto di acidi gras139


documenti

si vegetali, di ferro” e micronutrienti; l’European Food Safety Agency (EFSA) a tale proposito ha concluso, in un parere pubblicato nell’ottobre 2013, che l’apporto adeguato di acidi grassi omega-3, ferro, vitamina D e iodio va assicurato a lattanti e bambini della prima infanzia che manifestano o sono a rischio di manifestare livelli inadeguati di queste sostanze nutritive e non indiscriminatamente a tutti [1]. Nella nota SIP si afferma inoltre che “non sempre è facile l’adattamento del bambino e della sua famiglia a una alimentazione più ricca di nutrienti variegata”; questo è vero se il modello di divezzamento proposto è rigido e povero, situazione che non rappresenta la maggioranza dei nostri bambini. L’ACP si dissocia da questi messaggi poiché non sostenuti da evidenze scientifiche. La proposta di alimenti dolcificati e arricchiti di ferro e vitamine va in direzione opposta a quella suggerita dall’OMS, EFSA, IBFAN che, sulla base di evidenze scientifiche solide, dichiarano che i latti di crescita sono prodotti inutili nell’alimentazione dei bambini se non addirittura negativi, in quanto l’alto contenuto di zuccheri e il conseguente sapore dolce potrebbero influenzare le preferenze del bambino per i cibi dolci e favorire sovrappeso e obesità [2-4]. L’ACP ritiene, inoltre, poco etico che, nell’attuale situazione di crisi del Paese che vede molte famiglie in gravi difficoltà economiche, il pediatra si faccia promotore di un prodotto inutile e costoso, che può condizionare negativamente l’allattamento materno, raccomandato ben oltre il primo anno di vita anche recentemente dal Tavolo Tecnico Operativo Interministeriale sulla Promozione dell’Allattamento al Seno [5]. Raccomandare i latti di proseguimento configura inoltre il mancato rispetto del Codice Internazionale sulla Commercializzazione dei Sostituti del Latte Materno. L’ACP ritiene che compito centrale del pediatra siano la promozione, il sostegno e la difesa dell’allattamento e una costante attenzione al consumo di alimenti freschi, naturali e diversificati orientati a mantenere un corretto stile di vita. Consiglio Direttivo ACP e Segreteria nutrizione ACP

Bibliografia [1] Scientific Opinion on nutrient requirements and dietary intakes of infants and young children in the European Union. EFSA Journal 2013;11(10):3408 [103 pp.]. doi:10.2903/j.efsa.2013.3408. [2] Information concerning the use and marketing of follow-up formula. The use of follow-up formula. WHO 17 July 2013. [3] http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/131025.htm/. [4] http://www.ibfanitalia.org/unindagine-dettagliata-sui-latti-di-crescita/. [5] http://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2113.

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ERRATA CORRIGE Nel numero 2/2014 il Dossier FAD non precisava l’esatta sede degli Autori che va così letta: Martina Fornaro, Enrico Valletta AUSL della Romagna, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, UO di Pediatria, Forlì La figura 5 viene riportata con maggiore chiarezza

Figura 5: indicazioni per il percorso diagnostico nell’ittero colestatico Ci scusiamo con gli Autori e i lettori per il disguido e precisiamo che nella piattaforma on line era già stata inserita questa versione corretta.

WORKSHOP NEWSLETTER PEDIATRICA ACP Giovedì 9 ottobre 2014 – ore 10,00-13,00 presso Associazione Orizzonti Sobborgo Federico Comandini, 106 – Cesena Il punto sulla Newsletter I gruppi di lettura, Quaderni acp, la formazione pediatrica: una visione d’insieme. Le schede della Newsletter Un confronto sulla elaborazione delle schede da parte dei gruppi di lettura; il sito web della Newsletter pediatrica; proposte per il futuro. I gruppi di lettura Le risposte al questionario: dall’organizzazione alla motivazione. La parola ai gruppi. Conclusioni Moderatori: Roberto Buzzetti, pediatra-epidemiologo clinico, Bergamo; Luca Ronfani, pediatra, Servizio di Epidemiologia e Biostatistica, IRCCS “Burlo Garofolo”, Trieste Organizzazione a cura della redazione Newsletter pediatrica ACP Iscrizione gratuita Per informazioni e iscrizioni: Laura Brusadin, lauraprate@ambulatoriobrusadin.it


Quaderni acp 2014; 21(3): 141-142

Rubrica a cura di Federica Zanetto

Nuove politiche locali per l’infanzia e l’adolescenza

Giuseppe Cirillo (ACP), Matteo Rabesani (Save the Children)

Il 27 novembre 2013 si è tenuto a Napoli, nella sala Giunta del Comune, un seminario a porte chiuse di confronto e riflessione sulle politiche locali in materia di “infanzia e adolescenza” tra la rete di “Crescere al Sud” (di cui fa parte anche ACP) e gli Assessorati all’istruzione e alle politiche sociali di Napoli e Palermo, nonché due rappresentanti del Ministero dell’Istruzione. L’esperienza concreta degli operatori sul territorio porta tutti a confrontarsi ogni giorno con dinamiche sociali sempre più complesse e caratterizzate da forme di disagio e difficoltà a più dimensioni. Il dato della povertà economica, la sua incidenza nelle aree metropolitane del Mezzogiorno e le ricadute sulla condizione di vita di un numero sempre più grande di bambini e adolescenti sono forse l’elemento più evidente e preoccupante, ma molti altri sono i fattori di contesto che agiscono sulle stesse situazioni rendendole gravi e di difficile lettura, a partire dalla debolezza del sistema educativo e scolastico, ma anche sociale e sanitario. Negli ultimi anni, inoltre, l’amministrazione dello Stato, a ogni livello, ha individuato nei vincoli di bilancio e nella mancanza di risorse la principale motivazione per non riuscire a rispondere efficacemente assicurando i servizi sociali ed educativi necessari a far fronte, se non a prevenire, le conseguenze della crisi sui bambini e gli adolescenti. La rete “Crescere al Sud”, che riunisce circa quaranta associazioni, nasce per denunciare la condizione di disagio dei minori nel Mezzogiorno, ma lavora soprattutto per consolidare un percorso comune tra le organizzazioni che la compongono, al fine di costruire un piano d’azione con proposte concrete per migliorare la vita dei bambini e degli adolescenti delle Regioni del Sud. “Crescere al Sud” pone all’attenzione alcuni temichiave a partire da princìpi di carattere generale: 1. Le politiche per l’infanzia e l’educazione devono essere considerate come

controluce un presupposto allo sviluppo e alla crescita economica e sono una condizione indispensabile per garantire benessere, coesione e sicurezza all’intera comunità. 2. I finanziamenti per le politiche per l’infanzia e l’adolescenza non devono essere considerati come “spesa sociale” a perdere, bensì come investimento, cioè “buona spesa”, capace di generare risparmio e razionalizzazione della programmazione economica. 3. Le politiche per l’infanzia e l’adolescenza devono essere considerate e programmate come politiche universali, cioè pensate per tutti e non solo per “gruppi svantaggiati”, e devono essere considerate ed elaborate come parte del sistema educativo. In particolare questi sono i punti che riguardano le amministrazioni locali: • Coordinare i propri interventi di politica sociale con le politiche sanitarie ed educative (in particolare di contrasto alla dispersione e di integrazione) al fine di considerare le scuole come primi “presìdi sociali” del territorio e, allo stesso tempo, favorire l’interazione e la collaborazione tra operatori sociali, della scuola e del privato sociale, abbattendo il muro che spesso separa chi si occupa di educazione dentro la scuola e chi si occupa dei ragazzi in strada. • Ricostruire la prima linea dell’intervento sociale, quella del rapporto diretto con le persone, quella dell’offerta attiva, della vicinanza. • Svolgere un ruolo di coordinamento e di regia degli interventi sul territorio al fine di evitare sovrapposizioni e, al contrario, creare collegamenti e sinergie tra gli interventi progettuali che insistono nelle stesse aree. • Accompagnare il sistema della premialità nella selezione dei soggetti/territori con cui attuare gli interventi con misure di accompagnamento, per permettere di coinvolgere nelle politiche attive di inclusione anche i soggetti/territori che rischiano di restare esclusi. • Porsi come catalizzatori delle risorse locali, favorendo la partecipazione di soggetti privati allo sviluppo del territorio (imprese e fondazioni

in primis), facendosi promotori di sistemi di rete in cui risorse, beni e servizi possono incontrare più facilmente i destinatari. In considerazione dell’importanza, dell’efficienza ed efficacia di intervenire fin dalla nascita e anche prima, allo scopo di garantire un pieno sviluppo delle capacità dei bambini e delle bambine e di ridurre da subito le diseguaglianze “sociali”, è richiesto un impegno preciso a dedicare attenzione e risorse per l’aumento dell’offerta quantitativa e qualitativa dei servizi integrati alla prima infanzia (0-6 anni), attraverso ordinari percorsi integrati di accompagnamento e sostegno precoci, così come avviene nella maggior parte dei Paesi europei e come sperimentazioni importanti di “Adozione sociale” hanno mostrato in Campania, a Palermo e a Messina. Individuare degli hub territoriali (consultorio, asilo nido, servizio sociale ecc.) intorno a cui si sviluppa la rete territoriale per gli interventi universalistici per i bambini 0-6 anni e le loro famiglie. Dedicare una particolare attenzione alle fasce particolarmente svantaggiate – bambini poveri, disabili, minori stranieri e rom – al fine di favorirne l’integrazione. Rendere maggiormente partecipe il territorio delle progettualità e degli interventi, aprendo le scuole alla reale partecipazione degli altri attori in un’ottica di positiva “comunità educante”. Favorire il ruolo e la partecipazione dei ragazzi e delle ragazze, incrementando le progettualità centrate sull’educazione tra pari (peer to peer) e incentivandola attraverso la possibilità di far rientrare il percorso formativo informale dei ragazzi nella valutazione generale del loro Curriculum Vitae. La centralità della scuola: va costruito un progetto scuola che la definisca come “spazio pedagogico/culturale”, capace di proporsi sia come presidio educativo/culturale, sia come presidio sociale, cioè capace, pur non perdendo la sua vocazione educativo-formativa, di attivare risorse sociali e forme di “ca141


congressi controluce

pacitazione” degli altri attori e soggettività territoriali (dentro il tema della scuola, appare dirimente la questione degli alunni di cittadinanza non italiana non solo per la possibilità di fare buona scuola, ma anche come sostegno indispensabile ai processi di convivenza e accoglienza dell’intera comunità). • Il potenziamento dei servizi 0-6 anni (a iniziare dai nidi e dall’inserimento nell’obbligo scolastico della scuola per l’infanzia) e del mantenimento della loro vocazione pubblica (anche conservando la loro funzione pubblica nelle esperienze di integrazione con il privato sociale). All’interno di questo potenziamento è necessario sottolineare la necessità di strutturare modelli e percorsi di intervento precoci (0-3 anni), in una prospettiva longitudinale che si anticipi ai primi mille giorni di vita: quindi un modello-prototipo precoce e tempestivo con il più alto grado potenziale di efficienza e di efficacia, in cui il sostegno ai genitori e l’home visiting a valenza educativa ne siano i pilastri fondamentali. Questo modello richiede un’integrazione socio-educativa e sanitaria a tutti e tre livelli, istituzionale, organizzativo-gestionale e professionale, attenta ai diritti e all’esclusione e isolamento sociale, e che preveda offerta attiva in un’ottica preventiva e non sintomatica. I cardini principali di questo modello di intervento precoce integrato possono essere sintetizzati in: 씰 accoglienza e valutazione dell’inclusione sociale alla nascita e anche in gravidanza presso i punti nascita (vedi “Fiocchi in ospedale di Save the Children”); 씰 accompagnamento territoriale e offerta attiva di sostegno dei genitori e home visiting a forte valenza educativa; 씰 a partenza da hub territoriale (asilo nido, consultorio, servizio sociale, centro per le famiglie, centro territoriale comunitario innovativo), percorsi comunitari di contrasto all’isolamento ed esclusione sociale, come gruppi di auto-aiuto pre e post gravidanza e asilo nido, progetti personalizzati 142

Quaderni acp 2014; 21(3)

• •

per le condizioni di maggiore disagio attraverso tutor educativi ed équipe multidisciplinari (vedi anche il modello “Adozione sociale” di Napoli, Regione Campania, Palermo, Messina, Roma, Cesena, Trieste). Tali interventi e presìdi infatti non rappresentano solo un fondamentale luogo educativo per i bambini e le bambine delle nostre città, ma anche un importante supporto alla conciliazione tra tempi di vita quotidiana, cura dei figli e lavoro per molte donne che in tale assenza vedono depotenziate non solo le loro possibilità di accesso al mercato del lavoro, ma anche a tante altre opportunità di socialità e relazione. Ridefinizione e rafforzamento delle politiche di contrasto alla dispersione e all’abbandono scolastico, a iniziare da un riequilibrio tra le azioni tese a “trattare” i dispersi e le situazioni di abbandono conclamato, e quelle tese alla prevenzione di tali fenomeni (recuperando il forte sbilanciamento sulle prime). Implementazione dei sostegni ai percorsi scolastici e potenziamento delle attività di formazione ed educazione permanente. Centralità delle iniziative di monitoraggio, accompagnamento e valutazione degli interventi e delle diverse azioni non solo per valutarne, in itinere, l’andamento e l’efficacia, ma anche per evitare sprechi e sovrapposizioni in un momento di forte crisi economica. Considerare il dialogo e l’integrazione tra pubblico e privato sociale non come luogo della delega o del disinvestimento pubblico, ma al contrario come spazio per un mantenimento e valorizzazione della funzione pubblica dei presìdi e degli interventi e della funzione di governance e coordinamento dell’ente locale. Importante il recupero di una relazione attenta e concreta tra amministrazione, scuole e presìdi di intervento territoriali. Individuare azioni specifiche per le aree metropolitane che portano con sé specifiche problematicità e complessità di contesto.

• Superare la logica dei progetti con quella dei servizi, a iniziare dalla definizione di programmazioni di sistema capaci di superare la precarietà degli interventi e le logiche dei servizi spot, per definire un insieme di interventi strutturati e stabilizzati all’interno del sistema di welfare locale. Superare le criticità legate alla “frantumazione/frammentazione/mancanza di continuità” degli interventi territoriali (dai prototipi alle azioni degli Enti locali) è un punto che appare come nodo da cui partire nella definizione delle politiche a livello locale. • Mettere al centro il tema della povertà, che rischia di allargare a dismisura i fenomeni della dispersione e dell’abbandono, di negare le possibilità e i diritti dei bambini e degli adolescenti e di stabilizzare la separazione tra la “città dei primi” e la “città degli ultimi”, proponendo un’improbabile e ingiusta idea di benessere e sicurezza centrati sull’istituzionalizzazione, il contenimento e l’abbandono di aree sempre più ampie di popolazione. • Porre attenzione alle metodologie e alle modalità operative a partire dall’implementazione-stabilizzazione dei sistemi di monitoraggio e valutazione.

Per quanto riguarda il nodo delle risorse e della loro gestione: 1. agire sul bilancio per rendere prioritario l’intervento dedicato alle politiche sociali e della scuola con trasferimenti interni tra i vari capitoli di bilancio; 2. assicurare una gestione delle risorse razionale ed efficiente, agendo sul funzionamento amministrativo, al fine di eliminare sprechi e ritardi che vanno a impattare direttamente sulla sopravvivenza delle realtà operanti sul territorio; 3. migliorare la capacità di utilizzare in tempi rapidi le risorse comunitarie esistenti e quelle previste dalla prossima programmazione 2014-2020, concentrandone l’uso su pochi obiettivi e azioni prioritarie, a partire dall’investimento sul capitale umano per eccellenza, l’infanzia. u


specializzando

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La formazione dello specializzando nell’ambulatorio del pediatra di famiglia Cristina Gagliardo*, Salvatore Aversa**, Naire Sansotta*** *Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università “Federico II”, Napoli; **Presidente dell’Osservatorio Nazionale Specializzandi in Pediatria (ONSP); ***Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Verona

Introduzione e punto della situazione

Secondo il Decreto ministeriale dell’1 agosto 2005 il riassetto delle Scuole di Specializzazione dell’Area sanitaria prevede, tra le attività professionalizzanti obbligatorie per il raggiungimento delle finalità didattiche nel corso di studi di specializzazione in Pediatria, la frequenza presso il pediatra di famiglia (PdF). Tra gli obiettivi formativi, tale testo cita: “Lo specializzando deve acquisire le competenze professionali specifiche della pediatria del territorio, con particolare riferimento all’attività preventiva, alle competenze razionali e alle modalità di ragionamento clinico…”. Dunque vi aspettereste che ogni specializzando d’Italia frequentasse l’ambulatorio del PdF, invece, nonostante tutto sembri standardizzato, nella pratica poi non sembra essere così. Infatti, una recente indagine condotta dall’Osservatorio Nazionale Specializzandi in Pediatria (ONSP) mediante questionario online ha evidenziato che una collaborazione tra la Scuola di Specializzazione in Pediatria e il PdF è presente solo in metà delle scuole italiane (vedi figura). L’attività formativa del pediatra attraverso ore di lezione frontale e/o seminari nei cinque anni si verifica solo in metà di queste, mentre nella restante metà l’interazione tra specializzando e pediatra di libera scelta è limitata alla frequenza all’ambulatorio. Quest’ultima tuttavia non è neppure standardizzata tra le scuole italiane ma risulta varia: frequenza continua per un mese, affiancamento durante l’orario dell’ambulatorio, accessi negli orari di servizio del pediatra del territorio, turni di 6 mesi, frequenza giornaliera per 4-6 mesi, e così via. La frequenza nell’ambulatorio del pediatra è obbligatoria solo nell’80,6% delle scuole che prevedono la frequenza dello specializzando presso il PdF. Solo nel 25% delle scuole è previsto un corso di formazione di tutoraggio: in tal caso questo viene espletato non dall’Università ma dagli stessi Pdf. Il numero di pediatri coinvolti ammonta a circa 1-5 pediatri nel 60% delle scuole e in metà di queste non è prevista alcuna copertura assicurativa. Per corrispondenza:

Naire Sansotta e-mail: naire.sansotta@virgilio.it

FIGURA: INDAGINE SULLE ESPERIENZE DI FORMAZIONE E DIDATTICA TUTORIALE IN PEDIATRIA DI FAMIGLIA NELLE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN PEDIATRIA (ONSP, 2013)

L’esperienza a Napoli

Dopo aver analizzato la situazione nazionale, riportiamo l’esperienza dei colleghi specialisti in Formazione dell’Università “Federico II” di Napoli, dove è prevista la frequenza, da parte dello specializzando, dell’ambulatorio del PdF per un periodo di tre mesi, obbligatoriamente entro i primi tre anni di attività lavorativa. Cinque sono i PdF che fungono da tutor dislocati sul territorio di Napoli e Provincia scelti sulla base del loro curriculum, della competenza clinica, della volontà di insegnare e far apprendere, e sulla disponibilità di tempo. La maggior parte dei colleghi di Napoli (28/31) crede che sia estremamente utile tale periodo di formazione, perché in questo modo si ha l’opportunità di conoscere le reali esigenze sanitarie del territorio che spesso vengono solo percepite in ambiente ospedaliero e soprattutto universitario. Tra i vantaggi di tale esperienza vi è l’osservazione del bambino “fisiologico” e dei fenomeni parafisiologici che consentono, da una parte, di identificare strategie preventive (obesità, sovrappeso, vaccinazioni…), e, dall’altra, di imparare a riconoscere subito le “red flags” nel bambino malato. Infatti, i colleghi di Napoli si reputano soddisfatti di tale interazione con il PdF per la possibilità di acquisire alcune competenze fondamentali quali agire per priorità, individuare la criticità, diagnosticare e trattare pur senza disporre delle attrezzature e dei laboratori degli ospedali. Inoltre, secondo la maggioranza degli specializzandi, l’esperienza acquisita dal PdF risulta necessaria per apprendere algoritmi di scelta diagnostica rapida e per la terapia delle più comuni patologie dell’età pediatrica (influenza, infezioni respiratorie, gastroenterite, disturbi fun-

zionali, dermatite atopica). Secondo il parere degli specializzandi, il periodo di formazione presso il PdF può essere positivo per entrambi i protagonisti coinvolti: da una parte l’esperienza di un PdF aiuta la conoscenza troppo spesso scolastica del giovane medico; dall’altra, la presenza di menti giovani e anche tecnologicamente preparate rappresenta un incentivo per il PdF al confronto con esperienze diverse e ad approfondire argomenti specialistici che spesso non sono condivisi dal pediatra stesso. Tra gli svantaggi riportati viene indicata una situazione di affollamento di visite presso gli studi dei PdF che non hanno la possibilità di analizzare insieme allo specializzando tutte le problematiche dei pazienti sottoposti alla visita. Una piccola parte degli specializzandi (2/31) ha anche riferito che, dopo il primo periodo di entusiasmo, l’attività del PdF risultava ripetitiva e che i pazienti in condizioni di salute precarie o quelli la cui diagnosi risultava difficile venivano inviati a centri ospedalieri o di terzo livello e persi al follow-up. Ecco le proposte dei colleghi di Napoli per migliorare il periodo di formazione presso il PdF: un periodo di formazione maggiore (circa 6 mesi), frequentare almeno due diversi PdF, fare riferimento al PdF-tutor non solo nel periodo limitato di apprendimento stabilito entro i primi tre anni ma anche negli anni successivi per poter rappresentare un tramite nella complicata rete università-ospedale-territorio. Nel prossimo numero di Quaderni acp proveremo a indagare il processo di formazione dello specializzando nell’ambulatorio del PdF da parte di un direttore della Scuola di Specializzazione di Pediatria e le proposte di un PdF (tutor). u 143


Quaderni acp 2014; 21(3): 144

a Qacp

LA FAD 2013: i vostri commenti

Le FAD 2013 sono state utili, scorrevoli, stimolanti al ragionamento clinico che è alla base del nostro lavoro. Grazie e alle prossime del 2014!!! Innocenza Rafele (ACP Lazio)

Ho appena concluso il percorso FAD 2013. È stato molto utile e istruttivo nonché divertente, quasi un diversivo. Grazie e un saluto a tutti gli Autori. Mimmo Capomolla (ACP dello Stretto CALABRIA) Il percorso FAD è stato bellissimo, complimenti a tutti. Ripeto, bellissima FAD, la migliore. Fabrizio Fusco (ARP Vicenza)

Approfitto per ringraziare sia Laura Reali che tutti i colleghi che hanno lavorato al corso FAD; il materiale che ci avete proposto è stato sempre molto interessante; a me sono piaciute particolarmente le parti di nefrologia ed endocrinologia per la chiarezza nel presentare i punti chiari e quelli controversi e per il taglio pratico con immediati effetti sul mio comportamento clinico. Tutti i percorsi sono stati dei momenti di studio piacevoli e il percorso dei casi clinici dopo lo studio teorico è geniale perché rappresenta un momento di riflessione su quanto si è appreso, permette di individuare gli aspetti su cui si può avere ancora confusione ed è un momento leggero e in qualche modo divertente del corso. Posso dire che non li ho mai fatti per l’obbligo dei crediti ma per il piacere dello studio. Quindi ancora un grazie veramente sentito a tutti voi. Emanuela

I casi clinici sono la cosa più bella e più interessante del corso.

Mi sono sempre piaciuti e mi hanno molto interessato, sono proprio fatti bene! Grazie Raffaele

L’iniziativa di Quaderni acp di organizzare una formazione a distanza ha suscitato l’interesse della nostra Associazione che fin dall’inizio ha aderito con diverse iscrizioni. L’opportunità di formarsi tramite questo strumento agile e di fruire di contenuti di elevato spessore ha stimolato i più a concludere il percorso: chi non l’ha concluso ha addotto come motivazioni elementi squisitamente tecnici. Complessivamente il giudizio è stato buono con punte di eccellenza: l’approccio a tappe con casi clinici sempre molto circostanziati ha favorito l’apprendimento e coinvolto in maniera positiva il discente. Un problema che abbiamo riscontrato si è registrato nell’esecuzione del questionario sull’ultimo modulo avente come argomento l’ipotiroidismo. Le opzioni di scelta di alcune domande erano poco chiare e apparentemente tutte corrette, per cui solo rispondendo a caso la maggior parte di noi ha potuto concludere il modulo. Qualcuno anche ha avuto difficoltà nell’accesso iniziale, risolte però grazie all’aiuto prezioso di Gianni Piras. Una collega ha segnalato per il primo e ultimo percorso una difficoltà a estrapolare il “take home “ pratico. Fatte queste eccezioni abbiamo considerato il percorso snello e scorrevole, ragione per cui è stato salutato con entusiasmo il secondo percorso FAD cui si sono già iscritti 21 dei nostri soci. Che dire di più? Complimenti per l’iniziativa e un augurio di future ulteriori occasioni di aggiornamento Il Direttivo ACP Verona Ringraziamo i colleghi che ci hanno scritto in attesa di ricevere altri pareri per poter migliorare insieme.

MULTA PER PUBBLICITÀ INGANNEVOLE La Perfetti Van Melle è stata multata di 150.000 euro perché nella sua pubblicità voleva convincere che masticare una gomma poteva sostituire il lavaggio dei denti. Anzi si vantavano effetti salutistici per la bocca evocati dalla presenza di camici bianchi, studi odontoiatrici e altro. Le gomme incriminate: Daygum protex, Daygum XP, Vivident Xylit, Pure white, e Happident white. Si è trattato per l’Autorità garante di pubblicità ingannevole. (Altroconsumo 2013;3,10:5)

FRUTTI DI BOSCO CON VIRUS Sono stati segnalati frutti di bosco surgelati (Boscobuono della ditta Green Ice) con presenza del virus dell’epatite. (Altroconsumo 2013;3,6)

CRISI ECONOMICA E CALO DI GUADAGNI DEI MEDICI IN INTRAMOENIA Per la prima volta, nel 2012, nei dati della libera professione medica intramoenia c’è una inversione. Le compartecipazioni complessive del personale sanitario scendono da 1054 miliardi a 935 milioni (-11,3%). Il calo maggiore è in Lombardia (-26,16%), quello minore in Sicilia (-0,02%). Le Regioni sopra il 10% sono il Piemonte, il Veneto, la Toscana, l’Umbria, la Puglia, la Basilicata, la Calabria. Le Regioni dove si riscontra un aumento sono tutte costrette ai piani di rientro dove la riduzione del personale ha probabilmente determinato attese più lunghe e quindi maggiore ricorso al privato: Abruzzo +4,10%, Sardegna +5,5%, Molise +24%, Lazio +4,10%. Anche la Provincia di Bolzano ha un gradiente positivo (+4,58%), ma questo significa forse un minore morso delle crisi. (Ilsole24OREsanità 25-31 marzo 2014)

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Quaderni

acp

website: www.quaderniacp.it

maggio-giugno 2014 vol 21 nº 3 Editoriale 97 Lo sai mamma? Paolo Siani 98 Formare meglio a meno: la FAD di Quaderni acp Michele Gangemi 99 I pediatri italiani decidano se vogliono proteggere l’allattamento Sergio Conti Nibali Formazione a distanza 100 Le epilessie in età pediatrica: inquadramento diagnostico Giovanni Tricomi Informazioni per genitori 110 Il bambino che soffre di epilessia Stefania Manetti, Costantino Panza, Antonella Brunelli Research letters 111 Sessione Comunicazioni orali al XXV Congresso Nazionale dell’Associazione Culturale Pediatri Red Forum 113 Coppie infertili, procreazione medicalmente assistita e salute infantile Pierpaolo Mastroiacovo, Carlo Corchia Info 118 Buoni spesa per le mamme che allattano? 118 Riviste scientifiche: sì o no? 119 L’Ospedale “Meyer” nell’occhio del ciclone 119 Quanta strada per l’ortofrutta prima di arrivare a tavola! Osservatorio internazionale 120 La salute a Cuba: un diritto per tutti, un dovere per ciascuno Enrico Valletta Aggiornamento avanzato 122 La rottura della tolleranza nella patologia autoimmune e l’induzione della tolleranza nella medicina trapiantologica Federica Barzaghi, Rosa Bacchetta Il caso che insegna 124 Un decorso lento non sempre è benigno Brunetto Boscherini, Patrizia del Balzo

Il punto su 127 HLA e celiachia: a ciascuno il proprio rischio Enrico Valletta 129 La psichiatria (anche infantile) tra diagnosi e diagnosticismo Francesco Ciotti Vaccinacipì 131 Quali vaccinazioni nel bambino affetto da diabete mellito? Franco Giovanetti Pediatri fra due mondi 132 Le mutilazioni genitali femminili: basta una storia per svelare un mondo Valentina Venturi, Tamara Fanelli, Enrico Valletta Libri 136 Mamma, non mi sento tanto bene di Anna Rosa Fabretto, Francesca Zaltron 136 Ducasse bebè di Alain Ducasse, Paule Neyrat 136 Stoner di John Williams 137 Adolescenza e Autonomia: che fatica! di Daniela Corbella, Luca Ercoli, Laura Locatelli 137 Giocare con i suoni di Silvia Azzolin, Emilia Restilian Film 138 La moltiplicazine dei rapporti familiari nel secodo film di Francesco Bruni: Noi 4 Italo Spada Documenti 139 Due documenti dell’ACP Red Congressi controluce 141 Nuove politiche locali per l’infanzia e l’adolescenza Lo specializzando 143 La formazione dello specializzando nell’ambulatorio del pediatra di famiglia Cristina Gagliardo, Salvatore Aversa, Naire Sansotta Lettere 144 La FAD 2013

Come iscriversi o rinnovare l’iscrizione all’ACP La quota d’iscrizione per l’anno 2014 è di 100 euro per i medici, 10 euro per gli specializzandi, 30 euro per gli infermieri e per i non sanitari. Il versamento può essere effettuato tramite il c/c postale n. 12109096 intestato a: - Associazione Culturale Pediatri, Via Montiferru, 6 - Narbolia (OR) (indicando nella causale l’anno a cui si riferisce la quota) oppure attraverso una delle altre modalità indicate sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione”. Se ci si iscrive per la prima volta occorre scaricare e compilare il modulo per la richiesta di adesione presente sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione” e seguire le istruzioni in esso contenute oltre a effettuare il versamento della quota come sopra indicato. Gli iscritti all’ACP hanno diritto a ricevere la rivista bimestrale Quaderni acp, la Newsletter mensile Appunti di viaggio e la Newsletter quadrimestrale Fin da piccoli del Centro per la Salute del Bambino richiedendola all’indirizzo info@csbonlus.org. Hanno anche diritto a uno sconto sulla iscrizione alla FAD dell’ACP alla quota agevolata di 50 euro anziché 150; sulla quota di abbonamento a Medico e Bambino, indicata nel modulo di conto corrente postale della rivista e sulla quota di iscrizione al Congresso nazionale ACP. Gli iscritti possono usufruire di iniziative di aggiornamento, ricevere pacchetti formativi su argomenti quali la promozione della lettura ad alta voce, l’allattamento al seno, la ricerca e la sperimentazione e altre materie dell’area pediatrica. Potranno partecipare a gruppi di lavoro su ambiente, vaccinazioni, EBM e altri. Per una informazione più completa visitare il sito www.acp.it.


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