Maggio - Giugno 2017 / Vol. 24 n. 3
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Bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della Associazione Culturale Pediatri
Rivista indicizzata in Google Scholar e in SciVerse Scopus
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ISSN 2039-1374
Sintomi di esordio in età pediatrica che preludono a malattie psichiatriche dell’adulto Formazione a distanza, pag. 100
Le comunicazioni orali presentate dagli specializzandi al Congresso Tabiano XXVI Research letter, pag. 107
I tropici in ambulatorio: la malaria I tropici in ambulatorio, pag. 123 w.quaderniacp.it
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – 70% NE/VR – Aut. Tribunale di Oristano 308/89
erse Scopus
Quaderni acp - Associazione Culturale Pediatri Editorial 97 Lights and shadows on big data Antonio Addis, Alessandro Rosa 99 With children and parents Federica Zanetto
Formation at a distance 100 Symptoms of onset in childhood which preceded adult psychiatric illnesses Lucio Rinaldi Info parents 106 Emotions… and more emotions Costantino Panza, Stefania Manetti, Antonella Brunelli Research letter 107 Oral communications by residents in paediatrics at the XXVI Tabiano Congress Mental health 112 The mild intellectual disabilty Rubrica a cura di Angelo Spataro. Intervista di Angelo Spataro a Giacomo Stella The first thousand days 113 The 1000 Days programme in Rome: a year of work Elisa Serangeli, Flaminia Trapani, Pamela Caprioli, Virna D’Antuono, Mara Bitetto, Alessandro Telloni, Maria Edoarda Trillò, Eliana Coltura, Giuseppe Cirillo Scenarios 116 Food in small pieces at 6 months? What about suffocation? Manuela Musetti, Maddalena Marchesi, Luisa Seletti Stories that teach 119 Talking with a child may change the relationship with the mother Gianni Garrone, Maria Merlo, Paolo Fiammengo, Paola Ghiotti, Chiara Guidoni, Antonietta Innocenti, Patrizia Levi, Lia Luzzato, Monica Montingelli, Paolo Morgando, Gianna Patrucco, Ivo Picotto, Danielle Rollier Tropics in doctor’s office 123 Tropics in doctor’s office: malaria Fabio Capello Around narration 127 When paediatrics meets pedagogy Michela Schenetti, Elisa Guerra, Enrico Valletta
130 A proposal for a training to promote dialogue in pediatric primary care. Psychological Scaffolding to the Doctor Patient Relationship Maria Francesca Freda, Francesca Dicé Off side 133 Pedagogical Assonances in learning: Maria Montessori's scientific pedagogy and Antoine de La Garanderie's mental management pedagogy Anna Brigandì Farmacipì 136 Treatment of acute gastroenteritis vomiting in paediatric age Antonio Clavenna
Maggio - Giugno 2017 / Vol. 24 n. 3 Direttore
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Vaccinacipì 137 Measles Rosario Cavallo
IN COPERTINA
138 Books
Pubblicazione iscritta nel registro nazionale della stampa n. 8949 © Associazione Culturale Pediatri ACP Edizioni No Profit
140 Movies 141 Info
Cuamm reti di cura e prevenzione fino all’ultimo miglio, di Sofia Todero, Concorso fotografico “Pasquale Causa”, 2016
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EDITORIALE
Luci e ombre dei big data Antonio Addis, Alessandro Rosa Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale, Regione Lazio, Roma
Se sommiamo la quantità di dati che ogni nostra azione produce giornalmente ci rendiamo conto dell’enorme volume di byte che si accumulano intorno a noi. È forse anche per questo che non possiamo parlare più di dati, bensì di big data. Secondo alcuni è solo un’operazione di marketing ma molti intravedono invece un nuovo paradigma che dominerà e regolerà l’esistenza di molti. La stampa popolare e accademica ha iniziato a utilizzare il termine “big data” per descrivere la rapida integrazione e analisi su larga scala; tuttavia, una chiara definizione di big data rimane sfuggente [1]. Le modalità con le quali i big data potrebbero influenzare il futuro della ricerca epidemiologica e degli interventi sanitari sulla popolazione sono anch’esse, al momento, poco chiare. In generale ci si è trovati d’accordo sul fatto che il fenomeno possa essere principalmente descritto dalle cosiddette 3 V: volume, varietà e velocità. Il volume: termine percepito per primo fa esclusivamente riferimento alla mole di dati raccolti e dei record che popolano i tanti data sets in cui finiscono i nostri dati sanitari. Tecnicamente, anche le schede di dimissione ospedaliera dovrebbero appartenere ai big data in quanto composte da milioni di record. La varietà: i dati possono presentare eterogeneità nel tipo, nella rappresentazione e nell’interpretazione semantica. Possono essere di qualsiasi natura (strutturati, semi-strutturati o non strutturati). In questo caso dovremmo pensare comunque alla possibilità di un ipotetico linkage tra sistemi informativi riguardanti ad esempio la farmaceutica, i ricoveri, l’assistenza specialistica ecc. per poter parlare di big data. La velocità: alle nuove informazioni estraibili dai dati viene spesso associata una funzione di utilità che degrada velocemente con il passare del tempo. La velocità inoltre è anche relativa al tasso di produzione dei dati. Uno degli elementi che ci fa distinguere quello di cui stiamo parlando dai numerosi dati presenti nei nostri computer dovrebbe essere che i big data vengono generati automaticamente da operazioni di interazione persona-macchina (un esempio, in ambito finanziario, sono i dati transazionali), persona-persona (social network) e macchina-macchina (si pensi ai dati inviati dai sensori direttamente ai telefoni cellulari). Nella convenzione universalmente accettata si associano a enormi moli di volume: si passa dai terabyte (1 tb = 1012 b) e petabyte (1 pb = 1015 b), fino ad arrivare agli exabyte e addirittura agli zettabyte. Devono presentare un tasso di produzione alto e, inoltre, possono essere di provenienza varia e talvolta non convenzionale: parliamo anche di documenti testuali, immagini, audio, video, dati da sensori o Gps. I big data, in sintesi, presentano congiuntamente le tre caratteristiche sopra elencate e sono la materializzazione dell’internet of things, cioè la visione secondo cui gli oggetti nel mondo informatizzato creano un sistema pervasivo e interconnesso avvalendosi di molteplici tecnologie di comunicazione. In pratica, parliamo di dati e flussi continui [1]. Esiste poi un approccio “attivo”, che utilizza la rete per reclutare volontari a cui chiedere informazioni circa la loro condizione di salute. Si tratta sempre di dati digitali generati tramite web
ma appositamente per scopi epidemiologici. L’approccio “attivo” è quello su cui si fonda, per esempio, InfluenzaNet, una piattaforma web interattiva volta a raccogliere dati sull’influenza stagionale – con una risoluzione geografica e temporale molto alta – per informare modelli predittivi. La sorveglianza viene condotta su una coorte di volontari che annualmente, all’inizio della stagione influenzale, vengono invitati a riportare la loro condizione di salute sia che stiano bene sia che abbiano dei sintomi respiratori. Con questo approccio non si raggiungono le dimensioni dei big data, poiché il numero degli individui raggiunti con questa modalità non è paragonabile ai milioni di utenti di Facebook o Twitter, ma il numero è tale per cui il segnale epidemiologico che si ottiene è sufficientemente accurato. Inoltre, con la modalità della sorveglianza partecipativa si possono ottenere informazioni da persone che non si recano dal medico in caso di febbre, ma che non hanno problemi a compilare un questionario sul web quando sono a casa da malati. InfluenzaNet è stato sperimentato per la prima volta in Olanda e in Belgio nella stagione influenzale 2003/2004. Ora viene utilizzato in 10 Paesi europei, tra cui l’Italia con Fondazione Isi e l’ISS, la Francia con l’Inserm e l’Inghilterra con la Public Health England, e ha inoltre ispirato delle piattaforme analoghe negli Stati Uniti e in Australia. Si è quindi creato un sensore digitale globale di volontari, sia dell’emisfero nord che di quello sud, che ogni anno durante la stagione influenzale riportano il proprio stato di salute. Questo è un enorme passo avanti nella sorveglianza globale dell’influenza [1]. Tuttavia, è proprio in questo ambito che si è registrato il primo grande flop dei big data. L’attività dei motori di ricerca, quale Google che conta centinaia di milioni di utenti attivi, è stata considerata per un certo periodo come un segnale affidabile ma non sempre preciso. Google flu trends si basava sull’analisi delle ricerche fatte tramite il motore di ricerca di Google di parole collegate ai sintomi influenzali quali febbre, mal di gola, raffreddore. Il numero di volte che gli utenti chiedevano al motore di ricerca queste informazioni veniva utilizzato come specchio del numero di casi di influenza fra la popolazione. Dopo diversi inverni di mappature perfette delle epidemie influenzali, nel 2013 il sistema ha fallito clamorosamente sovrastimando i casi di influenza. Il problema è che Google usava un modello statistico impiegato per produrre previsioni da una settimana all’altra e che veniva allenato soltanto sui dati della stagione corrente, quando invece la dinamica dell’influenza è tale per cui si osserva sempre lo stesso andamento stagionale, ma se si analizza nel dettaglio si osserva che ogni stagione è diversa. Inoltre, il fatto che una persona cerchi la parola “influenza” con Google non è indicativo del motivo per cui lo fa: potrebbe eseguire la ricerca perché ha l’influenza ma anche perché ne ha sentito parlare molto dai media. In pratica il flop di Google flu trends potrebbe essere imputabile non tanto alla qualità dei dati digitali quanto piuttosto al modello di calcolo impiegato che non è mai stato reso noto alla comunità scientifica. La lezione è stata importante per far capire insieme alle potenzialità anche i limiti di questi sistemi [2].
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Vi sono inoltre molti aspetti che riguardano il corretto utilizzo di tutti questi dati e che hanno a che fare con il tema della privacy e la qualità del dato raccolto. La messa insieme di tanti dati, per quanto differenziati e in tempi molto veloci ma scorretti, non produrrà di per sé un dato qualitativamente migliore. Insomma anche in questo caso si tratta del fenomeno garbage in - garbage out. Le possibilità di connettere sistemi diversi, combinare dati attraverso linguaggi condivisi, trasformare il rumore di fondo in nuove e utili informazioni, aumentare i punti di osservazione sui fenomeni, rendere più efficienti in termini di tempo e spazio le rilevazioni, sono tutti potenziali vantaggi che sembrano ora possibili. All’analisi di tutti questi aspetti e altri ancora è stato dedicaato uno degli approfondimenti del progetto Forward (http://forward. recentiprogressi.it/), un’iniziativa del Pensiero Scientifico Editore, e del Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, che insieme ad alcune aziende private ha avviato una serie di riflessioni su ciò che diventerà importante nel prossimo futuro nell’ambito del settore sanitario. In conclusione, le criticità, e le potenzialità associati ai big da-
ta per la salute pubblica sono numerose e rilevanti. Anzitutto la disponibilità di dati in tempo reale consente di monitorare costantemente l’evolvere per esempio di un’epidemia, o, nell’ambito della farmacovigilanza, di identificare segnali relativamente a eventi avversi a farmaci che possono completare la sorveglianza routinaria e la farmacovigilanza, solitamente effettuate attraverso le segnalazioni da parte degli operatori sanitari. Occorre però ancora del tempo per separare il segnale vero dal rumore di fondo e tradurre le informazioni sempre più numerose di cui disponiamo in benessere e salute per i cittadini. * a.addis@deplazio.it
1. Rosa A. Un approccio semantico. Recenti Prog Med 2106; Suppl Forward 4;S6-S7. http://forward.recentiprogressi.it/wp-content/uploads/2016/11/suppl4_rosa.pdf 2. Paolotti D, Rizzo C. Le impronte digitali al servizio dell’epidemiologia. Recenti Prog Med 2106; Suppl Forward 4;S8-S10. http://forward.recentiprogressi.it/wpcontent/uploads/2016/11/suppl4_ paolotti_rizzo.pdf
A COLPO D’OCCHIO Rubrica a cura di Enrico Valletta e Martina Fornaro UO di Pediatria, Ospedale G.B. Morgagni - L. Pierantoni, AUSL della Romagna, Forlí
Rx e TAC in bambina con dolore e segni di flogosi al tallone da alcune settimane Di cosa si tratta? q Osteomielite q Osteosarcoma q Istiocitosi q Osteoma osteoide
Soluzione del quesito a p. 126
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Con i bambini e con i genitori Federica Zanetto Presidente ACP
Developmental surveillance is “a flexible, continuous process whereby knowledgeable professionals” perform skilled observations of children during the provision of health care. The components of developmental surveillance include eliciting and attending to parental concerns, obtaining a relevant developmental history, making accurate and informative observations of children and sharing opinions and concerns with other relevant professionals. (AAP. Developmental surveillance and screening of infants and young children. Pediatrics 2001;108:192-6) I due articoli pubblicati in questo numero della rivista in “Narrative e dintorni” (“Quando la pediatria incontra la pedagogia” e “Una proposta di formazione per promuovere il dialogo in pediatria di base. Lo Scaffolding psicologico alla relazione sanitaria”) sono motivo per rileggere con attenzione, e ancora una volta, lo statement AAP su competenze e azioni che devono riguardare anzitutto il pediatra e che connotano la consultazione “di qualità” e le azioni di promozione delle capacità genitoriali. Riferire ogni nostro intervento al singolo bambino, comunicatore attivo che partecipa del suo sviluppo e che è essere sociale con un comportamento che ha uno scopo e un valore, anche se neonato e anche se molto prematuro. Essere consapevoli che, in quanto operatori della salute, siamo mediatori cruciali di cure e opportunità, facilitatori nel bonding che si deve formare e che da subito va incoraggiato (v. anche il dossier FAD di L. Rinaldi pubblicato in questo numero di Quaderni acp). Minimizzare la separazione già nelle TIN e sostenere la fiducia dei genitori. Sapere che il circolo della sicurezza (la base sicura) è importante anche per loro, principali determinanti dello sviluppo del loro bambino. Non rafforzare stereotipi né generalizzare; essere invece flessibili e disponibili a mettere in discussione la routine, per trasferire conoscenze, potenziare capacità, fare emergere possibilità. Riconoscere che ogni volta che facciamo una valutazione del bambino, a qualsiasi livello, siamo all’interno di una relazione, dove entrare in maniera rispettosa, condividendo osservazioni e creando insieme significati. Perché noi lavoriamo sulle relazioni primarie, ma anche su relazioni più estese, per produrre esiti individuali e collettivi utili per la società intera, dove i servizi sanitari, unici servizi universali, vanno utilizzati come porta di ingresso di azioni efficaci di promozione. E dove ogni squilibrio e ogni perturbazione, all’interno e a ogni livello del sistema, si ripercuotono da subito sul bambino (Bronfenbrenner U. The Ecology of Human Development. Cambridge: Harvard Uni-
versity Press, 1979). Valorizzare le capacità che il genitore può avere nel riparare interazioni e discordanze. E sapere che questo è importante tanto quanto il buon andamento clinico ed evolutivo. Cercare di capire quello che sanno i genitori e che noi non conosciamo, anche usando il comportamento del bambino come nostro proprio linguaggio. E ancora, collegare la ricerca all’advocacy, consapevoli che ogni aspetto che si studia e si osserva richiede umiltà e responsabilità. Sapere che anche il processo di sviluppo professionale ha a sua volta dei “Touchpoints”, momenti/crisi di disorganizzazione e successiva riorganizzazione che aiutano a riflettere. E che “leadership” vuol dire: capacità di vedere il quadro più ampio a vantaggio di condivisione e collaborazioni; promuovere riflessione sul nostro pensare, piuttosto che dare per scontato assunti; apprezzare la realtà dell’altro anche dal punto di vista emotivo e non solo cognitivo. Questi temi, cari all’ACP, sono stati sottolineati e discussi al II Convegno Internazionale Transdisciplinare Brazelton, a Roma nei giorni 17 e 18 marzo 20171: richiami forti a ciascun operatore ad “attrezzarsi”, per affrontare con competenza ed efficacia, ogni giorno, le sfide che riguardano oggi la salute dei bambini e delle loro famiglie. Ciascuno nel proprio ambito, senza scivolare in spazi altri e non propri. Il tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura, ci diceva già anni fa anche la Carta di Firenze (Quaderni acp 2005;12:185). Ci diceva anche che la formazione alla comunicazione di qualità e alla corretta informazione deve essere prevista e inserita già nell’educazione di base e poi in quella permanente dei professionisti della Sanità. Questo, lo abbiamo capito anche a Roma, è cruciale. Per lavorare con il bambino e la sua famiglia, e con la loro storia. E anche per un dialogo corretto, costruttivo e competente con le altre discipline dell’età evolutiva. Un’altra sfida impegnativa che vale la pena raccogliere e affrontare. * zanettof@tin.it
1. Comitato scientifico: Centro di Formazione Brazelton, Firenze; Associazione Culturale Pediatri; Associazione Natinsieme, Roma; Istituto di Specializzazione in Psicologia Pasicoanalitica del Sé e Psicoanalisi Relazionale; Centro per la Salute del Bambino; Direzione Salute e Politiche Sociali, Regione Lazio
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Sintomi di esordio in età pediatrica che preludono a malattie psichiatriche dell’adulto Lucio Rinaldi Professore Aggregato di Psichiatria, Università Cattolica, Roma. Responsabile dell’Area dell’Età Evolutiva e Day-Hospital di Psichiatria, Fondazione Policlinico Universitario Gemelli, Roma
L’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle sue proiezioni per il 2020 ha indicato che il carico di disabilità legato ai disturbi mentali è destinato ad aumentare e che i bambini e gli adolescenti che avranno bisogno di un supporto psicologico o psichiatrico saranno il 20%. Appare in tal senso sempre più necessario individuare gli elementi essenziali per prevenire o trattare precocemente il disagio affinché non si organizzi in forme sempre più strutturate e rigide, quali quelle della franca psicopatologia. Tuttavia bisogna tenere presente che nei bambini e negli adolescenti è sempre necessario fare un bilancio psicologico tra sforzi evolutivi, processi trasformativi e manifestazioni sintomatiche.
Aspetti epidemiologici
Un’indagine sulla popolazione, che ha riguardato 28 Paesi, il cui obiettivo principale era fornire una stima della prevalenza e della distribuzione delle patologie psichiatriche, ha rilevato che i disturbi del controllo degli impulsi si presentano verso i 7-9 anni, per quanto riguarda il deficit di attenzione/iperattività (ADHD); verso i 7-15 anni per il disturbo oppositivo-provocatorio (ODD); verso i 9-14 anni per il disturbo della condotta (CD) e i 13-21 anni per il disturbo esplosivo intermittente (IED). I disturbi del controllo degli impulsi avrebbero anche una fascia di età a rischio per l’insorgenza: per esempio l’80% di tutti gli ADHD insorge a 4-11 anni di età, mentre la stragrande maggioranza dei ODD e CD inizia tra i 5 e i 15 anni. In generale i disturbi d’ansia hanno un’età di insorgenza compresa tra i 5 e i 22 anni. Fobie e ansia di separazione (SAD) hanno insorgenza molto precoce, tra i 7 e i 14 anni. Gli altri disturbi d’ansia (disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzato e disturbo da stress post-traumatico) hanno un’insorgenza successiva. L’età a rischio per l’insorgenza di un disturbo da dipendenza da sostanze è quella compresa tra i 13 e i 24 anni. I disturbi dell’umore iniziano a manifestarsi già intorno a 13 anni.
L’età di insorgenza della schizofrenia è compresa tra i 13 e i 23 anni. La prima causa di disabilità fra i 10 e i 24 anni d’età sono i disturbi dell’umore. Al secondo posto ci sono gli incidenti stradali, al terzo posto la schizofrenia e al quarto il disturbo bipolare. L’uso di alcolici è al sesto posto. All’ottavo posto i tentativi di suicidio o comunque le condotte autoaggressive. In Italia il 10% degli adolescenti, valutati su un campione di quasi 3500 studenti, presentava un disturbo mentale diagnosticabile.
Natura e cultura
Al fine di comprendere come si struttura nel tempo il disagio mentale è necessario fare alcune considerazioni preliminari. I bambini nascono con caratteristiche temperamentali e corredo genetico differenti e, se sottoposti a influenze ambientali simili, risponderanno ognuno in modo diverso, anche se possono emergere pattern comuni. Per esempio, i bambini che crescono in orfanotrofi, avendo scarsi contatti umani, hanno meno probabilità di conseguire buone capacità linguistiche, di stabilire un attaccamento sicuro con gli adulti o di acquisire una buona comprensione della mente e delle emozioni degli altri. Music, seguendo una prospettiva bioecologica dello sviluppo umano, ritiene che gli individui siano sempre influenzati dalla loro eredità biologica e anche dai vari sistemi che li contengono, famiglia, scuola ecc. Già durante il concepimento, il feto riceve l’eredità genetica dei genitori ed è portatore quindi di una serie di predisposizioni biologiche, anche se interagisce con il suo ambiente, influenzandolo ed essendone influenzato, sempre in modo bidirezionale. Per esempio, una variante di un particolare gene incrementa le probabilità che un bambino sviluppi la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Tuttavia chi ha genitori poco attenti ha maggiori probabilità di sviluppare l’ADHD rispetto a un soggetto che riceve cure genitoriali adeguate. L’eredità
genetica fa aumentare la probabilità d’insorgenza di ADHD, ma il tipo di genitorialità è determinante affinché quel particolare potenziale genetico si esprima.
Vita prenatale
Studi di Infant Research, Infant Observation e le Neuroscienze ci riportano a uno sviluppo del cervello e della mente che ha inizio sin dall’epoca intrauterina e ci permettono di spingere ancora più indietro la nostra visione d’insieme e di pensare a una origine ancora più arcaica delle relazioni umane, che iniziano a plasmarsi sin dalle prime settimane di vita: una straordinaria continuità fra la vita all’interno dell’utero e la vita nel mondo esterno. Molti studiosi sono oramai dell’opinione che la nascita sia paragonabile a un punto in un continuum all’interno di un groviglio straordinariamente complesso di fili fisiologici e psicologici che interagiscono, in quel momento e in seguito, nella formazione del “Sé”. Oltre al corredo genetico occorre considerare l’ambiente naturale, come il grado di libertà di movimento all’interno dell’utero, la qualità della placenta, del liquido amniotico ecc.). I “fattori” dell’ambiente naturale sono peraltro influenzati in modo rilevante dagli stati mentali consci e inconsci della madre, sono in stretta relazione con il suo corpo, con l’ambiente in cui lei vive e con la qualità delle cure e del sostegno che riceve. I fattori fisici ed emotivi nella vita della madre influenzano anche la natura del mondo intrauterino in senso generale. Ogni gravidanza è un’esperienza unica e, a seconda dei fantasmi consci e inconsci sottostanti e delle fantasie consce predominanti, l’esperienza stessa della nascita verrà vissuta in modi differenti. Si parla perciò della nascita di un bambino, con tutta una serie di competenze e di modalità nel porsi alla vita, ma anche e necessariamente della nascita della mente di una madre, che sappia sintonizzarsi e rispondere a quel bambino in un’unione tra biologia e ambiente. Quello che un bambino sperimenta di positivo o negativo sarà
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registrato e lascerà delle tracce. Alcune potranno essere richiamate, altre rimarranno non evocabili eppure attive nel creare nuove tracce. Esperienze positive aiutano la plasticità neuronale e facilitano l’assimilazione di esperienze positive. Il rapporto tra feto e corpo materno è pieno di tira e molla delicatamente bilanciati. La trasmissione madre-figlio e poi anche ambiente-bambino non riguarda quindi mai solo la psiche, ma funziona in una intermodalità che va dalla sensorialità agli affetti, in un complesso sistema materno-placento-fetale.
Nascita e prima infanzia
Negli esseri umani non c’è un tempo prestabilito nel quale deve avvenire il bonding, il legame primario. Gli esseri umani potrebbero legarsi con quasi tutti i bambini, non solo i propri, e raramente il legame si stabilisce immediatamente. I legami affettivi nascono in seguito a cure costanti e alla vicinanza che dura nel tempo. Il bonding è un processo graduale e reciproco, contrariamente ad altre specie, non è immediato e può essere facilitato. L’allattamento al seno facilita il bonding e diminuisce la reattività della donna agli stressor psicologici, probabilmente in parte grazie al rilascio dell’ossitocina, ma è anche di gran beneficio per il bambino. I bambini stimolano in modo attivo risposte di bonding negli adulti e sono predisposti a mettersi in relazione con persone e volti. Madri e bambini spesso cercano gli occhi dell’altro dopo la nascita e i neonati preferiscono una foto del viso materno piuttosto che quello reale di un estraneo. Riconoscere i volti può indurre risposte positive e favorire la formazione del bonding. I neonati mostrano anche una chiara preferenza per la voce della propria madre. Il ritmo cardiaco del feto cambia quando ascolta una registrazione della voce della madre, ma non cambia se la voce è di un estraneo, dimostrando precoci capacità di apprendimento. Inoltre i bambini sono in grado di imitare gli adulti già venti minuti dopo la nascita. In alcuni esperimenti si osservano i genitori che tirano fuori la lingua e i bambini che guardano con attenzione e, dopo molti sforzi, imitano i genitori tirando fuori la lingua anche loro. Neonati di soli due giorni sanno imitare tutta una serie di espressioni facciali come sorridere, accigliarsi e mostrare sorpresa. Imparano a imitare presto anche suoni e gesti e producono più suoni simili al linguaggio quando la madre sorride, specialmente quando il sorriso è sincero, quello che alcuni chiamano sorriso Duchenne. Attraverso l’imitazione e grazie al fatto che ricevono risposta
ai propri segnali, i bambini imparano che sono in grado di produrre effetti sugli altri e cominciano a sviluppare un certo senso della loro capacità di agire (agency) e a provare piacere per ciò che riescono a far accadere. I bambini di due mesi scalciano di più se vedono un effetto del loro gesto, come far muovere un oggetto sincronicamente con i loro gesti: ciò viene chiamata contingenza, ma non scalciano con lo stesso vigore quando l’oggetto si muove indipendentemente da loro. I bambini percepiscono gli altri come partner interattivi e cominciano le cosiddette danze reciproche e hanno bisogno di un caregiver empatico, che interagisca con loro, per sviluppare pienamente capacità relazionali più complesse. Se nel primo anno di vita i bambini angosciati sono presi in braccio e tranquillizzati, piangono meno degli altri negli anni successivi, poiché sperimentano che le loro emozioni sono tollerate, contenute, modulate e imparano a non esserne sopraffatti. La madre non porta solo le sue qualità nutritive e amorevoli, ma anche il suo sé pensante, stati mentali ed emotivi che, rispetto al caos della vita psichica nel neonato, rappresentano una pre-condizione verso capacità più interconnesse, per un Sé più integrato. Bion parla di “seno pensante” intendendo la capacità materna primaria di nutrire, metaforicamente, fornendo una qualche forma ai “pensieri” rudimentali del neonato (inizialmente insieme confuso di impulsi e sensazioni). In un sano sviluppo emotivo il neonato deve fare esperienza di un oggetto (spesso la madre), capace di accogliere una massa di sensazioni, sentimenti e disagi ai quali il bambino non è in grado di dare un nome e che quindi è incapace di elaborare nel pensiero. La funzione di tale oggetto, definita da Bion “funzione alfa” o “rêverie”, è quella di tenere nella mente, dare un significato, rendere pensabili quei sentimenti anche per il bambino. Per adempiere questa funzione è necessario che l’oggetto sia in grado di tollerare il dolore psichico, che il bambino invece non può tollerare. Dopo ripetute esperienze di questo tipo di contenimento, il bambino può interiorizzare tale funzione e acquistare così gradualmente la capacità di elaborare la propria angoscia all’interno del proprio spazio mentale. Bion descrive il processo che ha luogo quando chi presta le cure al bambino (il caregiver) è inaccessibile e non è disponibile ad accogliere le proiezioni dei bambini. Le proiezioni che non vengono accettate ritornano al bambino, sotto forma di “terrore senza nome”. L’adeguatezza delle cure parentali, la depressione materna, i precoci processi psi-
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co-sociali influenzano lo sviluppo psico-somatico del bambino. Bassi livelli di calore e di sostegno genitoriale, tanto quanto il rifiuto e l’ostilità materna, sono associati a depressione infantile e adolescenziale. Le anomalie nei bambini appaiono precocemente e si manifestano sotto forma di problemi caratteriali: indifferenza sociale, ridotta attività, irritabilità e ipersensibilità eccessive. La sensibilità della madre agli stati d’animo del figlio diventa determinante e agisce quindi come regolatore di tensione per il bambino. Dunque, un ambiente di handling “attivo e adattivo” contribuisce all’integrazione degli stati corporei e mentali, strutturando il processo di personalizzazione, permettendo che il piccolo possa sentire fin dal principio la psiche come parte del corpo, in un’esperienza di continuità dell’essere. Tutto ciò si potrà verificare, ovviamente, partendo da un patrimonio innato, che potrà esprimersi sulla base delle esperienze che il bambino andrà facendo, in relazione con la qualità del rapporto con l’ambiente e risentendo a sua volta dei percorsi psichici dei genitori e delle figure familiari in generale. Gli Autori spiegano anche come l’organizzazione del Sé, la regolazione affettiva (che è fondata sulla capacità del bambino di comprendere il comportamento interpersonale in termini di stati mentali) e la funzione di mentalizzazione vengano acquisite nell’ambito delle prime relazioni di attaccamento. Normalmente la mentalizzazione ha luogo attraverso l’esperienza del bambino di riflessione sui suoi stati mentali, attraverso il gioco sicuro con un genitore o un bambino più grande, ma può essere gravemente compromessa nelle relazioni di attaccamento disorganizzate, con importanti implicazioni cliniche.
Adolescenza
L’adolescenza è un percorso esistenziale promosso da un basilare rimodellamento dei sistemi omeostatici, che caratterizzano il funzionamento di cervello, apparato ormonale, genitale, muscolo-scheletrico. Si deve quindi guardare ai fenomeni dell’adolescenza in termini di ricerca di equilibri possibili, durante le modificazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, dell’apparato muscolo-scheletrico, della corteccia cerebrale. Siamo stati per molto tempo portati a considerare i fenomeni emozionali e i comportamenti dell’adolescenza come legati a trasformazioni identitarie, che coinvolgono l’assetto delle relazioni familiari e si estendono al mondo dei pari. Questa visuale del mondo delle relazioni ha permes-
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so di comprendere molte dinamiche adolescenziali e di dare senso alle disarmonie. Le trasformazioni relazionali sono state considerate espressione e conseguenza di un processo di rimodellamento e di ridefinizione di costellazioni intrapsichiche, prima tra tutte quella edipica. I sintomi in adolescenza – e in particolare quelli che trovano in varie forme il luogo di espressione nel corpo – possono essere possibilità, occasione e opportunità per rendere contenibili pressioni emozionali e anche processi che permettono di costruire nuovi assetti per passare attraverso i fenomeni adolescenziali. In tal senso è fondamentale il ruolo che possono svolgere coloro che incontrano i sintomi dell’adolescenza (pediatri, ginecologi, psicologi, psichiatri, insegnanti ecc.) nel sostenere l’aspetto costruttivo e il processo di ricerca insito anche nel sintomo più eclatante o preoccupante. Aspetti centrali in questa prospettiva di approccio al sintomo sono la multidisciplinarietà, la collaborazione tra specialisti, l’integrazione delle conoscenze. Il corpo impone all’adolescente nuove scoperte (prima tra tutte la nuova forma della sessualità), rendendo un poco diverso e sconosciuto l’adolescente a se stesso (e anche agli altri) e tracciando un percorso in continua trasformazione: è il luogo in cui si rende tangibile il cambiamento. Gli adolescenti – dopo la crisi puberale – cercano continuamente di fare i conti con questo luogo di confine in cambiamento, che tentano di fare proprio, di padroneggiare. Il fatto di segnarlo, scolpirlo, tentare di modificarne forme e dimensioni, sembra indicare la necessità di recuperare la possibilità di controllo o quanto meno la necessità di non sentirsi dominati. Anzi è al corpo che viene affidato, in forme più o meno pittoriche (come accade per esempio con il colore dei capelli e le pettinature) o in forme più o meno simboliche (come accade per esempio nella scelta di un tatuaggio o di un piercing), il compito di “essere in qualche modo”, quando si è alle prese con il cimento di diventare qualcuno. Il corpo può anche diventare il luogo in cui gestire l’eccesso di difficoltà nel fare e nello sperimentare l’adolescenza. In questa oscillazione tra un corpo che permette un ancoraggio in una fase caratterizzata dalla precarietà del senso di identità e di un corpo che serve nel sospendere, nell’interrompere o nel modulare la spinta propulsiva dell’adolescenza, debbono essere inquadrati i sintomi che riguardano il corpo in adolescenza. Quando parliamo di sintomi che riguardano il corpo possiamo intendere un insieme di manifestazioni che lo coinvolgono, lo segnalano, lo impongono
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e che possono riguardare la compromissione o l’eccesso di una funzione cerebrale, dalle manifestazioni di tipo dissociativo, che comportano un impoverimento delle funzioni integrative, alle riduzioni di funzioni modulatrici, come avviene nel discontrollo degli impulsi. In tutte queste declinazioni dell’adolescenza possiamo cogliere sia i segnali di un fallimento che quelli di una potenzialità, di una possibilità. Chi ne registra i segnali può scegliere se valorizzare maggiormente l’aspetto deficitario e disarmonico o coglierne la potenzialità evolutiva e costruttiva. Di fronte all’impasse evolutiva, alla difficoltà nel proseguire, il sintomo del corpo o attraverso il corpo può essere di supporto al compito evolutivo imposto dalle trasformazioni somato-psichiche dell’adolescenza. Il sintomo, se non compreso o non trasformato, può diventare – nel tempo – un modo persistente del fare la vita e quindi diventare una forma stabile di psicopatologia.
Fattori di rischio di disagio psicologico nei bambini
Le ricerche degli ultimi trent’anni hanno confermano l’intreccio di fattori causali ambientali e innati nella genesi di molti disturbi psicopatologici. Le predisposizioni genetiche sono attivate dall’esposizione a fattori ambientali, che possono ridurre o annullare la resilienza, cioè la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà e quindi di rendere tollerabili le esperienze traumatiche del bambino nei confronti dei fattori avversi. Lo scambio che l’individuo conduce con l’ambiente, a sua volta, può determinare un’espressività più accentuata del patrimonio genetico suscettibile a determinati stimoli. Studi più recenti indicano una diretta influenza dell’ambiente sull’espressività del patrimonio genetico; alcune nuove conoscenze sulle malattie mentali derivano proprio dallo studio delle modificazioni epigenetiche che concorrono ad alterare il sistema nervoso. L’esposizione a fattori di rischio psicosociale può portare a modificazioni biologiche del SNC, soprattutto nei primi due-tre anni di vita del bambino. Ne consegue che l’ambiente creato dal contesto familiare può determinare effetti profondi su tutti gli aspetti dello sviluppo, dallo stato di salute alla nascita all’acquisizione delle competenze necessarie per affrontare la scuola e l’apprendimento o per sviluppare le relazioni più complesse delle età successive. Solide evidenze scientifiche sottolineano quanto il sistema di attaccamento sia coinvolto in questi processi. Se i primi due an-
ni di vita sono caratterizzati da un attaccamento sicuro, dall’accrescimento delle competenze, da un ampio sviluppo della funzione riflessiva e dalla mentalizzazione, allora il bambino che cresce si riconosce, può apprezzare e discriminare le proprie emozioni e i propri sentimenti e di conseguenza le emozioni e i sentimenti altrui, può considerare il punto di vista dell’altro ed è quindi capace di trarre pieno vantaggio dall’educazione, costruendo una resilienza psicologica da mettere in gioco in caso di esperienze stressanti. Tali individui, crescendo, riusciranno probabilmente a far fronte in maniera positiva agli eventi critici e a riorganizzare costruttivamente il proprio comportamento dinanzi alle difficoltà; allo stesso tempo rimarranno sensibili alle opportunità positive che la vita offrirà loro riuscendo, nonostante tutto, a fronteggiare efficacemente le difficoltà, i lutti e i conflitti. La funzione mentale della resilienza può, in effetti, essere valutata come un indice adeguato dello sviluppo dell’apparato psichico. Le comunicazioni affettive all’interno della relazione di attaccamento facilitano la maturazione delle aree del SNC coinvolte sia nella regolazione affettiva che nell’auto-regolazione. Il bambino che ha vissuto esperienze di abuso e trascuratezza ha alte probabilità di crescere nell’incapacità di fidarsi nelle relazioni, nella difficoltà di provare empatia per gli altri o di rispettare i ruoli sociali, mostrandosi pronto anzi a distruggere, attaccare e cercare di dominare tutto quello che può essergli offerto a casa e a scuola e, dunque, vulnerabile a futuri problemi di salute mentale. Un divario troppo grande tra i bisogni del bambino e le cure genitoriali comporta una carenza di base che può tradursi in un attaccamento disturbato. A loro volta alcuni modelli di attaccamento disturbato, influenzando direttamente l’espressività genetica e la maturazione del SNC, sono invariabilmente associati a esiti psicopatologici dal significativo impatto sociale (disturbi di personalità, uso di sostanze, comportamenti antisociali, disturbi del comportamento alimentare, disturbi della condotta) e alla facilitazione dell’espressività di malattie mentali a forte base genetica (disturbo bipolare, depressione maggiore). Le capacità di accudimento e gli stili genitoriali agiscono allora non solo come elementi costitutivi della relazione genitore-figlio, generando e influenzando costantemente il clima affettivo, ma anche come veri attivatori del patrimonio genetico. I principali fattori di rischio, responsabili di alterazioni delle prime relazioni e di fal-
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limenti nello sviluppo psico-emozionale tali da condurre alla psicopatologia, sono ormai noti e costituiscono un elemento imprescindibile per orientare gli interventi di prevenzione. Tali fattori possono essere divisi in due grandi aree: la prima riguarda la vulnerabilità e/o la patologia del caregiver o delle figure di riferimento, la seconda relativa alle caratteristiche e agli eventi significativi o critici nella loro storia. Per quanto riguarda le condizioni genitoriali correlate a sviluppi patologici della prole, le più significative sono le seguenti: y Depressione genitoriale (non solo materna) perinatale y Psicosi o grave disturbo di personalità dei genitori, in particolare della madre; y Disturbo del comportamento alimentare della madre y Uso materno di alcol e sostanze (in particolare cocaina) y Precedente morte fetale o perdita di un bambino piccolo y Esposizione dei genitori a maltrattamenti, traumi e violenze nell’infanzia; y Maternità adolescenziale senza supporto y Relazioni insoddisfacenti tra i genitori (disfunzione genitoriale) y Condizioni abitative e lavorative precarie y Basso livello socio-culturale Evidenziando l’effetto potenziante della combinazione di più condizioni infantili capaci di esporre al rischio di un disturbo psicopatologico successivo, i più noti fattori di rischio specifico nei bambini sono: y Minorazione sensoriale o disabilità evolutiva y Basso peso alla nascita y Eventi gravemente sfavorevoli (perdita di un genitore ecc.) y Maltrattamento e abuso y Rivalità accentuata tra fratelli (fratrie molto numerose) y Comportamenti devianti dei pari (comportamenti antisociali, uso di sostanze, violenza, bullismo e abuso) y Mancata disponibilità di cure e di diagnosi y Disturbi dello spettro autistico y Ritardo mentale y Basso QI y Bassa autostima y Temperamento difficile y Ritardi specifici dello sviluppo (es. linguaggio) y Insuccesso scolastico y Malattie organiche Esperienze sperimentate dai bambini: y Bullismo y Deprivazione sociale y Influenze socio-culturali
Indicatori precoci di una possibile evoluzione psicopatologica
I disturbi dell’attaccamento e i disturbi della regolazione in età prescolare rappresentano gli indicatori singoli più potenti di uno sviluppo alterato. I bambini con pattern di attaccamento disturbato, infatti, manifestano spesso difficoltà importanti nelle relazioni sociali e nell’apprendimento, per la loro tendenza a esternalizzare o interiorizzare invece che a mentalizzare, costituendo una parte importante della popolazione che richiede interventi educativi speciali, con un costo rilevante in termini di assistenza sociale e sanitaria sin dai primi tempi. Riguardo all’area dei disturbi del comportamento alimentare possiamo considerare come, fin dai primordi, la relazione del neonato con la madre avvenga attraverso il corpo, in particolare, mediante il canale orale-digestivo e successivamente con gli apparati e le funzioni, che vengono coinvolti nel corso della evoluzione del bambino. Così mangiare, digerire, sputare, vomitare, diventano il veicolo espressivo di emozioni, sentimenti positivi, tranquillizzanti o frustranti e angoscianti; l’avvicinare-allontanare, rifiuto-accettazione, trattenere-espellere rimarranno come modelli di relazione fin quando non verranno sviluppati e accettati, divenendo meccanismi “mentalizzati”, per affrontare i propri conflitti. Se lo sviluppo invece ne sarà carente, questi modelli rimarranno prettamente espressivi e relazionali ed entreranno in una dimensione patologica. Il disturbo sul corpo o mediante il corpo, pertanto, si va a instaurare là dove la sofferenza psichica, non percepita e relegata nell’inconscio, va a minare l’integrità fisica e più sono forti la difesa e la rimozione della sofferenza psichica, più è grave e profondo l’attacco al corpo. Per l’anoressia è stata individuata una fascia di popolazione sottoposta a un maggior rischio, cioè le ragazze dai 12 ai 18 anni appartenenti a classi sociali medio-alte. L’aumento di incidenza ha una distribuzione bimodale con un picco a 14,5 anni e un altro a 18 anni; questo tipo di situazione è simile in tutti i Paesi occidentali e questo dato conferma l’influenza di fattori socio-economici. A questo fenomeno si accompagna una notevole precocità d’esordio, assente nel passato, che ha fatto osservare l’emergenza di tali patologie in una nuova fascia di soggetti a rischio. Si può attualmente ipotizzare che le prime avvisaglie della patologia anoressica siano da riconoscere tra gli otto e i dieci anni anche per quei casi che si manifestano più tardi. Nei bambini e nei pre-adolescenti il disagio che può fare da prodromo ai disturbi
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alimentari si esprime in comportamenti che nell’adulto appaiono secondari: y Il modo in cui mangiano (spesso la lentezza): - Esclusione di alimenti - Ingestione di acqua - Sminuzzamento del cibo - Attività fisica - Uso frequente del bagno y ma soprattutto: - Sbalzi d’umore - Difficoltà nelle relazioni sociali - Insofferenza - Irrequietezza Per quanto concerne la bulimia si è visto che non esisterebbe una correlazione significativa tra la ricerca spasmodica di una dieta in età adolescenziale e lo sviluppo della patologia bulimica ma piuttosto vi sarebbe una correlazione significativa tra sintomi depressivi e rischio di sviluppo di patologia bulimica e binge eating. Per lo sviluppo di un disturbo alimentare sarebbero comunque in ogni caso molto importanti il sentimento di vergogna con associata riduzione dell’autostima e tendenza al controllo, la presenza di comportamenti autolesivi e un alto indice di insoddisfazione corporea. I disturbi del comportamento alimentare si presenterebbero come tentativo patologico di risoluzione di problematiche evolutive, esitando in forme più o meno gravi di scollamento dalla dimensione del reale. I pochi studi longitudinali sui predittori dei disturbi d’ansia, in particolar modo gli attacchi di panico, si sono per lo più concentrati sui problemi di internalizzazione (problemi emotivi, per esempio ansia, depressione, altri disturbi dell’umore). La sensibilità, l’ansia, così come l’ansia da separazione sono state associate a un aumentato rischio di attacco di panico con l’insorgenza in adolescenza. È stato anche evidenziato come, oltre a sintomi interiorizzanti, sia importante studiare altri problemi di salute mentale come i sintomi di esternalizzazione (problemi comportamentali e disturbi della condotta, ad esempio il disturbo oppositivo provocatorio). L’associazione trovata tra i problemi sociali e la comparsa di attacchi di panico può essere il risultato di una spirale verso il basso che, a partire da scarse abilità sociali e difficoltà nelle relazioni tra pari, può portare ad ancora più bassa fiducia in se stessi e a sentimenti di mancanza di controllo e di impotenza. Tuttavia, può anche essere espressione di trasmissione genetica della vulnerabilità dai genitori ai propri figli o della interazione gene-ambiente. Studi trasversali dimostrano che gli adulti con attacchi di panico hanno problemi
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nelle relazioni con gli altri che possono portare alla trasmissione di abilità sociali meno sviluppate per la loro prole, eventualmente con conseguenti problemi sociali nei bambini. Rispetto all’area delle psicosi, è stato evidenziato come gli individui ad alto rischio clinico (CHR) per la psicosi rappresentino un gruppo eterogeneo con un alto tasso di disturbi psichiatrici concomitanti. Diversi studi hanno riportato bassi livelli di funzionamento tra gli individui che sono ad alto rischio per psicosi o nella fase premorbosa della psicosi. Tuttavia processi che porterebbero alla psicosi, derivanti dalla genetica, da fattori ostetrici e da fattori ambientali, potrebbero non essere predittori specifici soltanto della schizofrenia, ma di un’ampia tipologia di disturbi clinici. I bambini con un più basso livello di funzionamento e di regolazione in area scolastica, di capacità relazionale tra pari e di funzionamento sociale, potrebbero eventualmente sviluppare sintomi psicotici da giovani adulti. I bassi livelli di funzionamento e dis-regolazione nei primi stadi di sviluppo potrebbero essere indicativi di tratti di vulnerabilità di questi individui a presentare sintomi psicotici in futuro, così come altri problemi di salute mentale non psicotici. È emersa qualche evidenza da studi longitudinali secondo i quali i deficit di linguaggio recettivo, di comunicazione e di deficit cognitivi nell’infanzia potrebbero essere in particolare associati allo sviluppo futuro della psicosi, mentre i deficit nello sviluppo emotivo e sociale/interpersonale potrebbero essere predittori comuni di psicosi, depressione, disturbi bipolari e disturbi d’ansia. Elementi predittivi significativi sono: y Deficit nelle abilità motorie
y Deficit di memoria y Deficit di attenzione y Isolamento sociale y Disturbo dello sviluppo del linguaggio
I disturbi dell’umore sono il risultato complesso dell’interazione tra genetica, epigenetica e fattori di rischio ambientale. Studi sui gemelli hanno stabilito che fattori ambientali di rischio hanno un effetto indipendente dalla possibilità di sviluppare disturbi dell’umore, al di là della suscettibilità genetica. Dal momento che dalla nascita a circa 7 anni di età i bambini vanno incontro a una maggiore maturazione del cervello nelle regioni critiche legate alla regolazione emotiva e cognitiva, tutti i fattori stressanti durante questo periodo possono avere effetti negativi durevoli attraverso alterazioni nella struttura e nella funzione del cervello. Indicatori precoci di una possibile evolutività verso la depressione sarebbero: y Ipo-reattività y Disregolazione emozionale y Problemi interpersonali y Isolamento sociale per scarse capacità di mentalizzazione y Bassa autostima y Ansia da separazione y Ruminazione Il disturbo bipolare si presenta tipicamente con episodi depressivi dopo la pubertà. In alcuni bambini ad alto rischio, disturbi del sonno e ansia precedono disturbi dell’umore per diversi anni e riflettono una maggiore vulnerabilità. Disturbi del ritmo circadiano e disfunzioni immunitarie sono associati ai disturbi dell’umore e possono essere indicatori di vulnerabilità influenzati da questi altri fattori di rischio. Un modello di stadiazione clinica (Figura 1),
che descrive la storia naturale del disturbo bipolare, è quello di Duff y del 2015. Eventi negativi nelle prime fasi di vita, compresa l’esposizione in età precoce a psicopatologia dei genitori, le interazioni disturbate madre-bambino e i traumi come l’abuso e la negligenza, svolgono un ruolo significativo nel rischio di disturbo bipolare e possono contribuire a una prognosi peggiorativa. I processi psicologici specifici implicati nel disturbo bipolare, che potrebbero fornire promettenti obiettivi di intervento precoce, sono l’impulsività, il rapporto ricompensa-obiettivo, la ruminazione e lo stile cognitivo. Diversi studi concordano sulla definizione degli indicatori precoci dell’evolutività verso i disturbi bipolari: y Iper-reattività y Deficit della capacità di attenzione y Impulsività e difficoltà di controllo del comportamento y Disturbo d’ansia e attacchi di panico y Disturbi del sonno y Scarsa tolleranza alla frustrazione y Difficoltà nella pianificazione e nel problem solving y Alterazione dei meccanismi di reward
Conclusione: individuazione precoce degli indicatori
Appare in conclusione evidente che l’individuazione di segnali precoci del disagio psichico non può prescindere dall’osservazione delle forme delle relazioni nelle quali il bambino è immerso. In particolare è importante osservare come la madre (e il padre) intervengano nel contenere e modulare gli stati affettivi del bambino e porre attenzione a quei segnali sfumati e non strettamente indicativi di un disturbo clinico (es. depressione materna), che però possono far pensare a una mancanza di
Modello di stadiazione clinica della prole di genitori bipolari (livello sindromico) Solo nei bambini con genitori bipolari
Infanzia
Adolescenza
Età giovane-adulta Bipolare I
Ansia Sano Disturbi dello sviluppo*
Sonno
Regolazione e disturbo minore dell’umore
Depressione maggiore -singolo episodio
Depressione ricorrente Bipolare II
SchizoBD*
*Prole non sensibile al Litio
Stadio 0
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Stadio 2
Stadio 3
Stadio 4
Figura 1. Stadi progressivi del Disturbo Bipolare, Duffy et Al. (2015) Early identification of recurrent mood disorders in youth: the importance of a developmental approach. Evid Based Ment Health 18:7–9.
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sintonizzazione, a un’incoerenza nel fornire le cure al bambino. Si pensi a madri distaccate, disattente, che non mostrano orgoglio per i piccoli progressi del proprio neonato, che colgono solo segnali negativi oppure, viceversa, rispondono solo agli stati affettivi positivi del bambino; madri eccessivamente ansiose e costantemente preoccupate per sintomi fisici e comportamentali. Bisogna considerare, inoltre, la qualità della presenza paterna sia nella sua potenzialità protettiva della diade madre-bambino, sia per le modalità con le quali partecipa alla costruzione dell’identità del bambino. In tal senso potremmo dire che i segnali predittivi precoci sono da individuare nei comportamenti e nelle espressioni del bambino ma anche nella qualità delle presenze materne e paterne intorno a lui. La conoscenza di queste nozioni di base è bagaglio culturale necessario per il pediatra di famiglia per potergli facilitare la necessità di un invio e per poter collaborare al sostegno del paziente con la sua famiglia durante il prolungato follow-up che la malattia può richiedere. * luciorinaldi.psi@gmail.com
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DALLA PREFAZIONE DI GIANCARLO BIASINI AL LIBRO DI CARLO CORCHIA
Denatalità in Italia Da dove veniamo e dove stiamo andando di prossima pubblicazione per iod edizioni La collaborazione di Carlo Corchia con Quaderni acp è la più lunga e costante che la rivista abbia avuto. Inizia con il primo numero (Quaderni acp 1994;1:15.16). Carlo era a quei tempi ricercatore presso l’Istituto di Clinica Pediatrica dell’Università di Sassari. Prima che diventasse Responsabile dell’Unità Operativa di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale di Cosenza e poi direttore dell’Unità Operativa di Terapia Intensiva Neonatale dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Ci eravamo conosciuti alle prime giornate di Varenna del 1990 e poi del 1992 e poi ai corsi residenziali di epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità. Trovo, in un lucido del tempo, che il primo problema che ci si poneva all’interno della nostra associazione era la “maggiore comprensione possibile dei fenomeni clinici così come apparivano”. Nessun tema che trattasse o che lo interessasse finiva con quello che lui aveva scritto; cercava interlocutori su tutto e con tutti e all’interno della rivista per la quale scriveva ne trovava. E’ questo che ci manca e sempre ci mancherà. Specialmente quel suo modo di concludere i dubbi con un Ci lavorerò nei prossimi giorni. Che era un impegno per lui e per noi una attesa.
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Infogenitori
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Emozioni… e ancora emozioni Costantino Panza*, Stefania Manetti**, Antonella Brunelli*** *Pediatra di famiglia, Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia); **Pediatra di famiglia, Piano di Sorrento (Napoli); ***UO di Pediatria e Consultorio familiare, Cesena-AUSL della Romagna
… La mia faccia la tua faccia rotondetta e stupefatta la mia bocca la tua bocca ridarella e gioia sciocca!.... L. Ruifernandez Le due sorelle Bacchilego Junior Editore, 2017
Emozioni, emozioni, emozioni, non si sente parlare d’altro. In TV, sui giornali, nei dibatti e nelle pubblicità l’emozione è sempre al primo posto. Siamo sommersi da messaggi pubblicitari che utilizzano l’emozione per vendere ogni cosa. «Se mi sento emozionato, allora quella cosa va bene». Ma l’emozione che cosa è? E perché l’emozione è così importante per la mente e il corpo di una persona? L’emozione, in termini tecnici, è una attivazione di circuiti del nostro cervello che porta a un cambiamento del corpo, a modifiche del nostro comportamento e alla costruzione di un’esperienza nella mente della persona. In breve, a seguito di ogni esperienza cui siamo sottoposti e che arriva alla nostra coscienza, la mente produce una risposta del corpo (ad esempio: sudore, tremore…), un comportamento (sorriso o pianto, prepararsi a una fuga o a un abbraccio….) e una percezione mentale di ciò che sta accadendo. Quindi, per ogni esperienza che viviamo, si genera un’emozione che ci dice se dobbiamo prestarle attenzione oppure se possiamo ignorarla. Tutte le emozioni prodotte dalla nostra mente e dal nostro corpo ci permettono di conoscere il mondo. Le emozioni sono essenziali per agire secondo ragione e per rispondere in modo appropriato a tutto quello che accade intorno a noi. Ogni apprendimento, ogni conoscenza, ogni nostro ragionamento è guidato da una emozione. Facciamo un esempio: il papà è seduto sul lettino, piegato in avanti, guarda la sua bambina di 4 mesi, cantandole delle silla-
be «ba ba ba ta tà». La bambina è sveglia, tranquilla, lo guarda negli occhi e osserva la mimica del volto del papà, e ascolta il motivetto che esce dalle sue labbra. La mente della bambina raccoglie tutte queste percezioni e manifesta un’emozione positiva di curiosità e gioia: il battito del cuore è calmo, il corpo è rilassato, i muscoli delle piccole braccia si preparano a tendersi in avanti e quelli delle gambe si preparano a sgambettare. La bambina, attraverso la sua risposta emotiva, ha definito uno stato fisiologico, ha predisposto il suo comportamento. La piccola ha iniziato a comunicare con il papà facendogli osservare il suo stato emotivo attraverso i movimenti del suo corpo e l’espressione del suo volto. In questo modo ha dato un senso a questa esperienza soggettiva. Quante cose importanti in un semplice scambio di sguardi e di sillabe cantate! A questa tenera età, poi, si osserva anche qualcos’altro di molto importante: lo scambio di emozioni e affetti che costituisce il mezzo con cui il bambino si mette in relazione, ma che rappresenta anche il contenuto delle prime forme di comunicazione. Infatti, se il genitore, o chi accudisce il bambino, non esprime affetto, un sentimento positivo, un sorriso, e non è disponibile ad ascoltare e rispondere, non solo al sorriso, ma anche al pianto, non può esserci una comunicazione efficace. Affinché il bambino impari a riconoscere le proprie emozioni è necessario che abbia di fronte la mamma o il papà che lo guardino e che interagiscano con lui o lei attraverso un gioco continuo di ripetizioni e imitazioni reciproche. Il fissarsi reciproco degli occhi tra bambino e genitore, l’osservare i movimenti della bocca e del corpo dell’adulto che canta o parla in risposta alle proprie espressioni, aiutano il bambino nello sviluppo della propria consapevolezza. Il bambino piccolo impara parlando, giocando e cantando insieme ai suoi genitori, in questi preziosi momenti gli stiamo facendo un dono enorme: la capacità di apprendere. Il bambino, come l’adulto, sperimenta tante diverse emozioni nel corso della giornata. Nel primo anno di vita riesce a regolare
le proprie reazioni emotive solo con l’aiuto del genitore o di chi lo accudisce, soprattutto in caso di stati emotivi negativi, come ad esempio in un momento di pianto. Ecco perché è importante consolare un lattante che piange in risposta a una situazione difficile. Con la crescita poi, dopo aver imparato a calmarsi con l’aiuto del genitore, il bambino gradualmente capisce che anche da solo può essere capace di controllare una emozione intensa. Quando il bambino, in genere dopo i 2 anni, avrà iniziato a parlare con brevi frasi, potrà utilizzare il linguaggio per definire una emozione: “Paura buio stanza”. Il riuscire a dire queste parole per descrivere la propria esperienza e dare un nome a quello che vede promuove lo sviluppo della comprensione delle emozioni. Possiamo aiutare il bambino ad arricchire le sue esperienze emotive e a comprendere quelle degli altri? Sì. La mamma o il papà o chi lo accudisce possono conversare con lui o lei raccontando le proprie esperienze, o ascoltando quelle del bambino, e suggerendo, se necessario, un nome per descrivere lo stato d’animo vissuto in quella particolare situazione. A volte può essere difficile raccontare, in questi casi il modo migliore per comunicare è quello di leggere insieme un libro che racconti una storia adatta alla sua età e al suo stato d’animo. Fin dai 6 mesi di vita è consigliato un libro con i volti o con le filastrocche; dopo i due anni si passa alla lettura di storie con testo semplice, affiancato da belle immagini che raccontano avventure di animali o umani, dove vengono espresse emozioni di gioia, paura, rabbia e tristezza. Durante la lettura il bambino può rivivere le sue emozioni, specie se chi legge insieme a lui lo aiuta a diventare parte della storia: “capita anche a te di non voler andare a dormire come fa la tartaruga?”, “cosa pensi che combinerà ora questo dinosauro pauroso?”. Nel caso di bambini più grandicelli le storie potranno rappresentare emozioni più complesse, come la vergogna, la gelosia, l’imbarazzo e tanto altro ancora. * doc.manetti@gmail.com
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Research letter
Le comunicazioni orali presentate dagli specializzandi al Congresso Tabiano XXVI Pubblichiamo in questo numero 4 delle 6 comunicazioni orali presentate al congresso di Tabiano, le altre due saranno pubblicate sul numero 4 di “Quaderni acp”
Otite media acuta e atassia: un insolito sospetto!
Anna Gioachin1, Natalia Borraccetti1, Monica Sprocati 2, Giuseppe Maggiore1, Maria Rita Govoni 2 1 Scuola di Specializzazione in Pediatria, Ferrara; 2Clinica Pediatrica, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara In età pediatrica la trombosi del seno sigmoideo è una complicanza endocranica rara dell’otite media acuta. La mortalità e la morbilità a essa connesse sono drasticamente diminuite grazie all’antibioticoterapia, che tuttavia non è sufficiente ad azzerare il rischio di complicanze endocraniche. Riportiamo a questo proposito il caso di Giulia (nome di fantasia). Caso clinico
Giulia, 3 anni, si presenta in Pronto Soccorso perché da poche ore mantiene la posizione eretta con difficoltà e ha evidente sbandamento della marcia. Alla valutazione obiettiva Giulia è febbrile (T 38,6 °C), ha tosse e iperemia tonsillare senza essudato, reperto toracico normale. All’otoscopia non sono valutabili le membrane timpaniche per la presenza di abbondanti secrezioni nel condotto uditivo esterno; la palpazione del trago di destra evoca dolore, non sono presenti segni di mastoidite (edema, eritema retroauricolare) né estroflessione del padiglione. L’obiettività neurologica rileva una marcata atassia senza deficit neurologici focali o di forza. Approfondendo l’anamnesi scopriamo che Giulia è in terapia con amoxicillina/acido clavulanico da 24 ore per un’otite media effusiva bilaterale esordita due giorni prima. L’anamnesi patologica remota è negativa per precedenti otiti o patologie di rilievo, e la piccola è regolarmente vaccinata. In considerazione dell’otoscopia non esplicativa e dell’anamnesi, richiediamo una valutazione otorinolaringoiatrica che documenta la pre-
senza di un’otite media effusiva destra senza caratteri di particolare gravità clinica. Gli esami ematochimici tuttavia mostrano un significativo incremento degli indici di flogosi: GB 17.000, PCR 20,9 mg/dl e procalcitonina di 1,23 ng/ml, per cui decidiamo di ricoverare Giulia per intraprende terapia con ceftriaxone e programmare indagini diagnostiche, data l’obiettività neurologica riscontrata. Dopo dodici ore dall’arrivo in Pronto Soccorso vengono eseguite RM encefalo e TC orecchio, che mostrano un esteso interessamento flogistico delle meningi in fossa cranica posteriore e media e delle mastoidi soprattutto a destra, con associata trombosi del seno sigmoideo destro e presenza di versamento posteriore alla parte laterale della rocca petrosa e che circonda medialmente il seno sigmoideo. Viene eseguita rachicentesi che documenta isolata lieve proteinorrachia (267 mg/dl), quindi si procede a toilette chirurgica della mastoide destra con mastoidectomia e miringotomia. Macroscopicamente si individua una raccolta purulenta perisinusale e si conferma la trombosi del seno sigmoideo. Dopo l’intervento è proseguita terapia antibiotica con ceftriaxone cui si è aggiunta amikacina e viene iniziata terapia con enoxaparina e cortisonico sistemico. A 24 ore dall’intervento Giulia è stabilmente apiretica, la sintomatologia neurologica si risolve completamente dopo 4 giorni. Gli esami ematici mostrano una progressiva riduzione degli indici di flogosi con negativizzazione della PCR a 6 giorni dal ricovero. L’emocoltura e gli esami colturali intraoperatori risultano negativi. La piccola, dopo 7 giorni di terapia con ceftriaxone e 6 con amikacina, viene dimessa dopo una settimana con l’indicazione a proseguire terapia con cefalosporina orale per altre tre settimane e viene stabilita terapia anticoagulante con warfarin. La RM eseguita a distanza di un mese evidenzia la persistenza della trombosi mentre non risulta più visibile il versamento posteriore alla rocca petrosa. Giulia è in follow up al Centro emostasi per la terapia anticoagulante orale e per l’esecuzione dello screening trombofilico.
Discussione
Le complicanze dell’otite media acuta sono classificate in intratemporali ed endocraniche. La complicanza intratemporale più frequente è la mastoidite acuta che nel 3-5% dei casi si associa alla trombosi del seno sigmoideo [1]. In questo caso l’infezione diffonde dalla mastoide fino allo spazio intracranico per continuità, tramite aree di osteorarefazione nella mastoide dovute all’osteite oppure per via ematogena. Se la propagazione avviene per via ematogena, il processo infettivo potrebbe non coinvolgere la mastoide ossea e non determinare i segni e sintomi specifici quali dolore e tumefazione retroauricolare con estroflessione del padiglione. Inoltre in questo caso il profilo mastoideo osseo alla TC risulta intatto e per escludere complicanze endocraniche è indispensabile eseguire anche una RM (come nel caso di Giulia) [2]. I sintomi più frequenti delle complicanze intracraniche sono la cefalea (descritta fino al 90% dei casi), l’irritabilità, l’astenia, il vomito, la nausea e la diplopia. L’atassia è un sintomo raramente associato; abbiamo trovato in letteratura solo un altro caso di atassia e trombosi del seno sigmoideo in corso di otite media acuta. All’esame obiettivo, la valutazione otoscopica può non essere dirimente e i segni mastoidei sono presenti solo nel 20% dei casi. Dalla letteratura non emerge una correlazione lineare tra la gravità del quadro clinico e otoscopico e il riscontro di anomalie neuroradiologiche. La terapia delle trombosi del seno sigmoideo prevede la mastoidectomia con o senza miringotomia, associata all’impiego di antibiotici ad ampio spettro e alla terapia antitrombotica. La terapia antibiotica deve essere prolungata (10-14 giorni), anche se non esistono evidenze sulla sua durata ottimale. Gli esami di laboratorio, come la PCR e la conta leucocitaria, possono fornire indicazioni sull’efficacia della terapia. Il ruolo della terapia antitrombotica è ancora oggetto di dibattito, ma al momento prevale la convinzione che essa limiti la propagazione del trombo, migliori il drenaggio ve-
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noso e aumenti i circoli collaterali pur in assenza di tempistiche condivise sul follow up neuroradiologico e terapeutico [3]. Il caso di Giulia ci ricorda che anche una patologia frequente, facilmente riconoscibile e trattabile come l’otite media acuta, può associarsi a complicanze intracraniche gravi che possono manifestarsi anche con segni e sintomi atipici quali l’atassia. * anna.gioachin@student.unife.it
1. Zanoletti E, Cazzador D, Faccioli C, et al. Intracranial venous sinus thrombosis as a complication of otitis media in children: Critical review of diagnosis and management. Int J Pediatr Otorhinolaryngol 2015;79:2398-403. 2. Osborn AJ, Blaser S, Papsin BC. Decisions regarding intracranial complications from acute mastoiditis in children. Curr Opin Otolaryngol Head Neck Surg 2011;19:478-85. 3. Funamura JL, Nguyen AT, Diaz RC. Otogenic lateral sinus thrombosis: case series and controversies. Int J Pediatr Otorhinolaryngol 2014;78:866-70.
Un insolito giunto pieloureterale
Michela Procaccianti1, Arianna Panigari1, Giovanni Casadio2 , Claudio Ruberto3 1 Scuola di Specializzazione in Pediatria, AOU Parma; 2Chirurgia Pediatrica, AOU Parma; 3Pediatria Generale e d’Urgenza, AOU Parma Caso clinico
S. è una ragazza di 14 anni con una storia di coliche renali recidivanti dal 2015, per cui è stata valutata più volte in Pronto Soccorso Pediatrico. In due di tali occasioni, ad accertamento diagnostico, ha eseguito ecografia addominale risultata negativa per la presenza di calcoli renali e altre alterazioni clinicamente significative, ad eccezione di un’ectasia del bacinetto renale di sinistra (circa 1 cm) con sottile falda di liquido libero nel Douglas. Il Nefrologo Pediatra ha prescritto, ad approfondimento diagnostico, RMN addome che ha confermato la presenza di dilatazione del bacinetto renale di sinistra (1,4 cm) e ha evidenziato, dalla stessa parte, la presenza di un’arteria renale principale e, appena caudalmente ad essa, un sottile ramo arterioso con origine anterolaterale all’aorta compatibile con vaso polare. La scintigrafia renale eseguita successivamente ha mostrato calicopielectasia sinistra non ostruttiva. Nel sospetto di stenosi del giunto pieloureterale da compressione estrinseca è stato quindi discusso il caso collegialmente per stabilire la miglior opzione terapeutica. La compressione da vaso polare renale, una delle cause di compressione estrinseca del
giunto da considerarsi più probabili in una paziente di quella età e con quella sintomatologia, non sembrava però del tutto convincente: nelle immagini RMN il vaso polare anomalo appariva infatti posizionato troppo in alto per poter comprimere la giunzione. Nel periodo di tempo intercorso, tuttavia, S. eseguiva due ulteriori accessi in Pronto Soccorso per dolore addominale colico: data la persistenza dei sintomi si decideva quindi per una laparoscopia esplorativa a scopo diagnostico e/o terapeutico. Nel corso dell’intervento, a livello dell’ilo renale sinistro si riscontrava trasposizione anatomica pielovascolare, per cui i vasi renali risultavano ventrali alla via urinaria (pelvi) del rene sinistro con conseguente compressione ab estrinseco della giunzione pieloureterale sinistra. È stata pertanto effettuata una pessia inferiore della pelvi renale sinistra che è stata ancorata alla capsula renale polare inferiore con conseguente liberazione della giunzione pieloureterale sinistra dal crossing vascolare anteriore. È stato infine posizionato stent doppio-J in uretere sinistro a protezione della via urinaria, rimosso dopo 28 giorni. Il decorso operatorio è stato regolare, la diuresi si è mantenuta valida. Al controllo ecografico effettuato a 40 giorni la paziente era in buone condizioni generali, asintomatica. L’ecografia mostrava lieve ectasia calicopielica con bacinetto renale di circa 1,2 cm. Dall’intervento non si sono manifestati ulteriori episodi di dolore addominale. Discussione
La stenosi del giunto pieloureterale è la più comune lesione ostruttiva nell’infanzia, ma rimane tutt’ora un enigma in termini diagnostici e terapeutici. Nonostante le innovazioni nell’imaging, sia dal punto di vista funzionale che morfologico, restano delle controversie riguardo a quanto siano importanti, eziologicamente parlando, le relazioni anatomiche tra la pelvi renale, l’uretere e i vasi che li circondano. La stenosi del giunto pieloureterale vede come eziologia sia forme funzionali, in cui esiste una incoordinazione tra la muscolatura pelvica e ureterale, sia forme anatomiche, divise a loro volta in intrinseche (ristrettezza del giunto) ed estrinseche, tra cui la più frequente è la compressione da parte di un vaso anomalo che, dall’aorta o dall’arteria renale, va a irrorare la porzione inferiore del rene. Esistono tuttavia varianti anatomiche considerate fisiologiche in cui la presenza di vasi anomali non provoca stenosi del giunto. La stenosi da vaso polare anomalo si manifesta solitamente in tarda infanzia con
sintomi quali coliche addominali talvolta associate a nausea, oppure con infezioni urinarie ricorrenti [1]. Nel caso della nostra paziente si è scelto di utilizzare l’approccio laparoscopico transperitoneale in quanto tale metodica si è rivelata efficace nell’identificare i vasi anomali e nello stabilire la loro interazione con la giunzione pieloureterale. È stata inoltre utilizzata una tecnica chirurgica analoga al “vascular hitch” andando a fissare la via urinaria alla capsula polare inferiore, in quanto una pieloplastica sarebbe risultata più invasiva e indaginosa. Nell’ostruzione estrinseca del giunto pieloureterale la tecnica del “vascular hitch” viene utilizzata nel nostro Centro e in alcuni altri Centri italiani come modalità alternativa alla tradizionale pieloplastica in casi selezionati. Numerosi studi [2-4] hanno dimostrato l’efficacia di tale metodica nella risoluzione dei sintomi, nel basso tasso di recidiva e nella minor durata dell’ospedalizzazione. Conclusioni
La compressione del giunto pieloureterale da vaso polare renale è una delle cause di compressione estrinseca da considerarsi più probabili in una paziente di quella età e con quella sintomatologia, ma è necessario tenere presente che, seppur rare, esistono altre varianti anatomiche della vascolarizzazione renale che potrebbero provocare tale problema. La completa risoluzione della sintomatologia dopo l’intervento ha dimostrato l’efficacia della metodica chirurgica utilizzata per la nostra paziente. * michela.procaccianti@outlook.it
1. Mitterberger M, Pinggera GM, Neururer R, et al. Comparison of Contrast-Enhanced Color Doppler Imaging (CDI), Computed Tomography (CT), and Magnetic Resonance Imaging (MRI) for the Detection of Crossing Vessels in Patients with Ureteropelvic Junction Obstruction (UPJO). Eur Urol 2008;53:1254-60. 2. Chiarenza SF, Bleve C, Fasoli L, et al. Ureteropelvic junction obstruction in children by polar vessels. Is laparoscopic vascular hitching procedure a good solution? Single center experience on 35 consecutive patients. J Pediatr Surg 2016;51(2):310-4. 3. Esposito C, Bleve C, Escolino M, et al. Laparoscopic transposition of lower pole crossing vessels (vascular hitch) in children with pelviureteric junction obstruction. Translational Pediatrics 2016;5(4):256-61. 4. Gundeti MS, Reynolds WS, Duffy PG, et al. Further experience with the vascular hitch (laparoscopic transposition of lower pole crossing vessels): an alternate treatment for pediatric ureterovascular ureteropelvic junction obstruction. J Urol 2008;180:1832-6.
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interesse sistemico e sulla quasi costante positività del segno di Darier (eritema, edema e bolle in sede di sfregamento). Mancano elementi prognostici attendibili, per cui risultano fondamentali precoci accertamenti audiometrici (limitati casi di sordità neurosensoriale per infi ltrazione mastocitaria d’organo) e un attento follow up con dosaggio delle triptasi per riconoscere tempestivamente l’ eventuale evoluzione nella forma sistemica. * carlotta.toffoli@gmail.com
1. Pediatric cutaneous mastocytosis: a review of 180 patients. Isr Med Assoc J 2005;7:320-2. 2. Kiszewski AE, Duran-Mckinster C, Orozco-Covarrubias L. Gutierrez-Castrellon P, Ruiz Maidonaldo R. Cutaneous mastocytosis in children: a clinical analysis of 71 cases. J Eur Acad Dermatol Venereol 2004;18:285-90.
Figura 1. Lesioni maculose di colorito bruno.
L’infiltrato speciale
Carlotta Toffoli1, Giulia Zagni1, Valentina Mandese1, Francesca Roncuzzi1, Sara Gavioli 2, Giancarlo Gargano2, Lorenzo Iughetti1 1 Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Scuola di Specializzazione in Pediatria; 2UO di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Arcispedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia In letteratura, esistono pochi casi di mastocitosi cutanea a esordio neonatale, da considerare nella diagnosi differenziale delle lesioni bollose congenite. Descriviamo un caso di mastocitosi cutanea a esordio neonatale, diagnosticato clinicamente. XY, nato a termine da parto vaginale indotto dopo gravidanza normocondotta; anamnesi neonatale e familiare negative. In occasione della prima visita, riscontro di lesioni cutanee bollose e lesioni violacee diff use. Agli esami ematici, minimo rialzo degli indici di flogosi, accertamenti infettivologici (emocoltura, tamponi superficiali, sierologia) non dirimenti. In 6° giornata, si assisteva a modificazione del quadro cutaneo: comparsa di lesioni maculose, di colorito bruno seppia e riscontro di una bolla più infi ltrata (Figure 1 e 2). Alla luce di tali evidenze cliniche, si poneva sospetto di mastocitosi cutanea. Ad approfondimento diagnostico, si eseguivano accertamenti quali dosaggio della triptasi sierica, esami ecografici (ecografia addome, cerebrale, cardiaca, cute e sottocute) e screening audiologico, risultati nei limiti. Il bambino è attualmente in follow up presso l’oncoematologia pediatrica, ad oggi nella norma. La mastocitosi comprende un gruppo eterogeneo di disordini caratterizzati dalla prolifera-
Datemi una “C”
Alessia Norato1, Lorenzo Iughetti1,2, Giulia Lembo3, Lorenzo Fiorica 3, Patrizia Davio1, Elisabetta Spezia1, Maria Luisa Casciana4, Fabio Buzi4. 1 Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia; 2UO di Pediatria, Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico di Modena; Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Brescia; 4Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliera Carlo Poma di Mantova
Figura 2. Bolla infiltrata.
zione di mastociti e loro accumulo nella cute e/o in altre sedi. La mastocitosi cutanea è una malattia esclusivamente dermatologica, frequente in età infantile, quasi sempre benigna, che tende a regressione spontanea alla pubertà. Si classifica come: mastocitosi cutanea maculo-papulare (anche detta orticaria pigmentosa), più comune, in cui si manifestano piccole macchie o rigonfiamenti rosa/marroni; mastocitoma, raro, che può presentarsi come nodulo in rilievo singolo o multiplo; mastocitosi cutanea diff usa, molto rara, già presente alla nascita, in cui si riscontra cute ispessita con tendenza a formare vesciche a contenuto liquido, come nel caso descritto. La diagnosi clinica di mastocitosi cutanea si basa sul riscontro delle lesioni caratteristiche, sulla mancanza di segni di
Fino a qualche tempo fa la carenza di vitamina C veniva considerata una malattia tipica del passato. Recentemente sono stati segnalati diversi casi di bambini affetti da scorbuto, la cui diagnosi è stata spesso tardiva ed è stata formulata dopo un lungo percorso diagnostico che ha spesso necessitato dell’ausilio dell’imaging. Caso clinico
XY, 4 anni, giungeva alla nostra attenzione per dolore persistente alla gamba destra, sintomatologia che rendeva difficoltosa la deambulazione. Non febbre, non riferiti traumi. Il bambino era in terapia con antinfiammatorio già da 10 giorni, con scarso beneficio. In occasione di un precedente accesso in PS per la medesima sintomatologia era stata eseguita radiografia del ginocchio, risultata nella norma. Dall’anamnesi emergevano esclusivamente rinite e tosse nelle due settimane precedenti. Obiettivamente il bambino si presentava in buone condizioni generali con faringe deterso, gengive
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Figura 1. RMN ginocchio: “alterazione del segnale osteo-midollare con significato edematoso in corrispondenza della regione meta-diafisaria distale del femore”.
ipertrofiche e sanguinanti, non linfoadenomegalie; obiettività cardiopolmonare e addominale nella norma. Dal punto di vista articolare presentava tumefazione a livello del ginocchio destro che appariva caldo, iperemico e dolente. Persisteva rifiuto della deambulazione. Si decideva per il ricovero per eseguire le cure e gli accertamenti del caso. Durante la degenza si confermava la scarsa efficacia della terapia antidolorifica e antinfiammatoria, con persistente rifiuto a mantenere la stazione eretta da parte del bambino. Gli esami ematochimici non mettevano in rilievo nulla di particolare, ad eccezione di anemia microcitica. Nulla di rilevante all’ecografia articolare. Gli incidi di flogosi (indagati più volte nel corso del ricovero) si mantenevano nei range di normalità, per tale motivo si soprassedeva all’impostazione di una terapia antibiotica. In considerazione dalla persistenza della sintomatologia veniva eseguita RMN delle ginocchia (Figura 1), che metteva in rilievo lesioni compatibili con esteso focolaio osteomielitico a verosimi-
le genesi piogenica a livello del III distale del femore destro, quadro riscontrato anche a livello del femore sinistro. A questo punto si decideva di impostare una terapia antibiotica ad ampio spettro con penicillina, cefalosporina e macrolide (terapia proseguita per 16 gg). Altri esami ematici di approfondimento diagnostico, comprensivi di autoimmunità; sierologia per CMV, EBV, Rosolia, Toxoplasmosi, Adenovirus, HIV, HBV, HCV, Parvovirus B19, Bartonella, Chlamydia, Coxsackie, Mycoplasma risultavano negativi, così come le emocolture, il Quantiferon e gli aspirati gastrici per BK. Negativi anche il tampone faringeo, le coprocolture, lo striscio di sangue periferico e l’enolasi neuronospecifica. Altre indagini strumentali eseguite risultavano nella norma; tra esse: radiografia del cranio, radiografia del torace, radiografia del bacino, ecocardio, ECG, lampada a fessura, eco addome. L’ultima RMN, eseguita a distanza di 3 settimane dalla prima, metteva in rilievo miglioramento del quadro osteomielitico precedentemente descritto. L’unico esame che era rimasto in sospeso era il dosaggio della vitamina C, il referto del quale (giunto e visionato dopo circa 1 mese e mezzo dalla sua esecuzione!) mostrava una carenza tale da giustificare la sintomatologia presentata dal bambino. Alla luce della carenza di vitamina C (303 g/dl, vn: 460-1490 g/dl) il quadro clinico del bambino veniva rivalutato e, considerando la correlazione tra le lesioni ossee e quelle gengivali (ipertrofia), ci si orientava verso la diagnosi di scorbuto. Attualmente il bambino non presenta sintomatologia degna di nota. Ha eseguito supplementazione con vitamina C e ha modificato radicalmente la sua dieta che prima consisteva esclusivamente in latte. Risultati
Lo scorbuto è una malattia caratterizzata dalla carenza di vitamina C. Generalmente il fabbisogno quotidiano di questa vita-
mina si aggira intorno ai 60 mg, ma ne bastano 10 mg/die per prevenire le manifestazioni dello scorbuto. La vitamina C è essenziale per la formazione del collagene e aiuta a mantenere l’integrità del tessuto connettivo, del tessuto osseo, della dentina; è indispensabile per la guarigione delle ferite e facilita quella delle ustioni; facilita l’assorbimento del ferro. Viene per questo chiamata “vitamina da stress”. Lo scorbuto infantile compare abitualmente tra il 6º e il 12º mese di vita: il bambino è irritabile, non ha appetito e non aumenta di peso, le estremità delle ossa lunghe (per esempio, femore) si rigonfiano, e le gengive sanguinano facilmente; spesso sono presenti febbre, anemia e aumento della frequenza cardiaca. Conclusioni
Fare diagnosi di scorbuto è difficile perché si tratta di una patologia alla quale, ai nostri giorni, non si pensa quasi mai. La carenza di vitamina C va invece tenuta in considerazione e indagata nei casi di dubbio diagnostico. La RMN, di solito ma non sempre (e il nostro caso ne è l’esempio), consente di distinguere lo scorbuto da altre patologie delle ossa (leucemia, metastasi, osteomielite…). Noi medici dovremmo considerare lo scorbuto tra le diagnosi differenziali in bambini che presentano dolori articolari, ritardo dell’accrescimento e che seguono una dieta selettiva. * alesnora@yahoo.it
1. Golriz F, Donnelly LF, Devaraj S, Krishnamurthy R. Modern American scurvy - experience with vitamin C deficiency at a large children’s hospital. Pediatr Radiol 2016 Oct 24. 2. De Ioris MA, Geremia C, Diamanti A, et al. A. Risks of inadequate nutrition in disabled children: four cases of scurvy. Arch Dis Child 2016;101(9):871. 3. Seya M, Handa A, Hasegawa D, Matsui T, Nozaki T. Scurvy: From a Selective Diet in Children with Developmental Delay. J Pediatr 2016;177:331.
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Candidati al Direttivo dell’ACP
Patrizia Elli
Laureata in Medicina e specializzata in Pediatria presso l’Università Statale di Milano. Assistente di ruolo in Pediatria presso l’Osp. S. Carlo di Milano dal 1978 al 1992. Pediatra di famiglia dal 1992. Iscritta all’ACP dal 2000 Interessi principali: gli aspetti psicologici della relazione madre-bambino (Corso propedeutico alla psicoanalisi infantile della Tavistock Clinic di Londra dal 1986 al 1988); gli aspetti dello sviluppo precoce del bambino (Corso Early Child Development presso CSB Trieste); la comunicazione-relazione in ambito sanitario (diploma di Counsellor presso la Scuola di Counselling Sistemico – I.Co.S., a Milano, e diploma di Formatore al Counselling Sistemico il presso l’Istituto Change di Torino nel 2003); l’assistenza al bambino disabile (Master di Pediatria della disabilità nel 2011-2012 presso l’Università degli Studi Milano Bicocca); la promozione dell’allattamento al seno (Corso 20 ore OMS-UNICEF). Formatrice in numerosi corsi sulla comunicazione-relazione in ambito sanitario e, per l’aspetto comunicativo, nei Corsi OMS-UNICEF per il sostegno e la promozione dell’allattamento al seno. Collaboro con la Fondazione Maddalena Grassi a Milano per l’assistenza domiciliare ai bambini con grave disabilità. Rappresento ACP in WONCA (World Organization of National Colleges and Academies of Family Medicine/General Practice) dal 2005 e in WONCA Italia (Coordinamento italiano delle società scientifiche aderenti a Wonca) dalla sua costituzione.
Alberto Ferrando
Specializzato in Pediatria nel 1978. Pediatra libero professionista. Pediatra di famiglia dal 1978 al 2015. Presidente Associazione Pediatri della Liguria (APEL), affiliata ACP per la Regione Liguria. Consigliere Sezione Ligure SIP. Consigliere Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Genova. Coordinatore Garanti Infanzia UNICEF. “Corso biennale (1996-1998) di formazione multidisciplinare alla pratica della ri-
cerca” in Pediatria presso l’IRCCS “Mario Negri”. Professore a contratto in Pediatria ambulatoriale presso l’Università degli Studi di Genova. Tutor Regione Liguria Corso triennale MMG. Istruttore Manovre Rianimazione Cardiopolmonare B e PBLSD. Dal 2009 al 2014 Componente Commissione Nazionale per la Formazione Continua (CNFC) presso il Ministero della Salute. Dal 2010 al 2014 componente Comitato dei garanti della CNFC. Dal 2002 al 2014 Presidente Federazione Regionale OMCeO Liguria. Componente gruppo regia iniziativa “fare di più non significa fare meglio” di “Slow Medicine”. Autore e coautore di pubblicazioni scientifiche e libri per medici e di libri di pediatria per famiglie. Webmaster del sito personale e APEL. Blogger. Attività su media (TV e giornali) e su social network. Attività formazione e promozione alla salute e prevenzione incidenti, disagio e situazioni a rischio (alcol, fumo, droghe, maltrattamento ecc.) anche nella comunità.
Martina Fornaro
Sono nata e cresciuta a Messina, siciliana in viaggio, mi sono trasferita a Verona dove mi sono laureata e specializzata in Pediatria nel 2008. Durante la specializzazione ho conosciuto l’ACP, iscrivendomi e partecipando alle attività della Newsletter ACP. Dal 2010 vivo e lavoro a Forlì, come pediatra ospedaliera. Mi sono quindi iscritta al gruppo ACPR di cui, da due anni, faccio parte del direttivo. Dal 2016 sono uno dei coordinatori dei gruppi di Newsletter romagnoli. Collaboro regolarmente con Quaderni acp. La mia formazione specialistica da sempre è nell’ambito della gastroenterologia e della nutrizione clinica pediatrica (presso il centro Fibrosi Cistica di Verona nel 2009); Master in medicina dei trapianti a indirizzo epatologico pediatrico, Università di Milano Bicocca nel 2010; Master in gastroenterologia pediatrica, Università La Sapienza di Roma nel 2011, con un particolare interesse verso gli aspetti della cronicità e dell’interazione tra ospedale e territorio nella rete delle cure pediatriche. Ho appena ini-
ziato un percorso di formazione in Cure palliative e terapia del dolore pediatriche all’Università di Bologna. Infine, ma non infine, sono una appassionata lettrice volontaria di “Nati per Leggere”.
Italo Marinelli
Specializzazione in Pediatria (1987) e Malattie Infettive (1993). Pediatra Ospedaliero (Agnone, Campobasso, Gubbio). Giornalista pubblicista. Già amministratore locale (consigliere comunale e provinciale) e sindacalista ANAAO. Socio ACP dal 2004, già Referente Regionale ACP per il Molise, dove è stato promotore di NPL. Attualmente membro del Direttivo ACP Umbria. Si è dedicato al tema del sostegno e dell’empowerment nelle malattie respiratorie croniche (asma bronchiale, fibrosi cistica). Promotore e coordinatore di iniziative di formazione e aggiornamento/valutazione critica della letteratura scientifica (journal club). Ha collaborato alla FAD ACP (il bambino con dolore osteo-articolare). Interessato alla slow medicine e al contrasto culturale all’interventismo medico diagnostico e terapeutico (http://www. ac p.it /w p-content /uploads/Q uaderni-acp-2008_155_213-215.pdf) e alle iniziative di umanizzazione delle cure ospedaliere (gioco e scuola in ospedale, promozione della musica e della lettura).
Luca Tafi
Specializzazione in Pediatria nel 1988 e in Reumatologia nel 1994. Dal 1990 al 2006 Pediatra Ospedaliero in Casentino e dal 2006 Pediatra Ospedaliero ad Arezzo. Socio ACP dal 2016. Socio SIEDP dal 2013. Membro del gruppo di studio della SIEDP Toscana. Dal 1994 si interessa di Auxologia (già collaboratore scientifico del Centro Studi Auxologici diretto dal prof. Ivan Nicoletti). Autore di varie pubblicazioni di Auxoendocrinologia. Titolare dell’incarico di Auxoendocrinologia nella UO di Pediatria di Arezzo. Impegnato, con altri colleghi, nella promozione dell’allattamento al seno e nel progetto BFHI nel punto nascita del Casentino.
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Salute mentale
Rubrica a cura di Angelo Spataro
Il ritardo mentale lieve Intervista di Angelo Spataro* a Giacomo Stella** *Pediatra di famiglia, Palermo; Responsabile del Gruppo “Salute mentale” dell’ACP **Psicologo, professore ordinario di Psicologia clinica all’Università di Modena e Reggio Emilia
Qual è la prevalenza del ritardo mentale (RM) lieve? Quali le cause?
Il ritardo mentale di grado lieve 1 è la forma più frequente di RM; la sua prevalenza è del 2,5% sulla popolazione generale e le cause principali del ritardo sono nella maggior parte dei casi di origine sconosciuta. L’American Mental Retardation segnala che nel 50% dei casi di soggetti con RM di grado lieve non è possibile determinarne l’origine, nel 30% dei casi l’origine è su base organica, nel 5% dei casi si tratta di cause ereditarie mentre nel restante 15% ci possono essere influenze ambientali o altri fattori di deprivazione. Il RM lieve generalmente non è accompagnato da disturbi motori o da dimorfismi somatici, e le capacità comunicative e sociali negli anni prescolastici spesso non sono distinguibili dai bambini senza RM. Per questi motivi, nella maggioranza dei casi, il ritardo non viene individuato in una età precoce e i problemi si presentano quando il bambino inizia a frequentare la scuola. Ci sono modalità comportamentali e relazionali nei primi anni di vita del bambino che possono fare prevedere un ritardo cognitivo di grado lieve e che il pediatra può cogliere?
Il RM lieve non è sempre facile da diagnosticare in età evolutiva poiché il suo esordio può manifestarsi con un semplice ritardo di sviluppo sia di tipo psicomotorio che del linguaggio. Nei primi anni di vita il pediatra deve fare attenzione quando il bambino presenta un ritardo psicomotorio con una deambulazione oltre i 18 mesi e una comparsa del linguaggio che risulta fortemente ritardata. Spesso il bambino con RM lieve mostra anche scarsa tendenza all’esplorazione dell’ambiente, un gioco molto ripetitivo con applicazione di schemi molto primitivi. Per esempio tende a mantenere a lungo un gioco semplice come quello di rovesciare gli oggetti da un contenitore per provocare rumore, rimetterli dentro e poi rovesciare ancora una volta o lanciarli. Queste
condotte che di solito nei bambini scompaiono dopo i 18-20 mesi, nei bambini con RM lieve persistono anche fino ai tre anni. Molte difficoltà si manifestano anche nell’esecuzione del gioco con dei semplici incastri dove il bambino invece che comportarsi con una strategia di prova ed errore insiste con lo stesso oggetto, per esempio un cubo di plastica, senza cambiarlo, anche se questo non entra nel foro corrispondente che ha forma, per esempio, rettangolare. Questo comportamento privo di flessibilità è un dato molto caratteristico dei bambini con RM lieve. Anche nel gioco delle costruzioni presentano delle difficoltà in quanto sono in grado di costruire solo semplici torri ma non riescono a compiere, all’età di quattro anni, forme di costruzioni più strutturate. Infine un altro elemento caratteristico è la difficoltà di progettare anche semplici disegni. Verso i cinque anni il bambino continua a produrre infatti il cosiddetto scarabocchio privo di ideazione e al quale attribuisce un significato solo dopo averlo prodotto e solo su richiesta dell’adulto e mai spontaneamente. Questo comportamento spesso trae in inganno l’adulto che ritiene che sia un segno di comparsa di capacità espressive invece il bambino compie quelle che Piaget chiamava azioni senza rappresentazioni. Non è facile fare una valutazione del RM in un ambulatorio del pediatra, tuttavia alcuni consigli pratici possono essere molto utili; per esempio si consiglia di tenere in ambulatorio dei puzzle oppure dei cubi o delle sfere a incastro oppure si può dare una matita e invitare il bambino di cinque anni a fare un disegno. Il bambino con RM di grado lieve farà un disegno molto semplice o farà, come si diceva prima, uno scarabocchio. Molto importante per l’orientamento diagnostico risulta anche l’anamnesi sia familiare che personale; la presenza nel nucleo familiare o nei parenti prossimi di altri casi di RM è un indicatore molto importan-
te. Inoltre, come abbiamo già detto, rilevare un ritardo psicomotorio associato al ritardo del linguaggio è un elemento altrettanto importante. Si può fare prevenzione? Una diagnosi precoce del ritardo migliora la prognosi? Su quali competenze del bambino si deve agire per favorire lo sviluppo delle sue potenzialità?
Parlare di prevenzione nel RM è improprio. Invece è molto importante parlare della diagnosi precoce perché abbiamo dati solidi che dimostrano che l’intervento molto precoce migliora la prognosi evolutiva anche in misura molto significativa. In questi casi è importante avvalersi della collaborazione di specialisti, perché un dato fondamentale nel potenziamento precoce delle funzioni cognitive è l’introduzione di vincoli nelle azioni. Vediamo cosa significa. Il bambino con RM tende a compiere azioni prive di significato, azioni senza rappresentazioni, e per questo motivo è molto importante non lasciare spazio all’iniziativa casuale ma bisogna dare invece compiti con vincoli da rispettare. Per esempio è molto utile fare eseguire semplici costruzioni e semplici puzzle con due o tre pezzi in modo ripetitivo finché il bambino riesce a eseguire il compito da solo. Il bambino di cinque anni deve essere avviato a un’attività grafica supportata dall’adulto come, per esempio, il disegno della figura umana, invitandolo a completare il volto che viene disegnato dall’adulto con la richiesta di aggiungere i capelli; successivamente l’adulto posiziona un occhio chiedendo al bambino di aggiungere l’altro occhio e così via. È molto importante quindi non lasciare che il bambino proceda a caso, perché la caratteristica fondamentale del RM è la mancanza di rappresentazioni, ed è proprio in questa direzione che deve essere indirizzata l’attività di potenziamento. 1. Nel DSM-5 il termine “ritardo mentale” è stato sostituito da “disabilità intellettiva”.
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I primi mille
Il Programma 1000 Giorni a Roma: un anno di lavoro
Elisa Serangeli*, Flaminia Trapani*, Pamela Caprioli*, Virna D’Antuono*, Mara Bitetto**, Alessandro Telloni**, Maria Edoarda Trillò***, Eliana Coltura***, Giuseppe Cirillo*** *Associazione Pianoterra onlus; **Cooperativa sociale Antropos; ***Associazione Culturale Pediatri
L’articolo descrive in modo sintetico l’attività socio-sanitaria-educativa denominata “1000 Giorni” nell’ultimo anno nel quartiere Tor Sapienza a Roma. Il Progetto “1000 Giorni” è un programma d’intervento precoce, di tipo territoriale comunitario, di sostegno alla maternità e di prevenzione dei fattori di rischio per il sano sviluppo psicofisico del bambino, indirizzato alle donne in gravidanza, ai neogenitori e ai bambini di età compresa tra 0 e 3 anni. Analogo programma è in corso nel Quartiere Sanità a Napoli. The article describes the socio and health-educational activity named “1000 Days” in the last year in Rome in the Tor Sapienza District. The “1000 Days” is an early intervention community program aimed at the child’s wellbeing through parenting promotion and preventing risk factors. The program is addressed to pregnant women, new parents and children 0-3 years of age. A similar program is being launched in the Sanità District in Naples.
Introduzione
L’Associazione Pianoterra Onlus, in collaborazione con l’Associazione Culturale Pediatri (ACP) e la Cooperativa sociale Antropos, ha avviato da un anno, a Roma, nel quartiere Tor Sapienza (V Municipio), “1000 Giorni”: un programma d’intervento precoce, di sostegno alla maternità e di prevenzione dei fattori di rischio per il sano sviluppo psicofisico del bambino, indirizzato alle donne in gravidanza, ai neogenitori e ai bambini di età compresa tra 0 e 3 anni. Analogo programma è stato avviato nel Quartiere Sanità a Napoli [1]. 1000 Giorni è un intervento territoriale di tipo comunitario [2,3]: Pianoterra si avvale dell’impegno e della collaborazione di un’équipe professionale multidisciplinare che lavora in rete con i servizi materno-infantili, per coordinare e integrare gli interventi educativi e di cura, di assistenza sanitaria per l’infanzia e di sostegno materiale rivolti alle famiglie più vulnerabili.
Nascite e maternità a Roma
Con un tasso di natalità pari all’8%, l’Italia è uno dei Paesi più vecchi d’Europa. Il progressivo e drammatico calo delle nascite rappresenta per il nostro Paese un campanello d’allarme molto importante. La denatalità ha avuto ripercussioni anche su Roma, sebbene il dato sia lievemente migliore rispetto a quello nazionale, grazie alla presenza di donne di origine straniera che sono il 24% delle neomamme. Ma, per la prima volta, si registra tra le immigrate un tasso di fecondità al di sotto dei 2 figli per donna (1,97).
Ogni anno a Roma nascono circa 24.000 bambini, numero importante rispetto alle nascite registrate in tutta la regione [4,5,6]. Nella capitale, la rete dell’assistenza alla gravidanza, al parto, alla cura della mamma e del bambino ha visibili smagliature e divari interni: i servizi di eccellenza e gli elevati livelli d’intervento dei quartieri più centrali e benestanti si abbassano sensibilmente man mano che ci si inoltra nelle aree più periferiche, fino a diventare quasi inesistenti nei contesti abitativi abusivi e nei campi rom. In queste aree si riscontrano più frequentemente quelle barriere di accesso ad alcune cure prenatali dovute allo svantaggio socio-culturale quali: famiglia monoparentale, madre straniera, madre con basso titolo di studio o molto giovane (meno di venti anni). Tali condizioni incidono negativamente sulla salute e sul benessere di madre e bambino durante la gravidanza, al momento del parto e nei primi anni di vita. Al quarto posto, tra i presidi sanitari della capitale che registrano ogni anno il più alto numero di nascite, c’è il Policlinico Casilino. Con i suoi 2181 nati vivi rappresenta quasi il 10% delle nascite a Roma. Il Policlinico Casilino è al primo posto per la percentuale di nascite da mamme di origine straniera (35,8%) e al terzo per età della mamma inferiore ai 20 anni (2,5%). Ciò è dovuto al fatto che questo ospedale è il principale polo sanitario del quadrante sudest di Roma, che comprende il V, il VI e il VII Municipio, ovvero i Municipi con più popolazione straniera residente, se si esclu-
dono Esquilino e Stazione Termini (I Municipio). Molte delle donne che partecipano al programma 1000 Giorni di Pianoterra onlus hanno partorito o partoriranno al Policlinico Casilino e risiedono nel V Municipio. La sede operativa di 1000 Giorni a Roma è infatti ospitata all’interno della Casetta delle Arti e dei Giochi, una ludoteca gestita dalla Cooperativa sociale Antropos, situata a ridosso di viale Giorgio Morandi, un complesso residenziale di edilizia popolare che ospita, dagli anni Settanta, circa cinquecento famiglie in condizioni di forte disagio sociale. Un classico “quartiere dormitorio”, dove gli spazi inizialmente destinati ad attività commerciali e a servizi mai realizzati, sono stati occupati e trasformati in abitazioni di fortuna. In questo contesto, la ludoteca Casetta delle Arti e dei Giochi, il centro di aggregazione giovanile – entrambi gestiti da Antropos – e l’ambulatorio del medico di base, rappresentano gli unici punti di riferimento per le famiglie della zona. Nel complesso di viale Giorgio Morandi non è presente un pediatra di famiglia e il più vicino si trova a diversi chilometri di distanza, su viale Palmiro Togliatti.
La rete territoriale
Il programma 1000 Giorni prevede la mappatura e l’attivazione di una rete territoriale di sostegno alla gravidanza e alla genitorialità attraverso la collaborazione e il coordinamento degli enti territoriali che si occupano di salute materno-infantile e offrono servizi per le famiglie più vulnerabili: consultori familiari, ambulatori pediatrici, ambulatori di medicina di base, ospedali, ASL, e altro ancora. La rete territoriale, a sostegno e in continuità con le attività di 1000 Giorni, mostra legami forti tra i partner che già collaborano sul territorio in altri progetti. Come già accennato, la Cooperativa sociale Antropos gestisce un Centro di Aggregazione Giovanile e la Casetta delle Arti e dei Giochi destinata ad attività ludico-espressive per i più piccoli (5-10 anni). Inoltre, dal 2015 coordina, nel quartiere limitrofo di Torre Maura, lo Spazio Mamme e il Punto Luce per Save the Children Italia onlus, rispettivamente un Centro di sostegno
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alla genitorialità e di socializzazione rivolto a mamme e bambini in età prescolare e un Centro educativo per bambini e ragazzi in età scolare. Per quanto riguarda gli interventi rivolti ai minori, il Servizio Sociale si contraddistingue come una realtà presente, fattiva e collaborativa, e ciò ha permesso a molte famiglie, fin dall’inizio, di rivolgersi allo sportello 1000 Giorni. La rete territoriale include anche legami con i servizi del privato sociale quali Zero in Condotta, Casa di Sant’Anna onlus e altri che si attivano al bisogno, in maniera meno sistematica e continuativa. Grazie alla rete territoriale il programma 1000 Giorni ha coinvolto, fino a ora, 60 mamme, 83 bambini e 4 papà.
Come lavoriamo
L’invio e il primo contatto
Il primo contatto può avvenire su segnalazione dei partner della rete territoriale o direttamente, quando la persona si rivolge allo sportello grazie al passaparola o perché ha letto un volantino informativo. Proponiamo inizialmente un appuntamento per un incontro individuale se la donna è già pronta a parlare dei suoi problemi, altrimenti la invitiamo a prendere parte a un incontro di gruppo con altre mamme. Questa duplice prospettiva serve a incoraggiare le donne più timide e insicure a prendere confidenza con il nostro gruppo di lavoro e con le attività offerte. Le donne in gravidanza che partecipano al programma 1000 Giorni possono richiedere la Valigia Maternità: un trolley che contiene diversi beni di prima necessità per il neonato e per la neomamma. La Valigia Maternità sarà donata poco prima della data presunta del parto, a condizione che le future mamme abbiano partecipato con continuità alle iniziative del programma sin dal 4° mese di gravidanza, e seguito un percorso completo di accompagnamento alla maternità: corso di preparazione alla nascita, visite mediche specialistiche, analisi ed ecografie raccomandate dal Sistema Sanitario Nazionale. È inoltre attivo il dispositivo di sostegno materiale Di Mamma in Mamma, una possibilità di mutuo aiuto tra mamme che ha l’obiettivo di fornire beni di prima necessità per la primissima infanzia, usati ma ancora in ottime condizioni. Lo Sportello di Ascolto e Orientamento
Lo Sportello è uno spazio di accoglienza, ascolto e analisi dei bisogni e delle risorse di ciascuna mamma, indispensabile per definire con lei obiettivi concreti, strategie, azioni; ma è anche uno spazio di orientamento ai servizi territoriali esistenti e una cerniera tra le diverse competenze di sostegno psico-sociale di cui una famiglia in difficoltà può avere bisogno o con cui già interagisce (assistente sociale, psicologa, educatrici ecc.).
Una volta stabilito il contatto, alla mamma viene presentato il programma con le sue finalità, attività e modalità di adesione. Gli incontri individuali servono a conoscere la persona, a circoscrivere le sue difficoltà, i suoi bisogni e le sue risorse (sociali, amicali, familiari); a definire il progetto specifico di sostegno e presa in carico del nucleo familiare; a costruire, insieme all’utente, un percorso di accompagnamento realistico e sostenibile; a individuare, tra le attività offerte all’interno della rete del progetto, quelle che possano esserle di aiuto. Il percorso individualizzato si snoda su traiettorie interconnesse: un programma per il bambino nella primissima infanzia; un percorso di supporto alla genitorialità; un sostegno alla formazione personale e, quando possibile, professionale; un coordinamento degli interventi già attivi sull’intero nucleo familiare. Le attività
1000 Giorni prevede il coinvolgimento delle donne in gravidanza, neomamme e nuclei familiari in percorsi di salute e cura di sé. Offre attività e servizi per sensibilizzare, formare e accompagnare le donne verso una gravidanza e una maternità consapevole e competente, integrando le attività e i servizi già presenti sul territorio e offrendone di complementari. Ciclicamente, mediamente due volte al mese, organizziamo incontri tematici di gruppo condotti da professionisti di diversa formazione: pediatri, psicologi, educatori; offriamo inoltre attività di svago come, per esempio, laboratori creativi ed espressivi, spazio giochi per mamma e bambino o anche giornate dedicate alla cura del corpo con parrucchiera ed estetista professioniste. Più di recente abbiamo avviato un’attività di gruppo con cadenza settimanale, Scuola di Mamma, con l’obiettivo di accompagnare i genitori verso forme di cura e accudimento idonee a creare le migliori condizioni di crescita e benessere per i loro bambini. Le tematiche solitamente affrontate sono le seguenti: la gravidanza, il parto, le prime ore di vita, il pianto, il sonno, la salute del bambino, le vaccinazioni, l’allattamento e lo svezzamento, il comportamento del neonato, il suo sviluppo, e molto altro. Partendo dalle competenze di base che ogni mamma possiede, Scuola di Mamma è uno spazio/tempo nel quale i saperi e le conoscenze sono messi in comune, un luogo di scambio e confronto tra pari ma con la presenza attenta di professionisti, un modo per sentirsi meno sole, per modulare e trasformare le proprie ansie e insicurezze. Durante Scuola di Mamma poniamo molta attenzione anche all’apprendimento, alla comprensione di termini e concetti legati alla gravidanza e al parto, in modo che le mamme possano muoversi più agevolmente nelle strutture ospedaliere, comunicare con mag-
giore facilità con i medici ed essere quindi più consapevoli di quello che succede loro. I colloqui individuali iniziali e la partecipazione attiva e continuativa agli incontri di gruppo costituiscono i due punti fondamentali della nostra presa in carico. La presa in carico
Nel primo anno di attività del programma 1000 Giorni, delle 60 donne raggiunte che hanno partecipato ad alcune attività, 30 sono state prese in carico con percorsi personalizzati e integrati di sostegno alla persona e di accompagnamento alla genitorialità; 7 di loro si sono rivolte allo Sportello nei primi mesi di gravidanza e hanno ricevuto la Valigia Maternità, altre 5 sono attualmente in gravidanza e riceveranno la Valigia Maternità a ridosso del parto; tutte le altre erano già mamme di bimbi tra 0 e 3 anni di età. Delle donne prese in carico, 12 sono state inviate dal Servizio Sociale di zona, 7 dall’associazione Zero in Condotta, 4 dalla Cooperativa sociale Antropos, 3 da Save the Children (attraverso i progetti Fiocchi in ospedale e Spazio mamme) e 4 hanno ricevuto il volantino da un’amica. Delle 30 donne solo una è italiana e pertanto il problema della comprensione linguistica è risultato subito evidente; molte delle mamme straniere sono state quindi indirizzate a frequentare il corso di italiano presso lo Spazio Mamme di Torre Maura. Le difficoltà di comprensione della nostra lingua penalizzano le mamme e i bambini in misura esponenziale: molte donne in gravidanza, non riuscendo a orientarsi nel complesso sistema di welfare che caratterizza il nostro Paese, rinunciano all’assistenza sanitaria di base nonostante questa sia un loro diritto. Spesso allo Sportello si sono presentate donne che, quasi a fine gravidanza, non avevano ancora effettuato la prima visita specialistica, o anche neomamme che avevano rinunciato al servizio pediatrico di base perché non erano in grado di capire le prescrizioni del medico né riuscivano a formulare richieste appropriate. La collaborazione con ACP Lazio ha permesso al progetto di dare informazioni chiare sulla pediatria di base, aiutando così le famiglie a orientarsi più efficacemente nel nostro sistema sanitario, ma anche di offrire consulenze individuali e di gruppo su vari temi quali la salute, la cura e l’accudimento del bambino. Le mamme con cui abbiamo costruito un percorso individuale provengono perlopiù dal quadrante sud-est di Roma, vivono in occupazione o in case popolari. Pochissime pagano un affitto con un regolare contratto. Il livello socio-economico è molto basso: è presente un forte indice di disoccupazione, gli impieghi sono saltuari, anche quelli dei mariti. La maggior parte delle famiglie prese in carico sono famiglie ricomposte, con più figli. Solo 4 sono monoparentali. Una giovane
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mamma vive ancora con la madre e il fratello perché, così come il papà del bambino, è minorenne. La maggior parte dei casi che abbiamo seguito sono stati inviati da servizi che fanno parte della rete 1000 Giorni; questo ha permesso di attivare una presa in carico condivisa, con un confronto continuo (ma ancora non del tutto sistematico) sull’andamento sia della situazione familiare nel complesso, che di quella individuale della persona che si è rivolta al nostro servizio. Nei casi in cui l’arrivo è stato spontaneo, si è avviato invece il percorso inverso: la donna, dopo un periodo di analisi dei bisogni e delle risorse, è stata presentata ai partner più idonei a rispondere alle specifiche necessità emerse.
La storia di Anna
Quella di Anna e del piccolo Thomas (nomi di fantasia) è una storia che spiega con chiarezza la metodologia e l’utilità di un programma come 1000 Giorni. Anna ha 29 anni, è filippina, è arrivata in Italia 5 anni fa con la zia in cerca di lavoro. Come la maggior parte delle donne straniere che abbiamo incontrato, per Anna l’Italia è il luogo dove lavorare e guadagnare un po’ di soldi per mantenere la sua famiglia in patria. Per questo motivo sente una forte responsabilità che la lega al Paese d’origine dove ha lasciato una figlia di 9 anni che vive con i nonni. Anna fa le pulizie in due case della “Roma bene” per 5 pomeriggi alla settimana e un salario di 550 euro al mese. Dopo un po’ di tempo in Italia, Anna ha conosciuto un uomo con il quale ha avuto una breve relazione che lui ha troncato quando ha saputo della gravidanza. Rimasta sola con un bimbo piccolo, la vita di Anna si è complicata. È andata a vivere in un piccolo appartamento che divide con altre persone, dove paga un affitto di 350 euro. Del suo magro stipendio le restano 200 euro con i quali far quadrare i conti: utenze, cibo, vestiti. La donna ha deciso allora di chiedere un aiuto, e si è recata con il figlio al Servizio Sociale del V Municipio dove ha incontrato la referente dell’area minori. Dopo un primo incontro, l’assistente sociale ha offerto ad Anna la possibilità di rivolgersi allo Sportello di Ascolto e Orientamento di 1000 Giorni. Il giorno stesso la donna è arrivata da noi: parla poche parole di italiano, è molto ansiosa e diffidente. Suo figlio Thomas ha 18 mesi, è molto magro e mal vestito. Le abbiamo proposto allora un incontro di gruppo per aiutarla a capire meglio chi siamo e per permettere a noi, al contempo, di monitorare la sua situazione personale. Al primo incontro di gruppo Anna assume un comportamento ambivalente: da una parte il desiderio di aprirsi e partecipare, dall’altra l’istinto di chiudersi e resistere da sola. Inoltre non sa decidere se chiedere un collo-
quio individuale oppure no. A causa di questa forte incertezza, le abbiamo proposto di partecipare a un’altra attività di gruppo. Al secondo incontro Anna finalmente ha vinto le resistenze e ha chiesto un appuntamento per un incontro individuale. Il colloquio viene svolto dalla psicologa mentre l’educatrice lavora con il bambino. Durante il colloquio individuale si esplorano diverse aree: personale, familiare, relazionale. Cerchiamo di capire se è attiva una rete con i servizi sociali, se esistono altre realtà con cui l’utente s’interfaccia nell’ambito socio-educativo-sanitario. Ci rendiamo subito conto che Anna ha difficoltà a raggiungere il pediatra di base perché troppo lontano: il suo lavoro si trova dall’altra parte della città e, dovendo muoversi con i trasporti pubblici, non riesce a raggiungere l’ambulatorio nei tempi di apertura mettendo così a rischio la salute del bambino. Attraverso la rete territoriale riusciamo a metterla in contatto con un pediatra più vicino alla sua abitazione, disposto ad accogliere altri piccoli pazienti. La barriera linguistica le impedisce di accedere a quei servizi di aiuto e sostegno importanti data la sua situazione. Per superare questa difficoltà di comunicazione le abbiamo prospettato l’ipotesi di seguire il corso di italiano offerto dallo Spazio Mamme di Torre Maura. Contemporaneamente, la referente dell’area minori del servizio sociale, le fissa un incontro con l’ufficio nido del V Municipio che l’ha sostenuta nella compilazione della domanda a due giorni dalla scadenza del bando. Dopo un mese dal primo incontro, la situazione economica già difficile di Anna peggiora ulteriormente perché perde uno dei due lavori. Attraverso il dispositivo di sostegno Di mamma in mamma, siamo in grado di fornirle del vestiario per lei e per il suo bambino, giochi per il piccolo Thomas e, sempre nell’ottica di un sostegno materiale concreto, attiviamo il Banco Alimentare. Contemporaneamente, allertiamo il Servizio Sociale per trovare una struttura adatta per entrambi: una casa famiglia nel quartiere di Centocelle, non distante da Tor Sapienza. L’urgenza della casa famiglia diventa impellente perché Anna ha un preavviso di licenziamento: entro 30 giorni avrebbe perso anche la sua piccola ultima entrata economica. In seguito a questa notizia e allo stato di deprivazione che grava sulla vita del bambino, Anna accetta positivamente la proposta della casa famiglia. Con Anna stiamo costruendo una rete di sostegno a partire dagli incontri di gruppo, dai colloqui individuali, dagli incontri di collaborazione e confronto con l’assistente sociale e con il gruppo di lavoro della casa famiglia dove Anna e Thomas hanno trovato alloggio.
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La situazione di Anna è molto complessa: il nostro intervento, basato principalmente su una presa in carico immediata e sull’attivazione di risorse sul breve periodo per tamponare l’urgenza delle sue condizioni, non ci ha ancora permesso di costruire con lei un percorso più a lungo termine che dia alla coppia madre-bambino la possibilità di uscire dall’indigenza e di iniziare a programmare il futuro. Attualmente Anna è coinvolta in tutte le nostre attività di gruppo, perché ha bisogno di sentirsi parte di una comunità, di confrontarsi con altre mamme e perché sa cosa potrebbe significare per lei ripiombare nella solitudine. Da quando è rimasta incinta, Anna ha vissuto un lento e graduale isolamento perché, con il procedere della gravidanza e la nascita del bambino, non era più in grado di lavorare ai ritmi massacranti che spesso contraddistinguono il lavoro delle donne immigrate in Italia. Sola con un bambino piccolo, senza una famiglia, in una città che non conosce e di cui non parla la lingua, la sua condizione di donna e di madre è andata naturalmente peggiorando: il fatto di dover portare con sé il bambino sul posto di lavoro è stato uno dei fattori che le hanno fatto perdere gradualmente gli impieghi che, dopo la gravidanza, era riuscita a procurarsi tra mille sacrifici e difficoltà. In queste condizioni la maternità finisce inevitabilmente per rivelarsi un fattore d’impoverimento. La storia di Anna è emblematica non solo perché evidenzia la maggior parte delle azioni previste dal programma 1000 Giorni, ma anche e soprattutto perché rileva con chiarezza l’importanza e la potenzialità di un sistema territoriale comunitario e di un’efficace integrazione professionale e organizzativa dei servizi, al fine di ampliare in maniera organica e sistematica l’offerta di sostegno alle famiglie più vulnerabili. * elisaserangeli@pianoterra.net
1. Trapani F, Arpaia C, Esposito I, et al. 1000 Giorni: dalla gravidanza ai primi tre anni di vita del bambino. Quaderni acp 2016;23,177-8. 2. Sanders M, Markie-Dads C, Turner K. Theoretical, Scientific, and Clinical Foundations of the triple P-Positive Parenting Program: a population approach to Promotion of Parenting Competence, Parenting Research and Practice Monograph No.1 (St. Lucia, Queensland, Australia: The Parenting and Family Support Centre at the University of Queensland, 2003). 3. Bronfenbrenner U, Morris PA. The Bioecological Model of Human Development. In: Handbook of Child Psychology, vol. 1: Theoretical Models of Human Development, edited by Richard M. Lerner (Hoboken, NJ: Wiley, 2006), pp. 793-828. 4. Eurostat 2016. 5. CENSIS 2013. 6. ISTAT. Le nascite nel Lazio 2014.
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Scenario
Cibo a pezzi già dai sei mesi? E se poi si soffoca?
Manuela Musetti*, Maddalena Marchesi**, Luisa Seletti*** *Pediatra di famiglia, Monticelli Terme (PR); **Pediatra di famiglia, San Polo d’Enza (RE) ***Pediatra di famiglia, Brescello (RE)
Lo scenario clinico affronta il tema del rischio di soffocamento in bambini sani con l’utilizzo delle nuove tecniche di svezzamento (autosvezzamento – alimentazione complementare a richiesta) che prevedono l’utilizzo di cibo in pezzi già a partire dai 6 mesi di vita. Anche se non è possibile trarre conclusioni definitive, queste nuove modalità di svezzamento, quando associate a un’adeguata formazione del genitore su come prevenire e affrontare il problema dell’inalazione da cibo, non sembrano esporre il bambino a un maggiore rischio di soffocamento. ‘This clinical scenario addresses the choking risk in healthy children introducing solid foods through a baby-led weaning and a complementary feeding approach. At 6 months of life solid food is introduced in small eatable pieces, finger food, suitable for his/her age. Although it is not possible to draw definite conclusions, these new ways of weaning, associated with appropriate parent training on the prevention and management of choking, do not seem to expose children to a greater risk of inhalation.’
Caso clinico
Incontro, per il bilancio di salute, Marco, un bambino sano, che compirà 6 mesi dopo pochi giorni. La mamma mi racconta di una sua amica che sta praticando l’autosvezzamento; a lei piacerebbe provare questo approccio, ma è preoccupata perché teme che offrendo a Marco cibo in pezzi, il bambino possa soffocare. Cosa rispondere alla mamma?
Background
La preoccupazione della mamma di Marco è reale: il rischio di soffocamento causato da inalazione accidentale di cibo è un problema rilevante nei primi anni di vita. Epidemiologia del soffocamento da cibo
Una revisione del 2013 sui rischi di soffocamento da cibo [1] ha evidenziato che nell’87% dei casi analizzati i pazienti avevano meno di 5 anni e nell’84% degli studi (6585 pazienti) prevaleva il cibo tra i corpi estranei inalati; i semi, la frutta secca e i legumi sono stati i cibi più frequentemente coinvolti, con le arachidi al primo posto. Dati americani per il periodo 2001-2009 [2,3] indicano che nei bambini 0-14 anni il soffocamento da cibo ha causato 57 morti e 12.435 accessi ai dipartimenti di emergenza; il 10% è stato ospedalizzato. Tra i casi non fatali più di un terzo dei bambini era di età inferiore all’anno (37,8%) e più della metà erano bambini di età inferiore a 4 anni (61,7%). L’ambiente domestico è il contesto in cui avviene il maggior numero di episodi (89,9%) [2]. I cibi responsabili con maggior
frequenza degli eventi fatali sono hot dog, caramelle dure, noci/semi, alcune verdure, frutti crudi e chewing gum [3]. Uno studio multicentrico dell’Università di Torino [4] ha valutato i casi di inalazione di corpi estranei che hanno determinato complicazioni e richiesto l’ospedalizzazione nella fascia 0-14 anni in 19 ospedali europei negli anni 2000-2002. Più della metà dei soggetti aveva meno di 3 anni (55%) e la classe d’età più colpita è il secondo anno di vita. I
cibi sono i corpi estranei più frequentemente inalati (complessivamente nel 64% dei casi noci, semi, frutti di bosco, mais, piselli, fagioli; nel 12% lische di pesce) e le diverse abitudini alimentari determinano un coinvolgimento più frequente di alcuni cibi rispetto ad altri: per esempio in Finlandia nel 69% dei casi sono coinvolte lische di pesce. Mentre questi studi analizzano nel dettaglio il tipo di cibo coinvolto, le circostanze in cui questo si è verificato non vengono mai discusse, determinando un vuoto di dati significativo. Dal registro nazionale delle schede di dimissione ospedaliera, emerge che in Italia nel periodo 1999-2003 ci sono più di 400 ricoveri annui per inalazione di corpi estranei (CE), e che più della metà sono stati nella fascia d’età 0-4 anni [5]. Dati ISTAT per il 2013 indicano che, nella fascia 0-4 anni, l’inalazione di CE è la seconda causa di morte accidentale, con il 27% dei decessi, dopo gli incidenti stradali [6]. Modelli di alimentazione complementare
Mentre fino agli anni 2000 ha prevalso una modalità di svezzamento tradizionale gui-
TABELLA 1. Tipi di svezzamento (modificata da voce bibliografica 14)
Autosvezzamento o alimentazione complementare a richiesta secondo L. Piermarini
Il passaggio da un’alimentazione solo lattea a una mista con cibi solidi si realizza progressivamente, facendo partecipare il bambino ai pasti della famiglia. L’inizio è stabilito verso i 6 mesi dalla comparsa nel bambino delle necessarie competenze motorie e cognitive (seduto con minimo appoggio, interesse per il cibo dei genitori, porta il cibo alla bocca e lo deglutisce). Al bambino si propone lo stesso cibo dei genitori con eventuali adattamenti (il cibo viene sminuzzato, tritato/macinato/ frullato o proposto in pezzi afferrabili); si usa il cucchiaio ma il bambino può anche mangiare con le mani. Si rispetta la capacità di autoregolazione del bambino che è libero di mangiare quanto vuole.
Svezzamento guidato dal bambino o babyled weaning secondo G. Rapley
Il bambino partecipa ai pasti della famiglia. L’inizio è stabilito, verso i 6 mesi, dalla comparsa nel bambino delle necessarie competenze motorie e cognitive. I genitori propongono il loro stesso cibo a pezzi delle dimensioni del pugno del bambino e afferrabili a pugno dal lattante. Non si usa il cucchiaio e il bambino si autoalimenta da solo mangiando la parte che sporge dal pugno. Il bambino è libero di mangiare la quantità desiderata.
Svezzamento tradizionale (parent led weaning)
È uno svezzamento guidato dal genitore. Il bambino non mangia a tavola con la famiglia ma in un momento diverso. A un’età stabilita dagli esperti e uguale per tutti i bambini (4-6 mesi) si inizia un’introduzione graduale, tramite cucchiaino, di alimenti diversi dal latte, omogeneizzati o liofilizzati, o, se freschi, ridotti in purea. Le quantità, il tipo di alimenti e il timing d’introduzione sono dettati dalla prescrizione del pediatra.
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dato dal genitore (parent led weaning), seguendo schemi rigidi proposti dal pediatra, nell’ultimo decennio si sono diffuse altre due modalità di svezzamento, diventate sempre più popolari anche attraverso numerosi siti internet, blog, forum online: l’autosvezzamento o alimentazione complementare a richiesta secondo L. Piermarini, introdotta in Italia dal 2001 [7] e il Baby Led Weaning (BLW, svezzamento guidato dal bambino) secondo G. Rapley, introdotto nel Regno Unito a partire dal 2003 [8]. Nella Tabella 1 vengono descritte le principali caratteristiche dei tipi di svezzamento. L’ESPGHAN nel suo recente position paper sull’alimentazione complementare [9] prende atto della diffusione di queste nuove pratiche e, pur sottolineando la necessità di ottenere maggiori dati di sicurezza rispetto alla copertura dei fabbisogni nutrizionali e del rischio di soffocamento, suggerisce che la condivisione in famiglia dei pasti e un ruolo più attivo del bambino possono incoraggiare uno stile genitoriale più responsivo che è molto importante per una crescita sana, tanto che risulta essere la miglior forma di prevenzione dello sviluppo di sovrappeso e obesità nei primi due anni di vita.
La domanda strutturata
L’autosvezzamento espone il bambino a un maggior rischio di soffocamento rispetto allo svezzamento tradizionale? Formuliamo la domanda strutturata in questo modo: Un bambino sano nel secondo semestre di vita [POPOLAZIONE] che viene alimentato attraverso la pratica dell’autosvezzamento [INTERVENTO] rispetto a un tipo di svezzamento tradizionale [CONFRONTO] è esposto a un maggior rischio di soffocamento da cibo [OUTCOME]?
La ricerca
Abbiamo eseguito la ricerca su PubMed utilizzando la stringa (Baby led weaning OR food weaning OR complementary feeding) AND choking. Sono emersi 47 articoli, di cui quattro hanno affrontato il tema del rischio di soffocamento. La stessa
ricerca su Google schoolar non ha portato alla selezione di ulteriori contributi.
Risultati
Uno studio cross-sectional [10] ha confrontato l’autosvezzamento con lo svezzamento complementare a 6-8 mesi d’età: il BLW è associato a un periodo più lungo di allattamento esclusivo, a un’introduzione più tardiva dell’alimentazione complementare e a una maggiore partecipazione dei pasti familiari; l’introito calorico è simile, mentre si è visto che i bambini che seguono il BLW introducono più grassi e meno ferro, zinco e vitamina B12; il rischio di soffocamento è uguale in entrambi i tipi di svezzamento. Sempre lo stesso gruppo, per aumentare l’apporto di ferro e di calorie e ridurre il rischio di soffocamento, ha realizzato uno studio pilota [11] su una forma di autosvezzamento modificato, denominato Baby Led Introduction to Solids (BLISS) e successivamente uno studio RCT [12] su 206 bambini, con follow-up a 2 anni, per valutare, come outcome primario, il BMI a 12 mesi e, come outcome secondario, la capacità di autoregolazione nell’apporto energetico, lo stato di zinco e ferro, la qualità della dieta, gli episodi di soffocamento, la crescita e la fattibilità da parte dei genitori. Allo studio ha aderito solo il 23% della popolazione eleggibile, con una ridotta rappresentazione degli stati socioeconomici più svantaggiati. Di questo studio sono stati attualmente pubblicati solo i risultati relativi al rischio di soffocamento [13]. Il BLISS, che prevede una formazione specifica ai genitori per ridurre il rischio di soffocamento, non si associa a un maggior rischio di inalazione. Più nel dettaglio emerge che a 6-8 mesi di età complessivamente il 35% dei bambini avevano presentato almeno un episodio di “choking” (Box 1) (in totale di 199 episodi) senza differenze di frequenza tra i due gruppi. Purtroppo però il rischio di soffocamento rappresenta un outcome secondario dello studio, per cui la sua potenza, scelta per verificare il BMI a 12 mesi, non è sufficiente per trarre conclusioni sugli episodi di soffocamento gravi. Nello studio sono stati valutati anche gli episodi di gagging
BOX 1. Definizione di gagging e choking (da voce bibliografica 14, 8)
Gagging
Choking
Riflesso di espulsione scatenato da punti trigger sulla lingua e sulle pareti del faringe, la cui stimolazione determina contrazione del faringe e spinta anteriore della lingua, che determina episodi di conato legati all’introduzione del cibo o di altri oggetti solidi. I punti trigger del riflesso di gagging si posteriorizzano nel corso del primo anno di vita, per cui è usuale che un bambino di 6 mesi abbia una maggior frequenza di gagging rispetto a un bambino di un anno.
Aspirazione di cibo o di oggetti solidi che ostruisce in parte o completamente le vie aeree.
Scenario
(Box 1) [14], che sono risultati molto frequenti (in totale 8114 episodi), con maggior frequenza nel gruppo BLISS a sei mesi (RR 1,56; IC 95% 1,13-2,17) e in minor misura a 8 mesi (RR 0,60; IC 95% 0,42-0,87). Comunque, il dato più significativo emerso dallo studio è che a 7 e a 12 mesi, rispettivamente al 52% e al 94% dei bambini, è stato offerto cibo a rischio di soffocamento (nel diario alimentare comparivano fette biscottate, verdura cruda, mela cruda, crackers…) senza significative differenze tra i due gruppi. Un’elevata percentuale di bambini, in entrambi i gruppi, non sono stati adeguatamente supervisionati durante il pasto. Questo sottolinea la necessità che il pediatra, indipendentemente dal tipo di svezzamento scelto, informi ogni caregiver su come evitare i cibi e le situazioni pericolose, e sulle manovre salvavita. Queste informazioni vanno riprese periodicamente, in particolare nel secondo anno di vita quando i bambini acquisiscono maggior autonomia e capacità di movimento.
Conclusioni
In base ai risultati degli studi non è possibile trarre delle conclusioni definitive; tuttavia sembra che l’autosvezzamento in questi primi studi che hanno valutato il BLISS, quando prevede un’accurata formazione ai genitori su come minimizzare i rischi del soffocamento da cibo, non esponga il bambino a un maggior rischio di soffocamento rispetto allo svezzamento tradizionale. Discuto con la mamma di Marco dei diversi tipi di svezzamento che è possibile praticare, dell’importanza di preferire cibi preparati in casa, meno ricchi di sale, zuccheri e grassi rispetto a quelli industriali [14]; della possibilità di utilizzare sia cibi in consistenza di purea con il cucchiaio sia cibi schiacciati, tritati, macinati o a pezzi afferrabili, sufficientemente morbidi da poter essere ridotti in purea dalla lingua contro il palato. Un metodo non esclude l’altro. Il punto fondamentale è rispettare i tempi del bambino che è in grado di autoregolare la propria richiesta così come è stato in grado di farlo con l’allattamento, proseguendo con quello stile di alimentazione che coinvolge tutta la famiglia e che consiste nell’osservare i segnali di fame e di sazietà del bambino, rispondendo in modo coerente. La informo sulle misure da mettere in atto per ridurre il rischio di soffocamento (Box 2) [11,15]. Le spiego le manovre di disostruzione con il supporto dei video della Croce Rossa, visibili su Youtube [16] e la indirizzo all’Assistenza Pubblica dove periodicamente vengono organizzati corsi di disostruzione delle vie aeree. * manuelamusetti@libero.it
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Scenario
BOX 2. Misure per ridurre il rischio di soffocamento da cibo (modificato da
voci bibliografiche 11 e 15)
> Sorvegliare il bambino mentre mangia, senza perderlo di vista, seduto con la schiena dritta, a tavola o nel seggiolone
> Impedire al bambino di fare altre attività mentre mangia come correre, giocare, guardare la televisione, il cellulare o il tablet
> Controllare che non abbia del cibo in bocca prima di lasciare che si alzi da tavola > Non infilare forzatamente del cibo all’interno della bocca del bambino > Evitare gli alimenti che per forma e consistenza sono maggiormente a rischio:
– piccoli, duri, lisci e scivolosi come arachidi e frutta a guscio in generale, chicchi d’uva, pomodorini, olive, pop-corn, caramelle dure... – cibi che si spezzano senza perdere la consistenza dura come carota cruda, mela cruda, biscotti secchi, fette biscottate, cracker, frutta acerba... – cibi con filamenti come sedano, finocchio, prosciutto crudo…
1. Sidell DR, Kim IA, Coher TR, et al. Food choking hazards in children. Int J Pediatr Otorhinolaryngology 2013;77:1940-6. 2. Chapin MM, Rochette LM, Annest JL, et al. Non fatal Choking on Food Among Children 14 Years or Younger in the United States, 2001-2009. Pediatrics 2013;132:275-81. 3. Center for Disease Control and Prevention. CDC WONDER. Underlying cause of death 1999-2009. Aviable at: htttp//wonder.cdc.gov/ 4. Gregori D, Salemi L, Scarinzi C, et al. ESFBI Study Group. Foreign bodies in the upper airways causing complications and requiring hospitalization in children aged 0-14 years: results from the ESFBI study. Eur Arch Otorhinolaryngol 2008;265:971-8.
5. Casalini AG. Broncoscopia operativa pediatrica: i corpi estranei tracheobronchiali in età pediatrica. Pneumologia Interventistica. Springer, 2007. 6. http://www.istat.it. 7. Piermarini L. Quando svezzare il lattante? Quando vuole lui. Quaderni acp 2004;11:94. 8. Rapley G. Baby-led weaning: transitioning to solid foods at the baby’s own pace. Community Pract 2011;84:20-3. 9. Fewtrell M, Bronsky J, Campoy C, et al. Complementary Feeding: A Position Paper by the European Society for Paediatric Gastro enterology, Hepatology, and Nutrition (ESPGHAN) Committee on Nutrition. J Pediatr Gastroenterol Nutr 2017;64:119-32.
10. Morison BJ, Taylor RW, Haszard JJ, et al. How different are baby-led weaning and conventional complementary feeding? A cross-sectional study of infants aged 6-8 months. BMJ Open 2016;6:6(5). 11. Cameron SL, Taylor RW, Heath AL. Development and pilot testing of Baby-Led Introduction to SolidS--a version of BabyLed Weaning modified to address concerns about iron deficiency, growth faltering and choking. BMC Pediatr 2015;15:99. 12. Daniels L, Heath AL, Williams SM, et al. Baby-Led Introduction to SolidS (BLISS) study: a randomised controlled trial of a babyled approach to complementary feeding. BMC Pediatr 2015;15:179. 13. Fangupo LJ, Heath AM, Williams SM. A Baby-Led Approach to Eating Solids and Risk of Choking. Pediatrics 2016;138 (4). pii: e20160772. Epub 2016 Sep 19. 14. Iaia M. L’alimentazione Complementare Responsiva. Il Pensiero Scientifico Editore, 2016. 15. Committee on Injury, Violence, and Poison Prevention. Prevention of choking among children. Pediatrics. 2010;125(3):601-7. 16. Corso di disostruzione pediatrica - Manovre di disostruzione del bambino. https://w w w.youtube.com/watch?v=1AY34y KQNIc. Corso di disostruzione pediatrica - Manovre di disostruzione del lattante. https://w w w.youtube.com/watch?v=dc1biiRq1m4
Clown, lettura, gioco in ospedale. Patch Adams “Non possiamo promettere di guarire le persone, ma possiamo promettere di prenderci cura di loro”. Con questo slogan Patch Adams - il medico che, sulla base di precedenti esperienze, tra cui quella di Michael Christensen del Big Apple Circus di New York - porta avanti da 40 anni l’ambizioso progetto di inserire risate, amore, gioia e fantasia nelle terapie mediche. E proprio Patch Adams è stato a Napoli all’ospedale Santobono per far conoscere ai bambini presenti in ospedale e al personale medico e infermieristico il potere del gioco e delle risate. Rendere il reparto di pediatria un luogo accogliente per il bambino e la sua famiglia è sempre stato un nostro obiettivo perché siamo convinti che saper accogliere il bambino in luoghi pensati per lui rende meno traumatico il ricovero ospedaliero. La lettura, il gioco, i clown sono parte integrante del nostro lavoro e sono importanti allo stesso modo di una terapia efficace o di una risonanza magnetica. Abbiamo sempre cercato di creare un ospedale ad alta tecnologia con alti livelli di umanizzazione delle cure. E i clown con il loro intervento, il loro sorriso, il loro gioco ci aiutano a realizzare il nostro obiettivo. Ospitare il dr Patch Adams è stata un’esperienza unica e di alto valore scientifico che servirà a migliorare le nostre performance.
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Storie che insegnano
Parlare con il bambino può cambiare la relazione con la mamma
Gianni Garrone, Maria Merlo, Paolo Fiammengo, Paola Ghiotti, Chiara Guidoni, Antonietta Innocenti, Patrizia Levi, Lia Luzzato, Monica Montingelli, Paolo Morgando, Gianna Patrucco, Ivo Picotto, Danielle Rollier ACP Ovest (ACPO)
Da qualche tempo, all’interno di ACPO, ci confrontiamo sul tema dello “spazio” da lasciare al bambino durante la visita in pediatria di famiglia. Nell’articolo in cui è descritta la storia di Mara [1], abbiamo raccontato un caso in cui la comunicazione pediatra-bambina è stata facile ed è risultata indispensabile a individuare un malessere della piccola, inaspettato e sconosciuto ai suoi stessi genitori. Nell’articolo di oggi, la storia di Mario, raccontiamo invece di un dialogo pediatra-bambino più difficile e contrastato, che, nel momento in cui riesce a realizzarsi, si rivela prezioso per sbloccare la relazione del medico con l’intera famiglia e per aprire la strada, secondo un modello bio-psico-sociale, a un maggior benessere del bambino. Lately within ACPO we have faced the need to give “space” to the child during an office visit in paediatric primary care. In the precedent article, describing the story of Mara, we reported a case in which the paediatrician-child communication was easy and necessary to identify a malaise in the child, unexpected and unknown to her own parents. In today’s article, in Mario’s story, we describe a difficult and constrated paediatrician-child communication. Nevertheless, once realized, it becomes valuable in unlocking the docotr’s relationship with the entire family and in paving the way, by a bio-psycho-social model, to the child’s wellbeing.
La storia
Mario, 9 anni, viene accompagnato dalla mamma per un bilancio di salute. La situazione familiare è complessa. Il padre è stato gravemente colpito da un ictus in età molto giovane. I reliquati sono pesanti e lui è arrabbiato per quello che gli è successo e con la “Sanità” in generale. Nei primi anni è venuto spesso in studio ad accompagnare i figli, nonostante le notevoli difficoltà di deambulazione e di linguaggio, ma da molto tempo non lo fa più. Mario ha una sorella di 16 anni, Alessia, obesa, estremamente dipendente dalla madre, timida, introversa, triste, che non sono riuscita a far dimagrire di un etto in tanti anni. La madre è una donna con cui è difficile rapportarsi: ti guarda poco, sembra sempre estremamente rispettosa delle tue proposte e del tuo parere, ma fa poi tenacemente quello che vuole. Tanto per capirci, in anni di conoscenza e di visite per Alessia, ai miei disperati tentativi di farla mangiare meglio e meno, di farle fare attività sportiva inserendola in un gruppo che la motivasse e migliorasse la sua scarsa capacità di socializzare, la signora rispondeva invariabilmente e appa-
rentemente in accordo: “Io e lei camminiamo tantissimo al parco, noi due sole, vero?” “Ma certo, adesso ci proviamo, vero Alessia?” E non cambiava mai niente. Anche rispetto a Mario la comunicazione tra me e la mamma sembra riproporre lo stesso schema. Anche quando mi telefona molto allarmata per un episodio di tosse o di mal di pancia insorto da poche ore, se io, capendo la sua ansia, la invito a portarmi il bambino in studio in giornata, lei regolarmente replica: “Io ci provo, ma lui non vuole, non se la sente proprio, non vuole lasciare il letto, vero Mario?” Oggi invece Mario se la sente ed è apparentemente più disponibile, anche più sorridente. Entra meno titubante e non nascondendosi come al solito dietro alla madre. Durante la visita riesco a farlo parlare e sembra più rilassato. Quando poi torna a sedersi di fronte a me e accanto alla madre, che è rimasta per tutto il tempo seduta ferma e imbacuccata nel suo cappottone e calzando in testa un berrettone di lana, fatto a mano, sintetizzo per entrambi il risultato della visita e le mie considerazioni.
L’atmosfera è distesa. Lei è contenta che io abbia trovato bene il bambino. Poi, colpita da un pensiero improvviso, chiedo alla mamma: “Come sta suo marito?” Silenzio assordante dei due. Poi la mamma con gli occhi bassi: “Mio marito non c’è più da un anno”. Io non ci posso credere e sbotto: “E dirlo?” “Non c’è stata occasione”. L’avrò sentita al telefono perlomeno 6 volte e vista 2 o 3 in quest’anno, sempre tutti e tre insieme appassionatamente, mamma e Alessia ad accompagnare Mario! Guardo Mario e dico: “Deve essere difficile per te”. Lui ci pensa un po’ e risponde: “No. Beh… sì, un po’”. Mi guarda dritto negli occhi, sorridendo lievemente e poi guarda la mamma che tiene sempre gli occhi bassi. E io: “Certo, lo capisco. Ti mancherà molto, era un buon papà”. Lui annuisce e sta per rispondermi, ma… la mamma interviene fermamente guardandomi fisso: “Adesso però basta!” Io non ci sto e le spiego gentilmente la necessità per tutti, ma specialmente per il bambino, di parlarne, di poter nominare le cose, di non negare. Lei annuisce molto rapidamente, si alza, saluta e fa per andarsene. Mario invece rimane ancora seduto e si attarda. Non solo non la segue immediatamente come avrebbe fatto durante gli incontri precedenti, ma raccoglie con calma le sue cose, felpa, giacca, guardandomi spesso. Io mi avvicino, mi protendo istintivamente per aiutarlo a indossarle, aspetto che sia pronto e dico ancora: “Sono sicura che ce la farete bene, hai una buona mamma e ti aiuterà”. Lo saluto affettuosamente e lo accompagno alla porta dove la mamma lo aspetta impaziente.
Prime riflessioni
Due modelli differenti di salute e di medico
Ci troviamo di fronte a una mamma che intende utilizzare la pediatra ponendole limiti ben precisi: deve occuparsi solo della salute fisica dei suoi figli. Non deve perciò
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Storie che insegnano
occuparsi degli stili di vita della primogenita o delle sue difficoltà a socializzare, né delle difficoltà di Mario nell’elaborare un lutto che si può immaginare particolarmente difficile perché riguarda un padre invalido (col quale quindi il rapporto in vita è stato probabilmente complesso). La pediatra, invece, con coerenza e molto tenacemente, si propone come interessata al benessere globale del bambino. Possiamo dire che in questa storia si contrappongono 2 modelli diversi di medico che negli anni non hanno trovato un punto di incontro: biologico, quello della madre, e bio-psico-sociale [2] quello della dottoressa. Mamme come quella di Mario, che scelgono un modello solo biologico di salute e di medico e che perciò ci tengono “fuori”, ne conosciamo tante. I motivi della loro scelta possono essere i più svariati: alcune temono l’occhio “pubblico” sulla loro vita familiare o sentono il medico come un giudice; altre (come forse in questa storia) tengono lontano chiunque sembri proporre di cambiare gli equilibri della famiglia; altre sentono una profonda differenza di valori e obiettivi fra sé e il medico, a cui quindi non intendono affidarsi; altre ancora non immaginano che il medico possa essere una risorsa per la soluzione di problemi non esclusivamente sanitari ecc. In più in questa famiglia forse serpeggia un sottofondo di “rabbia” nei confronti della Sanità per il problema irrisolto dell’ictus del padre. Perciò Alessia e Mario sono probabilmente sentiti dalla mamma più come vittime della Sanità che come potenziali beneficiari. La scelta di un modello bio-psico-sociale da parte del medico, d’altra parte, non è la regola. Molti medici, infatti, scelgono un modello biologico (che è quello per il quale siamo tutti stati formati dagli studi universitari) o si adeguano a questa scelta fatta dai genitori. La pediatra di Mario invece sembra aver fatto una scelta differente, molto consapevole e con una forte connotazione etica: la dottoressa si sente investita della responsabilità di occuparsi del benessere globale del bambino e non solo dei suoi problemi fisici.
Due modelli inconciliabili?
Sappiamo, come abbiamo appreso nei nostri confronti con la sociologia [3], che la relazione medico-paziente è frutto di una co-costruzione nella quale le due parti sono ambedue attive. Il professionista stabilisce le regole del rapporto e il paziente non solo può avanzare richieste differenti (per esempio di un maggiore ascolto, di maggiore attenzione a un sintomo, di meno o più esami e medicine ecc.) ma anche difendersi, decidendo quanto affidare al
medico di se stesso. Nella storia tra la pediatra e la famiglia di Mario la relazione medico-mamma non si è co-costruita in modo armonico nel corso degli anni, ma è rimasta conflittuale. Ricordiamo che la responsabilità di una co-costruzione soddisfacente è soprattutto del professionista che ha, fra i suoi strumenti, le tecniche del colloquio. La pediatra, nel colloquio soprariportato, ha utilizzato una comunicazione non troppo ortodossa e apparentemente poco efficace. Quando la dottoressa, per esempio, ha scoperto che le è stata nascosta la morte del padre, è sbottata in un: “E dirlo?” ricco di emotività e in parte anche di aggressività e poi si è lanciata in una “conferenza” sulla necessità di parlare con il bambino per aiutarlo a elaborare il lutto, proponendo subito “cosa bisogna fare”, senza cercare prima un terreno comune di collaborazione. Durante la visita accade però un evento nuovo e interessante: Mario questa volta è disponibile al dialogo. La pediatra non si lascia sfuggire questo spiraglio e comincia a parlare con il ragazzino, ma, quando i temi si fanno “caldi”, la mamma la stoppa: “Ora basta”. Una storia fallita, dunque? Sorprendentemente, no.
La storia prosegue
Durante l’estate successiva al colloquio la mamma disdice più volte all’ultimo minuto l’appuntamento per Mario: il ragazzo si rifiutava proprio di venire in studio. In un’occasione però arrivano agitatissimi, come al solito tutti in pattuglia, mamma, sorella e Mario, perché il bambino era caduto giocando in cortile giorni prima, si era escoriato un ginocchio e adesso si rifiutava di farsi medicare. “Dottoressa, faccia un po’ lei, sono due giorni che urla non appena ci avviciniamo, e non vuole togliere la garza appiccicata. Solo lei ci può aiutare”. Io mi avvicino titubante a Mario, ma mi basta sollevare un lembo di garza e questa viene via senza danno e senza urla. Mi sono guadagnata in quell’occasione molti crediti, fra sorrisi, applausi e “Grazie a Dio” di mamma e sorella. E arriviamo a oggi. Oggi entrano tutti sorridenti e Mario mi dice subito che era d’accordo a venire. I motivi della consultazione sono nell’ordine: Primo: Mario non sente, deve avere un tappo di cerume e ha bisogno di un otorino. Escludiamo il tappo e che Mario non senta. Secondo: Mario cammina male, dice di aver male al ginocchio, quel colpo deve averlo lesionato.
Mario contraddice la mamma “Non ho male”. Il ginocchio è perfetto. In effetti cammina ancora un po’ sulle punte e parliamo del problema. Terzo: Mario ha delle carie che non si lascia curare. Questo è innegabilmente vero, per cui valuto con tutti cosa fare. Il clima è sereno. Mario mi parla spontaneamente, la mamma lo lascia fare rispettosamente e io molto accuratamente non contraddico mai nessuno. Ho riletto molto attentamente gli appunti sul counselling! Penso che la visita sia finita (siamo stati insieme quasi mezz’ora) quando la mamma mi guarda negli occhi e dice: “Adesso dovremmo parlare di una questione molto delicata. Vero Mario che mi permetti di parlarne alla dottoressa?” Mario fa cenno di sì col capo, non troppo di buona voglia. E viene fuori che: “Mario non accetta le regole, è un po’ un anarchico, direi più adesso… ma no, non è vero, anche prima che morisse papà!” Finalmente lo ha detto! E la mamma continua: “Credo ci tolleri molto poco, siamo tre donne: io, mia figlia e mia suocera, tutte insieme in casa”. E qui mi guarda in modo molto espressivo. Mario mi guarda e mi comunica senza parole, sbuffando e a gesti, che è davvero pesante. Io mi sento veramente commossa dall’essere messa a parte di questa situazione difficile per tutti loro, dico che posso capire molto bene e che mi dispiace. (Penso che la decisione della convivenza sia anche stata obbligata da questioni economiche: la mamma non lavora, il padre era invalido da anni). Poi, per alleggerire un poco, forse a sproposito, faccio qualche battuta sulla scarsa tolleranza reciproca che può esserci fra generi diversi. E poi seriamente chiedo se Mario ha amici maschi con cui lega. Scopro che Mario non esce mai, non ha amici. A scuola non lega per niente e a sua giustificazione la mamma mi spiega che ha avuto la sfortuna di essere in una classe in cui sono solo tre italiani. Tutti gli altri sono arabi e rumeni anche di recentissima immigrazione, che parlano quindi poco l’italiano. Piove sempre sul bagnato! Da qualche tempo scende in cortile a giocare a pallone con ragazzi di 16 anni. Quindi, benissimo che giochi a pallone, ma poi i loro interessi sono lontanissimi e loro se ne vanno lasciandolo solo. E d’altra parte lei non sarebbe d’accordo che li frequentasse fuori dal campo di calcio, già così ha i suoi dubbi sulla differenza di età.
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Mario non vuole saperne di gruppi parrocchiali (avrebbero perlomeno il vantaggio di essere economici): “Lui è un anticlericale!” dice la mamma. Ma non vuole neanche andare con gli scout. Scopro però, per inciso, che ultimamente parla sempre più spesso di andare a vivere in Islanda. Io ci sono appena stata, per cui ho buon gioco di parlargliene e lo incuriosisco molto. Gli chiedo “en passant” se lo attrae per la grande solitudine dei suoi abitanti e lui ride. Scopro anche che gli piace molto fare dei lavoretti manuali e quindi mi lancio sulla bellezza dei campi scout laici, dove innanzi tutto non si prega, si sta lontani da casa durante le uscite anche per qualche giorno, si lavora molto a costruire cucine da campo, capanne sugli alberi, ponti sui ruscelli ecc. È veramente interessato. Gli propongo di provare a informarmi per qualche gruppo e di riparlarne. Gli chiedo di telefonarmi fra qualche giorno per dirmi cosa ha pensato. Ci tengo a saperlo. A questo punto è la sorellona che guarda la mamma e dice: “Se ci va lui, però lasci andare anche me. Non mi hai mai lasciata negli scorsi anni”. E Mario la guarda sorridendo: “Dai, andiamo insieme, se vai tu, ci vado anch’io”. Speriamo che se la cavino…
Riflessioni sull’evoluzione del caso
Incredibilmente, dopo anni, la situazione sembra essersi sbloccata. La mamma si è fidata della dottoressa, ha cercato un’alleanza con lei e ha accettato di interpellarla su questioni al di fuori dei confini strettamente biologici. Il nuovo atteggiamento materno ha permeato tutta la famiglia: sia Alessia che Mario interagiscono con la dottoressa, e tra di loro in sua presenza, in maniera piana, non trattenuta. Cosa è successo? Non lo sappiamo né possiamo saperlo. Del resto anche i più grandi terapeuti ammettono di non sapere cosa davvero “ha funzionato” in una terapia (come per esempio ci racconta nelle sue affascinanti storie cliniche un noto psicoterapeuta, I.D. Yalom) [4]. Forse nelle telefonate intercorse fra le visite la mamma si è sentita più accolta; forse il processo di elaborazione del lutto ha cambiato i suoi equilibri, attivando sue risorse latenti; forse il sistema di famiglia “chiuso” è diventato anche per lei soffocante e poco gestibile; forse ci sono stati altri avvenimenti che non conosciamo e che hanno modificato i rapporti familiari… Ci sono stati però, nella prima visita raccontata, due fatti importanti che possono aver giocato un ruolo nel far evolvere la situazione:
1 La dottoressa è riuscita per la prima
volta a instaurare un buon rapporto con Mario. La mamma ha così potuto capire, nei fatti e non attraverso enunciazioni teoriche e programmatiche, che la pediatra era in grado di comunicare con il bambino e che era realmente e concretamente interessata a Mario: alle vicende della sua vita, ai suoi vissuti, alle sue risorse e alle sue difficoltà. Perciò quando si è trovata in difficoltà non solo per la medicazione del ginocchio, ma anche per il figlio “un po’ anarchico” ha potuto pensare: “solo lei ci può aiutare”. 2 La dottoressa ha esplicitato con grande carica emotiva, anche se in modo ruvido, il suo modello di medico attento alla salute globale, e non solo fisica, dei suoi pazienti. Il brusco: “E dirlo?” è suonato certo accusatorio, ma ha anche comunicato un mondo non tanto di idee quanto di emozioni: la profonda delusione della dottoressa per non essere stata informata del grave lutto, il suo reale interessamento per la loro famiglia, il suo avere a cuore il benessere globale del bambino. Quando vogliamo far cambiare comportamento ai nostri pazienti dobbiamo tener conto del fatto che i cambiamenti, secondo le più recenti teorie, sono reali se non coinvolgono solo la sfera razionale ma anche, e soprattutto, la sfera emotiva [5,6]. La chiave, dunque, non è tanto essere convincenti sul piano razionale e di realtà (e in questo certamente ci aiutano le tecniche del colloquio), ma soprattutto comunicare a livello delle emozioni. La mamma di Mario, al di là del momentaneo rifiuto, ha potuto probabilmente entrare in una qualche risonanza emotiva con la dottoressa.
Dal caso di Mario proviamo a estrarre qualche considerazione più generale
Non ci sentiamo di concludere questa storia con un: “Cosa abbiamo imparato”, come nelle altre storie da noi precedentemente presentate. Proponiamo solo alcune considerazioni sulle quali il nostro gruppo ha trovato un accordo, che forse possono essere generalizzabili ad altri casi e con le quali pensiamo sia utile che il lettore si confronti. 1 Il rapporto continuativo e la frequenza degli incontri che caratterizzano la pediatria di famiglia permettono al medico di intravedere situazioni di famiglie disfunzionali, di relazioni bloccate, di difficoltà spesso complesse, di situazioni di rischio educativo e comportamentale. Di fronte al crescente impatto delle problematiche relazionali e comportamentali, all’aumento, da molti se-
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gnalato [7,8], di sintomi e patologie somatomorfi e alla sempre maggiore difficoltà dei servizi di neuropsichiatria a far fronte alla massa delle richieste [9], noi pediatri, quando non ci rinchiudiamo in un modello biologico di salute, ci troviamo inevitabilmente coinvolti in tutti gli aspetti sociali, familiari e affettivi che condizionano il benessere e il futuro dei bambini. Mentre la nostra formazione tradizionale ci orienta verso la prima opzione [10], il nostro gruppo pensa che occuparsi di questi nuovi bisogni di salute e farsene carico sia una scelta etica e professionale irrinunciabile: una scelta che deve permeare l’attività quotidiana del pediatra, le modalità e i contenuti dei colloqui e delle visite. Del resto non siamo i soli a pensarla così, come testimoniano numerose lettere pubblicate da Medico e Bambino nella seconda metà del 2016 sulla “inquietudine del pediatra” e sui bambini più “matti” che “malati”. Secondo noi, in questa ottica, pur con le dovute cautele, è lecito e spesso doveroso andare oltre le richieste e le esigenze più immediate della famiglia e porsi l’obiettivo di facilitare, anche solo a piccoli passi, un’evoluzione delle dinamiche familiari e dello sviluppo globale dei bambini. In fondo è quanto già facciamo quando mostriamo ai genitori le competenze e le acquisizioni del neonato e del lattante; quando evidenziamo gli aspetti relazionali dell’allattamento, del pianto, del sonno, dello sviluppo motorio, dell’alimentazione; quando stimoliamo alla lettura precoce e all’ascolto della musica. Il nostro atteggiamento verso i bambini può assumere un ruolo pedagogico nei confronti dei genitori anche nelle età successive: parlare direttamente col bambino, comunicare con lui, ascoltare anche le sue domande o affermazioni, fare emergere le sue capacità, le sue risorse e i suoi interessi, considerarlo in grado di comprendere le nostre conclusioni e le nostre scelte terapeutiche, lo valorizza agli occhi dei genitori come persona degna di essere ascoltata e capace d’interagire con un adulto. In altre parole favorisce la crescita della famiglia e l’evoluzione positiva di alcune difficoltà di relazione o di alcuni sintomi secondari a rapporti poveri e bloccati. 2 L’interesse e la capacità di comunicare anche con i bambini facilitano l’approccio globale alla salute. Riuscire a parlare al bambino durante la visita può infatti farci percepire dai genitori come una risorsa cui rivolgersi anche nei
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BOX 1. Agenda del paziente (da voce bibliografica 11)
All’interno della medicina centrata sul paziente con il termine “agenda del paziente” s’intende ciò che egli porta con sé e con la sua malattia, suddiviso in quattro dimensioni: le idee di malattia, vale a dire le diagnosi ipotizzate o credute; i sentimenti e i timori relativi; le aspettative su ciò che farà o dovrebbe fare il medico; il contesto in cui si collocano i sintomi, compresi avvenimenti passati e difficoltà presenti. Rispetto al vissuto di malattia, che è una situazione personale che prescinde dal rapporto con altri, il concetto di agenda implica un aspetto relazionale, perché è quanto viene portato in visita al medico dal paziente o dalla famiglia, spesso però senza essere esplicitato.
casi di loro difficoltà di relazione con i figli. Questo amplia le possibili attese rispetto al ruolo e ai compiti del pediatra, che non saranno però uguali per tutte le famiglie. 3 Durante ogni singola visita, dando per acquisita la scelta di una medicina basata sul paziente e non sulla malattia, occorre certamente rispondere alle esigenze di salute, vale a dire esercitare la prevenzione e la cura delle patologie (diseases), e badare nel contempo al vissuto di malattia dei bambini e delle famiglie (illness); ma è necessario anche considerare e ricostruire quella che è stata definita l’agenda del paziente (nel caso della pediatria dei diversi componenti della famiglia, bambino compreso) in cui rientrano anche le aspettative e i desideri concernenti la visita (Box 1) [11]. Il pediatra, per permettere lo svilupparsi di una relazione terapeutica di questo tipo, deve essere in grado di raccogliere informazioni e sensazioni con domande aperte e con uno spazio di ascolto attivo che permetta all’interlocutore anche di immaginare nel tempo le proprie risposte ai problemi che riporta. La consapevolezza che il colloquio professionale ha delle regole diverse dal colloquio spontaneo è essenziale per non cadere in quelle trappole della comunicazione che rendono sterili i dialoghi e inutili i tradizionali buoni
consigli. Ne deriva che la formazione al counselling riveste un’importanza fondamentale, e la conoscenza delle relative tecniche di comunicazione deve far parte del bagaglio del pediatra. In questo modo, senza interventi troppo pesanti, a volte controproducenti, senza un eccesso di consigli difficili da seguire e che non aiutano comunque a crescere, ci sembra si possano orientare verso la salute le relazioni complesse che caratterizzano in maniera diversa ciascun sistema famiglia. Senza dimenticare che il pediatra stesso rientra nel sistema più allargato costituito dalla famiglia e dal complesso di persone con cui più frequentemente interagisce (amici, insegnanti o altre figure diversamente significative). 4 Per una presa in carico globale del bambino è necessario però anche che vi sia nel pediatra una particolare volontà e tensione a prendersi cura del benessere dei bambini. In questo entra in gioco una dimensione affettiva, “la voglia di curare”, in cui si producono e si comunicano anche sentimenti ed emozioni. Non sempre questo si limita agli aspetti desiderati e positivi. È esperienza comune che ne sorgano anche di negativi, quali frustrazione, rabbia, reazioni verbali o gestuali negative (per esempio quando il medico colga un rifiuto verso la propria disponibilità, le proprie
BOX 2. Gruppi Balint (da voce bibliografica 12)
I gruppi Balint (dal nome del loro ideatore, Michael Balint, psicoanalista ungherese, 1986-1970) sono gruppi di formazione, a indirizzo psicoanalitico, rivolti a quanti si dedicano a professioni di aiuto (medici, infermieri, assistenti sociali, insegnanti ecc.). Il loro obiettivo non è fornire nozioni di psicologia o di tecniche di comunicazione, ma insegnare a fare i conti con le emozioni, del professionista e del paziente, che giocano un ruolo nei processi di diagnosi e cura e nella relazione terapeutica. I partecipanti, attraverso discussioni di casi clinici guidate da uno psicoterapeuta, diventano più consapevoli dei modi in cui utilizzano la loro personalità, le reazioni automatiche istintive, le emozioni, le convinzioni scientifiche. Possono così aumentare le capacità introspettive ed evitare che le loro componenti più immature interferiscano negativamente nel rapporto con il paziente. E possono, per usare le parole di Balint, cercare di raggiungere “una modificazione notevole, seppur parziale, della personalità”, diventando più capaci di una relazione empatica e di quella “azione catalizzatrice”, fondamentali per favorire i cambiamenti del paziente.
preoccupazioni o verso suggerimenti e consigli ritenuti importanti). Per ritrovarsi preparati a questo tipo di relazione senza danni per sé o per i pazienti il medico in generale e, crediamo, il pediatra in particolare devono acquisire anche una formazione mirata al controllo e alla comprensione dei sentimenti e delle emozioni che si liberano, si scambiano e si alimentano nei pazienti e nel curante stesso. Una formazione di questo tipo si può ottenere per esempio con i gruppi Balint (Box 2) [12]. Emozioni e sentimenti possono così diventare una risorsa invece che un ostacolo ai cambiamenti, una spinta verso la salute, e forse la chiave per affrontare in maniera empatica, e qualche volta superare, resistenze e chiusure di alcuni genitori, avviando un percorso che, applicando l’approccio bio-psico-sociale, ci permetta di meglio tutelare la salute del bambino. * merlomaria@alice.it
1. Merlo M, Levi P, Fiammengo P, et al. Prove di dialogo: perché parlare con i bambini? Quaderni acp 2016;23:279-81. 2. Engel GL. Il modello bio-psico-sociale. Change, 2007. 3. Davico S, Fiammengo P, Garrone G, et al. Dialogo con la sociologia: quando il bambino si ammala. Quaderni acp 2015;22:288-92. 4. Yalom ID. Guarire d’amore. Storie di psicoterapia. Raffaello Cortina, 2015. 5. Kahneman D. Pensieri lenti e veloci. Mondadori, 2012. 6. Haidt J. Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione. Codice, 2013. 7. Chun T, Mace SE, Katz ER. Evaluation and management of children and adolescent with acute mental health or behavioral problems. Part 1: Common clinical challenges of patients with mental health and/or behavioral emergencies. Pediatrics 2016;138(3). 8. Chun T, Mace SE, Katz ER. Evaluation and management of children and adolescent with acute mental health or behavioral emergencies. Pediatrics 2016;138(3). 9. Sangermani R. Problemi di salute mentale nell’infanzia e nell’adolescenza: criticità nella pratica e nella modalità di intervento. Quaderni acp 2014;21:210-3. 10. McMillan JA, Land M jr, Leslie LK. Pediatric residency education and the behavioral and mental health crisis: a call to action. Pediatrics 2017:139(1). 11. Moja EA, Vegni E. La visita medica centrata sul paziente. Raffaello Cortina, Milano, 2000. 12. Balint M. Medico, paziente e malattia. Giovanni Fioriti editore, 2014.
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I tropici in ambulatorio
I tropici in ambulatorio: la malaria Fabio Capello
UO di Pediatria, Ospedale G.B. Morgagni-L. Pierantoni, AUSL della Romagna, Forlì
Questo contributo apre una piccola serie di articoli che dovrebbero aiutarci a tenere a mente malattie a noi poco note, ma in certa misura “emergenti” perché rese più attuali dalle commistioni etniche nelle quali siamo immersi e delle quali, in fondo, siamo parte. Non c’è la pretesa di trattare esaurientemente e sistematicamente ciascun tema, quanto di rinfrescare argomenti forse poco frequentati e far nascere qualche curiosità di approfondimento. I tropici sono oggi più vicini di un tempo; qualche volta andiamo noi da loro, spesso vengono loro da noi, nel nostro ambulatorio. Proviamo a conoscerli un po’ di più. Enrico Valletta Per il medico occidentale, il termine “malattia tropicale” apre scenari remoti ed esotici apparentemente lontanissimi da ciò che si trova ad affrontare ogni giorno nel proprio ambulatorio. In effetti alcune di queste patologie sono tipiche di aree geografiche ben definite o secondarie a specifiche situazioni socio-sanitarie e, tuttavia, vengono diagnosticate
quotidianamente e gestite con dimestichezza da colleghi che si sono formati o che prestano regolarmente la propria opera in quei contesti. Paradossalmente, quindi, condizioni che interessano miliardi di persone che abitano le fasce equatoriali e tropicali del pianeta, finiscono con il suscitare scarso interesse alle nostre latitudini. Proprio per questo, anche il medico occidentale dovrebbe sentirsi stimolato ad approfondire tematiche che, come vedremo, sarebbe utile entrassero a fare parte del suo bagaglio culturale già nel corso degli studi universitari. Negli ultimi decenni, fattori economici e geopolitici hanno comportato radicali cambiamenti in vaste aree del mondo. Tra le conseguenze più evidenti: l’incremento della popolazione mondiale (quasi raddoppiata dagli anni ’70 a oggi), l’aumento dei flussi migratori e la maggiore circolazione di uomini e merci anche in aree sino a poco tempo fa pressoché inesplorate. Dal punto di vista sanitario, constatiamo come malattie prima confinate in ampie ma circoscritte zone del pianeta siano arrivate a
interessare anche il mondo industrializzato; allo stesso tempo persone abitualmente residenti in Paesi ad alto reddito si spingono oggi con maggiore facilità verso aree dove malattie a noi sconosciute sono, in realtà, endemiche.
Noi e la malaria
La malaria, vista sotto questa luce, è una malattia paradigmatica (Figura 1) [1]. Come è noto, il parassita che la causa viene trasmesso all’uomo da zanzare infette del genere Anopheles. Perché il plasmodio possa sopravvivere e diffondersi è necessario che l’insetto vettore sia presente nell’ambiente, possa moltiplicarsi e, infine, entrare in contatto con l’uomo. Il parassita infatti ha sviluppato il suo ciclo vitale approfittando dei meccanismi che consentono all’Anopheles di riprodursi, il che avviene solo in presenza di specifiche condizioni ambientali (per esempio, acqua stagnante) e stagionali. Sotto alcuni aspetti, agli stessi cicli è soggetto l’uomo, ospite intermedio del parassita. Se da un lato l’inizio delle stagioni umide favorisce la moltiplicazione della
Malaria endemica
Malaria endemica, 2016 Non endemia malarica, 2000
Malaria endemica nel 2000, non più nel 2016 Non nota
Figura 1. Paesi endemici per malaria nel 2000 e nel 2016 (modificata da voce bibliografica 1).
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I tropici in ambulatorio
zanzara, dall’altro fattori ambientali e comportamentali rendono più probabile il contatto tra insetto e uomo. Questo influi sce sulla moltiplicazione del plasmodio e produce picchi di infezione che seguono il tipico andamento stagionale. La conseguenza pratica è che i soggetti che vivono in aree endemiche sono più esposti agli effetti della malattia in alcuni periodi dell’anno, quando anche i meccanismi di difesa che proteggono dalle forme più gravi sono, in qualche misura, ridotti. Tipicamente questo fa sì che i casi clinicamente più impegnativi si osservino proprio all’inizio e verso la fine della stagione umida. Nelle aree endemiche, quindi, il primo sospetto clinico del medico in caso di febbre è la malaria ed è frequente incontrarne anche decine di casi in una settimana, la maggior parte dei quali non richiederanno neppure il ricovero in ospedale. Per quale motivo allora dovremmo conoscere qualcosa di più della malaria? La prima considerazione è di tipo culturale: il numero dei nostri pazienti che provengono da Paesi dell’area tropicale è in continua crescita. Alcuni possono risiedere da tempo qui da noi, ma mantenere costanti contatti con le regioni di origine (viaggi periodici); talora sono arrivati da poco per riunirsi ai propri familiari; sono immigrati regolari appena entrati nel nostro Paese o, al contrario, possono essere profughi o rifugiati che hanno saltato i normali canali di immigrazione. Nella cultura di queste persone, la febbre o il malessere sono spesso sinonimi di malaria e possono quindi rivolgersi al medico perché ritengono di avere contratto la malattia e, non raramente, possono effettivamente esserne affetti. Il medico che non ha mai visto o ha poca dimestichezza con questa patologia può trovarsi spiazzato. Trattare la malattia e in che modo, ignorando la possibilità di una diagnosi diffe-
renziale? O sottovalutare l’autodiagnosi del paziente, anche per paura di non saperla gestire rischiando, in definitiva, di non trattarla? Occorre, quindi, sapersi orientare su quando sospettare la malattia e quali accorgimenti avere nei confronti di un paziente che proviene da un Paese endemico per malaria. Una seconda considerazione riguarda i cittadini occidentali che per diversi motivi si trovano a soggiornare in aree endemiche. Il medico, anche se non specialista, può trovarsi di fronte a tre possibili scenari: persone in partenza per un’area endemica che chiedono consigli su come prevenire la malattia; pazienti che tornano da un’area endemica con sintomi suggestivi di malaria; o, infine, pazienti che tornano con una diagnosi già formulata di malattia [2]. Le stesse considerazioni valgono anche per il pediatra. Da un lato le famiglie di immigrati arrivano e viaggiano sempre più spesso accompagnate da bambini; a volte questi bambini sono nati e cresciuti in Paesi industrializzati e viaggiano per la prima volta in aree di endemia malarica. Dall’altro, il turismo a lungo raggio sta diventando sempre più semplice e più praticato e non è raro che famiglie occidentali con bambini si rechino in viaggio in aree critiche. Ed è comunque vero che non tutti coloro che viaggiano in queste regioni tornano poi a casa ammalati.
Quando sospettare la malaria?
L’approccio migliore è il consueto: un’attenta anamnesi e la clinica guideranno i passi successivi. L’esordio, come quello di altre malattie trasmesse da artropodi, può essere insidioso e i sintomi, spesso sfumati, mimano talora quelli di altre malattie più comuni. Il sintomo-guida è la febbre, classicamente descritta come terzana o quartana, ma che nelle fasi iniziali è raramente così ciclica.
Ci sono certamente periodi di remissione e riacutizzazione con brivido scuotente, ma la sincronizzazione delle fasi nei vari cicli del parassita, dentro e fuori l’eritrocita, si verifica tardivamente quando è auspicabile che la diagnosi sia già stata fatta. Nelle forme non complicate, accanto alla febbre possono esserci sintomi aspecifici simil-influenzali come cefalea, astenia, dolori muscolari, vomito, diarrea e più raramente tosse. Le forme complicate sono caratterizzate da specifiche condizioni, rappresentano la forma più grave e potenzialmente letale della malattia e richiedono trattamento intensivo con farmaci di seconda linea (Tabella 1). Il sospetto deve nascere sempre quando e se c’è stata possibilità di contagio. Le prime domande riguarderanno il se, dove, quando e per quanto tempo la persona è stata in aree endemiche; se è stata fatta la profilassi; se il paziente ha mai avuto una diagnosi confermata di malaria. Le risposte dovranno essere confrontate con mappe spaziali e temporali che definiscano rischio e probabilità di contagio, avendo presente che l’indicazione generica di macro-aree quali “Africa” o “Sud America” hanno scarso significato epidemiologico. Regioni differenti, anche all’interno di singole nazioni, possono avere livelli diversi di endemia, o cicli stagionali differenti. Paesi come il Sudan, per esempio, si estendono dalle aree desertiche del nord alle regioni paludose del sud con estrema disomogeneità di condizioni climatiche. È fondamentale ricordare che i cicli del plasmodio variano in base alla specie, e che l’esordio dei sintomi avviene a distanza di tempo dall’inoculazione del parassita da parte della zanzara (una o due settimane per il Plasmodium falciparum o anche molti anni per il Plasmodium malariae che può restare inattivo negli epatociti per lungo tempo). La conferma diagnostica
TABELLA 1. Sintesi dei diversi scenari clinici in pazienti con diagnosi di malaria
MUU Malaria Uncomplicated Unconfirmed
MUC Malaria Uncomplicated Confirmed
MCU Malaria Complicated Unconfirmed
MCC Malaria Complicated Confirmed
Diagnosi di malaria basata solo sul sospetto clinico ed epidemiologico.
Diagnosi laboratoristica di malaria.
Sospetto clinico di malaria con presenza di uno o più di questi segni: anemia, ipoglicemia, ittero, insufficienza renale, acidosi, shock, edema polmonare, emorragie, convulsioni e coma.
Diagnosi laboratoristica di malaria con presenza di parassitemia elevata e uno o più di questi segni: anemia, ipoglicemia, ittero, insufficienza renale, acidosi, shock, edema polmonare, emorragie, convulsioni e coma.
Preferibilmente aspettare conferma di laboratorio prima di trattare.
Trattare con cicli di terapia combinata.
Richiedere urgentemente conferma laboratoristica. In caso di ritardo iniziare subito la terapia per via parenterale.
Trattare con terapia parenterale. Somministrare la 1a dose (anche i.m.) prima di eventuale trasferimento. Associare sempre antibiotico a largo spettro. Trattare le complicanze.
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viene dai test di laboratorio: al microscopio su goccia spessa di sangue o con la rilevazione di antigeni o enzimi specie-specifici. I test sono poco costosi e di facile interpretazione, con un’elevatissima sensibilità e specificità nel caso dei test immunologici, più operatore-dipendenti nel caso della microscopia.
Alcuni principi di terapia
La terapia dell’adulto o del bambino con malaria non è difficile e le forme non complicate vengono quotidianamente gestite con successo da operatori sanitari - spesso non medici - in migliaia di punti di assistenza in tutto il mondo. I farmaci antimalarici sono numerosi e si rimanda alle raccomandazioni della WHO-OMS per la scelta del trattamento più appropriato [3-6]. Rimane fondamentale, anche se a volte trascurato dai medici occidentali, l’uso della terapia combinata (ovvero l’uso contemporaneo di più farmaci antimalarici) sia per aumentare l’efficacia del trattamento che
per ridurre il rischio di sviluppare resistenze. Le terapie attualmente disponibili utilizzano per lo più due principi attivi (uno dei quali derivato dall’artemisina), e prevedono generalmente cicli di tre giorni. Nei casi di malaria complicata, il trattamento deve essere sempre riferito a un centro specialistico, ricordando che il quadro clinico può essere sovrapponibile a quello di altre malattie gravi (es. meningite per le forme di malaria cerebrale), che la malaria può coesistere con altre patologie concomitanti e che la terapia delle forme severe non dovrebbe mai essere rimandata (Tabella 1). In questi casi è buona norma iniziare subito il trattamento considerando anche la distanza dal centro specialistico più vicino. L’artesionato, l’artemether o il chinino per via parenterale rimangono le terapie di scelta per le forme severe che richiedono, peraltro, sicura competenza specifica. Non va dimenticata la concomitante somministrazione di un antibiotico a largo spettro che copra anche il rischio di setticemia che spesso si ac-
I TROPICI IN AMBULATORIO
compagna o la cui clinica può sovrapporsi a quella della malaria complicata. * fabio.capello@auslromagna.it
1. WHO. World malaria report 2016. www. who.int/malaria/publications/world-malaria-report-2016/report/en/ 2. Calleri G, Castelli F, El Hamad I, et al. New Italian guidelines for malaria prophylaxis in travellers to endemic areas. Infection 2014;42:239-50. 3. WHO. Guidelines for the treatment of malaria (2015). www.who.int/malaria/publications/atoz/9789241549127/en/ 4. WHO. Management of severe malaria – A practical handbook (2013). www.who.int/malaria/publications/atoz/9789241548526/en/ 5. WHO. Pocket book of hospital care for children: guidelines for the management of common childhood illnesses (2013). www.who. int/maternal_child_adolescent/documents/ child_hospital_care/en/ 6. Lalloo DG, Shingadia D, Bell DJ, et al. UK malaria treatment guidelines 2016. J Infect 2016;72:635-49.
Associazione Pediatri del Mezzanino (APM) Il gruppo di pediatri volontari attivi a Milano dalla primavera 2014 in risposta ai bisogni di salute dei profughi in arrivo alla Stazione Centrale si è costituito in Associazione (APM) operante in campo socio sanitario e umanitario, espressione del volontariato nella società civile . L’articolo 5 dello Statuto APM sottolinea “l’impegno per la promozione integrale dell’uomo con il rispetto dovuto alla sua dignità che non viene mai meno, l’accettazione delle diversità dei valori culturali e delle diverse etnie e l’atteggiamento di dialogo e di confronto con essi”. Non solo una “care” da parte dei pediatri e di altre figure sanitarie, ma anche una occasione per vivere concretamente la solidarietà e la mondialità per tutti coloro che desiderano condividerne scopi e ideali. Patrizia Bolla bollapatrizia@gmail.com
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Soluzione “A colpo d’occhio”
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A COLPO D’OCCHIO Soluzione del quesito a p. 98
Rx e TAC in bambina con dolore e segni di flogosi al tallone da alcune settimane Osteoma osteoide
La radiografia mostra un’area osteolitica calcaneare di circa 5 mm che la TAC conferma (8 mm) e identifica come piccola formazione calcifica subperiostale circondata da sclerosi reattiva suggestiva di nidus di osteoma osteoide. L’osteoma osteoide è una neoformazione benigna osteoblastica, di dimensioni generalmente inferiori a 1 cm. Rappresenta il 10% dei tumori ossei benigni e nella metà dei casi coinvolge la tibia o il femore. L’interessamento delle ossa del piede è meno frequente: nel 2-10% riguarda l’astragalo, nel 2-3% il calcagno, nel 2% le falangi e nell’1-2% il metatarso. È prevalente nella seconda-terza decade di vita e nel 75% dei casi l’età di insorgenza è inferiore ai 25 anni. La localizzazione è più frequentemente intracorticale nelle ossa lunghe e subperiostale a livello del piede. I sintomi di presentazione dipendono in larga parte dal sito della lesione, ma includono tensione, dolore, edema, gonfiore e impotenza funzionale. Nel 50-70% dei casi il dolore ha prevalenza notturna e si attenua con l’uso dei FANS (nel nidus vengono
prodotte prostaglandine). L’efficacia diagnostica della TAC è superiore a quella della RM che può non essere conclusiva in un terzo dei casi. La lesione può regredire spontaneamente nell’arco di 2-6 anni, ma nei casi sintomatici è indicata l’escissione chirurgica o l’ablazione con laser o con radiofrequenze. Hamada T, Matsubara H, Kimura H, et al. Intra-articular osteoid osteoma of the calcaneus: a case report and review. Radiol Case Rep 2016;11:212-6. Jordan RW, Koç T, Chapman AW, Taylor HP. Osteoid osteo- ma of the foot and ankle. A systematic review. Foot Ankle Surg 2015;21:228-34. Papachristos IV, Michelarakis J. Riddles in the diagnosis and treatment of osteoid osteoma in child foot: A concisive study. Foot Ankle Surg 2016;22:97-102.
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Contributo di Sara Monti e Augusto Biasini UO di Pediatria, AUSL della Romagna, Cesena
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Narrative e dintorni
Quando la pediatria incontra la pedagogia Michela Schenetti*, Elisa Guerra*, Enrico Valletta** *Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Bologna **UO di Pediatria, Ospedale G.B. Morgagni-L. Pierantoni, AUSL della Romagna, Forlì
In questo articolo si vuole proporre una riflessione sulla necessità, per il pediatra, di aprirsi ai contributi di altre discipline “umane” per acquisire nuove chiavi di lettura nella relazione di cura con il bambino e la sua famiglia. Il tema della sofferenza e del dolore può essere un buon punto di partenza, perché trasversale a tutta la pediatria e oggetto di crescente attenzione a ogni livello. La pedagogia ci può aiutare a decifrare meglio modi di essere e di porsi in relazione alla sofferenza, che possono esserci preziosi nella comprensione di chi ci sta di fronte. In this paper we reflect on the opportunity that the paediatrician opens his mind to other human sciences to gain new perspectives in the therapeutic relationship with the child and his family. We suggest that suffering and pain could be a reasonable starting point that crosses the whole paediatric practice and is at the centre of attention of all decisional levels. Pedagogy can help us in the interpretation of the different ways of being and facing suffering, valuable in understanding our patients. Una pediatria che ancora oggi voglia farsi garante della salute mentale e fisica dell’infanzia – e di ciascun bambino come individuo unico e complesso che si sviluppa in un contesto familiare e sociale determinato, in uno spazio e un tempo definiti – non può non aprirsi ai contributi e alle conoscenze che altre “discipline umane” sono in grado di offrirle. La figura del pediatra resiste, tuttora e nella maggioranza delle sue declinazioni professionali, alla tentazione della medicina d’organo – verso la quale la medicina dell’adulto sembra sempre più orientarsi – e si dedica con crescente impegno alla prevenzione, all’educazione sanitaria, alla promozione del benessere e alla cura del bambino in un approccio che è stato definito “olistico” per quanto concerne la visione, e “biopsicosociale” per quanto riguarda la comprensione allargata dei problemi di salute [1]. Il pediatra si interroga sulle reali competenze del bambino, sulla necessità che sia coinvolto nel processo di cura, sulla sua soggettività nella relazione con i genitori, il medico e la malattia; non più, quindi, “corpi muti da accudire, diagnosticare e curare”, ma portatori di “conoscenze, emozioni, volontà e desideri” [2]. Non mancano certamente occasioni, a noi pediatri, per riflettere sulle componenti sociali, antropologiche, educative e psicologiche che intercettano e accompagnano il bambino nel corso della sua crescita e ne determinano gli infiniti possibili percorsi. Per arrivare fino ai più complessi interrogativi filosofici, etici e morali che con cre-
scente frequenza ci vengono posti in situazioni cliniche difficili o di sofferenza e malattia estreme. Tutto questo è anche patrimonio di discipline “altre” che nel corso della nostra formazione abbiamo forse mai toccato, o solo sfiorato, e che pochi di noi sono in grado di padroneggiare con sicurezza. Siamo nel vasto campo delle medical humanities, insieme di saperi attinenti alle scienze sociali e comportamentali, alla filosofia morale e alle arti espressive che dovrebbero dare al medico nuovi strumenti di comprensione della salute e della malattia, di se stesso e dell’altro con cui cerca di entrare in una relazione terapeutica [3-5]. Formarsi alle medical humanities non è compito da poco e, probabilmente, non da tutti. Ma se già non fatto, qualche passo è bene provare a muoverlo. Mai forse come in questo tempo, la fluidità delle strutture familiari e sociali e la varietà di espressioni culturali che contattiamo ci danno l’opportunità e ci chiedono di ampliare il nostro orizzonte di comprensione e di dotarci di nuovi e diversi strumenti di lavoro [6]. Le propensioni di ciascuno e le occasioni cercate o fortuite di “contaminazione” ci possono indicare le strade da percorrere, ma si fa sempre più evidente l’esigenza che le medical humanities entrino a far parte strutturale della formazione medica.
Saperi “diversi” per affrontare il dolore
Il tema della sofferenza e del dolore può essere un buon punto di partenza, perché trasversale a tutta la pediatria e oggetto di
crescente attenzione a ogni livello. La legge 38/2010, che ha segnato un punto di svolta nell’approccio al dolore e alle cure palliative pediatriche, ha anche svelato la grande esigenza di formazione per il personale sanitario e socio-sanitario che si occupa della salute del bambino. Molte iniziative sono state avviate e si stanno sviluppando, altre restano tuttora nelle intenzioni della legge o stentano a coprire un fabbisogno formativo che è quanto mai multidisciplinare e multiprofessionale [79]. Il dolore - la sua percezione, il suo significato, la sua elaborazione - è esperienza umana tra le più universali, così uguale e così diversa per ciascuno di noi. Gli aspetti psicologici e ancor più quelli farmacologici ci sono sempre più familiari, ma questa è forse l’occasione per allargare lo sguardo anche oltre. L’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: attorno a un bambino che affronta un’esperienza dolorosa ci sono una famiglia, una cultura, uno stile educativo con i quali ci dobbiamo confrontare e che, con sfumature sempre diverse, interagiscono con il nostro operare. La struttura educativa e psicologica che sorregge e protegge il bambino (e i suoi genitori) nel difficile rapporto con le esperienze di dolore (psichico o fisico) è un elemento di contesto rilevante, ma su cui abbiamo quasi mai il tempo, la volontà o gli strumenti culturali per riflettere. La pedagogia, che come la medicina viene definita “scienza dell’uomo e per l’uomo”, ci può aiutare a decifrare meglio modi di essere e di porsi in relazione alla sofferenza che possono esserci preziosi nella comprensione di chi ci sta di fronte nella relazione terapeutica che si va costruendo [10]. Un approccio multidisciplinare così concepito, oltre a essere nello spirito della legge 38/2010, è anche auspicato dalla letteratura come strumento culturale e pratico al servizio delle professioni sanitarie nel quotidiano [11]. È in questo solco, tracciato dalle raccomandazioni scientifiche e inciso nel sentire comune, che abbiamo avviato un confronto tra pediatria e pedagogia in una recente iniziativa formativa realmente multidisciplinare, con l’obiettivo di condividere saperi ed esperienze diverse in vista di un obiettivo comune [12].
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Il dolore in pediatria, il dolore in pedagogia
Un luogo nel quale medicina e pedagogia possono incontrarsi è l’ospedale, contesto nel quale forse più di altri vi è la necessità di non considerare solo le condizioni oggettive della persona-utente ma di accogliere e dare voce anche alla sua soggettività e ai vissuti attraverso i quali dà senso al suo essere lì. Tutto ciò è ancora più necessario quando il paziente è un bambino e sta vivendo sulla propria pelle esperienze difficili, dolorose, ed emotivamente intense. Ma cosa intendiamo quando parliamo di dolore? In pediatria, il dolore è anzitutto un sintomo che guida la diagnosi, che marca il decorso della patologia, che accompagna procedure e terapie e che ha stretti rapporti con la paura e l’ansia per la malattia. È un sintomo che non solo siamo tenuti a curare, ma che dobbiamo anche prevenire, evitare o rendere sopportabile, per quanto possibile. Nelle parole di Franca Benini è “il sintomo che più mina l’integrità fisica e psichica del bambino e più angoscia e preoccupa i suoi familiari, con un notevole impatto sulla qualità della vita durante e dopo la malattia” [13]. Questa descrizione del dolore ha il pregio di sottolinearne non solo le componenti fisiche, ma anche le conseguenze psicologiche, il coinvolgimento totale della famiglia e le tracce spesso indelebili che la sofferenza lascia dietro di sé. Negli ambulatori e nei reparti di pediatria, medici e infermieri si confrontano giornalmente con il tema del dolore in una sequenza, prevenzione-rilevazione-trattamento, molto operativa. Ma non sfugge loro la grande variabilità soggettiva con la quale l’esperienza è vissuta, la differente qualità del supporto genitoriale offerto al bambino e l’importanza che ha, per gli operatori stessi, una migliore consapevolezza del contesto culturale ed educativo che sorregge il bambino e i suoi genitori. Quali differenti storie ci possono raccontare i bambini già terrorizzati al semplice approccio fisico o, al contrario, quelli che sembrano relativamente “stoici”? E quali i genitori che risuonano della sofferenza del loro figlio senza riuscire a contenerne l’emotività o che invece ne minimizzano l’entità facendo appello al loro “coraggio”? Comprendere la strada percorsa fino a quel momento da quella famiglia può servirci per aiutarli meglio nel superare la prova. Ma altre ancora possono essere le definizioni affidate alla parola dolore. Quella che più compiutamente sembra cogliere la complessità del fenomeno è quella offerta da Fehr e Russell [14] che hanno elaborato la teoria della “famiglia di emozioni”, secondo la quale più emozioni possono as-
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solvere funzioni molto simili. Ciascuna famiglia può essere raggruppata in tre livelli differenti: un primo livello normalmente definito emozione, un livello intermedio al quale sono riconducibili le emozioni che vengono comunemente nominate nella quotidianità e un terzo livello subordinato al quale fanno riferimento le specificazioni del livello precedente. Dunque, quando parliamo di dolore, o di “famiglia dell’emozione dolore”, facciamo riferimento a tutte le sfumature che potrebbero caratterizzare un’esperienza dolorosa: delusione, paura, vergogna, invidia, gelosia, rabbia, tristezza, malinconia. Parlare di dolore, di sofferenza sia fisica che emotiva in relazione alla malattia nell’infanzia, non è semplice, specie se quest’ultima è quell’infanzia “curata” che abita il mondo occidentale [15]. In queste situazioni ci si chiede spesso quanto i bambini debbano sapere e, altrettanto spesso, si finisce per decidere al posto loro di omettere, di estrometterli da qualsiasi comunicazione che riguardi la malattia, delegittimandoli in questo modo dal poter porre delle domande, tutte, dalle più insignificanti alle più profonde. Le figure educative (i genitori), stravolte e sconvolte da questa realtà imprevista e temuta, tendono a sentirsi impotenti di fronte a un male a loro sconosciuto. Affidarsi alla scienza e ai medici sembra l’unica via possibile. Ma quali potenzialità può ancora riservare l’adulto, genitore o altro, nel sostegno del bambino? Di quante innumerevoli vie può disporre proprio nel momento in cui si sente più fragile e delicato? Il bambino che si ammala spesso perde i propri spazi e le proprie abitudini, è costretto a lunghe degenze in ospedale, a spostamenti e cambiamenti repentini, a lasciare la scuola e le attività che prima caratterizzavano la sua vita. A lui, però, può rimanere una fondamentale costante: se i suoi genitori, la sua famiglia condivideranno con lui questo percorso, potranno aiutarlo a colorare nuovamente quel mondo, che improvvisamente era apparso in bianco e nero. Dal punto di vista della pedagogia, occorre andare oltre i contenuti oggettivi che caratterizzano o mediano il rapporto educativo e clinico, per valorizzare e dare voce ai “vissuti individuali o, se si preferisce, ai significati particolari, spesso addirittura fortemente diversificati, che quei contenuti finiscono per avere per ciascun individuo” [10]. Questo implica l’impossibilità da parte del sanitario di rifarsi a un approccio unico, omologato e omologante alla malattia ma, al contrario, la necessità di avere la capacità di gestirla in situazione, avendo cioè un atteggiamento rispettoso della soggettività del paziente.
Ciò che preme qui sottolineare è che l’evento dolore acquista senso e valore esistenziale, positivo o negativo, se e solo se diviene possibile viverlo, soffrire il dolore. Come ci ricorda Alice Miller: “Il bambino può vivere i sentimenti solo se c’è una persona che con quei sentimenti lo accetta, lo comprende, lo asseconda. Se manca tale condizione, allora... preferisce non viverli affatto” [16]. Ecco allora che il ruolo dell’adulto, in quanto socializzatore emotivo, diventa fondamentale per aiutare il bambino ad assumere nei confronti di situazioni emotivamente difficili un atteggiamento non di fuga o negazione, ma di accettazione recuperando, quando perso o indebolito dagli eventi, un ruolo da protagonista della propria storia. Occorre, a nostro avviso, avere cura dei gesti, delle parole e delle emozioni degli adulti che a vario titolo ruotano intorno al bambino al fine di avere cura delle emozioni del bambino stesso. Tuttavia allenatori emotivi non si nasce, ma occorre, come ricorda il termine stesso, allenarsi a riconnettersi prima con il proprio mondo emotivo, poiché solo prendendo consapevolezza delle proprie emozioni adulte, senza negare la propria paura, la rabbia, la sofferenza e il senso di straniamento, gli adulti potranno accompagnare il bambino attraverso l’esperienza del dolore.
Il ruolo dell’adulto tra saperi trasversali: pratiche di cura emotiva
Il contributo che la pedagogia può offrire alla clinica e alla quotidianità degli operatori sanitari non si traduce né riduce a ricette, schemi interpretativi o indicazioni operative standard, perché tradirebbe il suo mandato che è quello di saper declinare in situazione un sapere teorico. In questo senso la pedagogia si pone come scienza “debole”, che non ragiona per schemi ma che sa dare forma a una pratica educativa a partire dal soggetto che si ha di fronte e dalla relazione che si è instaurata con esso. È certamente possibile offrire direzioni alle quali ispirarsi, indicazioni ampie da perseguire, strumenti per la riflessione, ma la traduzione in gesto e parola spetta in ultima battuta al soggetto educante. All’adulto che si trova per volere (genitore o familiare) o necessità (sanitario) accanto a un bambino che sta vivendo una situazione dolorosa, è chiesto di avere un atteggiamento entropatico nei confronti del piccolo, il che significa prima di tutto prendere sul serio il vissuto del bambino, comprenderlo, provare a “mettersi nei suoi panni”, non nell’ottica di una immedesimazione totale che si esaurisce in un “io adulto soffro con te”, ma in quella che richiede la capacità di pensare, rappresenta-
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re, sentire e descrivere una situazione secondo il punto di vista del bambino. Una comprensione che deve cogliere il più lucidamente possibile il vissuto del bambino sofferente. Questa sensibilità entropatica si esplica in un doppio compito: da un lato all’adulto è chiesto di contenere emotivamente (holding) il bambino, di essere per quest’ultimo l’abbraccio che accoglie e contiene le gioie così come le urla e le sofferenze, facendogli sentire di potere e volere sopravvivere anche ai suoi atteggiamenti più aggressivi e distruttivi. Spetta quindi all’adulto il compito di promuovere il dialogo e accompagnare i bambini nell’imparare a fare esperienza delle emozioni, senza esserne sopraffatti. Promuovere il dialogo non significa cadere in un atteggiamento permissivo grazie al quale ai bambini tutto è concesso. Ascoltare il bambino e sostenere le sue emozioni non significa autorizzare lo sfogo a tutti gli impulsi che le emozioni suggeriscono, ma permette di far comprendere che c’è un equilibrio, un limite in ogni situazione, tra quello che vuole, sente o di cui ha bisogno e le altre persone. Dall’altro lato, all’adulto spetta il difficile compito di sostenere il bambino (scaffolding) e spronarlo a evitare qualsiasi atteggiamento di rassegnazione, di occultamento o di fuga nei confronti del suo vissuto. Per farlo, l’adulto deve dare testimonianza di un modo di essere possibile di fronte al dolore, esempio di una modalità di azione significativa perché non evitante, ma pronta ad affrontare qualsiasi esperienza dolorosa o difficile che sia. A partire da queste premesse, l’incontro tra pedagogia e medicina può rivelarsi
molto promettente. In primo luogo, perché il focus condiviso diventa la centralità della cura intesa come sistema complesso nel quale le diverse variabili risultano interconnesse e inscindibili: la cura del corpo e delle emozioni, i gesti attraverso cui la cura si esplicita, i luoghi che accolgono azioni e relazioni di cura. Il bambino che si ammala non smette, appena varca la soglia dell’ospedale o dell’ambulatorio, di essere un bambino. In secondo luogo, perché spinge gli adulti coinvolti (medici, infermieri, pedagogisti, genitori) a riflettere su quanto l’intelligenza emotiva dell’adulto si riveli essenziale in tutte le situazioni cui abbiamo accennato. A oggi, tuttavia, non sono previsti percorsi strutturati di formazione che permettano alle “professionalità di cura” di lavorare sul sapere dei propri sentimenti [17]. Ed è per questo che l’incontro tra pediatria e pedagogia può e deve evolvere in sempre nuove occasioni di contaminazione e scambio tra professionalità diverse, in un’ottica di ricerca e formazione condivisa e reciproca. * michela.schenetti@unibo.it
1. Davico S, Fiammengo P, Garrone G, et al. Dialogo con la sociologia: quando il bambino si ammala. Quaderni acp 2015;22:288-92. 2. Favretto AR, Zaltron F. Mamma, non mi sento tanto bene. Roma: Donzelli Editore, 2013. 3. Nazario RJ. Medical humanities as tools for the teaching of patient-centered care. J Hosp Med 2009;4:512-4. 4. Greaves D, Evans M. Medical Humanities. J Med Ethics: Medical Humanities 2000;26:1-2.
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5. Bert G. Il medico e le storie. Quaderni acp 2007;14:220-1. 6. Davico S, Fiammengo P, Garrone G, et al. Dialogo con la sociologia: il pediatra di fronte ai nuovi bambini, ai nuovi genitori, ai nuovi problemi educativi. Quaderni acp 2015;22:185-8. 7. Schenetti M, Guerra E. Il dolore dell’infanzia. Educare alle emozioni difficili. Bergamo: Edizioni junior – Spaggiari srl, 2015. 8. Benini F, Gangemi M. Il dolore nel bambino: dove siamo? Quaderni acp 2014;21:49. 9. Gangemi M. Cure palliative pediatriche: dai bisogni formativi alle risposte. Quaderni acp 2016;23:196. 10. Bertolini P. Ad armi pari. La pedagogia a confronto con le altre scienze. Torino: UTET, 2005. 11. Sollami A, Marino L, Fontechiari S, et al. Strategies for pain management: a review. Acta Biomed 2015;86 Suppl 2:150-7. 12. OMCeO della Provincia di Forlì-Cesena. Le esperienze dolorose nell’infanzia. La cura educativa delle emozioni “difficili”. Forlì, 16 giugno 2016. 13. Benini F. Il dolore nel bambino. Il gruppo terapeutico con i genitori, esperienza di sostegno alla genitorialità. Quaderni acp 2010;17:70-3. 14. Fehr B, Russell JA. Concept of emotion viewed from a prototype perspective. J Exp Psychol: General 1984;113:464-86. 15. Kanizsa S. La paura del lupo cattivo. Quando un bambino è in ospedale. Roma: Meltemi, 1998. 16. Miller A. Il dramma del bambino dotato. Torino: Bollati Boringhieri, 1982. 17. Iori V. Il sapere dei sentimenti. Fenomenologia e senso dell’esperienza, Milano: Franco Angeli, 2009.
Ringraziamenti
Siamo grati a Nadia Bertozzi per avere favorito questo incontro tra pediatria e pedagogia e a Michele Gangemi per avere revisionato il manoscritto.
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Una proposta di formazione per promuovere il dialogo in pediatria di base. Lo Scaffolding psicologico alla relazione sanitaria Maria Francesca Freda*, Francesca Dicé** *Professore Associato di Metodologia dell’Intervento in Psicologia Clinica, Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Napoli Federico II **Psicologa e Specialista in Psicologia Clinica, Centro di Ateno SInAPSi, Università degli Studi di Napoli Federico II
Le Autrici presentano alcuni criteri che ritengono utili alla stesura di una proposta metodologica per la formazione dei pediatri nell’ambito delle cure primarie, allo scopo di favorire lo sviluppo dello scambio dialogico con il loro duplice utente, il genitore e il bambino. La proposta di uno “Scaffolding Psicologico alla Relazione Sanitaria” prevede la strutturazione di alcuni Setting di Ascolto Congiunto (SAC) con la presenza, in veste consulenziale, dello psicologo all’interno della stanza di visita. Tali setting, grazie alle loro specifiche funzioni, possono essere utili a pediatri e utenti nel conseguimento dei “compiti psicologici” della relazione sanitaria (titolarità, cum-sensum, concordance), che spesso si affiancano ai necessari “compiti operativi” più strettamente legati alle prassi diagnostiche e terapeutiche. The Authors present a methodological proposal for the training of paediatricians in primary care, aimed to develop the dialogue with their dual user, the parent and the child. The proposal of a Psychological Scaffolding to Doctor Patient Relationship is based on the structuring of Joint Listening Settings (JLS) with the presence, as a consultant, of a psychologist. These settings, with their specific functions, can be useful to paediatricians and users in achieving some “psychological tasks” (ownership, cum-sensum, concordance), side by side with the “operational tasks” closely linked to diagnostic and therapeutic practices.
Introduzione
Promuovere il dialogo in medicina è sempre un compito complesso, perché i contenuti trattati nelle stanze di visita possono spesso generare ansietà riguardanti le condizioni cliniche e le difficoltà nei processi decisionali necessari al prosieguo delle cure [1,2]. In pediatria lo scambio dialogico è, se possibile, ulteriormente complesso perché il medico è in presenza di (almeno) due utenti, il genitore e il bambino [3]. Tale contesto dunque può essere rappresentato attraverso una configurazione triangolare, ai cui vertici si posizionano i partecipanti alla visita e in cui le relazioni presenti lungo ognuno dei lati possono influenzare quelle presenti sugli altri (Figura 1). In questo lavoro proponiamo delle considerazioni riguardanti la relazione sanitaria in pediatria di base, sorte a seguito di diversi piani di ricerca-intervento declinati all’interno di alcuni ambulatori della città di Napoli e volti a promuovere il dialogo fra i partecipanti alla visita medica [2-4]. L’operatore sanitario è chiamato spesso a sostenere le competenze di cura dell’intero nucleo familiare, che può necessitare di essere guidato nella gestione quotidiana della crescita del bambino [5-7]. Come è natura-
le che sia, in questo contesto si instaura di frequente una relazione dialogica che, pur avendo come scopo la cura del bambino, è gestita prevalentemente dai partecipanti adulti. Il pediatra viene infatti scelto dalla famiglia in ragione delle sue competenze, ma anche della sua capacità di metterle al servizio delle preoccupazioni portate dalle madri rispetto a condizioni cliniche molto diffuse nella prima infanzia. Assai raro sembra essere invece il coinvolgimento dialogico del bambino [4-8] che spesso si ritrova ad assumere un ruolo periferico e meno interattivo durante la visita; ricordiamo un ragazzino di 10 anni, con malattia cronica, che una volta ha detto: “Conosco perfettamente la mia malattia. I medici ne hanno sempre parlato davanti a me”. Inoltre, la trattazione ricorsiva in stanza di visita delle preoccupazioni delle madri può essere a volte considerata un rallentamento della prassi e dell’efficienza sanitaria; pertanto l’esperto operatore sa bene come gestirle assumendosi presto la richiesta di delega decisionale relativa alla soluzione del problema presentato, talvolta ricorrendo all’azione prescrittiva del farmaco [4]. Tale dinamica riesce a garantire l’efficiente svolgimento delle visite mediche, soprat-
tutto nella concitata quotidianità degli ambulatori, in cui viene richiesto un intervento veloce e risolutivo, volto a fornire una pronta e rapida soluzione a questioni concrete e che ben si incastri nelle esigenze della quotidianità di ciascun utente (es. “È da ieri che la temperatura è di 36 °C, domani posso mandarlo a scuola?” “L’altro giorno ha sudato, posso togliergli la maglietta di lana?” “Posso scalare la medicina?”). Tuttavia, questa dinamica può anche comportare il mantenimento di rigidi assetti che non consentono l’approfondimento delle preoccupazioni o la chiarificazione delle questioni a esse legate, con la conseguente tendenza delle madri a porre domande spesso simili o a ricorrere sempre nelle stesse difficoltà [4]. Inoltre tali assetti rischiano inesorabilmente di essere meno efficaci in caso di decisioni complesse (es. un’operazione chirurgica, la consultazione di uno specialista) in cui è necessaria l’opinione del paziente ma che, in alcuni casi, non riesce a fare altro che delegarla al medico (“Dottore, mi metto nelle sue mani. Cosa farebbe al mio posto?”). Un’altra situazione complessa può essere relativa a quei casi in cui il posizionamento decisionale del paziente è talmente forte da impedire totalmente l’affidamento al medico, con conseguenti rigide chiusure dialogiche, evidenti ripercussioni sull’aderenza al trattamento e forti rischi di esodo sanitario (es. “Quella mamma è testarda e vuol fare di testa sua!” “Alcune mamme vengono soltanto quando vogliono una prescrizione! Se non la ottengono, si rivolgono ad altri pediatri”, ma anche: “Quel medico è antipatico e non ti sta nemmeno a sentire!”).
Il dialogo fra medicina e psicologia: un incontro fra compiti operativi ed emotivi La specificità di questi aspetti ci ha portato a considerare la pediatria di base come un osservatorio privilegiato sulla possibili-
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tà di costruire nuove azioni congiunte e di dialogo fra le discipline della medicina e della psicologia [3]. Le dinamiche finora descritte sono indice di una relazione sanitaria orientata da modelli teorici assolutamente efficaci per la gestione dei fondamentali “compiti operativi”, necessari al conseguimento di obiettivi specifici quali la diagnosi, la prognosi, la cura [9,10], che mirano all’identificazione esatta della condizione clinica del bambino e di terapie a essa coerenti. Tuttavia, a tale prassi è talvolta necessario affiancare il conseguimento di alcuni “compiti psicologici”, che richiedono che ognuno dei presenti in stanza di visita acceda all’assunzione di un punto di vista diverso dal proprio [3]: y Il primo compito, il “riconoscimento della titolarità”, prevede che ognuno dei partecipanti veda riconosciuto il suo ruolo di interlocutore nel processo medico, e quindi di sentirsi portatore di istanze, richieste e vissuti riguardanti la condizione di salute trattata. Può essere utile dunque operare per favorire il coinvolgimento dialogico di tutti i presenti; escludere qualcuno (il bambino o un genitore presente), infatti, rischierà di fargli sentire come disagevole la sua partecipazione al processo di cura e il confronto con il resto della famiglia. y Il secondo compito, la “costruzione di un cum-sensum (ovvero di significati condivisi)”, riguarda la progressiva capacità della relazione sanitaria di trasformare le informazioni in risorse di senso, cioè comprensibili e fruibili da tutti i protagonisti. Tale compito riguarda l’intero processo sanitario e implica sia aspetti cognitivi, ovvero di scambio delle informazioni, sia aspetti emotivi, ovvero di elaborazione delle ansie connesse
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alla salute. Creare cum-sensum non significa ripetere più volte, e in più modi, le informazioni per essere sicuri che esse siano percepite da tutti i protagonisti, ma accompagnarne e monitorarne l’uso in modo che esse potenzino un condiviso senso di controllo della situazione. y Il terzo compito ha a che fare con i processi di condivisione di decisionalità, o concordance [8], ovvero la possibilità di affrontare insieme momenti di incertezza. È un compito complesso perché le famiglie non desiderano spesso essere coinvolte nelle decisioni terapeutiche e tendono a ricorrere alla delega nei confronti delle competenze mediche e a continue richieste di rassicurazioni anche per questioni legate alle cure più ordinarie. Promuovere decisionalità condivisa significa operare affinché nella relazione sanitaria avvenga un graduale dosaggio fra le funzioni vicarianti e di sostegno da parte del medico e quelle volte a sviluppare l’autonomia del paziente. La complessità del conseguimento di questi compiti è indicativa di come la relazione pediatrica necessiti di essere aiutata a non risolvere le preoccupazioni dell’utenza in azioni prescrittive, ma ad accoglierle e integrarle nelle esigenze di efficienza e velocità della prassi medica. Ciò è possibile solo attraverso la promozione di un processo di conoscenza che coinvolga tutti i partecipanti e orienti l’assunzione di scelte consapevoli e condivise [8].
Una proposta metodologica
Per far questo, proponiamo un intervento clinico di Scaffolding psicologico alla relazione sanitaria [3] quale occasione di for-
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mazione per i pediatri, al fine di sostenere la relazione con i loro utenti nello svolgimento delle prassi e nel perseguimento di obiettivi condivisi (Figura 2). Lo Scaffolding [11] è un intervento consulenziale di un esperto che aiuta un’altra persona a effettuare un compito, esattamente come le impalcature sostengono gli operai durante i lavori edilizi. Nel nostro caso, pensiamo a un intervento della durata di un mese, volto a promuovere il dialogo intrasanitario, partendo dai significati soggettivi che ogni partecipante attribuisce alla condizione di salute e favorendo, attraverso il conseguimento dei compiti psicologici, la loro trasformazione in informazioni utili allo svolgimento delle prassi di visita [3]. Nello specifico contesto della pediatria, proponiamo l’implementazione di Setting di Ascolto Congiunto (SAC) [3] che prevedano la presenza dello psicologo nella stanza ambulatoriale, durante lo svolgimento delle attività sanitarie. Il suo ruolo, meno impegnato nelle prassi mediche, sarebbe quello di partecipare, attraverso piccoli commenti, al dialogo relativo alla visita, promuovendo il conseguimento dei “compiti psicologici”. Il suo apporto potrebbe favorire lo sviluppo di alcune funzioni dialogiche [3], di cui annoveriamo quelle che riteniamo più utili a declinarsi nel contesto della pediatria di base. y Promuovere il riconoscimento della circolarità, ovvero di ogni partecipante come interlocutore dotato di conoscenze ed esperienze da mettere al servizio del processo medico, in modo da restituire la centralità interlocutoria di alcuni partecipanti (spesso i bambini) che necessitano di maggiori solleciti al dialogo. Pediatra
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Figura 1. La configurazione triangolare della relazione pediatrica.
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Figura 2. Una raffigurazione dell’intervento di Scaffolding.
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y Promuovere le funzioni dialogiche,
ovvero ricorrere a piccoli interventi, o commenti, che coinvolgano chi resta in disparte e consentano a tutti di farsi partecipi dell’esperienza di cura e di dialogo. y Focalizzare gli stati emozionali, ovvero favorirne l’integrazione nel dialogo intrasanitario attraverso commenti e brevi considerazioni. y Trasformare le informazioni discusse in stanza in risorse di senso, ovvero dal significato fruibile per tutti i presenti. Può essere di aiuto una rimodulazione del linguaggio per metterlo al servizio del campo dialogico, aiutando gli utenti ad apprendere terminologie e prassi sanitarie e gli operatori a utilizzare termini più adeguati e condivisibili. In questo caso proponiamo tre possibilità operative: 1 Adeguare il dialogo al bambino, ovvero promuovere l’utilizzo di linguaggi caratterizzati da termini più semplici, piccoli commenti, con la possibilità di intercettare eventuali espressioni non verbali, onomatopee, sguardi di smarrimento o incomprensione dei contenuti. 2 Verificare la comprensione, ovvero promuovere frequenti verifiche dell’effettiva comprensione dei contenuti scambiati nello spazio dialogico; tale funzione può favorire il riconoscimento delle diverse emozioni ed esigenze all’interno dello spazio dialogico. 3 Promuovere autonomia, ovvero sostenere i genitori a riappropriarsi delle proprie competenze decisionali, consentendo agli operatori di confrontare le proposte della medicina con le necessità del bambino e della sua famiglia
Conclusioni
I SAC possono rivelarsi un’utile occasione di riflessione congiunta fra medici e psicologi, attraverso la possibilità di promuovere dialoghi e azioni volti a un’organizzazione condivisa del piano terapeutico. Possibili esiti positivi del processo formativo possono essere rinvenuti nelle effettive possibilità di operare passaggi di trasformazione e di svolgimento dei compiti psicologici. L’avvenuto “riconoscimento della
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titolarità” può essere collegato a una maggiore attenzione all’alterità dei partecipanti, da considerare come un fattore di integrazione delle possibilità decisionali: per esempio, una madre sente di poter esprimere la propria opinione circa la natura della condizione del bambino, oppure che un bambino possa prendere la parola durante il dialogo riguardante il suo stato di salute. Diventa titolare della relazione sanitaria ogni componente che sente di poter farsi serenamente portavoce di esigenze, punti di vista o proposte che possono orientare il proseguimento delle cure mediche [3]. La “costruzione del cum-sensum” può essere invece rinvenuta nelle maggiori possibilità di accedere a contenuti comprensibili a tutti i partecipanti, laddove le informazioni tecniche della visita si integrano con le dinamiche emotive, culturali e sociali portate da ciascuno [3]. Un esempio tipico del raggiungimento del cum-sensum è l’integrazione, nel linguaggio comune utilizzato dalla famiglia, di terminologie mediche comprese ed elaborate; questo è uno degli indici della competenza raggiunta attraverso l’esperienza, legata a un continuo scambio tra il sistema sanitario e i pazienti, con una costante continuità dialogica fra la comunicazione intrasanitaria e quella intrafamiliare. Infine, lo “strutturarsi della concordance” può avere a che fare con la possibilità di prolungare il tempo della scelta, messa quindi al servizio di esigenze legate agli aspetti biologici, soggettivi, sociali, culturali ed economici portati da ciascuno [3]. È un processo che si innesca quando tutti i presenti possono contribuire autonomamente e responsabilmente alla gestione delle cure. Un esempio di decisionalità condivisa potrebbe essere l’assunzione di scelte terapeutiche che tengano conto delle richieste di tutti i partecipanti, dalla modalità di assunzione di un farmaco al concordare i tempi di un’operazione chirurgica. Questi sono alcuni degli aspetti che possono caratterizzare un intervento di Scaffolding psicologico in pediatria di base, che non intende mirare alla creazione utopistica di un ambiente armonioso e idilliaco tra pediatri e pazienti, ma al riconoscimento di una maggiore competenza dialogica e relazionale nei partecipanti [3,12]. Comunicazioni e decisioni possono dun-
que attraversare i diversi livelli relazionali e la pluralità di codici previsti dalle discipline implicate (medicina, psicologia e quotidianità), agevolando il dialogo fra di esse e favorendo le possibilità di trasformare la stanza di visita in un luogo di evoluzione, di costruzione di significati comuni, di condivisione. * francesca.dice@unina.it
1. De Luca Picione R, Dicé F, Freda MF. La comprensione della diagnosi di DSD da parte delle madri. Uno studio sui processi di sensemaking attraverso una prospettiva semiotico– psicologica. Rivista Italiana di Psicologia della Salute 2015;2:47-75. 2. Freda MF, Dicé F, Auricchio M, et al. Suspended sorrow: the crisis in the understanding of the diagnosis for the mothers of children with a Disorder of Sex Development. Intern J Sexual Health 2014;27:186-98. 3. Freda MF, Dicé F, De Luca Picione R. Psychological Scaffolding at Doctor Patient Relationship in Pediatrics: a methodological proposal. Proceedings of XVII National Congress of Italian Psychological Association, Clinical and Dynamic Section. Med J Clin Psychol 2015;3:52-3. 4. Dicé F, Dolce P, Freda MF. Exploring emotions and the shared decision-making process in pediatric primary care. Mediterranean journal of clinical psychology 2016;4(online pre-printed version). 5. Ciotti F. Relazione genitoriale e relazione terapeutica nell’ambulatorio del pediatra. Quaderni acp 2008;15:78-82. 6. Gangemi M, Elli P, Zanetto F. Comunicare il rischio: aspetti problematici per il pediatra di famiglia. Quaderni acp 2005;12:262-4. 7. Lambruschi F, Ciotti F, Gangemi M, et al. La valutazione di un corso di formazione al counselling pediatrico. Quaderni acp 2006;13:260-3. 8. Elwyn G, Frosch DL, Kobrin S. Implementing shared decision-making: consider all the consequences. Implement Sci 2016;11:114. 9. De Luca Picione R, Freda MF. Possible use in psychology of threshold concept in order to study sensemaking processes. Culture & Psychology 2016(online pre-printed version). 10. Martino ML, Freda MF. Post-traumatic growth in cancer survivors: narrative markers and functions of the experience’s transformation. The Qualitative Report 2016;21:765-80. 11. Wood D, Bruner JS, Ross G. The role of tutoring in problem solving. J Child Psychol Psychiatry 1976;17:89-100. 12. Esposito G, Ribeiro AP, Alves D, et al. Meaning co-construction in group counseling: the development of Innovative Moments. Journal of Constructivist Psychology, in press.
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Assonanze pedagogiche nell’apprendimento: pedagogia scientifica di Maria Montessori e pedagogia della gestione mentale di Antoine de La Garanderie Anna Brigandì Pedagogista specializzata in differenziazione didattica nel metodo Montessori Presidente Nazionale APP (Associazione Professioni Pedagogiche), Messina
Introduzione
Non è dalla volontà che scaturisce la motivazione e l’interesse ad apprendere dell’altro, piuttosto il contrario: concetto chiave che potrebbe configurarsi come denominatore comune tra la “tradizionale” pedagogia scientifica di Maria Montessori e la “contemporanea” pratica pedagogica della gestione mentale ideata dal pedagogista francese Antoine de La Garanderie. Analogamente all’approccio promosso da Montessori, improntato sulla prioritaria necessità di strutturare un ambiente all’interno del quale il bambino potesse sperimentare il “proprio” modo di apprendere e sollecitare la capacità di concentrazione attraverso l’uso del materiale di sviluppo, anche de La Garanderie propose delle strategie di presentazione dei contenuti capaci di rispettare maggiormente i tempi e le personali “modalità evocative” dell’allievo, vale a dire il modus operandi con cui si richiama alla mente ciò che si è percepito. La pratica pedagogica della gestione mentale consente di ri-vedere e ri-ascoltare mentalmente le operazioni cognitive necessarie alla rappresentazione della realtà, oltre che individuare se si favorisce l’accesso a un canale auditivo o visivo. Così come anche Montessori considera i sensi della vista e dell’udito alla stregua di “porte dell’intelligenza” che, in sinergia con il movimento, assumono importanza considerevole per la costruzione intellettuale e morale della persona. A questo punto è legittimo porsi degli interrogativi: “Come far convergere diversi approcci teorici e metodologici ritenuti distanti in ordine cronologico e geografico?”
Intrecci educativi fra tradizione e modernità: da Montessori a de La Garanderie. Negli ultimi anni il numero dei bambini e degli adolescenti interessati da difficol-
tà di apprendimento è aumentato sensibilmente. Pertanto, come anche sostenuto in passato da Maria Montessori e più recentemente da de La Garanderie, si pone la necessità di una revisione dell’apparato pedagogico, didattico e metodologico dell’attuale sistema scolastico. Assumendo tale revisione come nostro prioritario punto di partenza scaturiscono svariate “assonanze” pedagogiche e possibili intersezioni, di cui si cercherà di fornirne una panoramica, tra i due pedagogisti. Entrambi ritengono che le ragioni alla base dello scarso interesse per lo studio, nonché dell’insuccesso scolastico, non siano da ricondurre al singolo bambino o adolescente, ma a un ingranaggio sistemico più ampio che abbraccia l’impostazione metodologica, la responsabilizzazione educativa degli adulti e la scarsa preparazione di un contesto di apprendimento adeguatamente pensato per aiutare lo studente a “fare da solo” e assolvere concretamente il famigerato principio di “una scuola a misura di bisogni educativi” dei suoi fruitori. Questi aspetti andrebbero comunque ri-considerati e attualizzati anche alla luce delle odierne scoperte scaturite da molteplici contributi interdisciplinari (psicologia, pedagogia, neuroscienze, tecniche di comunicazione e informatica). Montessori, secondo l’età, propone attività sensoriali, utilizzo di materiale di sviluppo, attività di vita pratica, contatto con la natura, gruppi autogestiti per i più grandi. Invece de La Garanderie, per aiutare a prolungare la qualità e i tempi dell’attenzione, si avvale di metodologie e di strumenti del suo tempo ritenuti consoni ai bisogni educativi e cognitivi dei bambini in difficoltà: l’aiuto reciproco nel piccolo gruppo, i supporti audiovisivi, l’elaboratore, la lavagna luminosa, gli schemi, le mappe concettuali, il teatro e altri canali espressivi.
Antoine de La Garanderie, partendo dalla considerazione della sua personale esperienza di studente con difficoltà di apprendimento e scarso rendimento scolastico, divenuto docente in età adulta, elabora la “Pratica pedagogica della gestione mentale” al fine di promuovere l’uso consapevole e strategico dei “gesti mentali” (da qui la denominazione di gestione mentale), atti a favorire il processo di elaborazione e rielaborazione dell’esperienza cognitiva. Di primo acchito potrebbero configurarsi come concetti consolidati o conosciuti, anche se in realtà non semplici da concretizzare e differenti da ciò cui siamo “abituati”. L’originalità di questo percorso, e delle sue vicinanze al pensiero montessoriano, risiede nell’obiettivo di aiutare l’alunno a prendere coscienza e usare in modo efficace, attraverso una serie di strategie operative, i propri gesti mentali, vale a dire le attività della corteccia cerebrale: attenzione, memorizzazione, comprensione, riflessione e immaginazione. La gestione mentale dunque si qualifica come pratica metacognitiva orientata a migliorare l’attenzione e conseguentemente il rendimento scolastico dei bambini attraverso l’ascolto attivo e il dialogo pedagogico, al fine di giungere alla scoperta del loro profilo pedagogico e alla descrizione delle abitudini evocative (modalità cognitive) per elaborare dati e conoscenze. Queste abitudini adottate per richiamare alla mente, tramite immagini mentali principalmente di tipo visivo o uditivo, ciò che si è osservato, ascoltato o percepito con un altro senso: sono le stesse procedure impiegate nel processo dell’attenzione e più in generale in quello dell’apprendimento scolastico ed extrascolastico. Pertanto l’itinerario da seguire nella pratica pedagogica della gestione mentale è il seguente: dai gesti mentali alle abitudini mentali, all’autonomia mentale.
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L’adulto, prima di individuare le difficoltà di apprendimento, attraverso e durante il dialogo pedagogico si focalizza sugli interessi extrascolastici dell’alunno e, ponendo delle domande attive (in che modo…? Come fai per…? Quando…?), chiede se, per esempio, nel ricordare i libri letti o i programmi televisivi visti, ricorre maggiormente a immagini oppure a spiegazioni. Potremmo dunque asserire che il nesso in cui far convergere gli approcci di Montessori e de La Garanderie sia riconducibile alla considerazione che entrambi i pedagogisti hanno rivolto a funzioni quali: l’attenzione, l’immaginazione e la volontà di apprendere scaturite dall’incremento della motivazione e non il contrario. Inoltre gli attuali contributi neuro-scientifici, così come altri saperi disciplinari, forniscono altre conferme che attenzione, percezione e azione sono aspetti essenziali implicati nel processo educativo poiché si costituiscono in qualità di elementi presenti durante tutto l’arco della vita, dalla nascita sino alla morte. Montessori infatti osserva il bambino che fissa la propria attenzione su un oggetto sino a ripetere più volte lo stesso esercizio, per esempio infilare e sfilare i cilindretti da appositi sostegni, per soddisfare la “fame di conoscenza” della realtà circostante, così come de La Garanderie indaga il sorprendente “appetito” cognitivo e affettivo alla base della motivazione ad apprendere. Quest’ultima intesa come coscienza e consapevolezza di esercitare delle scelte e riconoscere i fini della propria azione attraverso il ricorso alle “evocazioni mentali” all’interno di un “progetto di senso” realizzabile secondo la propria esperienza. Sostanzialmente si tratta di una serie di esercizi da praticare (mentali e scritti analogamente a quelli adottati per lo studio della grammatica montessoriana) per guidare all’autoformazione, cioè “insegnare ad apprendere”. Prima ancora di quest’affermazione Montessori dichiara che, per favorire l’autoeducazione, l’ambiente deve fornirne i mezzi che non possono essere scelti casualmente o lasciati al caos, ma scaturire da uno studio scientifico, poiché lo sviluppo psichico si organizza con l’aiuto di stimoli esterni sperimentalmente determinati al fine di canalizzare “l’innata” attenzione del bambino verso obiettivi proficui e mirati. In tale contesto acquisisce rilevanza il concetto di predisposizione di una certa “disciplina nella libertà” in cui il materiale di sviluppo montessoriano rappresenta un punto di partenza. Entra anche in gioco il ruolo della coscienza e della memoria: è solo dopo il terzo anno di vita che nel bambino subentra la dimensione della consapevolezza e tutte le acquisizioni dei
primi tre anni possono essere recuperate in modo consapevole. Montessori dichiara che si verifica il passaggio dal creatore inconscio (0-3 anni) al lavoratore cosciente (dopo i 3 anni): prima il bambino costruisce le proprie competenze attraverso i sensi e in modo disorganizzato, dopo cambia il proprio modo di rapportarsi all’ambiente e recupera le acquisizioni maturate nel primo triennio mediante il movimento e il linguaggio e li perfeziona attraverso un’azione consapevole. Solo quando sopravviene la coscienza, abbiamo unità nella personalità e quindi memoria. Così attraverso l’alfabeto e il materiale di psicoaritmetica, il bambino esercita l’intelligenza e mette in rapporto le immagini uditive con quelle visive e motrici della parola parlata, scritta e nello studio delle quantità, delle proporzioni e del numero. La mente quindi “allena” e affina le proprie potenzialità; pertanto insegniamo ai bambini a evocare e noi mostreremo loro le capacità da sviluppare. Si tratta di conoscere cosa sta succedendo nella propria mente, per imparare ad auto-monitorare la concentrazione e l’attenzione nello studio analogamente ad altre attività desiderate come lo sport. Ciò fa dire ad Antoine de La Garanderie che “L’intelligenza è alla portata di tutti”1, asserendo che l’opinione secondo la quale l’attitudine sia un dono naturale allontana la mente del pedagogista dal cercarle altra origine; in questo senso sono rilevabili le assonanze pedagogiche con il pensiero montessoriano, entrambi a sostegno di una “pedagogia incarnata”. “La parola ‘ intuizione’ era la prova della predisposizione. Poiché la comprensione è immediata e avviene in un lampo, essa è intuitiva perché è il prodotto di una predisposizione naturale. Se è una predisposizione, è perché è innata. Eravamo così legittimati da tutto questo materiale di discussione a esimerci da altro approccio di successo scolastico. La via psico-pedagogica era culturalmente chiusa” 2 . Consapevolezza che arriva decenni dopo l’affermazione di Montessori: “La società ha rinunciato a curare il bambino”. È auspicabile che tale consapevolezza incontri maggiore applicazione, per ri-cominciare a “prenderci cura” dei più piccoli, mettendo noi, adulti, nelle condizioni di assolvere il ruolo primario dell’educazione: accompagnare le nuove generazioni nel loro percorso di crescita e di autodeterminazione.
Un filo conduttore comune: “esame di coscienza pedagogica” dell’insegnante e del pedagogista Montessori e de La Garanderie, pur se in momenti storici diversi, inducono l’adulto ad abbandonare i pregiudizi e a non rinunciare alla scoperta delle risorse menta-
li, quali memoria e intelligenza. Per tale ragione de La Garanderie adotta lo strumento del dialogo pedagogico, vale a dire che l’insegnante interroga l’alunno e indaga sul suo personale metodo di lavoro: come organizza le lezioni, comprende una spiegazione, memorizza i contenuti, riflette su un problema di matematica, applica formule o esegue un compito di altre discipline scolastiche. Dunque, quando facciamo riferimento all’espressione di “attitudine scolastica”, bisognerebbe ricondurla alla qualità di adattamento dell’allievo a situazioni predisposte a misura del suo profilo pedagogico, onde evitare di considerarla come qualcosa di determinato alla nascita. Da ciò si evince che entrambi i pedagogisti pongono la necessità di un esame di coscienza pedagogica da parte dell’adulto che volge il proprio sguardo ai più giovani. Sovente accade che l’adulto invece assuma come sua base di partenza un assunto di esclusiva matrice comportamentista, identificando tout court le difficoltà di apprendimento come causa e non conseguenza di una precisa procedura mentale adottata dall’allievo. Invece gli insegnanti e i pedagogisti, per scoprire il profilo pedagogico degli alunni, potrebbero avvalersi della pedagogia dell’abitudine evocativa e interrogarsi sulle cause dei loro punti di forza e dei loro punti di debolezza, non semplicemente per conoscerli, ma per allenarli ai fini dell’adattamento scolastico e dell’apprendimento delle diverse discipline. Lo stesso principio sostenuto da Montessori nel momento in cui dichiara che l’educatore deve partire dalle risorse esistenti del bambino e aiutarlo a svilupparsi “a modo suo” improntando l’azione educativa sull’aspetto motivazionale e il talento individuale. Pertanto si focalizza molto sull’attenzione, sulla volontà e sull’immaginazione infantile, come testimoniato in uno dei suoi testi che oggi si configura “pietra miliare” della pedagogia della fascia d’età 6-10 anni: L’autoeducazione. Il suo contributo scientifico-pedagogico in merito al processo attentivo denota un certo spirito di osservazione concepito come primo strumento del cosiddetto “microscopio spirituale” che dovrebbe essere parte dell’operato dell’adulto nella scoperta del mondo del bambino. Di seguito un suo contributo sull’attenzione: “Il fenomeno che si attende dal piccolo bambino, quando egli è posto nell’ambiente della sua crescenza interiore, è questo: che a un tratto il fanciullo fissi la sua attenzione sopra un oggetto, lo usi secondo lo scopo per cui è stato costruito, e continui indefinitivamente a ripetere lo stesso esercizio (…) Ciò che muove il bambino a tale manifestazione di attività è evidente-
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mente un impulso interiore primitivo, quasi un senso di fame interna; ed è l’impulsiva soddisfazione di questa fame, che muove poi veramente la coscienza del bambino su quel determinato oggetto, e lo conduce a poco a poco a un primordiale ma complesso e ripetuto esercizio dell’intelligenza nel comparare, giudicare, decidere un atto, correggere un errore (…) È probabilmente una sensazione interna di questo sviluppo, che rende piacevole l’esercizio, e costante e prolungato il lavoro. Come per dissetare, occorre non vedere solo l’acqua o assaggiarla, ma berne a sazietà (…) quella quantità di cui l’organismo ha bisogno, così per saziare questa specie di fame o di sete psichica, non basta “vedere fuggevolmente le cose” o tanto meno “sentirle descrivere”; ma bisogna possederle o usarne tanto quanto è necessario ai bisogni della vita interiore” 3 . Montessori prosegue asserendo che tutti sono stati erroneamente d’accordo nel sostenere che nel bambino, sotto i cinque anni, l’instabilità e la difficoltà di trattenere l’attenzione sia una caratteristica consueta: tale convinzione si è costituita come ostacolo dell’educazione. In realtà l’attenzione, poiché impulso interiore, si rivolge verso le cose che sono “necessarie” allo sviluppo e non può essere trattenuta artificialmente da ciò che si aspetta l’adulto. Lo scopo degli incastri solidi e degli incastri piani, solo per citare alcuni esempi, non è semplicemente quello di dare il concetto delle forme, dei colori e delle dimensioni attraverso la conoscenza sensoriale, ma fare in modo che il bambino eserciti le sue attività e fissi l’attenzione su di esse. L’oggetto esterno, afferma Montessori, è “una palestra su cui lo spirito fa i suoi esercizi” attraverso il movimento che così si configura come una sorta di “metabolismo psichico” per lo sviluppo, analogamente a “quell’appetito cognitivo e affettivo” che secondo de La Garanderie risiede alla base della motivazione ad apprendere, determinando il piacere di fare, attraverso la libertà di un progetto coscientemente costituito.
Insegnare a imparare: un approccio pedagogico nell’apprendimento della lettura e della scrittura I bambini che vogliono imparare a leggere e scrivere amano pensare per oggetti mentali visivi, uditivi o senso-motori, e cercheranno di stabilire un rapporto di senso tra grafemi, fonemi e movimento. Vygotskij ha scritto che l’unicità del metodo Montessori consiste nel considerare il processo della scrittura come un momento naturale del processo di sviluppo della mano; la difficoltà dello scrivere non è correlata al riconoscimento delle lettere, ma all’in-
sufficiente sviluppo della fine motricità. Quest’ultima, come rilevato dalle neuroscienze e da Montessori nell’attenzione riposta al canale senso motorio e al tatto, dipende dal movimento e dalle sue ricadute sullo sviluppo delle funzioni mentali superiori del pensiero analogico. L’azione motoria, collegata sul piano neuronale con i centri dell’udito e della vista, si costituisce come il supporto più efficace e potente per raggiungere il cervello, allenare i processi cognitivi e mentali che sono alla base dell’apprendimento. A tal proposito è calzante il riferimento a de La Garanderie il quale ritiene che, nell’insegnare ad apprendere, il nodo cruciale non sia “cosa apprendere” (contenuti disciplinari) ma “come apprendere” (modalità mentali che regolano l’apprendimento). Anche Montessori sollecita l’adulto che si accinge a osservare il bambino a non soffermarsi semplicisticamente sul risultato finale, ma a valorizzare il processo di apprendimento. Sulla scorta di queste preziose informazioni è possibile asserire che, attualmente, alcune difficoltà sono originate da abitudini mentali sbagliate riconducibili all’incapacità dell’alunno di servirsi correttamente del canale uditivo o visivo. L’alunno auditivo favorisce il dialogo interiore riuscendo meglio nelle materie che richiedono buone capacità espressive o logico-linguistiche: lingua italiana, lingua straniera, filosofia; l’alunno visivo, invece, trasforma le impressioni ricevute in immagini mentali preferendo l’uso di cartine, mappe, schemi, foto, grafici e dunque eccelle nei settori disciplinari che implicano capacità visuo-spaziali: matematica, geometria, geografia e disegno. Ecco perché prima di accompagnare e educare l’alunno nella gestione di quei procedimenti mentali volti a facilitare il suo apprendimento è opportuno indagare, attraverso il dialogo pedagogico, le sue “abitudini mentali” adottate per elaborare dati e conoscenze. Il contesto si pone così nell’ottica dell’integrazione, dell’inclusione e dell’individualizzazione dei bisogni educativi dell’allievo, partendo dalla seguente asserzione: “lo adeguo a te affinché tu possa integrarti a esso”. Il pedagogista francese de La Garanderie, infatti, nel considerare il processo di apprendimento, non reputa sinonimi i termini “mentale” e “cognitivo”. Per chiarire la differenza si avvale della calzante similitudine dei pesci (la dimensione cognitiva) e l’acqua (la dimensione mentale). I pesci vivono nell’acqua, loro ambiente di vita. La maggior parte degli studi psicologici e filosofici si sono
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focalizzati sui pesci ossia sulla conoscenza, sui concetti, sulle strutture cognitive, sulle caratteristiche del pensiero e dell’intelligenza, invece de La Garanderie si occupa “ dell’acqua”, cioè della dimensione mentale. I pesci, infatti, non sono l’acqua anche se non possono fare a meno di essa per vivere e parimenti l’acqua non si identifica con i pesci pur potendoli contenere. In altre parole le conoscenze possono “vivere e proliferare” nell’essere umano a patto di trovare certe condizioni ambientali indispensabili: i gesti mentali che sono tra loro strettamente connessi nell’atto della conoscenza 4 . Queste considerazioni rivelano, come già palesato, svariate “assonanze pedagogiche” con il pensiero di Maria Montessori e con la sua profonda consapevolezza in base alla quale l’insegnante non risponde esclusivamente alla società e alla scienza, ma alla verità dello studente e della sua mente. Riflettere quindi sul proprio ruolo di “esperti dei processi educativi” diventa linfa vitale per non incorrere nel rischio di soluzioni standardizzate e per incentivare, invece, progettualità di orizzonti di senso.
Conclusioni
La possibilità di costruire nuove prospettive pedagogiche, volgendo lo sguardo alla nostra tradizione, non dimenticando di ri-modularla e di ri-considerarla alla luce delle odierne scoperte scientifiche ed educative, può fornire ai bambini e agli adolescenti l’occasione di “muovere il pensiero” secondo un proprio progetto logico o creativo, rendendoli più autonomi e permettendogli di acquisire padronanza del proprio movimento e delle proprie relazioni spazio-temporali con l’ambiente circostante. Sia Montessori che de La Garanderie, con il loro approccio capace di rivoluzionare il modo di concepire la relazione educativa tra adulti e bambini, lo avevano ben compreso.
L’Autore dichiara di non avere alcun conflitto di interessi. * a.brigandi80@gmail.com 1 Jean Paul Chich, Michelle Jacquet, Nadette Meriaux, Michele Verneyere. La pratica pedagogica della gestione mentale. Edizioni del Cerro, p. 18. 2 Antoine de La Garanderie. I profili pedagogici, scoprire le attitudini scolastiche. La Nuova Italia, p. 169. 3 Maria Montessori. L’autoeducazione. Garzanti-Elefanti, pp. 135-136. 4 Pietro Sacchelli. Prevenire e risolvere le difficoltà ortografiche. Il metodo della gestione mentale. Anicia, Roma, p. 12.
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Farmacipì
Trattamento del vomito da gastroenterite acuta in età pediatrica Antonio Clavenna
Laboratorio per la Salute Materno Infantile, Dipartimento di Salute Pubblica, IRCCS – Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano
Quali sono i trattamenti farmacologici efficaci nel trattamento del vomito da gastroenterite acuta nel bambino? È questo il quesito a cui ha cercato di rispondere SONDO (Studio ONdansetron vs DOmperidone), uno studio clinico randomizzato controllato, finanziato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) nell’ambito dei bandi per la ricerca indipendente, condotto in 15 Centri di Pediatria di urgenza/ Pronto Soccorso italiani dal 2011 al 2013. Lo studio ha confrontato l’efficacia di ondansetron (0,15 mg/kg), domperidone (0,50 mg/kg) e placebo nel controllare il vomito da gastroenterite. Sono stati coinvolti 1313 bambini di età 1-5 anni con accesso in Pronto Soccorso (PS) per vomito da gastroenterite: 832 hanno risposto alla sola somministrazione di soluzione reidratante orale (ORS), mentre 356 sono stati randomizzati a uno dei trattamenti. La percentuale di bambini che hanno necessitato di reidratazione endovenosa o tramite sondino nasogastrico (endpoint primario) è risultata del 12% nel gruppo ondansetron, del 25% nei trattati con domperidone e del 29% nel gruppo placebo. I bambini che avevano ricevuto ondansetron avevano un rischio di reidratazione endovenosa ridotto di più del 50% se confrontati con i trattati con domperidone (RR 0,47; IC 98,6% 0,23-0,97) e placebo (RR 0,41; IC 98,6% 0,20-0,83). L’ondansetron è risultato più efficace degli altri due trattamenti anche per altre misure di esito secondarie (p.es. la necessità di una permanenza in PS maggiore di 6 ore, la percentuale di bambini con persistenza di vomito e il numero di episodi). Non so-
no emerse differenze per quanto riguarda la sicurezza dei trattamenti, con la sola eccezione di un aumento del numero di episodi di diarrea nel bambini del gruppo ondansetron. Al di là dell’efficacia delle terapie farmacologiche, il risultato dello studio che merita di essere maggiormente sottolineato è che in 2/3 dei casi la sola ORS si è dimostrata efficace nel risolvere il vomito. Questo significa che più del 60% degli accessi in PS per gastroenterite potrebbe essere potenzialmente evitato con un uso appropriato a domicilio della ORS. Inoltre, non è stata osservata nessuna differenza di efficacia tra domperidone e placebo nel controllare il vomito da gastroenterite; l’utilizzo di questo farmaco in pediatria è quindi da abbandonare. L’ondansetron è risultato efficace nei casi non migliorati con ORS. Questo significa che può essere introdotto nella pratica quotidiana del pediatra? Nel rispondere a questa domanda, occorre chiarire alcuni aspetti. Ad oggi l’ondansetron è autorizzato in pediatria solo per il controllo della nausea e del vomito indotti da chemioterapia e per la prevenzione e il trattamento del vomito postoperatorio. I risultati dello studio SONDO, così come quelli di altri studi internazionali, supportano un possibile uso off-label per il vomito da gastroenterite. Gli studi disponibili sono, però, stati condotti nel contesto del PS; inoltre, il profilo benefici-rischi dell’ondansetron appare favorevole solo per la somministrazione di una singola dose, mentre con dosi ripetute e prolungate nel tempo c’è un aumento del rischio di reazioni avverse, in particolare di diarrea, senza una documentazione di maggiore ef-
ficacia. Non si tratta, dunque, di un farmaco da prescrivere ai genitori per la somministrazione a casa. Inoltre, l’ondansetron può prolungare l’intervallo QT e aumentare il rischio di aritmia ventricolare nei soggetti a rischio. Per quanto non sia segnalata la comparsa di aritmia dopo la somministrazione di una singola dose, l’impiego del farmaco richiede cautela. Lo studio SONDO rappresenta un’ulteriore evidenza a supporto dell’utilità della ricerca indipendente nel rispondere a quesiti che nascono dalla pratica clinica quotidiana. Per certi aspetti è speculare allo studio ENBe: se quest’ultimo ha documentato la mancanza di efficacia del beclometasone nel trattamento sintomatico delle “affezioni infiammatorie del tratto rinofaringeo” (indicazione per cui il farmaco è autorizzato), SONDO ha consentito di confermare l’efficacia dell’ondansetron per il vomito da gastroenterite, indicazione non (ancora) autorizzata. Il tempo dirà se la ricaduta nella pratica di SONDO sarà maggiore di quella (al momento modesta) dello studio ENBe. * antonio.clavenna@marionegri.it
Marchetti F, Bonati M, Maestro A, et al. Oral Ondansetron versus Domperidone for Acute Gastroenteritis in Pediatric Emergency Departments: Multicenter Double Blind Randomized Controlled Trial. PLoS One 2016;11:e0165441. Tomasik E, Ziółkowska E, Kołodziej M, Szajewska H. Systematic review with meta-analysis: ondansetron for vomiting in children with acute gastroenteritis. Aliment Pharmacol Ther 2016;44(5):438-46.
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Vaccinacipì
Il morbillo Rosario Cavallo Pediatra di famiglia, Salice Salentino (Lecce) – Gruppo ACP prevenzione malattie infettive
Il morbillo è una delle poche malattie teoricamente eradicabile con la vaccinazione, ma da qualche anno le coperture vaccinali hanno subito prima un ristagno e poi addirittura un calo. La “fiammata” epidemica registrata a inizio 2017 ha indotto l’ISS a istituire un Sistema di sorveglianza integrata per morbillo e rosolia. L’aggiornamento dell’11 aprile 2017 conferma la notifica di quasi 1500 casi da inizio anno, ben più che in tutto l’anno precedente. Circa il 90% dei casi si è verificato in soggetti non vaccinati (il che conferma l’efficacia della vaccinazione); circa il 40% di questi casi è stato ricoverato, testimoniando che non si tratta di quella malattia di scarsa rilevanza di cui troppo spesso si favoleggia; circa il 75% dei casi si è verificato in soggetti > 15 anni per cui il morbillo non può essere più definito una malattia dell’infanzia!! Come al solito moltissime sono state le complicanze, anche gravi: dalla diarrea alla polmonite, dalla otite alla cheratocongiuntivite, dall’epatite all’insufficienza respiratoria, alla trombocitopenia e alla immancabile encefalite [1]. Per ora non sono segnalati decessi, come invece è successo in Svizzera [2] e in Germania [3] per non parlare della Romania, dove i decessi confermati sono stati ben 16 [4]. La peculiarità che rende particolarmente pericoloso il morbillo è la sua altissima contagiosità: si calcola che il R0 (basic reproduction number) vari tra 14 e 18; significa che, in un contesto privo di soggetti vaccinati, si sviluppano 14-18 casi secondari per contatto col caso primario [5]. Nel contesto reale di popolazione in gran parte vaccinata (come nel caso dei focolai epidemici sviluppatisi in Italia tra il 2008 e il 2011), il R0 è stato invece di 6,1 [6]. Quando il 10% della popolazione non è immunizzato si può determinare un focolaio epidemico [5]. La diagnosi di morbillo si basa sulla triade: febbre, rash generalizzato non vescicolare e almeno uno tra i seguenti sintomi: tosse, coriza, congiuntivite. Patognomoniche ma non sempre presenti le macchie di Koplik. La conferma laboratoristica prevede la ri-
cerca delle IgM specifiche (da effettuare nel periodo 3-28 giorni dall’inizio del rash); l’esame ha alta sensibilità e specificità. Poco usata la coltura, mentre la PCR ha anche la capacità di individuare il genotipo, fornendo indicazioni utili per il controllo delle epidemie. Non esiste un trattamento antivirale specifico ma in base a una revisione sistematica Cochrane l’OMS e la AAP raccomandano nei casi di morbillo un trattamento con vitamina A, almeno nelle forme gravi [7]. Altra caratteristica del morbillo è la capacità di deprimere, a volte anche per diversi anni, la risposta immunitaria; ciò rende ragione delle frequentissime complicanze, fra cui una delle più temibili è l’encefalite, che può verificarsi in forme differenti: 1 encefalomielite postinfettiva su base autoimmune: si verifica circa una settimana dopo il rash, associata a demielinizzazione; raramente si riscontra il virus nel cervello; 2 encefalite acuta, distanziata di alcune settimane o mesi dal contatto: si verifica in genere in soggetti immunodepressi, a volte senza anamnesi di rash febbrile; 3 PESS o PanEncefalite Sclerosante Subacuta, complicanza tardiva (da 7 a 2030 anni dopo la malattia) e mortale. I casi sono quasi scomparsi con la vaccinazione al 90%; l’autopsia dimostrava riscontro del virus selvaggio nel cervello anche nei casi con anamnesi di malattia negativa. La sorveglianza britannica dimostra come l’introduzione della vaccinazione correli di-
rettamente con la riduzione del numero di casi di morbillo e di conseguenza dei decessi. Prima del vaccino si contavano da 160.000 a 800.000 casi/anno con 100 decessi/anno in media. Negli anni con bassa copertura i casi sono scesi tra 50.000 e 100.000/anno con ancora 13 decessi/anno in media. I decessi hanno riguardato soprattutto soggetti immunodepressi o già portatori di altre malattie croniche, ma merita di essere segnalato il fatto che tra il 1970 e il 1983 la metà dei decessi si sono verificati in bambini non vaccinati fino a quel momento apparentemente sani [8]. I CDC stimano una letalità dello 0,2% negli USA. La principale causa di morte è la polmonite, seguita dalla encefalite e dalla PESS [9]. La Tabella 1 riporta una stima che compara gli effetti avversi da morbillo rispetto agli effetti avversi da vaccino [10]. Fatta questa analisi, è doveroso fare una riflessione: il 10% dei casi notificati in Italia nel 2017 è a carico di operatori sanitari [1]. Non è solo una questione di coerenza e di buon esempio; si tratta di vero e proprio malcostume perché l’operatore non vaccinato che si contagia, sarà a sua volta l’“untore” magari a carico del soggetto fragile e più esposto alla complicanza grave. È inaccettabile che continui a succedere! * roscavallo58@gmail.com
Bibliografia consultabile online.
TABELLA 1. Tratta da “Measle and measle vaccination, JAMA Pediatrics”
1 milione di bambini affetti da morbillo
1 milione di bambini vaccinati
50.000 bambini con polmonite
999.996 bambini senza eventi avversi gravi
80.000 bambini con diarrea
33 casi di trombocitopenia transitoria
70.000 bambini con otite
1 reazione allergica grave
1000-3000 bambini con encefalite acuta
0,2 casi di encefalite non correlabile con certezza
1000 bambini con encefalite postinfettiva 110 bambini con PESS 2000 decessi
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Libri
Libri: occasioni per una buona lettura Rubrica a cura di Maria Francesca Siracusano
Campanelli Verdi e Rossi Screening precoce nei Disturbi dello Spettro Autistico per bambini da 0 a 3 anni di Gionata Bernasconi, Chiara Lombardoni, Nicola Rudelli, con contributi di Gian Paolo Ramelli, Erica Salomone, Evelyne Thommen, Paola Visconti, Giacomo Vivanti Edizioni Fondazione Ares - Giampiero Casagrande editore, 2016, pp. 111, € 20
Guida all’osservazione della tipicità del comportamento
Per il pediatra di famiglia non esistono test precoci di screening dello spettro autistico che possano sostituirsi all’osservazione diretta delle atipie comportamentali. Nei primi 18 mesi la diagnosi precoce dei disturbi della relazione si basa sulla profonda conoscenza della tipicità del comportamento e il pediatra deve stimolare i genitori a diventare esperti osservatori delle abilità psico-motorie, manipolazioni, sguardi espressivi, deambulazione, linguaggio, emozioni condivise. Un’altra finestra di osservazione privilegiata è quella dell’asilo nido dove i professionisti della prima infanzia dovrebbero sapere identificare comportamenti atipici nello sviluppo del bambino. Campanelli Verdi e Rossi non è uno strumento di diagnosi ma un’ottima guida all’osservazione che permette di rac-
cogliere informazioni mirate e oggettive. È un manuale utilissimo sia per i professionisti della prima infanzia che per i pediatri che sono i riferimenti cardine per l’identificazio ne di comportamenti atipici nello sviluppo del bambino. Nella prima parte del manuale è descritto lo sviluppo tipico del bambino dalla nascita ai tre anni, con un accento particolare allo sviluppo precoce dell’intersoggettività, cioè della capacità di capire e interagire in maniera reciproca con gli altri, e alle peculiarità che emergono nei bambini con DSA. La seconda parte è composta dalle schede operative che guidano l’osservazione del comportamento dei bambini e da una descrizione di come utilizzare il manuale. Le modalità di osservazione sono descritte con un linguaggio semplice e accessibile, e le situazioni proposte sono applicabili con facilità alla realtà delle strutture per la prima infanzia. Ogni scheda è accompagnata dalle illustrazioni di Barbara Bongini, che danno un contributo, colorato e vicino al mondo dell’infanzia, alla comprensione degli item. Nella terza parte Giacomo Vivanti ed Erica Salomone sintetizzano le caratteristiche principali di un intervento di qualità nei DSA, in accordo con le linee guida internazionali. La finalità di questa parte conclusiva non è tanto quella di fornire una panoramica globale ed esaustiva di tutti gli interventi efficaci, quanto piuttosto quella di evidenziare alcuni punti chiave e principi di base ai quali è utile fare affidamento nel periodo successivo alla diagnosi di DSA.
Massimo Soldateschi
Le otto montagne
di Paolo Cognetti Einaudi, 2016, pp. 200, € 18,50 Il significato di essere figli e di essere genitori
In questo romanzo si cammina molto, in salita e in discesa, su sentieri o su nevai, con mente libera o con il cuore pesante. Camminano Pietro e Bruno, due amici di infanzia che lentamente diventano adulti. Attorno ai due protagonisti ruotano altre figure importanti, soprattutto le madri e i padri. Il padre di Pietro è una figura complessa e in-
gombrante, e come spesso accade occorre attendere la sua assenza per scoprirne gli aspetti più importanti e ricchi. Il corso dell’esistenza dei due amici procede come un torrente di montagna, salti veloci e impetuosi si alternano a pozze d’acqua più placide e riflessive. I due sono uguali e diversi, vicini e lontani, e la loro esistenza si intreccia con nodi invisibili e ineludibili. Cosa significa essere figli, essere genitori: è questa la vera riflessione che la storia di Cognetti ci regala, con la semplicità della vita vissuta, con l’immediatezza dei pascoli, con un linguaggio diretto alla Rigoni Stern. Una storia nella quale viene facile immedesimarsi. Siamo tutti un po’ Bruno e un po’ Pietro. E come loro, anche noi vorremmo ossigenare il fisico e la mente per trovare pace e limpidezza, lassù in cima alla nostra vita.
Alessandro Volta
Inquinamento e salute dei bambini Cosa c’è da sapere, cosa c’è da fare
a cura di Giacomo Toffol, Laura Todesco, Laura Reali Il Pensiero Scientifico Editore 2017, pp. 326, € 25.00
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Libri
ro interesse è il capitolo finale dedicato ai processi mentali razionali o culturali legati alla percezione del rischio e sul valore delle conoscenze in un mondo odierno affetto da una sindrome da iperinformazione. Leggere Inquinamento e salute dei bambini, infine, non sarà solo un arricchimento culturale o un aggiornamento professionale: le numerose guide anticipatorie e raccomandazioni inserite nel testo rappresentano un concreto ausilio per l’attività ambulatoriale.
Costantino Panza
Proust era un neuroscienziato di Jonah Lehrer Codice edizioni 2008, pp 204, € 22
L’inquinamento nell’ambulatorio del pediatra
Ricco il doppio delle pagine rispetto alla versione pubblicata sette anni fa e con nuovi argomenti affrontati, definire questo libro come una seconda edizione mi sembra davvero riduttivo. I temi già affrontati nel testo del 2010, l’inquinamento indoor e outdoor, le radiazioni solari, l’inquinamento di acqua e cibo, gli alimenti per i bambini sono stati completamente riscritti. In nuovi capitoli sono state affrontate le questioni riguardanti la sicurezza dei prodotti per l’igiene e la pulizia (dalla lozione antizanzara al dentifricio), la gestione dei rifiuti e il cambiamento climatico. Ogni capitolo inizia dentro l’ambulatorio del pediatra con il racconto di alcuni casi clinici o l’impegno da parte del professionista di offrire delle ragionevoli guide ai genitori. Segue poi un attento svolgimento dell’argomento attraverso l’analisi delle prove scientificamente attendibili. Ottima ed esaustiva la bibliografia riportata alla fine di ogni capitolo. I colleghi del Gruppo di lavoro ACP «Pediatri per un Mondo Possibile» rendono la lettura mai noiosa offrendo numerose e chiare tabelle esplicative e inserendo validi approfondimenti su questioni cliniche concrete, come per esempio la supplementazione della vitamina D all’interno del complesso tema delle radiazioni ultraviolette, oppure sui possibili inquinanti del latte materno. Il penultimo capitolo affronta il vasto problema del cambiamento climatico, un tema al di fuori della portata di azione di ogni singolo pediatra, ma significativo di come ogni sistema ecologico sia intrinsecamente legato agli altri. L’impatto sulla salute derivato da queste complesse modificazioni climatiche, spesso non avvertito in modo consapevole, è ben delineato. Originale e di ve-
L’arte come contrappeso al riduzionismo scientifico
Libro non recente ma che ho riletto per motivi di lavoro e che ho trovato ancora molto interessante e attuale per la tesi che il giovane autore dichiara sia nel “Preludio” che nelle conclusioni: la necessità e l’utilità di un dialogo tra arte e scienza. Lehrer, all’epoca in cui scrive il libro, ha 26 anni, e dopo la laurea alla Columbia University ha lavorato nel laboratorio di Eric Kandel, neuroscienziato di fama mondiale (tra i suoi scritti: “Alla ricerca della memoria” “L’età dell’inconscio – arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni”). Un primo dato di attualità è la caratteristica del periodo storico in cui operano gli artisti scelti: vissero tutti in un’epoca in cui il riduzionismo veniva applicato dagli scienziati alla realtà, tutto viene suddiviso, l’insieme può essere compreso scomponendolo nelle sue parti, la tecnologia dà una spiegazione a molti misteri, l’uomo viene diviso in parti, atomi. Per certi versi la crisi della medicina oggi
viene in parte imputata proprio a questo approccio riduzionista e la storia delle scoperte artistiche descritte suggerisce che, per la conoscenza dell’uomo, i metodi riduzionisti della scienza devono allearsi con le modalità di approccio artistico allo studio dell’esperienza. Lehrer in ogni capitolo dedicato a un artista cerca di immaginare un dialogo dove, partendo dalle intuizioni dell’artista, l’arte viene interpretata alla luce della scienza mentre quest’ultima viene vista attraverso l’arte. Qualche esempio: nel capitolo da cui il titolo del libro, Proust, nella Recherche, con la famosa madeleine e la descrizione delle emozioni e dei ricordi scatenati dall’odore e dal sapore del dolcetto intuisce che proprio l’olfatto e il gusto hanno una importanza eccezionale per la memoria: limitarsi a guardare la madeleine non gli fece ricordare nulla. Questa intuizione è confermata oggi dalle neuroscienze: olfatto e gusto sono gli unici che hanno un collegamento diretto con l’ippocampo, centro della memoria a lungo termine. Le intuizioni sulle caratteristiche della memoria non si fermano qui: nella Recherche Proust introduce anche il pensiero che i nostri ricordi siano fasulli, anticipando anche qui importanti conferme delle neuroscienze. In modo quasi complementare il celebre cuoco Escoffier fece una rivoluzione culinaria attribuendo una grande importanza al palato, al gusto intuendone la soggettività, per cui inventò il menù che permetteva di personalizzare il pasto di ogni cliente in base al proprio gusto. Intuì anche il ruolo importantissimo dell’olfatto, motivo per cui serviva il cibo caldo direttamente dai fornelli perché con il calore le molecole del cibo evaporano nell’aria con il loro profumo allettante. Capì che ciò che gustiamo è influenzato dal contesto, ponendo molta attenzione al servizio, alla raffinatezza delle posate e delle ceramiche e ai nomi ricercati dei piatti. Lehrer ci aiuta a interpretare queste intuizioni artistiche alla luce degli studi delle neuroscienze, riportando esperimenti che spiegano la validità e le basi anatomo-fisiologiche delle teorie di Escoffier. Gli artisti di questo libro (Whitman, Cézanne, George Eliot, Stravinskij, Virginia Woolf, Gertrude Stein) dimostrano che ci sono svariati modi di descrivere la realtà, e ognuno di questi è in grado di produrre verità. Termino con le parole di Lehrer: “Spero che questo libro abbia dimostrato come l’arte e la scienza possano integrarsi in una vasta sfera critica … l’arte è il necessario contrappeso alle glorie e agli eccessi del riduzionismo scientifico soprattutto quando vengono applicati all’esperienza umana.”
Patrizia Elli
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Film
Svelamenti e passaggi della crescita in Moonlight Rubrica a cura di Italo Spada
Comitato per la Cinematografia dei Ragazzi, Roma
Moonlight
Regia: Barry Jenkins Con: Mahershala Alì, Naomie Harris, Trevante Rhodes, André Holland, Janelie Monàe, Ashton Sanders USA, 2016 Durata: 110’
Probabilmente Moonlight, secondo lungometraggio del trentasettenne Barry Jenkins, occuperà un posto nella storia del cinema più per il pasticciaccio dello scambio di buste che ha regalato un minuto di felicità a La la land nell’89a edizione degli Oscar (2017) che per le tre statuette (film, attore non protagonista e sceneggiatura non originale) che ha portato a casa. La scelta dell’Academy Award, peraltro condivisa da molti critici, resta comunque una vera sorpresa perché antepone la prosa alla poesia, la nota stonata al musical, la realtà alla fantasia, i turbamenti alla felicità. Non tutte le storie sono fiabe e Moonlight non appartiene a quei film che si chiudono
con “e vissero felici e contenti”. È, piuttosto, una lezione con poche parole e molti primi piani per capire meglio le fasi della crescita di un ragazzino timido che, all’interno di un contesto di sopraffazione, viene emarginato perché è gay. Come dire che, a spettacolo finito, non si può tornare a casa e dimenticare, ma fare delle riflessioni al di là di ogni stereotipo su quanto si è visto. E, allora, facciamole. Prima o poi, arriva per tutti il momento di sapere chi siamo. Infanzia e adolescenza sono stagioni delicate e ogni educatore, a prescindere dal bagaglio intellettuale che possiede, non può ignorare che i passaggi da uno stadio all’altro possono causare traumi nei ragazzi e che lo svelamento impone delle scelte. Nel 2005, sette registi di diversa nazionalità raccontarono in All the Invisible Children storie di bambini lasciati soli nel momento in cui avrebbero dovuto poter contare sul sostegno degli adulti. Tra di loro c’era anche Blanca, protagonista dell’episodio Jesus Children of America di Spike Lee, affetta da AIDS per colpa dei suoi genitori tossicodipendenti. Ho pensato a lei vedendo Moonlight e, quando ho saputo che tra gli autori preferiti da Barry Jenkins c’era anche il regista afroamericano che con Fa’ la cosa giusta (1989) aveva denunciato razzismo, violenza e droga a Brooklyn, non mi sono sorpreso più di tanto. Da Brooklyn a un quartiere popolare di Miami. È qui che vive Chiron, uno dei tanti ragazzini “invisibili” persino tra le mura di casa. Ha una madre che si droga, è vittima del bullismo scolastico, rifiuta la violenza, parla poco, è nero tra neri. Gli altri lo chiamano Piccolo e gli dicono che è “frocio”. Chiron non conosce nemmeno il significato di questa parola e, quando incontra lo spacciatore buono Juan e la sua compagna Teresa, chiede: “Ma io sono gay? Come faccio a saperlo?” “Lo saprai quando
sarà il momento che tu lo sappia,” gli risponde Juan. Non è una risposta da genitore o da educatore (Juan non è né l’uno né l’altro), ma un invito a iniziare un percorso per scoprire la sua identità. I luoghi in cui si cresce e le persone che ci stanno accanto impostano e impastano la nostra esistenza. Chiron vive con una madre non madre, in una casa non accogliente, in un quartiere degradato, in una scuola machista e omofoba. È un bambino emarginato che resiste oltre ogni aspettativa grazie a un solo amico non nemico e alla coppia di genitori non naturali che si prende cura di lui. Per maturare, tuttavia, più del battesimo di coraggio che Juan gli amministra nelle acque del mare, avrebbe bisogno di un battesimo di onestà. Avrebbe bisogno di qualcuno che gli insegnasse a controllare l’ira, a non confondere le lezioni della strada e del carcere con quelle della scuola, a non considerare un’auto di grossa cilindrata, una pistola e lo sfoggio di denti d’oro come simbolo di potenza. Blanca di Jesus Children of America ci riesce; Chiron, almeno in quei tre capitoli che compongono Moonlight (infanzia, adolescenza e maturità), no. E nonostante tutto, Chiron, pur cambiando nome per gli altri, rimarrà il Piccolo coniglietto timido che abbiamo conosciuto nelle prime sequenze quando, per sfuggire alla caccia dei suoi compagni, cerca una tana più accogliente di quella che la vita gli ha assegnato. La trova veramente quando asciuga le lacrime della madre pentita e tra le braccia dell’unico amico che lo abbia mai sfiorato? Per saperlo, bisognerebbe aggiungere alla vicenda un quarto capitolo appena accennato dalla sequenza finale e immaginare che sul cammino di Piccolo-Chiron diventato Black il chiaro di luna prima o poi proietterà qualche lama di luce. * italospada@alice.it
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Info
Info: notizie sulla salute Rubrica a cura di Sergio Conti Nibali
Minori stranieri
È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 18 marzo 2017 il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 12 gennaio 2017 con i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza - LEA (Supplemento ordinario n. 15). Il nuovo Decreto sostituisce integralmente - a distanza di 16 anni - il DPCM del 29 novembre 2001, con cui erano stati definiti per la prima volta le attività, i servizi e le prestazioni che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse raccolte attraverso la fiscalità generale. Gli articoli 62 e 63 (sui 64 totali) sono riferiti ai cittadini non appartenenti all’Unione Europea, richiamando esplicitamente le norme del Testo Unico sull’immigrazione e del suo Regolamento (articoli 34 e 35 del Decreto Legislativo n. 286 del 27 luglio 1998 e degli articoli 42 e 43 del decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 31 agosto 1999) e, di fatto, l’Accordo del 20 dicembre 2012, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sul documento recante: «Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle Regioni e Province autonome». (Rep. Atti n. 255/ CSR). Proprio da quest’ultimo è ripresa la novità più importante della parte che riguarda gli immigrati e cioè la previsione che “I minori stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale e usufruiscono dell’assistenza sanitaria in condizioni di parità con i cittadini italiani” (articolo 63, comma 4). Quando nel 2005 la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM) presentò alla comunità scientifica questa proposta, ad esclusione del Gruppo di Lavoro Nazionale per il Bambino Immigrato (GLNBI) e dei pediatri che aderirono facendola propria con lo slogan “ad ogni bambino il suo pediatra”, fu considerata visionaria. Tuttavia ancora non si può essere com-
pletamente soddisfatti perché possono essere esclusi di fatto da questo diritto assistenziale i minori figli di cittadini comunitari presenti in Italia in condizione di fragilità (ENI), creando una chiara discriminazione tanto più grave in quanto si tratta di minori, e, per tutti, la non previsione di una specifica esenzione dal ticket potrebbe vanificare la norma stessa. Su questi temi la SIMM continuerà il proprio impegno.
(Fonte SIMM).
Nati per Contare
Nell’ambito del Congresso di Tabiano 2015 si è delineato il progetto “Nati per Contare” (NpC) con l’obiettivo di promuovere l’esposizione dei bambini al mondo dei numeri e delle figure geometriche già dalle prime epoche della vita, alla luce di alcune interessanti evidenze in letteratura. Il bambino fin dai primi mesi di vita può entrare nel mondo dei numeri e delle figure geometriche attraverso disegni, libri, giochi, filastrocche, canzoni in stretta armonia con la madre o di chi si prende cura di lui, così come succede per la lettura e la musica. Diversi studi dimostrano che le influenze familiari favoriscono nei bambini l’acquisizione di competenze numeriche, fanno diminuire “l’ansia specifica per la matematica”, e che essere bravi in matematica e apprezzarne lo studio significa potere avere maggiore successo non solo a scuola ma anche nel mondo del lavoro. Nell’ambito del progetto si è dunque andato definendo un gruppo di lavoro dedicato. Quaderni acp ha nel frattempo pubblicato una intervista a Francesco Ciotti (Quaderni acp 2015;22;231), un articolo di Carlo Tomasetto (Quaderni acp 2015;22:293-5), una intervista a Maria Teresa Pantina (Quaderni acp 2017;24:19). Anche Un pediatra per amico, nel numero 2/2017, ospita un articolo di Angelo Spataro dal titolo “Nati per Contare”. Sono partite alcune iniziative a Palermo promosse da ACP in collaborazione con la Onlus Metaintelligenze e a Cesena sarà avviata una ricerca in collaborazione con la Cattedra di Psicologia dello Sviluppo dell’Università di Bologna. È stata istituita una collaborazione con la casa editrice Giunti che ha pubbli-
cato alcuni libri dedicati. Sono stati predisposti un elenco di libri sui numeri divisi per fasce di età e una bibliografia selezionata, disponibile per chi partecipa al progetto. Sono stati pensati e previsti incontri di sensibilizzazione/formazione sul tema, da svolgersi localmente e preferibilmente con il coinvolgimento delle diverse figure professionali attive con i bambini in età prescolare (pediatri, insegnanti, bibliotecari, educatori). Angelo Spataro è disponibile per informazioni sul progetto e i suoi aspetti organizzativi all’indirizzo: spataro.angelo2014@ libero.it.
Fronte comune per difendere il Sistema Sanitario Nazionale
L’ACP, sollecitata da La Rete Sostenibilità e Salute, ha aderito alla mobilitazione europea #health4all del prossimo 7 aprile, organizzata da Europe Health Network (www. europe-health-network.net) per la difesa dei sistemi sanitari in Europa mediante la costituzione di un fronte comune che: y contrasti la volontà politica di ridimensionamento della sanità pubblica, y favorisca la promozione della salute agendo sul territorio e sui determinanti sociali e ambientali, y costruisca una società più equa. Secondo le valutazioni OMS degli ultimi dieci anni, gli indicatori di salute dimostrano che il sistema sanitario in Italia è stato efficace e meno costoso che nella maggior parte dei Paesi occidentali ad alta industrializzazione. Le varie forme assicurative integrative o sostitutive, invece, rischiano di produrre livelli differenti di copertura sanitaria che colpirebbero profondamente il solidarismo del sistema sanitario basato sulla fiscalità generale, con aumento del consumismo sanitario e riduzione dell’appropriatezza degli interventi. La salute non equivale alla quantità di prestazioni erogate: pertanto bisogna favorire l’informazione perché i cittadini non credano che il mantenimento della salute dipenda dal numero di visite specialistiche
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Info
ed esami diagnostici effettuati o dal consumo di farmaci. Un sistema sanitario sostenibile persegue il fine di determinare la migliore e più adatta risposta ai differenti bisogni di cia-
scuno, considerando criteri di documentata efficacia. Secondo l’art. 32 della Costituzione, la gratuità delle prestazioni in funzione del bisogno è dovuta in quanto il servizio sa-
nitario è sostenuto dalla fiscalità generale secondo la logica della progressività; ciò ha un valore ancora maggiore in fase di crisi economica per consentire a tutti l’accesso alle cure.
Manifesto per la creazione di un fronte comune per la difesa del Sistema Sanitario Nazionale 1. Non è vero che la sanità pubblica è insostenibile. Un sistema sanitario è tanto sostenibile quanto si vuole che lo sia. Secondo le valutazioni dell’OMS degli ultimi dieci anni, gli indicatori di salute dimostrano che il sistema sanitario in Italia è stato efficace e meno costoso che nella maggior parte dei Paesi occidentali ad alta industrializzazione. Un sistema sanitario sostenibile non prevede l’utilizzo illimitato delle risorse ma persegue il fine di determinare la migliore e più adatta risposta ai differenti bisogni. 2. Le varie forme assicurative integrative o sostitutive di ogni natura e il cosiddetto secondo welfare rischiano di produrre livelli differenti di copertura sanitaria che potrebbero colpire profondamente il solidarismo del sistema sanitario basato sulla fiscalità generale, tendendo ad aumentare il consumismo sanitario e a non migliorare l’appropriatezza degli interventi. Gli attuali 35 miliardi di euro della spesa sanitaria privata italiana potrebbero costituire solo la spesa iniziale in un mercato privato che ha come sua principale finalità la massimizzazione degli utili e la minimizzazione del rischio d’impresa: la tendenza che ne risulterebbe potrà aumentare di conseguenza anche la spesa sanitaria complessiva scaricando sempre sul pubblico gli interventi più complessi e costosi (emergenza-urgenza, rianimazione, oncologia, patologie cronico-degenerative). 3. È deleteria l’ideologia della salute equivalente alla quantità di prestazioni erogate che significa indurre la popolazione a credere che il mantenimento della salute dipenda dal numero di visite, esami, indagini e dal consumo di farmaci: ciò è solo funzionale al sistema medico-industriale nella logica di una crescita economica illimitata e indiscriminata e dell’accrescimento dei profitti. 4. La prevenzione primaria, intesa come andare alle cause delle cause che producono malattie e disagi nell’ambiente di vita e di lavoro, deve tornare ad essere elemento fondamentale del sistema sanitario e non può essere confusa né sostituita da pratiche di diagnosi precoce, pur se dimostrate utili. Altrettanto importanti sono le azioni di promozione della salute e del benessere, da perseguire in modo intersettoriale con approccio di “salute in tutte le politiche”: prevedere interventi di cura per poi riportare le persone nei luoghi di provenienza senza modificare le condizioni che le hanno fatte ammalare contraddice il buon senso, l’efficacia e la giustizia sociale.
5. La dimensione relazionale è centrale al rapporto di cura, e coinvolge il paziente come persona all’interno delle proprie reti familiari e sociali. Per questo serve un approccio multidisciplinare, in stretta sinergia con l’ambito d’intervento sociale. 6. Secondo l’art. 32 della Costituzione, la gratuità delle prestazioni in funzione del bisogno è dovuta in quanto il servizio sanitario è sostenuto dalla fiscalità generale secondo la logica della progressività; ciò vale specialmente in fase di crisi economica che riduce una crescente percentuale della popolazione sotto il livello di povertà. 7. Il ricorso a forme di assistenza privatistica in ambito pubblico deve essere profondamente rivisto incentivando da un lato modalità d’effettiva continuità assistenziale del processo di cura dei pazienti, dall’altro valorizzando gli operatori sanitari che aderiscano a progetti con questa finalità. L’obiettivo di riduzione delle liste d’attesa non può prescindere dalla valutazione dell’efficacia degli interventi. 8. Il servizio sanitario è un sistema che si realizza nel decentramento territoriale: appare opportuno che i responsabili siano conosciuti e identificati dai cittadini in modo tale che questi ultimi possano esercitare forme partecipate di controllo. Tale possibilità, finora peraltro mai contemplata, diventa sempre più ardua a causa della continua estensione territoriale delle ASL che allontanano sempre più dai territori locali i responsabili istituzionali. 9. Il servizio sanitario deve essere riformato dai principi costituzionali di cui agli articoli 3, 32, 41 della Costituzione, ripresi ed estesi dagli articoli 1 e 2 della legge di Riforma Sanitaria del 23 dicembre 1978. 10. Una nuova riforma sanitaria e sociale non può prescindere da una riforma del sistema di formazione dei professionisti della salute, che comprenda i criteri e le procedure di reclutamento, selezione e accesso (riduzione del gradiente sociale); gli approcci metodologici (formazione al pensiero critico); i contenuti (multidisciplinarietà); le sedi di formazione (territorio, comunità); e le modalità operative (lavoro integrato in équipe all’interno di un sistema sanitario pubblico). Bologna, 7 Aprile 2017 Rete Sostenibilità e Salute Si invitano tutte le realtà che condividono il manifesto a segnalare la loro adesione scrivendo a: rete@sostenibilitaesalute.org
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CONGRESSO ACP Cortona, Centro Convegni Sant’Agostino 12, 13, 14 ottobre 2017
GARANTIRE I DIRITTI PER COSTRUIRE UN FUTURO DI SALUTE PRIMA SESSIONE Giovedì 12 ottobre, pomeriggio ORE 14,30 Saluti del Sindaco di Cortona Il Bambino e l’Adolescente: soggetti di diritto e non oggetti di tutela (Maurizio Bonati) DIRITTO ALLA SALUTE SANA ALIMENTAZIONE Moderatore: Diego Peroni ORE 15 La dieta Smart Food (Lucilla Titta) ORE 15,20 Grande industria alimentare, piccoli consumatori: l’influenza del Big Food sulla dieta dei bambini nei primi anni di vita (Laura Bruzzaniti) ORE 15,50 I disturbi alimentari nel bambino 0-3 anni: l’urgenza della cura e la complessità della prevenzione (Catherine Hamon) ORE 16,15 DISCUSSIONE L’angolo di Quaderni acp (a colpo d’occhio; occhio alla pelle) Martina Fornaro, Laura Reali ORE 17 BREAK VACCINAZIONI Moderatore: Rosario Cavallo ORE 17,20 Vaccinare il proprio figlio: le basi scientifiche di una sana scelta genitoriale (Chiara Azzari) ORE 17,40 Le dinamiche delle informazioni sulla rete. Come difendersi dalle bufale in rete e i vantaggi di una corretta comunicazione mediatica (blogger Iddio alias Alessandro Paolucci) ORE 18,00 DISCUSSIONE
SECONDA SESSIONE Venerdì 13 ottobre, mattino AMBIENTE Moderatore: Roberto Romizi ORE 9,00 La salute riproduttiva prima del concepimento: cinque priorità “hic et nunc” (Stefania Ruggeri)
L’angolo di Quaderni acp (a colpo d’occhio; occhio alla pelle) Martina Fornaro, Laura Reali ORE 15,45 L’angolo degli Specializzandi (5 specializzandi, 5 minuti a testa con 3 slide) ORE 16,30 ASSEMBLEA
ORE 9,20 La salute riproduttiva in gravidanza: consigli pratici (Patrizia Gentilini)
QUARTA SESSIONE Sabato 14 ottobre, mattino Moderatore: Giancarlo Biasini
ORE 9,40 PERSUADED: dati della ricerca (Giacomo Toffol)
ESPERIENZE LOCALI
ORE 9,50 DISCUSSIONE
ORE 9,00 La RMN: esperienza umbra (Michele Capurso, Corrado Rossetti)
L’angolo di Quaderni acp (a colpo d’occhio; occhio alla pelle) Martina Fornaro, Laura Reali
ORE 9,30 ECD: buone pratiche ed esperienza di rete in Umbria (Giorgio Tamburlini, Mariolina Frigeri)
DIRITTO ALLA SALUTE MENTALE Moderatore: Maria Luisa Scattoni
ORE 10,00 Dalla città possibile alla comunità educante (Giuseppina Stellitano, Laura Fedeli)
ORE 10,30 Il diritto alla diagnosi per tutti gli autismi (Filippo Muratori) ORE 10,50 Osservatorio Nazionale Autismo: rilevazione dei percorsi per la diagnosi precoce (Michele Gangemi) ORE 11,00 DISCUSSIONE ORE 11,20 BREAK ORE 11,40 I giochi Allenamente, attività per un cervello che gioca (Carlo Carzan) ORE 12,00 Modificazioni cerebrali in adolescenza: resilienza e risorse (Carlo Calzone) ORE 12,20 L’abuso psico-emozionale (Maria Grazia Apollonio) ORE 12,40 DISCUSSIONE ORE 13,00 PRANZO TERZA SESSIONE Venerdì 13 ottobre, pomeriggio DIRITTO ALLA SALUTE SOCIALE Moderatore: Anna Maria Falasconi ORE 14,30 Il diritto del bambino a non essere maltrattato (Monica Pierattelli) ORE 14,50 Accoglienza sanitaria del bambino migrante: aspetti generali e situazioni particolari (Simona La Placa) ORE 15,10 DISCUSSIONE
ORE 10,30 DISCUSSIONE ORE 10,45 Premiazione concorso fotografico PASQUALE CAUSA (Lina Di Majo e Stefania Manetti) ORE 11,05 L’angolo di Quaderni acp: Osservatorio Internazionale: vaccine hesitancy (Stefania Manetti) RICERCA E FORMAZIONE ORE 11,20 Il progetto “Margherita” (Antonio Clavenna) ORE 11,35 Il progetto Scopre (Laura Reali) ORE 11,50 L’attività della newsletter pediatrica e il diritto a una corretta informazione (Patrizia Rogari e Maddalena Marchesi) ORE 12,00 Chiusura dei lavori (Federica Zanetto)
Quaderni acp www.quaderniacp.it 3 [2017]
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QUADERNI ACP – INDICE PAGINE ELETTRONICHE (NUMERO 1, 2017) Cari colleghi, vi segnaliamo in questo numero delle pagine elettroniche numerosi contributi che toccano argomenti di interesse per ogni pediatra. Qual è il rischio di soffocamento in caso di alimentazione complementare con i cibi della tavola? Quanto funziona il vaccino contro il meningococco B? E quali possono essere i sintomi e i segni di esordio di una leucemia? Nella Newsletter pediatrica si parla di anche di depressione nei bambini e di infezione delle vie urinarie. Presentiamo nella rubrica Documenti due importanti linee guida regionali sulla faringotonsillite e l’otite in età pediatrica elaborati dalla regione Emilia-Romagna e una linea guida del Ministero della Salute sull’alimentazione complementare presentata sotto forma di FAQ per essere fruibile anche ai non addetti ai lavori. Pagare le mamme se allattano al seno i propri figli: una novità che vi riportiamo nell’articolo del mese. Il gruppo ACP Pediatri per Un Mondo Possibile ci offre due ricchi contributi sulla neurotossicità del manganese e sulla possibile riorganizzazione del sistema dei trasporti. Infine, come vediamo la ragazza malata, il dipinto di Christian Krohg. Ognuno di noi ha la propria sensibilità e una esperienza unica nell’affrontare la lettura di questa impegnativa immagine: grazie a Giancarlo Biasini e a Maria Francesca Siracusano per la loro intima riflessione. Buona lettura Per la redazione Costantino Panza Newsletter pediatrica - Infezione urinaria febbrile: meno cicatrici renali se il trattamento è precoce. Uno studio di coorte retrospettivo. - Autosvezzamento e maggior rischio di soffocamento: un RCT non lo prova. - La presentazione clinica della leucemia in età pediatrica: revisione sistematica e meta-analisi dei dati della letteratura. - Screening e terapia per la depressione maggiore in bambini e adolescenti: nuove raccomandazioni USA. - Immunogenicità del vaccino antimeningococco B: risultati di uno studio osservazionale. Cochrane Database of Systematic Review - Revisioni nuove o aggiornate, dicembre 2016-gennaio 2017. Documenti - Agenzia sanitaria e sociale regione Emilia-Romagna. Faringotonsillite in età pediatrica. Linea guida regionale. Dossier n. 253/2015. - Agenzia sanitaria e sociale regione Emilia-Romagna. Otite media acuta in età pediatrica. Linea guida regionale. Dossier n. 254/2015. Commento a cura di R. Buzzetti, M. Callegari, R. Signorini, M. Doria - Corretta alimentazione ed educazione nutrizionale nella prima infanzia. FAQ Ministero della Salute. Commento di Sergio Conti Nibali - La salute dei bambini in Italia. Dove va la pediatria? Il punto di vista e le proposte dell’ACP – Piena attuazione di linee guida e Raccomandazioni su Nascita e Postpartum. Commento di Dante Baronciani Ambiente e salute - Neurotossicità del Manganese: una revisione delle conoscenze. Vincenza Briscioli, Giacomo Toffol. Gruppo ACP Pediatri per Un Mondo Possibile - Cambiamento climatico: modificare il sistema dei trasporti per mitigare l’impatto sul clima. Giacomo Toffol, Laura Reali. Gruppo ACP Pediatri per Un Mondo Possibile L’ Articolo del mese - Incentivare con denaro le mamme per aumentare l’allattamento al seno. Un RCT pilota. Narrare l’immagine - Christian Krohg, Ragazza malata, 1880-1881. Descrizione a cura di Cristina Casoli. Impressioni di Giancarlo Biasini e Maria Francesca Siracusano
Quaderni acp - Associazione Culturale Pediatri
Editoriale
Maggio - Giugno 2017 / Vol. 24 n. 3
I tropici in ambulatorio
97 Luci e ombre dei big data
123 I tropici in ambulatorio: la malaria
99 Con i bambini e con i genitori
Narrative e dintorni
Antonio Addis, Alessandro Rosa
Federica Zanetto
Formazione a distanza
100 Sintomi di esordio in età pediatrica che preludono a malattie psichiatriche dell’adulto
Lucio Rinaldi
Infogenitori
106 Emozioni… e ancora emozioni
Costantino Panza, Stefania Manetti, Antonella Brunelli
Research letter
107 Le comunicazioni orali presentate dagli specializzandi al Congresso Tabiano XXVI Salute mentale
112 Il ritardo mentale lieve
Rubrica a cura di Angelo Spataro. Intervista di Angelo Spataro a Giacomo Stella
I primi mille
113 Il Programma 1000 Giorni a Roma: un anno di lavoro
Elisa Serangeli, Flaminia Trapani, Pamela Caprioli, Virna D’Antuono, Mara Bitetto, Alessandro Telloni, Maria Edoarda Trillò, Eliana Coltura, Giuseppe Cirillo
Scenario
116 Cibo a pezzi già dai sei mesi? E se poi si soffoca?
Manuela Musetti, Maddalena Marchesi, Luisa Seletti
Storie che insegnano
119 Parlare con il bambino può cambiare la relazione con la mamma
Gianni Garrone, Maria Merlo, Paolo Fiammengo, Paola Ghiotti, Chiara Guidoni, Antonietta Innocenti, Patrizia Levi, Lia Luzzato, Monica Montingelli, Paolo Morgando, Gianna Patrucco, Ivo Picotto, Danielle Rollier
Fabio Capello
127 Quando la pediatria incontra la pedagogia
Michela Schenetti, Elisa Guerra, Enrico Valletta
Maria Francesca Freda, Francesca Dicé
130 Una proposta di formazione per promuovere il dialogo in pediatria di base. Lo Scaffolding psicologico alla relazione sanitaria Off side
133 Assonanze pedagogiche nell’apprendimento: pedagogia scientifica di Maria Montessori e pedagogia della gestione mentale di Antoine de La Garanderie
Anna Brigandì
Farmacipì
136 Trattamento del vomito da gastroenterite acuta in età pediatrica
Antonio Clavenna
Vaccinacipì
137 Il morbillo
Rosario Cavallo
Libri
138 Campanelli Verdi e Rossi Aa.Vv. 138 Le otto montagne Paolo Cognetti 138 Inquinamento e salute dei bambini
Giacomo Toffol, Laura Reali, Laura Todesco (a cura di)
139 Proust era un neuroscienziato Jonah Lehrer Film
140 Moonlight Info
141 Minori stranieri 141 Nati per Contare 141 Fronte comune per difendere il Sistema Sanitario Nazionale
Come iscriversi o rinnovare l’iscrizione all’ACP La quota d’iscrizione per l’anno 2017 è di 100 euro per i medici, 10 euro per gli specializzandi, 30 euro per il personale sanitario non medico e per i non sanitari. Il versamento può essere effettuato tramite il c/c postale n. 12109096 intestato a Associazione Culturale Pediatri, Via Montiferru, 6 - Narbolia (OR) (indicando nella causale l’anno a cui si riferisce la quota), oppure attraverso una delle altre modalità indicate sul sito www.acp.it alla pagina “Come iscriversi”. Se ci si iscrive per la prima volta occorre compilare il modulo per la richiesta di adesione presente sul sito www.acp.it alla pagina “Come iscriversi” e seguire le istruzioni in esso contenute, oltre a effettuare il versamento della quota come sopra indicato. Gli iscritti all’ACP hanno diritto a ricevere la rivista bimestrale Quaderni acp, le pagine elettroniche di Quaderni acp, la Newsletter mensile Appunti di viaggio e la Newsletter quadrimestrale Fin da piccoli del Centro per la Salute del Bambino, richiedendola all’indirizzo info@csbonlus.org. Hanno anche diritto a uno sconto sulla iscrizione alla FAD dell’ACP alla quota agevolata di 60 euro anziché 80; a uno sconto sulla quota di abbonamento a Medico e Bambino (come da indicazioni sull’abbonamento riportate nella rivista); a uno sconto sulla quota di iscrizione al Congresso nazionale ACP. Gli iscritti possono usufruire di iniziative di aggiornamento e formazione. Potranno anche partecipare a gruppi di lavoro tra cui quelli su ambiente, vaccinazioni, EBM. Per una informazione più completa visitare il sito www.acp.it