Youthless Magazine Vol.1 Aprile 2018

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Youthless PERSONE, IDEE, CULTURA VOL. 01 // APRILE 2018

Fine o inizio?

TRIMESTRALE


DIRETTORE EDITORIALE Enrico Rossi enrico@youthlessfanzine.com EDITOR Francesca Attanasio ART DIRECTOR E IMPAGINAZIONE GRAFICA Arianna Lerussi hey@ariannlerussi.com COPERTINA REALIZZATA DA Nobar Yeganeh CONTRIBUTI Martina Testa Davide Armento Davide Miselli Yunes Okisp Veronica Vanzo Omar Baldin Gilda Gianolio Viktor Salsedine SUPPORTO TECNICO Luca Campani CONTATTI Newsletter - per iscriversi: voglioyouthless@youthlessfanzine.com Pubblicità adv@studio-y.it Canale Telegram t.me/youthlessmag È vietata la riproduzione anche parziale dei contenuti della rivista senza l’autorizzazione esplicita di autori ed editore.

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SOMMARIO 6

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INTERVISTA

INTERVISTA

Nobar Yeganeh

Davide Serino

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APPROFONDIMENTO

SOCIETÀ

14 SCENEGGIATURA

1993 - Ep. cinque

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Città in contanti

Quasi Millennials

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FOTOGRAFIA

INTERVISTA

ESTRATTO

Veronica Vanzo

Daniela Mazza

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APPROFONDIMENTO

APPROFONDIMENTO

Tradurre un’esistenza

La fenice vandala

66 POESIA

Il nome dei corpi celesti

Vittoria Mainoldi

Ultima uscita per Brooklyn di Hubert Selby Jr.

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Omar Saad


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editor

sere stato” o assimilarlo come certezza per outhless, oggi, è una rivista digitale che osmosi verbale. nasce dalle ceneri cartacee dell’omonima Il Tocci, il parco adiacente a questo posto, fanzine. era il ritrovo dei tossicodipendenti; oggi ha cambiato nome, perché oggi è cambiato el 2006 era abbastanza insensato stam- tutto, come quel fermento che pareva inepare una rivista cartacea autoprodotta e di- sauribile e che è finito. Dopo la fermentastribuirla gratuitamente a Reggio Emilia in zione resta solo l’acidità e gli intellettuaun periodo in cui i social media non esiste- li comunisti che si professano ancora tali, vano ancora e il compianto Myspace stava adesso, le rivoluzioni le fanno dal divano per affermarsi come pioniere nel mondo di casa: casa comprata con un mutuo o sull’unghia dai genitori, cellulare ultima gedel networking astratto. C’era l’Emilia, quella di sicuro, questa terra nerazione, bei vestiti, bella macchina, un soffocata dalla nebbia, contesa fra prag- lavoro nel campo della social strategy, mematismo operaio e idealismo culturale; una glio se in una cooperativa, meglio se in una città, incastrata fra Parma e Modena, vici- Onlus. na a Bologna, ma neanche troppo, almeno Il comunista imborghesito che continua a credere nel Partito, perché il busto di Lenin mentalmente. Una città di tradizioni contadine e operaie nella piazza di Cavriago lo legittima a queche aveva saputo trasformare l’analfabe- sto ruolo.

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tismo in cultura, senza sapere cosa fosse “cultura” e per questo meritevole ancor di più, aprendosi con un fervore sorprendente alle arti, alla letteratura, alla musica. Momenti d’oro di cui Reggio Emilia continua a vantarsi ancora adesso. Ma non è rimasto nulla di quegli anni Ottanta in cui sono nato, solo racconti e leggende come quella dei Nirvana che all’apice del successo avrebbero dovuto suonare al Corallo (nota discoteca scandianese, ndr) e che non erano stati ingaggiati perché sconosciuti prima dell’uscita di Nevermind ai gestori del locale. Il bar in cui sto scrivendo questo editoriale si vocifera essere stato uno “spazio-sala prove” dove i primi CCCP avevano iniziato a suonare o semplicemente a provare, chi lo sa con certezza? Tutto si trasforma in una verità nel momento stesso in cui le parole scorrono da una bocca all’altra e gli anni passano, trasformando tutto in un “può es-

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icordo che intorno ai vent’anni, con quei pochi soldi guadagnati dagli articoli scritti per un settimanale locale - che viveva grazie ad annunci erotici con brillanti stelline posizionate nei punti giusti delle belle signorine che promettevano seducenti parole dall’altro capo di un telefono - mi ero deciso a stampare quel primo numero composto da una quindicina di pagine A4, graffettate a mano, nessun fronte retro. Incontrai poi un gruppo di altri incoscienti come me, e da quel momento nacquero trentaquattro numeri che si concatenarono con l’organizzazione di eventi, concerti, mostre, idee senza seguito, festival, e poi anche una redazione “fisica” con quattro pareti: due di color grigio antracite e due verde pisello. E ancora, da lì, una commistione di incontri, persone, relazioni. Perché Youthless è un’idea partita da sola, che ha preso forma, che ha incontrato persone,


riale che ne ha viste passare tante - alcune per più tempo, altre per meno – e alla fine siamo ancora qui.

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uesto passato tende sempre, in qualche modo, a definire il presente, cercando degli spazi anche nel futuro. Bisogna fare i conti con i cambiamenti, fare delle riflessioni e poi fare un passo indietro per tentare di capire cosa si vuole davvero. Io non l’ho capito. Di passi indietro poi ne ho fatti tre o quattro provando a non perdere l’equilibrio. Non ne basta mai uno solo di questi fantomatici “passi”; poi serve un bel gioco di gambe, di testa, dribblare, correre verso la porta opposta e rendersi conto che si sta per fare autogoal. È necessario tornare a centrocampo, mettere il pallone nel dischetto e rivedere lo schema di gioco; e senza alcun dubbio alzare il dito medio al proprio allenatore. Io di calcio non ne so nulla, ma improvvisare è molto importante e pare che le metafore sportive siano molto accattivanti, un incentivo al miglioramento: sforzo fisico e mentale. Concentrazione e stiramenti muscolari. Dolore.

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a nuova rivista che continua a portare questo nome di “mancanza di qualcosa” Youthless, è un magazine trimestrale che si può leggere, scaricare e condividere tramite il nostro sito e altre piattaforme. Potrete riceverla tramite la nostra newsletter via mail e sul canale Telegram (vedi alla voce simile a whatsapp, ma non è whatsapp ma funziona come whatsapp).

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ine/Inizio: questo è il tema del primo numero, perché ogni fine non è detto che

lo sia per davvero e ogni inizio non è detto che lo sia per davvero. La storia stessa di Youthless è un gioco che comincia e finisce, e nel momento in cui finisce, ricomincia e rilancia; la rivista era sul punto di chiudere, infatti. E volevo che finisse a tutti i costi in un certo momento, perché trovavo che fosse giusto così, anche naturale, perché tutte le cose devono finire. E invece.

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a copertina di questo numero è stata realizzata dall’illustratrice iraniana Nobar Yeganeh, che vive a Teheran dove studia grafica e animazione: un’illustrazione che rappresenta un volto stilizzato e che assomiglia vagamente a un punto di domanda. Troverete poi un estratto del libro di Hubert Selby Jr - Ultima uscita per Brooklyn – edito da Big Sur, con approfondimento di Martina Testa che si è occupata della traduzione italiana e che ringraziamo per la disponibilità e l’aiuto. E poi interviste “diverse” a: Vittoria Mainoldi, della Galleria Ono Arte; Daniela Mazza, dell’ufficio stampa di Bao Publishing; Davide Serino, uno degli sceneggiatori della serie 1993; Omar Saad, giovane musicista di classica che ha lasciato il suo villaggio nella Palestina storica per poter proseguire la sua carriera. Oltre a queste “voci”, approfondimenti e pensieri.

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i piacerebbe ricevere le vostre opinioni, sapere cosa ne pensate di questa rivista e avere uno scambio diretto; ci auguriamo che vi uniate alla nostra mailing list e al canale Telegram e che invierete suggerimenti costruttivi per crescere. Ci piace la condivisione progettata e sensata. Enrico Rossi


INTERVISTA

nobar yeganeh INTERVISTA DI VIKTOR SALSEDINE

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iao Nobar, raccontaci un po’ di te: cosa studi all’Università di Teheran e quali sono le tue passioni? Sono una studentessa di graphic design, mi piace l’animazione, che è l’aspetto che preferisco nel mio corso di laurea. Mi piace viaggiare e passare il tempo con i miei amici guardando spesso gli anime giapponesi, leggere libri e ovviamente i manga. Com’è la vita universitaria in Iran?

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Posso dire che studiare grafica in Iran è un po’ differente, nel senso che non c’è un vero corso di animazione nelle Università, così ho scelto l’indirizzo grafico, perché si avvicina maggiormente al concetto di animazione. Realizzo illustrazioni con l’intento specifico di realizzare poi l’animazione. E l’ambiente culturale a Teheran come coinvolge – se li coinvolge - i giovani? L’ambiente culturale come la politica nel nostro paese vivono sempre di momenti di difficoltà, nel senso che nel momento in cui la libertà umana è limitata, anche l’arte e la cultura ne soffrono di conseguenza. Conoscevi la ragazza che si è tolta il Hijab bianco? Penso sia stata molto coraggiosa, è una madre di un bambino di diciannove mesi. Spero che ora sia al sicuro. Sono convinta che gli esseri umani debbano decidere con la propria testa le decisioni che vogliono o non vogliono prendere, come per il velo.

Riesci a descrivere lo stile che utilizzi nei tuoi lavori? Sono nata in Giappone e vivo in Iran, questo spiega il mio stile minimalista e l’interesse per il mondo dei manga e pure quello “spiritualista”. Mi piacciono i contrasti e pattern grafici, ovviamente adoro l’animazione presente nei lavori di Miyazaki e il suo modo di rappresentare la vita mostrandocela così bella e pacifica se vogliamo. L’illustrazione della copertina che vi ho dato faceva parte di un progetto universitario: ho realizzato diverse facce con il Farsi Fonts e creato un artwork con una serie di variazione delle espressioni facciali per un mockup servito successivamente a realizzare delle T-shirts. Questo primo numero di Youthless è incentrato sul tema “fine / inizio”, perché una fine non significa necessariamente la conclusione di qualcosa, cosa ne pensi? È un aspetto molto interessante. Penso che la vita sia una specie di cerchio, dove non c’è una fine o un inizio, aspetto che è solo nei nostri pensieri. Tutto può cambiare quando smetti di pensare al concetto di “fine/inizio”. Ad esempio quando realizziamo un’illustrazione, poi finisce con il risultato finale? Non penso, anzi abbiamo perso di vista il piacere del processo creativo che è alla base di tutto e che sta tra l’inizio e la fine del lavoro. A volte ci dimentichiamo semplicemente di vivere, ecco.


Abbiamo perso di vista il piacere del processo creativo che è alla base di tutto e che sta tra l’inizio e la fine del lavoro.

INTERVISTA

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INTERVISTA

DaVide SeRino INTERVISTA E TESTO DI ENRICO ROSSI

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La serialità nel mondo televisivo è inevitabilmente cambiata con la stessa velocità che scandisce le nostre vite, dentro e fuori dagli schermi dei nostri dispositivi mobili. Le storie sono diventate altro a un certo punto, se pensiamo ai “classici” con medici empatici e bellissimi sempre intenti a salvare vite compromesse come in ER-medici in prima linea, siamo passati al tormentato Dottor House e al suo cinismo spietato che cancella tutti i predecessori di genere sovvertendo le regole del protagonista. Stessa cosa per il Walter White che – spero – conosciamo ormai tutti. Da Lost in poi, infatti, la narrazione si muove in altri territori: la scrittura si frammenta, taglia e affetta il tempo, un nuovo ritmo dirige gli episodi meglio di un direttore d’orchestra, mentre la psicologia dei personaggi diventa tridimensionale e gli schemi temporali cambiano per ottenere un linguaggio più complesso. Pare una specie di realtà aumentata che rende le storie più vicine a noi, facendole mutare come il mezzo di fruizione: dal televisore di casa al computer e poi al tablet e per i più coraggiosi il cellulare.


uando hai iniziato a scrivere sceneggiature? Ricordi un momento preciso che ti ha fatto pensare: ”Questo diventerà il mio lavoro”? Stavo finendo il liceo classico e come tutti in quel momento della vita mi chiedevo cosa avrei fatto da grande. La verità è che dentro di me sognavo di fare lo scrittore, ma mi sembrava un orizzonte impossibile, un po’ infantile. Così ho iniziato a dire: “Voglio fare lo sceneggiatore” perché mi sembrava una professione vera, raggiungibile. A posteriori, penso che fossi pazzo: scrivere sceneggiature significa che la tua storia per venire alla luce necessiterà di qualcuno che investa una marea di soldi e centinaia di persone dovranno lavorarci. È più facile vedere il proprio libro pubblicato che il proprio copione diventare un film. Eppure, quella scelta un po’ stramba ha dato una direzione alla mia vita. Hai ricordi delle prime storie (o tentativi di storie) che hai scritto?

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scrittore che leggevo in quel momento. Insomma, la fase dell’imitazione, attraverso la lingua degli scrittori che amavo, come un vampiro.

La sceneggiatura è un equilibrio fragile tra creatività e artigianato, c’è un sistema di regole e strutture che certo non è matematico e non deve diventare una gabbia, ma aiuta a orientarsi in un’impresa titanica come costruire una storia che funzioni fuori dalla nostra stanza.

Ho sempre letto moltissimo, da bambino e poi ragazzino un po’ disadattato, Hai preso parte al master Rai Script a Pequindi le mie prime storie sono nate da rugia, cosa ti ha dato quell’esperienza in quei libri, in un certo senso. Il primo li- termini umani e professionali? bro per cui sono impazzito è stata una Il corso Rai Script è stato davvero il priversione per ragazzi, con delle immagini, mo passo, l’incidente scatenante, didell’Iliade, che mio fratello mi ha regalato rebbe uno sceneggiatore. Era un corso e mi leggeva quando ancora non sapedi 4/5 mesi, completamente gratuito, vo leggere. Giocavo coi playmobil e uno a numero chiuso. Io partecipavo come era Ettore, uno era Achille, Agamennone, semplice uditore mentre finivo la speEnea… Era quasi come creare una serie cialistica in Lettere alla Sapienza, epputv giocando, immaginando sempre nuore quell’esperienza è stata fondamentale ve vicende e nuove avventure, con quei come formazione, prima di tutto, perché soldatini come protagonisti. Tifavo per i mi ha insegnato davvero le basi della troiani, ovviamente. I perdenti sono semsceneggiatura. È un equilibrio fragile tra pre i personaggi più belli. creatività e artigianato, c’è un sistema di Poi ho iniziato a scrivere con il primo regole e strutture che certo non è matecomputer che è arrivato in casa, intorno matico e non deve diventare una gabbia, agli otto-dieci anni scrivevo il seguito di ma aiuta a orientarsi in un’impresa titaniun libro per ragazzi che mi avevano regaca come costruire una storia che funzioni lato, stessi personaggi, nuove avventure. fuori dalla nostra stanza. Poi è arrivato il periodo di una serie inSi lavorava moltissimo sulla specificità di terminabile di romanzi iniziati e mai poruna serie tv. Cosa rende quindi lo spettati a termine, ognuno con lo stile dello

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tacolo seriale diverso da un film? Ad esempio: un film dà una risposta a una domanda che viene posta nelle sue premesse, nel primo atto, mentre la serie dovrebbe essere potenzialmente infinita, generare sempre nuovo spettacolo e un nuovo interrogativo sulla domanda fondante, sul conflitto non risolvibile su cui è costruita. Dal corso Rai Script è arrivata anche la mia prima opportunità professionale, grazie a Nicola Lusuardi, uno degli insegnanti del corso, nonché una delle persone che ha davvero cambiato il modo di guardare – e studiare – le serie tv in Italia. Hai scritto una serie o altri progetti durante il master?

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Ho lavorato a una serie la cui idea seminale era nata nei viaggi da pendolare da Varese a Milano durante la triennale, ma se devo essere onesto è un progetto che ancora, dopo quasi dieci anni, non è ancora arrivato a maturazione. Per strani casi del destino, sono stato poi coinvolto in una serie che affronta tematiche simili, da un angolo molto diverso. Non si sa mai come si uniranno i puntini. Sei stato anche al Torino Film Lab, come si è sviluppata quest’altra esperienza di scrittura? Sono stato chiamato nell’ambito di quello che si chiamava Fiction Lab ad affiancare una sceneggiatrice, Elena Donadon, nel suo progetto. Il Fiction Lab era un programma di sviluppo di Serie TV che consentiva a nove progetti di crescere con l’aiuto di tre tutor di alto livello che quell’anno erano Nicola Lusuardi, Stefano Sardo e Gino Ventriglia. Oggi l’iniziativa è cresciuta ancora e ha due versioni, una italiana (Series Lab Italia) e una internazionale (Series Lab), per la quale quest’anno ho fatto da giurato per la selezione. Se avete un’idea per una Serie TV nel cassetto, è un’occasione da non perdere, che dà l’opportunità di tre workshop intensivi con grandi professionisti e poi di fare il pitch del proprio

progetto in vetrine davvero importanti. Hai potuto confrontare il tuo metodo di lavoro con quello di altri? Hai notato diversità in questo senso e potuto far tuo qualcosa che prima non avevi nel tuo “bagaglio” di sceneggiatore? Come no. La sceneggiatura è davvero un mondo fatto di tanti talenti diversi e ognuno ha punti di forza e punti deboli. Credo che davvero sia un lavoro di squadra, e mai come per la serialità televisiva il gruppo di lavoro è fondamentale. Non solo permette di avere una quantità esponenzialmente maggiore di idee, ma anche di valutarne la qualità immediatamente, nel momento stesso in cui la esponi a persone di cui ti fidi. C’è chi è eccezionale nel lavoro di plot, nel creare quindi dinamiche di conflitto e colpi di scena che portano avanti la storia, chi ha un maggior talento nell’esplorazione del personaggio, chi è più forte nella struttura, chi nella struttura di scena… Per questo, davvero, trovare un gruppo di persone complementare è


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unioni creative e si sono rivelati molto aperti. Mi hanno dato l’occasione di rendermi utile e poi hanno lottato per farmi restare nel progetto alla fine di quei tre mesi. È stato davvero il primo punto di svolta della mia vita professionale. Loro poi credono molto nel lavoro di gruppo ed è per questo che quella di 1992, 1993 (e 1994) è davvero una writers’ room, come la intendono gli americani, o almeno un primo tentativo di averla in Italia, che infatti poi si è arricchita di energie nuove, con Gianluca Bernardini e Giordana Mari. Raccontaci come nasce la stesura e la fase di lavorazione della scaletta di una serie come 1992 e 1993. Che ruoli avete come sceneggiatori per impostare le scene e la scaletta?

fondamentale. Com’è avvenuto il passaggio dalle esperienze di cui abbiamo parlato poco fa fino ad entrare nel team di sceneggiatori della serie 1992 e 1993? Ecco, parlando di gruppi di scrittura, quello dei tre creatori di 1992 e 1993 è un piccolo mondo meraviglioso. Quell’esperienza è nata, come accennavo, al corso Rai Script. Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, che avevano scritto la bibbia di 1992, cercavano un giovane assistente e Nicola Lusuardi ha fatto loro il mio nome. Dovevano essere 3 mesi di ricerche storiche, sono diventati 7 anni di lavoro insieme e amicizia… Quindi ti direi che la selezione l’ho fatta lavorando. All’inizio si trattava di ricostruire gli anni di Tangentopoli in modo realistico e allo stesso tempo narrativamente interessante: leggere libri, guardare documentari, leggere quotidiani dell’epoca in emeroteca e rendere tutto fruibile e utile a un racconto seriale. Loro mi hanno subito fatto partecipare alle ri-

Siamo in pieno romanzo storico e dunque c’è da trovare quell’equilibrio complesso tra realtà e racconto. Bisogna evitare che la realtà rovini una bella storia e allo stesso tempo essere fedeli alla verità storica. Per questo, l’idea dei creatori è stata fin dall’inizio quella di avere come protagonisti dei personaggi immaginari, che agissero a fianco e alle spalle delle figure storiche. C’è quindi moltissimo studio, nel lavoro preliminare, che ci permette di creare una griglia a partire dai fatti storici che hanno attraversato l’anno di cui ci stiamo occupando, a cui cerchiamo di dare il prima possibile un significato drammaturgico. Per questo si sceglie un arco che non copre necessariamente tutti i dodici mesi: 1992 andava dall’arresto di Mario Chiesa all’avviso di garanzia a Craxi, 1993 dalle monetine del Raphael, quindi addirittura fine aprile, alla preparazione alla discesa in campo. A partire da questa griglia storica si fa una prima divisione in episodi, e poi si passa a lavorare sull’arco dei personaggi nella stagione e nelle singole puntate. Un lavoro di creazione molto libero, puntellato però dagli eventi reali. Da una prima bibbia di serie, ai soggetti degli episodi, poi la scaletta degli episodi, e infine le

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INTERVISTA

stro personaggio.

Bisogna evitare che la realtà rovini una bella storia e allo stesso tempo essere fedeli alla verità storica. Per questo, l’idea dei creatori è stata fin dall’inizio quella di avere come protagonisti dei personaggi immaginari, che agissero a fianco e alle spalle delle figure storiche.

sceneggiature. Un lungo percorso. Ci hai gentilmente concesso la pubblica-

12 zione di questa scena che hai scritto; ci

racconti l’ambientazione e il senso per chi non l’avesse vista?

Alessandro, Ludovica e Stefano mi hanno dato la bellissima opportunità di scrivere un episodio di 1993. Quindi ho scritto l’episodio 5 insieme a loro tre e a Gianluca Bernardini, che era entrato nella writers’ room per la seconda stagione. Questa scena è indicativa del concept della serie, perché appunto abbiamo uno dei nostri protagonisti di fantasia, Leonardo Notte, insieme a uno dei grandi personaggi storici, Sergio Cusani. Leo è in carcere a San Vittore e con lui c’è Cusani, coinvolto nel caso Enimont. L’arco dell’episodio 5, in cui Leo passa dall’inazione alla voglia di tornare a combattere, è un esempio di come una figura reale diventi personaggio con una funzione drammaturgica molto chiara, che in questo episodio è quella di mentore. Senza tradire la biografia di Cusani, ci siamo chiesti cosa potesse voler dire la sua esperienza per il no-

Vai mai sul set? Se sì, qual è la reazione nel vedere ciò che hai scritto prendere forma con degli attori? Sì, ed è una esperienza strana e allo stesso tempo spaventosa, per me. Realizzi quanta gente sta lavorando per dare vita a quello che hai scritto e improvvisamente vieni sommerso da una domanda terrificante: ne vale la pena? Per questo se posso scappo! Però è allo stesso tempo incredibilmente appagante. È il regno di professionisti eccezionali che rendono le tue costruzioni mentali vere. E molte volte è sorprendente vedere che la scena acquista un senso nuovo che aggiunge qualcosa di più a quello che c’era sulla carta. Inoltre, soprattutto nella serialità, la presenza degli sceneggiatori sul set può essere davvero utile per il contributo alla memoria della serie al di là della singola scena che viene girata. Hai adattato anche dei racconti di Camilleri per RAI FICTION, “Donne”. In questo caso qual è l’approccio per trasformare un racconto in una sceneggiatura? È stata una grande esperienza soprattutto per il lavoro con Andrea Camilleri. Una lucidità impressionante: gli leggevamo le sceneggiature e lui dava, dopo un primo ascolto, note precisissime e decisive, oltre a condividere un bagaglio infinito di esperienze personali che poi andavano ad arricchire il testo. Un narratore nel vero senso del termine, un maestro nel trasformare la vita in racconto. Partivamo dai racconti brevi contenuti in quella raccolta, in cui Camilleri esplorava l’universo femminile attraverso una serie di figure ricostruite a partire dalla biografia personale. La difficoltà, nel processo di adattamento, era trovare una coerenza per un episodio che doveva concludersi in dieci minuti e allo stesso tempo fare parte di un’antologia più grande. Come un possibile, potenzialmente infinito, romanzo di formazione all’universo femminile. Ogni episodio, peraltro, aveva


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attori diversi e in particolare un Camilleri diverso. Per questo ci siamo chiesti che linea conduttrice potessimo tracciare che ci guidasse negli episodi, e questa linea passa anche attraverso gesti apparentemente semplici come l’aggiustarsi gli occhiali o negli oggetti che dall’infanzia portiamo all’età adulta, come il libro di Alice nel paese delle meraviglie che vediamo nel primo e nell’ultimo episodio. Sceneggiature nel cassetto? Diverse, anche se diminuisce il tempo per scriverle, per fortuna, in un certo senso. Quando questa diventa una professione “vera”, cresce il lavoro su commissione, che significa semplicemente partire da idee di altri, spesso, e trovare la propria chiave. Mi sono allontanato dall’Italia, però, di recente, per nove mesi, per seguire un master internazionale di scrittura seriale per giovani professionisti che si chiama Serial Eyes, e durante questa specializzazione ho sviluppato una mia serie che, poi, è stata opzionata da una società francese. Questo è il piccolo fragile sogno personale che sto coltivando, al momento. E ora a cosa stai lavorando? È un momento davvero vivo per la serialità, in Italia, e in effetti la maggior parte dei progetti a cui sto lavorando sono seriali: un paio per la Rai, un crime e un family, poi un concept di fantascienza, e un period su un personaggio storico rivisto però sotto una luce completamente diversa da quella che conosciamo per una casa di produzione tedesca. In mezzo, un piccolo film che ha vinto lo sviluppo del ministero, che si chiama Piano piano, e che forse piano piano arriverà a vedere la luce.

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SCENEGGIATURA

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DAVIDE SERINO


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OMAR BALDIN

APPROFONDIMENTO


APPROFONDIMENTO

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La città può diventare un carcere. Il cittadino si “appiattisce” e si adatta alle condizioni imposte dal contesto che ha intorno a sè. L’esperienza che vive modifica la percezione dello spazio e dei rapporti fino ad accettare brutture e limitazioni e questo vale anche nel vivere l'ambiente urbano in cui è immerso. Da questa supposizione, passando dallo "scenario visivo" e prendendo in esame anche quello sociale/ politico delle serie televisive 1992 e 1993 abbiamo approfondito il "contesto” architettonico di quel periodo.


APPROFONDIMENTO

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orruzione, bustarella, tangente, dazione ambientale, contributi delle aziende per segnalare la propria presenza imprenditoriale nel territorio, e mille altri termini per descrivere in maniera più o meno adeguata una “cattiva abitudine” principalmente italiana. Non sono un politico, tantomeno m’intendo di finanza.

L’architettura invece la conosco abbastanza bene, e la cosa più evidente di questo periodo storico, eccetto alcuni rari casi, è l’inconsistenza delle realizzazioni, la confusione radicale tra edilizia e architettura. L’architettura è l’arte di costruire la città, una città composta di pieni e vuoti che all’unisono concorrono a creare il nostro ambiente vitale. La città è un organismo delicato e, come il corpo umano, può soffrire di malattie più o meno gravi che possono avere conseguenze dannose permanenti. La corruzione è un virus. Parlo al presente perché purtroppo è ancora viva e vegeta e, come i virus più potenti, si è adattata all’organismo che cambia. La corruzione si manifesta in differenti cam20 pi, ma la parte più evidente del fenomeno si manifesta nell’appalto pubblico, nelle infrastrutture, ossia nella colonna vertebrale delle nostre città, parte fondamentale per lo sviluppo e la crescita (Metro M3 e passante ferroviario a Milano, alta velocità). Si manifesta nel mondo della sanità (ospedale Paolo Pini e Niguarda a Milano), nella cultura (Piccolo Teatro a Milano), nell’ambiente idrogeofaunistico definitivamente compromesso (golf club a Tolcinasco). Non è un caso che alcuni protagonisti chiave di Tangentopoli siano architetti. La figura dell’architetto di Vitruviana memoria è, e deve essere, pubblica. Lavora nella città, la modifica. La sua responsabilità è enorme rispetto agli effetti che possono avere i suoi interventi all’interno della nostra vita e degli ambienti che ci circondano. Epifanio Li Calzi, Claudio Dini, Silvano Larini, Andrea Balzani i principali architetti protagonisti della saga tangentopoli, con responsabilità diverse, ma effetti simili. “Amministratori” o autori, per dirla con le

parole di Marco Biraghi, di Un’architettura particolarmente banale ed inespressiva, tanto che “risulta evidente come per architetti del genere il problema estetico non è minimamente importante, al punto da poterne fare l’ultimo dei loro problemi. E non certo perché l’architettura – per loro – sia “qualcosa che difficilmente può essere considerata in modo esclusivo sotto il profilo estetico”, […] bensì per la semplice ragione che la loro architettura non viene giudicata – da parte di chi la commissiona e l’approva – sulla base di questo parametro. Perché di questo si parla, di professionisti non in quanto tali, figure non nate con la sensibilità e l’onestà necessaria per fare questo lavoro, il cui unico obiettivo è la collusione per guadagnare più potere possibile. I soldi si esauriscono, il potere decade, le città rimangono.

BIO

Omar Baldin è nato a Montebelluna nel 1980. Si avvicina all’edilizia lavorando come manovale nell’impresa edile di famiglia. Laureato in - e appassionato- di architettura ha vissuto a Milano, Berlino e Londra. Ha collaborato con Cino Zucchi nella realizzazione dell’headquarter della Salewa e del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino; con lo studio Marcel Mauer si è occupato della ristrutturazione de La Polveriera di Reggio Emilia. Attualmente vive a Reggio Emilia dove lavora come libero professionista.


“ L’architettura è l’arte di costruire la città, una città

composta di pieni e vuoti che all’unisono concorrono a creare il nostro ambiente vitale. La città è un organismo delicato e, come il corpo umano, può soffrire di malattie più o meno gravi che possono avere conseguenze dannose permanenti.


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ENRICO ROSSI


l tempo scorre, le stagioni cambiano, e le generazioni pure. In questo momento l’ultima generazione in circolazione è la Z, nome che ha trovato la vittoria spodestando tra gli altri: iGeneration, Gen Tech, Gen Wii, Net Gen, Digital Natives, Plurals. Un sondaggio che ha eletto Z, appunto, dopo la generazione X e Y attraverso un sistema di elezione che risulta ideale in un mondo globalizzato e digitalizzato che ha fatto suo ogni tipo di suddivisione anagrafica e gusti in fatto di sesso, divertimento, immagine per tentare di definirci e identificarci, di capire chi siamo e da dove veniamo: i quesiti universali sulla vita, insomma. Un nuovo Dio, magari, a cui rivolgerci (chiamato Google) e nuove domande filosofiche a cui oggi risponderà l’analisi dei dati insights di Zuckerberg e che un tempo avrebbe tentato di spiegarci Platone con i suoi dialoghi. Tutto cambia, si modella, si distrugge e trova diverse categorizzazioni da opinionista digitale ad opinionista digitale. Non voglio soffermarmi sul “quando” esatto una generazione cambia nome, o delle motivazioni - se giuste o sbagliate-, di etichettare in un certo modo piuttosto che un altro. Ho appreso di poter rientrare nel target dei Millennials poco tempo fa, una generazione per lo più identificata tra i nati compresi dal 1980 al 2000 (o 2005 a detta di alcuni, ndr); un lasso temporale, però, non di poco conto per far rientrare tutti sotto una medesima distinzione. Sono nato il 10 agosto 1984 quando le stelle mi hanno detto - brillavano e bruciavano lontane sopra il cielo di Reggio Emilia, ma ben visibili agli occhi della generazione di mia madre. Un anno bisestile come altri prima, che iniziava all’insegna del liberalismo capitalista del sogno digitale, partorendo il primo computer Macintosh presentato dalla Apple al mondo intero, con Albano e Romina che vincevano il trentaquattresimo Festival di Sanremo intonando Ci Sarà?, con Craxi che aboliva la scala mobile – che avrei studiato soltanto sedici anni più tardi all’Istituto Tecnico di Rivalta dove ero l’unico maschio su una classe di una ventina di donne e dove avrei imparato molte cose -, con la morte di Berlinguer quando ero ancora in grembo di mia madre, pronto a iniziare a vivere da lì a pochi mesi. Un anno che pare arrecarmi il diritto di rientrare nella categoria dei Millennials, appunto, e che

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mi ha fatto subito pensare:” Io? Proprio io!? Ma è fantastico!”. Soprattutto in un momento della mia vita in cui sento che mi sta sfuggendo di mano ogni cosa: lavoro, famiglia, sentimenti, persone a cui voglio un bene dell’anima, ma sono lontane e irraggiungibili e poi, in fondo alla lista, me stesso. A fatica ho capito - e sto cercando ancora di capire- che alle volte è necessario lasciare andare sogni e persone, che bisogna sapersi arrendere davanti alle sconfitte, che il fallimento è solo il lascito più maturo di alcune vittorie mai realmente avvenute. Ma questo modo di pensare, un vero Millennials lo penserebbe sul serio? Una sensazione che un quasi nativo digitale come me, forse, non riesce a far capire a quelli della stessa generazione. Io stesso da Millennials quale dovrei essere, non dovrei permettermi di caderci dentro, perché il mondo mi scorre veloce tutt’intorno, i pensieri non vengono metabolizzati attraverso una reale forma di apprendimento che, invece, fagocita tutto e tutti, e le riflessioni non hanno tempo di nascere, perché si tramutano in altro dopo un solo click. Le possibilità sono infinite e soffermarsi sulle perdite non dovrebbe avere alcun senso. Ci

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Le possibilità sono infinite e soffermarsi sulle perdite non dovrebbe avere alcun senso. Ci sarà un domani che guarderà già a un dopodomani prima di essere vissuto appieno in questo istante. Un istante che non è più presente, né futuro, né tantomeno passato, se non quello archiviato nei backup.


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sarà un domani che guarderà già a un dopodomani prima di essere vissuto appieno in questo istante. Un istante che non è più presente, né futuro, né tantomeno passato, se non quello archiviato nei backup.

Una sensazione, quella della perdita, della riflessione, della velocità che è più simile a un torpore a dire il vero, come quando dormi per ore sopra il tuo braccio, steso sul divano, in quei sonni della domenica pomeriggio che ti fanno svegliare più stanco di prima e pensi di aver perso l’uso dell’arto in questione. Per un giovane digitale non dovrebbe significare nulla; la capacità di sopravvivenza è dettata dalla capacità di capire il mondo che hai intorno, trarre delle soluzioni utili per far fronte alle difficoltà nel minor tempo possibile e attuarle prima che sia troppo tardi. Ma quel formicolio, così fastidioso quanto vitale, a me piace molto, ed è forse la chiave di lettura che manca all’iperrealismo degli schermi delle generazioni X Y Z e chissà quali altre verranno dopo. Un nuovo mondo che vive all’insegna di gigabyte, mail, social, selfie che ci ritraggono in un “noi” che ci definisce più di quanto sappiamo essere quando siamo soli. E riusciremo poi a stare soli? Riusciranno ad af24 frontare il peso dei propri pensieri queste generazioni pronte a modificarsi virtualmente con la prossima app? Io che ho vissuto l’interminabile leggerezza del frastuono imponente della 56k per navigare nel web, dico n-a-v-i-g-a-r-e, che credevo avessi bisogno di un salvagente a un certo punto, io che andavo con un floppy disk all’internet point della mia città e pagavo diecimila lire per un’ora di cyber naufragio e scaricavo le immagini dei giocatori dell’Nba e di Dragon Ball, io che pensavo di far parte della generazione X, quella che mi faceva sentire protetto anche se sapevo di non poterci rientrare nonostante i miei jeans strappati, una camicia di flanella, le Converse e la morte nel cuore per il lascito artistico ed emotivo di Kurt Cobain. E, invece, apprendo ora di poter essere un fiero esponente della generazione Y: ipsilon come yogurt, una lettera dell’alfabeto così lontana dalle altre, facente parte di quel gruppo anglofono che mi ha sempre confuso anche alle elementari e che mi dicevo:” Vabbè ma queste lettere stanno in fondo, le altre sono più importanti, ma cosa le imparo a fare?”.


Io, le donne, quelle nude, ci ho messo anni per avere il coraggio di vederle. Quanto tempo ci è voluto per capire come eravate fatte. Tantissimo, ve lo dico io. Quando avevo bisogno dell’internet per capirlo, non era ancora disponibile nelle case dei nostri genitori o perlomeno non era alla mercé di tutti. Volevo fare come alcuni amici, che prendevano la bicicletta per andare dall’altra parte del quartiere, in via Wybicki, - nome che nessuno ha mai pronunciato correttamente da queste parti-, perché l’edicola era abbastanza lontana da casa per non farsi scoprire. Un piano ideale per un’operazione in incognito: la scoperta della donna. Armato di coraggio, pedalavo anche io per capire finalmente come eravate fatte:” Dai, Enrico, ce la fai. Entri deciso, sulla destra, lo sai che sono lì, ci sono i giornaletti. Li hai visti di sfuggita l’altra volta. Dai, entri, ne prendi uno a caso, non puoi permetterti di scegliere ed esci. È facile.” Non ci riuscii mai. Non riuscii nemmeno ad andare quel pomeriggio, che divenne IL pomeriggio dei pomeriggi subito dopo quella visione, a vedere il primo film porno trovato nel cassetto dello studio del padre di uno degli amici di scuola. Quanto tempo ci è voluto per capire come eravate fatte. Un’attesa infinita passata a studiarvi, a sentire i vostri discorsi sulle panchine al parco, a scrutare da lontano cosa vi piaceva, i vostri desideri, le vostre paure, le vostre fragilità. C’è ancora tempo per tutto questo o il mio è stato un lusso che voi Millennials non potete più permettervi? Forse alla fine cambia solo il mezzo con cui affrontiamo la vita di tutti i giorni, ma in concreto sia utilizzando uno schermo, sia ritrovandosi al campetto, si cerca sempre di essere come tutti gli altri, di apparire, di connettersi, di fare gruppo. Prima era un contesto locale: il quartiere. Ora il quartiere ha perso i propri confini. Si annuiva tutti davanti a quelle nuove parole che al campetto venivano fuori con noncuranza e a sproposito in preda agli ormoni:” seghe, sborra, figa”.

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E ora? Cos’ho realmente da spartire con i miei confratelli Millennials? Perché le diversità ci sono e una categoria non è sufficiente a metterci tutti sullo stesso piano emotivo e non ci renderà necessariamente unanimi nel vivere le nostre vite. Come vivono loro la scoperta della donna, di se stessi e del loro corpo?

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Anche in questo caso ci ho messo una tempo infinito per capire a cosa fossero riferite. E anche questo, amici Millennials di fine anni novanta, a voi è successo di non capire il significato di certe parole e lasciarle vagare nei vostri pensieri senza alcuna risposta? I punti emotivi di quella rottura rispetto alle aspettative di quello che sognavi, perchè non li conoscevi, io li ho vissuti insieme all’ignoranza che diventava sinonimo di sopravvivenza. I goffi tentativi poi di essere ricambiato in cerca di un contatto fisico che non avveniva quasi mai, e non certamente con un messaggio o una mail o un’app. Ora è meglio o peggio? È l’evoluzione? Mi viene in mente solo una citazione tratta da una canzone dei Pearl Jam – tornando sempre a quegli anni della generazione X –:“It’s evolution baby”. Un sentimento, questa illusione di solitudine in un mondo iperconnesso, che posso provare io, ma che un diciassettenne, forse, non è pronto ad afferrare del tutto se non attraverso un blocco temporaneo su whatsapp o un cancellamento da qualche social. Ma davvero, io, sono idoneo a rientrare in questa categoria? Cos’ho davvero a che spartire, io, con quelli nati nel 2000? Quando loro erano appena nati, quando loro pensavano solo a mangiare, a tirare il latte dalle tette delle madri che potevano essere mie coetanee per appartenenza anagrafica, e che si cacavano addosso nel lettino nuovo comprato da novelli genitori, io avevo già sedici anni. Alle superiori mi aggiravo nei corridoi sperando di non essere notato da nessuno e speravo che Marika, la ragazzina dell’altra classe, mi notasse in qualche modo. Io che lo stesso anno avevo detto all’unica compagna di classe proprietaria del primo cellulare, - un Nokia color giallo uovo -, la perentoria frase da luminare quale credevo di essere:” Ma per favore Franci, perdio, che cosa ci fai con quell’aggeggio? Dai, io non lo prenderò mai. Ma secondo te, ti pare?”. Io e la mia proverbiale lungimiranza, una relazione vissuta sempre sul filo di lana, un rapporto schietto e istintivo. Marika, dicevo, che riuscii ad avere il suo numero di telefono di casa, quando facevamo lezione nella sua classe, per mancanza di aule, solo grazie alla noncuranza di una professoressa nel lasciare ben visibile il registro di clas-

se aperto e alla portata di tutti: quindi io. Un tempo in cui la privacy non esisteva. In cui dire chi eravamo non era un problema. Le avevo lasciato trascritta sul banco una poesia, sperando fosse il suo posto poi, sperando di aver contato bene durante i miei fuggiaschi passaggi davanti alla sua aula nei miei conteggi mentali: “dunque, seconda fila, a destra, lato finestra, al centro”. La bidella avrà creduto avessi un problema precoce alla prostata, sempre in bagno a tutte le ore. Bidella appunto, perché al tempo era concesso usare questo sostantivo e nessuno se ne vergognava. Anche questo cambia con l’apparente digitalizzazione delle nostre vite: doverci chiamare in un modo appropriato, che non leda i sentimenti degli altri, prima che i nostri. Per non far vergognare quelle persone che stanno più in alto in una ipotetica scala gerar-

Le persone non avevano problemi ad essere chiamate in un certo modo per il lavoro che facevano, perché l’essenza umana era più importante dell’apparenza con cui oggi ci sentiamo in dovere di targetizzarci su Linkedin per diventare tutti social media manager, operatori di settore e altro ancora. L’importante è che suoni catchy, accattivante e di facile presa, in inglese appunto, il linguaggio universale che ci permetterà di andare ovunque abbattendo i confini.


E poi ai miei tempi, che suona così vintage scriverlo, c’erano le chiamate a casa, quelle inflitte a suon di tentativi al telefono fisso di chi volevamo sentire, facendoci dire l’orario esatto in cui trovare la persona ricercata. Chissà se i Millennials hanno idea di cosa stia scrivendo quando dico telefono fisso. Marika la chiamavo, appunto, a casa sua, se trovavo il coraggio. Mi rispondevano i suoi genitori, alle volte la sorella minore e con imbarazzo chiedevo di poter parlare con lei. E quando non era in casa, era bellissimo perché lei poteva davvero non esserci. E ora, invece? I miei coetanei Millennials come faranno a capire l’attesa e il rifiuto, quello vero? Che adesso altro non è che una doppia spunta blu a cui non ricevere un seguito o una perenne doppia spunta grigia che non si trasforma in nulla se non in un pensiero di pochi attimi:“ avrà letto o non avrà letto?”. E questa risposta prenderà il significato di un:“ si sarà dimenticata di me”? Un tempo in cui i rapporti dovevi costruirli e potevi fantasticare sul tesserino in fondo ai libri che prendevi in prestito in biblioteca, quando appunto la privacy non era fatta di spunte e decisioni delle impostazioni dei nostri account virtuali. Per anni ho creduto che avrei trovato l’amore della mia vita così, dalla lettura di un nome scritto a mano e che aveva letto le mie stesse cose. Potrei continuare per giorni a pensare quanto sia giusto o meno definirmi Millennials, stancandomi delle mie stesse riflessioni per scostarmi da questa etichetta e trovare un modo per scagionarmi, ma il tempo ora scorre in modo differente e bisogna sapersi adeguare.

Generazioni a confronto quindi, ma i confronti si sa sono sempre stati fini a se stessi; e conta solo l’ambiente circostante nel momento in cui tu sei vivo e come reagisci ad esso e come riesci a filtrarlo attraverso i sentimenti che provi, le sensazioni soggettive e le scelte che per te sono davvero importanti, senza perdere di vista quell’umanità che rende reale ciò che irreale.

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chica. Un effetto benevolo che risulta nella pratica il contrario dell’intento perseguito. Le persone non avevano problemi ad essere chiamate in un certo modo per il lavoro che facevano, perché l’essenza umana era più importante dell’apparenza con cui oggi ci sentiamo in dovere di targetizzarci su Linkedin per diventare tutti social media manager, operatori di settore e altro ancora. L’importante è che suoni catchy, accattivante e di facile presa, in inglese appunto, il linguaggio universale che ci permetterà di andare ovunque abbattendo i confini. Un facile modo per accarezzare il nostro ego ferito e farci chiamare dagli altri con grazia e stile per non mettere a disagio nessuno, ma non siamo necessariamente il lavoro che facciamo; per parafrasare quel Tyler Durden sdoppiato e scoppiato di testa.

Foto di Enrico Rossi

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Vittoria Mainoldi INTERVISTA DI DAVIDE MISELLI

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A pochi passi dalla casa di Lucio Dalla, tra le viuzze del pieno centro di Bologna, ci si imbatte in ONO arte contemporanea. Appare subito come qualcosa di più di una galleria d’arte in senso classico, avendo come obiettivo l’esposizione e celebrazione di ogni forma artistica nelle sue molteplici sincronie: fotografia, videoarte, grafica, installazioni, libri, oggetti di design e abbigliamento, documentari, musica, vinili. L’idea è quella di dare ai visitatori un’esperienza artistica di più ampio respiro, cercando di coinvolgere al meglio le loro diverse passioni mettendole in relazione tra loro. Esplorando principalmente il periodo che va dagli anni Sessanta fino ad oggi e gli artisti che hanno contribuito a dipingerli, filmarli, fotografarli, cantarli e raccontarli, ONO arte contemporanea è uno spazio caratterizzato da diversi piani con tanto di bookshop, music shop e lounge bar.


uando nasce l’idea di aprire una galleria fotografica? Con il mio socio Maurizio Guidoni lavoravamo già nel mondo dell’arte per una galleria istituzionale. Nel corso degli anni è maturata in noi la voglia di confrontarci con un nuovo linguaggio, quello della fotografia – che in Italia aveva un mercato ancora abbastanza vergine – e in più declinarlo attraverso i grandi temi e le grandi icone della cultura popolare, filone che all’estero aveva già una storia ma che in Italia ci sembrava inesplorato Prima di questa esperienza in proprio, qual è stato il tuo percorso e quando ti sei sentita pronta per iniziare la tua avventura? Ho fatto studi classici al liceo e all’Università mi sono laureata in Lettere Moderne e Storia dell’Arte. Dal primo anno di università, però, ho iniziato a lavorare nel mondo dell’arte sia in Italia sia all’estero. La decisione di mettermi in proprio è venuta abbastanza naturalmente dopo alcuni anni. Esiste a tuo avviso una specie di “manifesto” ideologico che appartiene a Ono Arte, almeno negli intenti generali? Cerchiamo di stare ben lontani da ogni “ideologia” in senso stretto, che dall’ideologia all’integralismo è un momento. Se pensiamo ad una cifra comune da ricercare all’interno del lavoro di ONO, c’è sicuramente quella di raccontare storie: narrare episodi e personaggi che hanno segnato la cultura a livello popolare. In questo modo indagare la società stessa. Da questo punto di vista da ONO facciamo sicuramente un lavoro più documentaristico e storiografico che artistico in senso stretto. A proposito del nome, com’è avvenuta questa scelta? Ce ne erano degli altri in lista che sono stati scartati? Purtroppo non c’è una storia affascinante dietro la scelta del nome. Eravamo certi

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di non voler chiamare la galleria con i nostri nomi né con il nome della strada dove abbiamo la sede, che sembrano i nomi più inflazionati per le gallerie d’arte. Volevamo un nome che si ricordasse: ONO è breve, palindromo, tondo e composto da due lettere. Ci sembrava funzionasse. Ad oggi quante mostre avete organizzato? E quali sono state quelle che hanno avuto più successo e quelle che, invece, vi hanno richiesto energie che non pensavate di poter avere? Non saprei quantificare, ma tra progetti espositivi interni, esterni, e progetti non meramente espositivi superiamo di certo la cinquantina. La mostra che ha avuto più successo in termini di visitatori è stata anche quella che ci ha richiesto più sforzi di quelli che avremmo voluto impiegare. E’ stata la mostra fotografica di Leo Matiz su Frida Kahlo: abbiamo toccato punte di 1000 visitatori al giorno. Noi siamo una piccola realtà privata e commerciale non siamo fisicamente strutturati a gestire certi numeri.

“ Se

pensiamo ad una cifra comune da ricercare all’interno del lavoro di ONO c’è sicuramente quello di raccontare storie: narrare episodi e personaggi che hanno segnato la cultura a livello popolare.

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Fotografia: ci dici come viene percepita una galleria di settore a Bologna che – forse – ha una storia legata maggiormente a dipinti ed arte “classica” - passami il termine.

Una mostra, in genere, cosa richiede per essere organizzata a dovere? Le stampe, l’arrivo di fotografie già stampate e in serie, magari, la comunicazione, la dogana, l’artista per l’inaugurazione…

E’ inutile negarlo, la maggioranza dei Al di là della parte curatoriale, che in genostri clienti non è di Bologna. Bologna nerale viene fatta prima, tutto quello che non è una città legata storicamente alla elencate è corretto assieme a trasporti, fotografia, ed è comunque piccolissima, cornici, allestimento, grafica e un altro per cui non è mai stata una delle piazze centinaio di cose molto più triviali e mecprincipali per l’arte. Ha dalla sua di essere caniche di quanto si possa credere. un ottimo snodo dal punto di vista territoriale. Ci racconti qualche aneddoto felice e infelice? C’è concorrenza? Mi riferisco non solo al settore fotografico ma nel promuovere Tra gli aneddoti più felici sicuramente le cultura su un territorio già pieno di iniziamolte serate passate con i nostri artisti, tive. Come avete fidelizzato il vostro pubad ascoltare racconti del loro lavoro, o blico? qualche trasferta fatta assieme. Penso in particolare alla mostra a Berlino di MaUn delle artiste con cui lavoriamo, cagliasayoshi Sukita/ David Bowie che abbiaritana di origine e bolognese di adoziomo inaugurato lo scorso maggio. Abbiane, dice sempre che Bologna è bizantimo casualmente incontrato al ristornate na e che ognuno fa la sua gara. Credo uno dei fonici di Bowie che aveva lavosia vero, almeno in parte. Come dicevo, rato a “Heroes” e, riconoscendo Sukita, il nostro pubblico arriva per un 60% da ci ha invitato agli Hansa Studio per una 30 fuori, sia dal punto di vista commerciale, visita privatissima. che di meri visitatori. Oltre alla Galleria, c’è uno spazio dedicato Nel corso degli anni poi avete instaura- alla musica e un bookshop con fanzine e to diverse collaborazioni sia sul territorio libri d’importazione. Ci racconti qualcosa bolognese sia in Europa: ci racconti come di entrambe queste realtà che avete inglosiete riusciti in questo? bato nella vostra attività? Sì, lavoriamo con l’estero, soprattutto con l’Europa, alcune volte abbiamo contattato noi gallerie e spazi espositivi coerenti con il nostro lavoro (come nel caso di Germania e Olanda), altre volte siamo stati contattati (come nel caso di Spagna, Francia o Svizzera).

La zona bookshop e music shop sono sempre stati una parte importante di ONO per come l’abbiamo concepita. Le stesse storie che raccontiamo con la fotografia sono anche raccontate con libri e vinili. Questo ci aiuta anche a coinvolgere un pubblico che già frequenta lo spazio per le mostre, non può comprare la fotografia, ma acquista volentieri un libro, un poster o un disco.


Guardando fuori dai nostri confini, trovi che ci sia un interesse maggiore delle istituzioni rispetto ad una realtà come la vostra? Cosa vorresti per chi promuove cultura come voi? Ci sono sgravi fiscali, agevolazioni di qualche tipo, oppure è una battaglia continua? Sicuramente c’è un crescente interesse per il lavoro che facciamo da parte delle istituzioni. Anzi oggi il 50% dell’attività di ONO è fuori dalla galleria e spesso in spazi istituzionali sia pubblici che privati. Pensare a questo anche solo 5 anni fa era pura fantasia. ONO è una società, una realtà imprenditoriale vera e propria, attiva nel commercio. Abbiamo una pressione fiscale che, tutto considerato, supera il 60%. Sgravi fiscali non ce ne sono. Sul piano delle agevolazioni, in più di 6 anni di attività, ricordo solo un finanziamento di 3000€ a fondo perduto erogato da ASCOM per implementare i sistemi di sicurezza. E accedemmo solo perché io ero una donna sotto i trent’anni. Non voglio dire che non esistano in toto strumenti economici d’aiuto per le attività, ma spesso acce-

dervi è molto complicato e comporta un dispendio di tempo enorme che non è detto che un imprenditore possa sostenere.

Le stesse storie che raccontiamo con la fotografia sono anche raccontate con libri e vinili. Questo ci aiuta anche a coinvolgere un pubblico che già frequenta lo spazio per le mostre, non può comprare la fotografia, ma che compra volentieri un libro, un poster o un disco.


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La cultura, che sia musica o arte o fotografia, credi sarà vista prima o poi come un lavoro su cui investire per davvero qui in Italia, oppure sarà sempre una continua lotta ideologica per far capire che si può vivere anche di qualcosa di “astratto”? Credo che con la cultura si possa vivere e siamo in molti che lo facciamo. Credo anche che ci sia poco di astratto nella cultura. Capisco quello che volete dire, se si pensa al settore pubblico: leggevo recentemente che l’Italia è al penultimo posto in Europa per investimenti in cultura, sopra solo alla Grecia. Ma l’Italia è latitante anche nella sanità, nella ricerca e in tanti altri settori. Non che questa sia una consolazione, ma una prova del fatto che sono i privati, grandi e piccoli, a rivestire un ruolo fondamentale: creano eccellenze, profitti e sostenibilità nei propri settori. Nell’ambiente delle gallerie e delle istituzioni ti sei mai sentita “ostacolata” in quanto donna nel tuo lavoro? Non in modo diretto o eclatante. Come molte donne che lavorano, però, sono stata in qualche modo sminuita. E’ una cosa che avviene nella vita di tutti i giorni e nelle cose piccole, ed è anche peggiore questo tipo di situazione, perché crea nelle donne una specie di abitudine, sin da giovani. È il commento accondiscendente in posta, in banca, dal commercialista, il paternalismo/mansplaining da parte del proprietario dei locali che abbiamo in affitto o dell’amministratore del condominio. Considera, inoltre, che ho aperto ONO a 25 anni; in Italia avere 25 anni significa essere molto giovani. Le volte in cui un cliente, o una cliente, ha creduto che fossi una commessa, o la dipendente del mio socio non si contano.

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’inizio di qualcosa non coincide necessariamente con un finale previsto o prevedibile o almeno adeguato alle premesse che ci si aspettava. E questo vale anche per i rullini fotografici. Può capitare di scattare in un luogo, osservare delle persone in uno spazio circoscritto, cercare delle emozioni e poi trovarsi in un altro scenario, in un altro periodo, con altri soggetti e altri sentimenti che ci muovono il dito sul pulsante dell’otturatore.

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Un lasso temporale, questo, che è l’equivalente che intercorre tra l’idea dello scatto che pensiamo otterremo e il momento in cui si decide di farlo e poi la successiva fase di sviluppo.

Veronica Vanzo ha (ri)preso una serie

di rullini su pellicola in bianco e nero che non aveva mai sviluppato prima e abbandonati in una scatola e ha selezionato la prima e l’ultima foto affiancandole. L’effetto è quello che potete osservare: a volte coincide con il tempo e lo spazio, altre no.

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DANIELa MAZZA INTERVISTA DI DAVIDE ARMENTO

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Curiosa, appassionata di musica e fumetti, femminista. Dopo varie esperienze nel settore della comunicazione, dal 2014 lavora come responsabile ufficio stampa per Bao Publishing, una delle realtà editoriali italiane più importanti e coraggiose se si parla di graphic novel. E dietro l’affermato talento di nomi come Alan Moore, Alessandro Baronciani e Zerocalcare, solo per citarne alcuni, ci sono l’impegno, la passione e le capacità di chi si occupa di promuovere al meglio, con cura ed il giusto approccio, le loro storie. Noi di Youthless siamo andati oltre le tavole, e abbiamo intervistato Daniela “odri” Mazza, per cercare di capire in che modo il ruolo dell’ufficio stampa – ancora sottovalutato e frainteso - è cambiato negli ultimi anni, anche attraverso la dimensione social, quali dinamiche esistono dietro la promozione di un artista, e farci un’idea sulla reputazione di un genere, quello del fumetto, in Italia ancora diviso tra la dimensione pop e i limiti del pregiudizio. Ma non solo.


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niziamo con le presentazioni: chi è Daniela Mazza? Ci racconteresti il tuo percorso professionale?

Odri è un alter ego nato proprio nel momento in cui i fumetti stavano prendendo il sopravvento nella mia vita. Dopo l’Università, mentre lavoravo in una web agency romana, ho fatto due anni di Scuola di Fumetto. Hai presente quei corsi serali a cui non arrivi proprio freschissima e in cui i tuoi compagni di classe hanno qualche anno meno di te? Mi proponevo come disegnatrice, volevo un nome breve e un mio amico (Luigi) ha sempre sostenuto che fossi elegante come una Audrey Hepburn... romana. Non ho mai continuato a disegnare assiduamente ma ho continuato a firmarmi così anche quando ho iniziato a scrivere a proposito di fumetti. Avevo studiato un sacco, e la divulgazione mi piace molto. Così mi firmavo Odri su “Conversazioni sul fumetto”, e su altri siti con cui poi ho collaborato. E infine nel mio blog “Citofonare Odri”, che è ancora vivo, ma che dovrei decidermi ad aggiornare!

Sono la ragazza dai capelli rosa! A parte la nota di “colore”, ho 36 anni, sono di Latina (ora milanese d’adozione) e mi occupo di comunicazione. Ti riassumo in poche parole quello che faccio: lavoro come responsabile ufficio stampa per la Casa editrice di fumetti BAO Publishing. Tra l’altro ti ringrazio anticipatamente per questo spazio, perché è raro che le persone si interessino agli “addetti ai lavori” (sia dell’editoria che di altri settori culturali) e ti confesso che per me è molto divertente ogni tanto ricevere una richiesta di questo tipo! Io sono la persona che si occupa ogni giorno di diffondere le informazioni sulle uscite della Casa editrice e delle relazioni con i giornalisti per i vari media. Orga- Com’è nata l’esperienza con Bao? nizzo eventi e partecipazioni ai festival, L’esperienza con BAO è nata nel molavoro fianco a fianco con gli autori e le mento in cui avevo le idee chiare su quali autrici per la promozione dei libri, faccio erano i miei desideri professionali e gli rassegna stampa. Un gran da fare, consiobiettivi per il mio futuro e, soprattutto, derando che BAO conta più di 60 usciun po’ di curriculum nel settore (avevo te l’anno; ma, da qualche tempo, c’è anlavorato in precedenza un paio d’anni che una giovane e bravissima assistente, nella casa editrice Tunué) da poter spenChiara Calderone, che collabora con me. dere. Si è trattato poi di un caso di splenIl mio percorso professionale è stato tordida congiuntura astrale: con Caterina e tuoso, mi hanno guidato sempre la cuMichele di BAO ci siamo trovati subito riosità e la voglia di fare qualcosa che mi molto in sintonia e siamo stati felici di inipiacesse veramente. Mi sono laureata nel ziare a lavorare assieme. Era il 2014, con 2006 con una tesi abbastanza femminiil tempo l’esperienza si è solidificata e da sta in sociologia dell’arte, poi ho lavorato allora ci sono stati sempre ottimi risultanel mondo della comunicazione in positi. È molto gratificante quando succede. zioni legate al web, fino al 2011. A un certo punto, la passione per il fumetto ha travolto tutto! Mi sono trasferita a Milano e sono andata alla ricerca di quello che sembrava un lavoro impossibile!

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Odri da cosa nasce?

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Per chi non ha ben chiaro il tuo lavoro, ci spiegheresti in che modo è influente il 46 ruolo dell’ufficio stampa all’interno di una casa editrice? L’ufficio stampa diffonde le notizie che la Casa editrice vuole dare al pubblico, scegliendo il modo migliore e gli interlocutori più interessanti perché ciò avvenga in maniera efficace. È molto importante il “come” vengono fatte le cose, perché costituisce un aspetto influente nella cura dell’immagine aziendale, per tutelarla e valorizzarla. Il mio impegno serve a svolgere al meglio la promozione di ogni singola uscita, supportando la visibilità del libro, dell’autore/autrice, il gradimento della critica, dei lettori e delle conversazioni che si sviluppano a riguardo.

Credi si differenzi il modo di lavorare per una casa editrice legata all’aspetto visivo delle storie raccontate rispetto alla narrativa di un romanzo? Penso di sì. In una società come la nostra, innamorata delle immagini, credo che la

fortuna del fumetto sia di essere “pop” e di attrarre l’attenzione più di quanto riesca la sola parola scritta. Il fumetto però ha subito per molti anni un pregiudizio fortemente negativo, quello di essere un’arte “inferiore” rispetto alla letteratura “alta”. Questo ha fatto sì che, anche in tempi recenti, l’ufficio stampa di un libro a fumetti poteva trovarsi davanti a degli interlocutori che non solo mettevano in discussione il merito dell’opera (buona o meno), ma proprio la validità culturale del linguaggio utilizzato. In questo senso è stata fatta un po’ di strada in avanti e, visto che alcune delle mie più belle esperienze lavorative con graphic novel e serie a fumetti si svolgono di consuetudine in celebri festival letterari come il Salone del libro di Torino o il Festivaletteratura di Mantova, direi che ormai il modo di lavorare su romanzi e libri a fumetti non è così differente. Anzi, noi abbiamo sicuramente un grande vantaggio: le irresistibili dediche degli autori, con cui possiamo conquistare mezzo mondo!


come la nostra, innamorata delle immagini, credo che la fortuna del fumetto sia di essere “pop” e di attrarre l’attenzione più di quanto riesca la sola parola scritta.

” Nel 2017, ma soprattutto anche considerando la dimensione social, in che modo si riesce ad essere efficaci e determinanti nella promozione di una nuova pubblicazione? Per la mia esperienza personale, sono portata a pensare che l’idea da seguire è di portare il libro, il graphic novel, il fumetto, alla portata di più persone possibili. Servono gli articoli dei quotidiani, servono gli approfondimenti dei settimanali, servono i lanci delle agenzie, le interviste in radio e tv. Servono le recensioni dei blogger, le video recensioni dei vlogger, servono le preview delle tavole online, servono le foto dei libri su Instagram. Servono gli influencer e servono i critici. Tutto serve, a patto che venga utilizzato ogni volta in modo diverso, a seconda del carattere dell’opera. Non è interessante precludersi delle strade, è interessante aprirne di nuove. Bisogna essere tempestivi e coinvolgere più persone possibili. Magari se le persone riesci a sorprenderle o divertirle o commuoverle - insomma farle emozionare -, è anche meglio.

Ci racconti qualche “strategia” promozionale utilizzata per la promozione delle vostre pubblicazioni? Se parliamo di strategie promozionali allargherei il discorso dall’ufficio stampa in senso stretto a tutta la comunicazione aziendale, facendoti degli esempi di attività che trovo originali. Quando sono entrata in BAO sapevo già che erano bravissimi sia nel creare un rapporto diretto con il pubblico sia nel gestire la parte legata ai social network. In particolare, su Facebook e Instagram ci sono sempre momenti di engagement diretto con i lettori molto interessanti. A parte le strategie social, online facciamo anche cose come i party review (giornate con una serie di recensioni online legate a un titolo) e i blog tour (percorsi calendarizzati con approfondimenti, interviste e recensioni su un volume). Inoltre abbiamo creato incontri diretti tra autori, lettori e blogger, sia grazie ai pop-up store sia grazie a eventi quali merende con gli autori, dolcissimi momenti di chiacchierate informali tra caffè e dolcetti!

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“ In una società

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Da quando hai iniziato ad occuparti di comunicazione, credi che siano cambiate le dinamiche legate al ruolo da ufficio stampa? In che modo, immagino, il web ha migliorato o condizionato il tuo lavoro? Sicuramente i social network stanno cambiando le relazioni tra le persone e delle persone nei confronti delle aziende. Quando ho iniziato, le relazioni con i blogger erano per me un terreno inesplorato; ora le novità le cerchiamo soprattutto su social come Instagram, sulle interazioni video live o cose di questo tipo. I miei piani di comunicazione partono dai media tradizionali, vale a dire il lavoro più classico con il giornalista con cui si parla di informazione pura, e poi continuano con l’attenzione al passaparola e al mondo delle conversazioni online. Diciamo che una parte del lavoro è informativa, l’altra è più... narrativa. D’altra parte parliamo sempre di storie.

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Sicuramente i social network stanno cambiando le relazioni tra le persone e delle persone nei confronti delle aziende. Quando ho iniziato, le relazioni con i blogger erano per me un terreno inesplorato; ora le novità le cerchiamo soprattutto su social come Instagram, sulle interazioni video live o cose di questo tipo.

Avendo un punto di vista completamente immerso nel settore, in Italia hai visto mutata la reputazione del “fumetto” come genere letterario negli ultimi anni? In tal caso, cosa ha permesso o facilitato questa svolta? Io credo di sì. Come ti dicevo prima, negli ultimi anni c’è stato un movimento interessante di legittimazione della nona arte, soprattutto intorno a un tipo di narrazione che piace moltissimo, quello del romanzo a fumetti altrimenti detto graphic novel. Attraverso premi e riconoscimenti, eventi eccezionali che hanno creato un mare di polemiche come le candidature di alcuni graphic novel al Premio Strega (noi stessi l’abbiamo vissuto con Dimentica il mio nome di Zerocalcare), grazie alla presenza costante in tutte le librerie generaliste di reparti graphic novel sempre più forniti e al proliferare di festival di settore su tutto il territorio, oggi è veramente facile avvicinarsi al nostro mondo. E i lettori lo sanno e apprezzano. Tu cosa leggi nel tuo tempo libero? E quali sono i tuoi interessi e le tue passioni? Nel tempo libero leggo soprattutto saggi o romanzi che hanno a che fare con la musica e la fotografia. Ti cito qualche mio titolo preferito? Just Kids di Patty Smith, Come funziona la musica di David Byrne, Please kill me di McNeil e McCain, Sto con la band di Pamela Des Barres. Sul comodino ho sempre una pila di volumi: tra i più recenti ci sono La ragazza con la Leica di Helena Janeczek, I love Dick di Chris Kraus e la biografia di Vivienne Westwood. E poi i manga, che sono un tipo di fumetto che tratto difficilmente per lavoro e che quindi rientra nella mia area “relax”. Quest’anno ho letto parecchie cose di Kamimura. Per il resto, la musica, i concerti. Da adolescente hanno occupato quasi tutto il mio tempo; mi mancano le giornate intere passate ad ascoltare un disco che mi piaceva. Sono onnivora, adoro tante cose diverse, vado da Maria Callas a M¥SS KETA, passando per i FBYC. Di solito i miei ascolti sono notturni... per que-


Oltre a “buona educazione, buonsenso e buona volontà”, come dichiaravi in un’intervista su “I tipi di Bao”, quali consigli pratici daresti a chi volesse intraprendere il lavoro da ufficio stampa? Il consiglio pratico è fare esperienza. La cosa migliore secondo me è lavorare su qualcosa che ci piace molto, perché altrimenti la fatica, anche emotiva, di un mestiere come questo, può diventare ingestibile. Bisogna essere portati per le relazioni, saper creare e gestire reti di contatti, essere creativi nell’utilizzarli, avere molta molta, molta, infinita pazienza ed essere affidabili. Se non avessi iniziato questa carriera, cosa ti sarebbe piaciuto fare? Avrei potuto essere una bassista in una band, oppure potevo fare radio o la vee-jay in tv!

INTERVISTA

sto dormo poco! Parlando di Bao: quale credi sia la sua Mi piace molto anche andare al cinema, carta vincente nel mondo dell’editoria? ma non guardo le serie tv. Qual è la promozione di cui vai più fiera o quella che ha richiesto più impegno? Se ci sono, a quali graphic novel di BAO sei più affezionata, e perché? Non so se sia in assoluto la sua carta vincente, ma quello che mi fa fatto deCredo che sia impossibile scegliere, persiderare di lavorarci insieme è stata la ché ogni libro è un incontro e sono tutte tendenza a non avere paura di speriesperienze uniche. Se devo rispondere di mentare strade nuove. pancia, so che sono tanto affezionata a Il Per quanto riguarda le mie promozioni, Nao di Brown di Glyn Dillon. Nel periodo ho adorato tutte le prime volte in cui sono riuscita a dare a un certo libro o a in cui lo lessi, per me abbastanza difficile, un certo autore qualcosa di più rispetnon lavoravo ancora per BAO, l’ho interto a prima: il primo servizio tv su rete vistato perché mi aveva colpito molto e nazionale, i primi paginoni sui quotisolo più tardi ci siamo rincontrati lavodiani, copertine sulle riviste, ecceterando assieme, quando è venuto in Italia ra... Le cose che mi rendono fiera sono, per la promozione del libro. da una parte, gli autori che si dicono Ecco, forse sono più affezionata ai libri soddisfatti del lavoro svolto insieme, BAO che si sono incrociati non solo con dall’altra una rete di giornalisti che stila mia vita professionale ma anche con mo moltissimo e che apprezza la Casa quella personale. editrice e il mio lavoro.

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INTERVISTA

In un’intervista rilasciata l’anno scorso dicevi che ti sarebbe piaciuto lavorare “sempre di più con grandi autrici, con tante, belle, forti, voci femminili”. A proposito di donne, illustrazione, fumetto e graphic novel, credi che in questo settore esistano ancora disparità di genere? È un mondo in cui esistono discriminazioni?

“ Quello che mi interessa

molto, da donna lavoratrice, a prescindere dall’editoria, è il tema della disparità nella carriera e di conseguenza della disparità nella retribuzione di uomini e donne. Sogno un mondo dove i vari ruoli di potere siano raggiungibili da entrambi i sessi alle medesime condizioni, in tutti gli ambiti.

Credo che le discriminazioni siano ovunque, di conseguenza anche nel nostro settore. Quello che mi interessa molto, da donna lavoratrice, a prescindere dall’editoria, è il tema della disparità nella carriera e di conseguenza della disparità nella retribuzione di uomini e donne. Sogno un mondo dove i vari ruoli di potere siano raggiungibili da entrambi i sessi alle medesime condizioni, in tutti gli ambiti. Per quanto riguarda la mia esperienza, io lavoro in un’azienda, la BAO, in cui l’editore è una donna, ma le condizioni generali del settore sono in linea con la media nazionale, che può migliorare sicuramente. Il mio augurio dell’anno scorso, a proposito delle autrici, e per quanto concer- Segnalaci qualche autrice che dovremmo ne la mia attività lavorativa, era proprio assolutamente conoscere e leggere. verso un futuro - meritocratico - fatto di È difficile fare dei nomi, dipende sempre lunghe carriere femminili ricche di ricomolto dai gusti. Ogni artista ha la sua sennoscimenti, anche economici, e di ausibilità e la sua cifra stilistica e metterle torevolezza nei confronti dell’opinione insieme a caso mi sembra un po’ troppo pubblica al pari degli autori già affermada “quota rosa”. Però ti nomino volentieri ti. E ovviamente il mio pensiero si rivolge 3 libri molto diversi tra loro di cui ci si può anche a tutte le altre professionalità del innamorare sul serio, che fanno parte del settore: sceneggiatrici, disegnatrici, cocatalogo di BAO Publishing e sono realizloriste, letteriste, editor, traduttrici, uffici zati da autrici: stampa, grafici, commerciali ecc. E la chiamano estate di Jillian e Mariko Tamaki, Sophia di Vanna Vinci e California Dreamin’ di Pénélope Bagieu

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Ha avuto un peso particolare dover raccogliere “l’eredità promozionale” di un nome come quello di Zerocalcare? Sì, in senso positivo. Lavorare con Zerocalcare e sui suoi libri mi ha insegnato in pochissimo tempo una quantità innumerevole di cose. Si tratta di una parte molto significativa della mia attività professionale, e gli sono grata per la sua immensa gentilezza e il suo prezioso aiuto in ogni nostra collaborazione.


Ce ne sono un sacco che non posso dire! Tra i libri più attesi in assoluto c’è, ovviamente, la seconda parte del libro di Zerocalcare, Macerie prime. Poi, un caso letterario che aspetto anch’io con grande curiosità: La mia cosa preferita sono i mostri di Emil Ferris e inoltre ci sarà un graphic novel inedito di Leo Ortolani, con protagonista uno dei suoi personaggi più famosi: Cinzia!

Chiudiamo con una lista di graphic novel da leggere e la motivazione per cui farlo. Ti lascio una lista di 10 bellissimi graphic novel del 2017 tra le uscite BAO Publishing: - Il papà di Dio di Maicol&mirco da leggere per stupirsi di se stessi; - Residenza Arcadia di Daniel Cuello da leggere per riflettere sul mondo; - The private eye di Brian Vaughan e Marcos Martín da leggere per indagare il futuro. - Un anno senza te di Luca Vanzella e Giopota da leggere per consolare cuori spezzati. - Sempre Libera di Lorenza Natarella da leggere per scoprire una Maria Callas inedita. - Le ragazze nello studio di Munari di Alessandro Baronciani da leggere per stimolare la creatività. - Nick Cave - Mercy on me di Reinhard Kleist da leggere per entrare nell’immaginario di una rockstar unica. - La giusta mezura di Flavia Biondi da leggere per amare forte. - Non stancarti di andare di Teresa Radice e Stefano Turconi da leggere per amare ancora più forte. - Macerie prime di Zerocalcare da leggere per riconoscersi.

INTERVISTA

Ci sono indiscrezioni o interessanti Bao news previste per il 2018 di cui puoi svelarci qualche dettaglio?

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Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Genesi, 1:27

Georgette era una frocia moderna. Non era una (uno) che tentava di camuffarsi o di nascondersi dietro un matrimonio o i discorsi da maschio, non si accontentava di soddisfare la sua omosessualità tenendo un album segreto di fotografie dei suoi attori o atleti preferiti, o supervisionando le attività di qualche gruppo di ragazzini o frequentando i bagni turchi e gli spogliatoi maschili, allungando lo sguardo da dietro la corazza protettiva di una ben sorvegliata apparenza virile (col terrore del momento in cui, a un cocktail party o in un locale, quella facciata avrebbe magari cominciato a crollare per l’alcol e si sarebbe totalmente disintegrata nel tentativo di baciare o palpare un bel ragazzo, e lui sarebbe stato respinto con un pugno – brutto frocio – seguito dall’isteria generale e un po’ di scuse biascicate senza senso e una fuga dalla sala), bensì viveva con orgoglio il fatto di essere omosessuale e si sentiva intellettualmente ed esteticamente superiore a quelli (specie le donne) che non erano gay (guardate quanti grandi artisti erano froci!); e con orgoglio portava le mutandine da donna, il rossetto e il trucco agli occhi (compresa, ogni tanto, una passata di porporina oro o argento sulle palpebre), i capelli lunghi e modellati con la piastra in stile anni Venti, le unghie curate e lucide, e indossava abiti da donna con tanto di reggiseno imbottito, tacchi alti e parrucca (uno dei suoi più grandi piaceri era entrare al BOP CITY nei panni di una bionda giunonica (coi tacchi era un metro e novanta) in compagnia di un nero (Era un figlio di puttana grande e grosso, nero e bellissimo, e appena è entrato dalla porta hanno fatto tutti un salto e le personcine perbene l’hanno guardato con due occhi così. Prima di arrivare eravamo stati a una festicciola di scoppiati e stavamo fuori come i terrazzi, talmente fatti che non me

Georgette was a hip queer. She (he) didnt try to disguise or conceal it with marriage and mans talk, satisfying her homosexuality with the keeping of a secret scrapbook of pictures of favorite male actors or athletes or by supervising the activities of young boys or visiting turkish baths or mens locker rooms, leering sidely while seeking protection behind a carefully guarded guise of virility (fearing that moment at a cocktail party or in a bar when this front may start crumbling from alcohol and be completely disintegrated with an attempted kiss or groping of an attractive young man and being repelled with a punch and – rotten fairy – followed with hysteria and incoherent apologies and excuses and running from the room) but, took a pride in being a homosexual by feeling intellectually and esthetically superior to those (especially women) who werent gay (look at all the great artists who were fairies!); and with the wearing of womens panties, lipstick, eye makeup (this including occasionally gold and silver – stardust – on the lids), long marcelled hair, manicured and polished fingernails, the wearing of womens clothes complete with padded bra, high heels and wig (one of her biggest thrills was going to BOP CITY dressed as a tall stately blond (she was 6’4” in heels) in the company of a negro (He was a big beautiful black bastard and when he floated in all the cats in the place jumped and the squares bugged. We were at a crazy pad before going and were blasting like crazy and were up so high that I just didnt give a shit for anyone honey, let me tell you!); and the occasional wearing of a menstrual napkin. She was in love with Vinnie and rarely came home while he was in jail, but stayed uptown with her girl friends, high most of the time on benzedrine and marijuana. She had

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È morta la Regina


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ne fregava un cazzo di niente e di nessuno, tesoro mio, te l’assicuro!)); e portava anche, di tanto in tanto, un assorbente. Georgette era innamorata di Vinnie e nei periodi in cui lui stava in galera tornava a casa di rado, passava il tempo su a Manhattan con le sue amiche, quasi perennemente fatta di benzedrina e marijuana. Una mattina era tornata a casa con una sua amica dopo tre giorni passati a fumare con il viso ancora truccato e il fratello maggiore le aveva dato uno schiaffone dicendole che se lo vedeva rientrare un’altra volta conciato così lo ammazzava. Lei e l’amica erano scappate via strillando, dandogli del brutto frocio. Da quella volta in poi prima di tornare a casa telefonava sempre per vedere se c’era il fratello. La sua vita non tanto ruotava quanto vorticava come un frullatore attorno agli stimolanti, agli oppiacei, ai clienti (che la pagavano perché gli ballasse davanti in mutandine da donna e poi gliele strappavano di dosso; oppure erano bisessuali che raccontavano alla moglie che uscivano con gli amici e passavano la serata con Georgette (e lei che provava a immaginare che fossero Vinnie)), e il precipitato mostruoso di tutto ciò affiorava in superficie come schiuma. Quando sentì che Vinnie aveva ottenuto la libertà provvisoria andò a Brooklyn (comprando prima un centinaio abbondante di pasticche di benzedrina) e si piazzò dal Greco tutta la sera, seguendo Vinnie dappertutto e tentando di restare sola con lui. Gli offrì il caffè e uno spuntino, gli si sedette in braccio e gli chiese di andare a fare quattro passi. Lui rifiutava e le diceva abbiamo un sacco di tempo amore. Magari dopo. Georgette gli si dimenava in grembo e gli solleticava i lobi delle orecchie sentendosi come una ragazzina al primo appuntamento. Lo guardava con fare civettuolo. Dai, fattelo succhiare Vinnie, sforzandosi di trattenersi dal provare a baciarlo, dall’abbracciarlo, dall’accarezzargli le cosce, sognando il calore che aveva lì in mezzo, vedendolo nudo che le teneva la testa (senza troppa delicatezza), e lei gli si premeva addosso, gli vedeva i muscoli contrarsi, gli passava dolcemente le dita sui muscoli contratti delle cosce (al momento di venire, magari gli sarebbe pure sfuggito un gemito); la sensa-

come home one morning with one of her friends after a three day tea party with her makeup still on and her older brother slapped her across the face and told her that if he ever came home like that again hed kill him. She and her friend ran screaming from the house calling her brother a dirty fairy. After that she always called to see if her brother was in before going home. Her life didnt revolve, but spun centrifugally, around stimulants, opiates, johns (who paid her to dance for them in womens panties then ripped them off her; bisexuals who told their wives they were going out with the boys and spent the night with Georgette (she trying to imagine they were Vinnie)), the freakish precipitate coming to the top. When she heard that Vinnie had been paroled she went to Brooklyn (first buying 10 dozen benzedrine tablets) and sat in the Greeks all night following Vinnie everywhere and trying to get him alone. She bought him coffee and sat on his lap and asked him to go for a walk. He would refuse and tell her theres plenty of time sweetheart. Maybe later. Georgette would wiggle on his lap, play with his earlobes feeling like a young girl on her first date. She looked at him coquettishly. Let me do you Vinnie, forcing herself to refrain from trying to kiss him, from embracing him, from caressing his thighs, dreaming of the warmth of his groin, seeing him nude, holding her head (not too gently), pressing close to him, watching his muscles contract, running her fingertips gently along the tightened thigh muscles (he might even groan at the climax); the feel, taste, smell . . . Please Vinnie, the dream almost carrying over to consciousness, the benzedrine making it even more difficult not to try to animate the dream now. It wasnt fear of being rebuked or hit by him (that could be developed in her mind into a lovers quarrel ending in a beautiful reconciliation) that restrained her, but she knew if done in the presence of his friends (who tolerated more than accepted her, or used her as a means to get high when broke or for amusement when bored) his pride would force him to abjure her completely and then there would not only be no hope, but, perhaps no dream. She put her hand


tentatively on the back of his neck twisting the short hairs. She jumped up as he pushed her, and giggled as he patted her on the buttox. She strutted over to the counter. May I please have another cup of coffee Alex? you big Greek fairy. She put another benzedrine tablet in her mouth and swallowed it with the coffee; put a nickel in the jukebox and started wiggling as a tenor sax wailed a blues number.

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zione sotto le dita, il sapore, l’odore... Vinnie ti prego, il sogno che quasi si prolungava nella coscienza, e la benzedrina che rendeva ancora più difficile cercare di non vivere quel sogno adesso. A trattenerla non era la paura che lui la sgridasse o la picchiasse (quello, nella sua testa, poteva sempre trasformarsi in un bisticcio fra innamorati destinato a concludersi con una bellissima riconciliazione); semplicemente sapeva che se avesse fatto certe cose in presenza dei suoi amici (che la tolleravano più che accettarla, o la usavano per rimediare un po’ di droga quando erano al verde o per divertirsi quando si annoiavano), l’orgoglio di Vinnie l’avrebbe costretto a ripudiarla completamente e a quel punto non solo sarebbe svanita ogni speranza, ma forse anche il sogno. Gli posò una mano titubante sulla nuca, attorcigliandogli i capelli corti. Lui le diede uno spintone e lei saltò in piedi, e ridacchiò quando lui le batté una mano sul sedere. Si avviò al bancone. Alex per favore posso avere un’altra tazza di caffè?, bel frocione greco che non sei altro. Si ficcò in bocca un’altra pasticca di benzedrina e la buttò giù con il caffè; infilò una monetina nel jukebox e iniziò ad ancheggiare mentre un sax tenore gemeva un blues.

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BIO

Hubert Selby Jr. (1928-2004), ex marine, a lungo afflitto da problemi di salute, dipendenza dalla droga e depressione, approdò alla scrittura da autodidatta e rimase perlopiù ai margini della scena letteraria mainstream, ma fu ammirato e sostenuto da figure cardine della controcultura come Allen Ginsberg, Amiri Baraka e Anthony Burgess. Oltre a Ultima uscita per Brooklyn, ha lasciato una raccolta di racconti (Canto della neve silenziosa, Feltrinelli) e cinque romanzi, fra cui Requiem per un sogno e Il salice (Fazi Editore).


APPROFONDIMENTO

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MARTINA TESTA


disprezzano, e in tal caso per fairy o fag si prestano bene «frocio» e «finocchio»; altrove lo sguardo è del tutto interno a una comunità di gay effeminati e travestiti, che si percepiscono come donne: qui per l’inglese queen o queer era necessario un traducente femminile, e scartando «checca», che porta con sé un’accezione dispregiativa, ho deciso per «frocia», termine di uso del tutto comune negli ambienti gay di oggi, anche se forse anacronistico per gli anni Sessanta. La verità è che Ultima uscita per Brooklyn, come tutti i classici della letteratura, ha una forza che va al di là dell’epoca in cui è stato concepito, e merita di essere tradotto ripetutamente, nel corso del tempo, e messo a disposizione di lettori e parlanti immersi in un sistema linguistico di volta in volta nuovo.

APPROFONDIMENTO

U

ltima uscita per Brooklyn è l’opera prima di un autore autodidatta e privo di influenze letterarie, che a poco più di vent’anni e all’indomani della seconda guerra mondiale si ritrovò ridotto ai margini della società, e decise di ricorrere alla scrittura come atto estremo e disperato di dimostrazione della propria esistenza. Miracolosamente, Hubert Selby Jr. creò un romanzo viscerale, violento, scandaloso, che deve molta della sua potenza allo stile: una lingua vivacissima e intrisa del parlato delle strade; un ritmo incalzante e implacabile, con intere pagine scandite solo dalle virgole; l’ortografia forzata e manomessa (apostrofi eliminati, parole arbitrariamente attaccate fra loro). È una scrittura iconoclasta ed esplosiva che crea da sola le proprie regole. Nel produrre una seconda traduzione italiana del libro (dopo quella edita da Feltrinelli nel 1966 a cura di Attilio Veraldi, un lavoro di grande verve e inventiva ma ormai datato nel lessico), la sfida era quella di restituire l’immediatezza di questa voce, in modo da provocare nel lettore di oggi lo stesso effetto che voleva avere ed ebbe l’originale al momento dell’uscita. Ho scelto quindi una lingua contemporanea, che suonasse spontanea e viva, a costo di attualizzare in una certa misura il testo inglese, che mostra qua e là tracce dello slang degli anni Cinquanta e Sessanta: cats per «tizi», squares per «benpensanti», pad per «appartamentino», coffeeand per indicare, nei menù delle tavole calde, un caffè e un panino. Rinunciando a usare filologicamente termini dell’italiano colloquiale del dopoguerra, con i quali oggi non abbiamo familiarità, ho tentato invece la strada della fedeltà al registro (basso, parlato, informale: da qui i vari «scoppiati», «fuori come i terrazzi», «che non sei altro»), al ritmo (la musica sincopata di cui si diceva, non facile da riprodurre con l’italiano, che per sua natura è una lingua meno concisa dell’inglese), e allo sguardo. Delicata, ad esempio, è stata la questione dei termini per indicare gli omosessuali: nel testo, a volte lo sguardo sui personaggi gay è quello dei maschi etero che li sentono come altro da sé e li

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BIO

Martina Testa (1975) ha tradotto numerose opere di autori statunitensi, fra cui David Foster Wallace, Cormac McCarthy, Jonathan Lethem, Jennifer Egan e Kurt Vonnegut. Lavora inoltre come editor per Edizioni Sur.


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YUNES OKISP

APPROFONDIMENTO


APPROFONDIMENTO

P

rovate a digitare #graffitiremoval #graffitibuff o #graffiticoverup nella barra di ricerca di Instagram e date un’occhiata alle strane foto che vi appariranno con questo hashtag. Troverete una nutrita community di fotografi che imprimono su pellicola social immagini di muri ricoperti da pattern più o meno variopinti, più o meno geometrici, fatti con vernice a tempera da imbianchino o improvvisato tale. Il fatto curioso e interessante è che queste foto non fanno parte di profili di assessori al decoro urbano o hater professionisti del vandalismo grafico, oppure di qualche azienda adibita al grigiore urbano. Se leggete i commenti o cercate tra chi apprezza queste foto, noterete in fretta che questi scatti fanno parte della macro categoria dell’arte urbana o degli amanti dell’ arte astratta, al punto che molti dei fotografi sono spesso writer, artisti o appassionati di graffiti. Ma non è tutto qui. Questi ormai cinque decenni di “buffing” (dallo slang -to buff- che significa coprire un graffito) da parte di autorità cittadine, o meno autorevoli cittadini, hanno creato involontariamente una bella fetta dell’estetica organica delle città contemporanee. Come estetica organica intendo quella frutto del vivere, degli incidenti e imprevisti, e non frutto di decisioni calate da asettici studi di architettura e urbanistica. Dalle cagate di piccione al rettangolo di muro senza smog di quando si rimuove un’ antica insegna, fino ad arrivare, appunto, al buffing. Muri color terra puntellati, a macchie di giaguaro, di rettangoli irregolari di una o più tonalità che provano ad avvicinarsi all’intonaco originale senza mai riuscirci. Serrande grigio metallizzato ritoccate qua e là da un grigio un po’ più opaco e magari un po’ più scuro per azzerare malamente le “vandaliche” scritte sottostanti. Oppure graffiti coperti solo per metà (che rimandano alle immagini in fase di caricamento del vecchio internet 1.0), perché al novello imbianchino è finito quell’avanzo di vernice che teneva

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in garage da tempo immemore. Gli esempi sono infiniti, basta guardarsi intorno in una passeggiata urbana qualsiasi. Questo fenomeno, come tutti i fenomeni urbani che ci accadono sotto gli occhi nel quotidiano, vanno inevitabilmente ad influenzarci e di rimando influenzata ne rimane l’arte. Soprattutto quella nascosta sotto quei “goffi” crostoni di vernice. Sempre più spesso, infatti, capita di vedere opere che inglobano al loro interno questa estetica accidentale. Artisti che si auto “buffano” le opere andandoci sopra con una sverniciata bianca per poi ridipingerci e ripetendo più volte questo passaggio nell’ intento di simulare in un breve lasso di tempo la stratificazione di scritte, disegni, scarabocchi o manifesti strappati che avviene su un muro urbano col passare del tempo. Artisti urbani che sfruttano le forme casuali create sui muri dai vari vigilantes antigraffiti scontornandole, arrichendole e così facendo annichilendone la funzione originaria. Quindi occhio quando partite per le vostre civiche borghesi moralizzatrici crociate anti-vandali, muniti di secchi di tempera e rulli. Lì dove credete di porre fine a qualcosa, state invece voi stessi creando o contribuendo a creare e ispirare ciò che più odiate. “Grazie” buffers.

Approfondimenti digitali https://www.demilked.com/the-story-messages-on-wall-graffiti-mobstr/ https://vimeo.com/368367 https://www.flickr.com/photos/lord-jim/ sets/631572/ Instagram @graffitiremoval


APPROFONDIMENTO

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INTERVISTA

omar saad INTERVISTA DI GILDA GIANOLIO

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Omar Saad è un musicista promettente e una splendida persona. Viene da un Paese con un grande fardello politico, la Palestina, e sia lui che la sua famiglia ne sono stati vittime. La musica, la sua passione e il suo lavoro, l’ha aiutato a combattere e ad allontanarsi dall’occupazione, e nessuno meglio di lui conosce i valori che porta. È un’arte che richiede impegno e dedizione, sacrifici, spostamenti... che si tratti di non avere una casa o di considerare casa ogni posto in cui si vive. La musica arricchisce e accompagna i cambiamenti, e un’orchestra è una grande metafora di società: collaborare per un risultato più grande.


a dove vieni e cosa ti ha spinto ad andartene per venire in Italia?

In un posto dove sopravvivere diventa un atto di resistenza, credo che la musica sia una delle forme più pure ed efficaci di lotta. Per me rappresenta un modo di vivere, e creare uno spazio pieno di speranza e lontano dalla realtà brutta ed ingiusta che viviamo sotto l’apartheid e l’oppressione dell’occupazione Israeliana.

Mi chiamo Omar Saad e vengo da un villaggio situato in Galilea, nella Palestina storica. Sono un musicista, suono la viola. A casa mia ho passato diverse disavventure a causa della situazione politica, che credo sia tristemente nota a tutti; sapevo che vivere nella mia terra non sarebbe stato facile. Inoltre, volevo continuare i miei studi musicali a livello accademico Hai avuto un’opportunità e hai saputo cosuperiore ma, non essendoci purtroppo glierla. Ci è voluto coraggio? in Palestina conservatori che diano lo Ho riposto tanta fiducia nelle persone stesso titolo di quelli europei, sapevo che che ho incontrato, ma soprattutto in me avrei dovuto prima o poi trasferirmi. stesso. Sono stato molto fortunato ad Un giorno ho incontrato il maestro Alincontrare il maestro Campagnano: mi berto Campagnano a Gerusalemme Est, ha accolto come un amico fin da subito, faceva parte della giuria al Concorso Nain Palestina. Quando poco tempo dopo zionale Palestinese. Ci siamo scambiati i sono arrivato in Italia, dove ho conocontatti e qualche mese dopo ero già in sciuto la sua splendida moglie Danila, mi Italia, dove ho continuato i miei studi tra sono sentito come fossi loro figlio. Reggio Emilia e Cremona, con i maestri Senza loro e le amicizie preziose che mi Scalvini e Giuranna. sono creato durante il tempo passato in Italia, che mi hanno fatto sentire a casa, non ce l’avrei mai fatta. La mia famiglia, poi, mi ha sempre supportato. Sono creIn un posto dove sciuto con la musica, come i miei fratelli, ed è un legame che portiamo nel cuore sopravvivere diventa un anche da lontano.

atto di resistenza, credo che la musica sia una delle forme più pure ed efficaci di lotta.

Trasferirti ha cambiato la tua vita e il tuo modo di fare musica? Sono molto grato di aver studiato in Italia. Dai miei maestri indubbiamente ho imparato dare attenzione alle peculiarità del mio strumento, ma anche l’importanza dell’ascolto nel fare musica insieme ad altri. Trovo che sia una grande metafora di vita e di società, collaborare con gli altri per la riuscita di qualcosa di più grande e bello. Hai appena cambiato città un’altra volta... Si, mi sono trasferito in Scozia per fare un Master in Music Performance al Royal Conservatoire of Scotland, a Glasgow. L’ambiente è molto stimolante e vario, il Conservatorio molto grande e presti-

INTERVISTA

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Cos’è la musica per te?

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INTERVISTA

gioso. É indubbiamente tutto diverso dall’Italia... Le persone sono simpatiche ma, forse perché la città è grande, forse perché la mentalità è più nordica, mi sembrano più formali. Quale posto percepisci come casa tua? Mi sono sentito più “a casa” in Italia che in Scozia, forse perché sono arrivato qui da poco... Sicuramente però il calore meridionale che c’è in Italia e l’accoglienza delle persone mi ha fatto sentire come se fossi a casa mia in Palestina, dove la mentalità è tanto simile. Se non avessi preso la decisione di andare via dalla Palestina, come sarebbe la tua vita adesso? Ti senti cambiato?

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Non riesco proprio ad immaginare la mia vita se non fossi partito dalla Palestina... Ho avuto tante esperienze e ho conosciuto molte persone, e ciò mi ha arricchito, ma non sono cambiato come persona. Sono sempre stato determinato e con solidi principi, cerco sempre di avere nuovi obiettivi e di fare di tutto per perseguirli. Prima o poi vorresti tornare a casa in maniera definitiva? Vorrei tornare a casa, e che quella fosse per sempre casa mia, ma non so se sarà per sempre. Essendo un musicista, viaggiare fa parte della vita. Ho però un grande desiderio: di fondare un Conservatorio di livello accademico superiore, come quelli occidentali, nella mia Terra. Vorrei che tutte le esperienze che sto avendo, umane e musicali, mi aiutassero a raggiungere questo sogno.

Image Credit: Bryan MacCormack with Left In Focus


INTERVISTA

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POESIA

il nome dei corpi celesti I miei silenzi di inizio luglio, il nostro amore di deserti, di messaggi malrisposti, di paradisi incerti. Tu ti fai nebbia, poi grandine,

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io piango diamanti, mangio pillole riposanti, colleziono stordimenti. E spiegami i cieli coperti, il modo in cui ti vesti, i segreti dentro i vecchi libri, il nome dei corpi celesti. Tredicimila giorni circa, sono serviti a farci incontrare. Pensare che adesso sei il mio tutto, il punto fermo che chiude la frase.

ARIANNA LERUSSI


fuggire per salvarsi LUGLIO 2018

Foto di Veronica Vanzo

PROSSIMA USCITA


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