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BioCasa Rivoluzione verde L'edilizia green? Può avere crediti
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RIVOLUZIONE VERDE
L’edilizia green? Può avere dei crediti
Il mercato dei certificati sul consumo di carbonio dovrebbe aumentare di 15 volte o più entro il 2030 e fino a cento volte entro il 2050. Ma non sono l’unica soluzione possibile. C’è anche chi studia come trasformare la Co2 in materiali per costruzione
di Valentina Anghinoni
Imateriali edili del futuro saranno fatti con anidride carbonica? È difficile profetizzare una risposta. Ma una cosa è certa: c’è già chi se ne sta occupando. Parliamo di Mineral Carbonation International, una realtà australiana specializzata nello sviluppo di tecnologie volte a trasformare la CO2 in materiali utilizzabili. Con un duplice vantaggio: raccogliere le emissioni provocate dai processi industriali prima che si liberino nell’atmosfera ed evitare l’utilizzo di ulteriori risorse per la creazione di materiali e, di conseguenza, nuove emissioni. La soluzione individuata dal team di Mci è la carbonatazione. È il naturale processo di stoccaggio della CO2, per il quale questa sostanza reagisce con alcuni minerali e forma i carbonati, sostanze stabili, che possono trasformarsi in materiali per le costruzioni. Un esempio direttamente dal mondo naturale? Le bianche scogliere di Dover, situate nella costa sud-orientale dell’Inghilterra: devono il loro caratteristico colore alla carbonatazione, avvenuta in milioni di anni. Certo, a livello industriale questo processo è accelerato a qualche ora. La questione è, però, la seguente: dobbiamo ridurre la quantità di emissioni di CO2 nell’atmosfera terrestre, per non superare la soglia di aumento della temperatura globale di 1,5 gradi, che comporterebbe gli scenari catastrofici che tutti conosciamo. E anche l’edilizia deve fare la sua parte.
DECARBONIZZARE
L’anidride carbonica è la principale (ma non l’unica) causa dei cambiamenti climatici, per la sua presenza in quantità troppo elevate nell’atmosfera terrestre, in costante aumento a partire dagli anni Sessanta. Assieme agli altri gas a effetto serra, responsabili del surriscaldamento del pianeta, la CO2 è al centro di una politica sempre più attenta a ridurne le emissioni provenienti dai vari settori, industriale, residenziale, dei trasporti, e via dicendo. E l’imperativo categorico al centro della politica economica mondiale, per lo meno nelle intenzioni recentemente dichiarate al vertice internazionale Leaders Summit on Climate Change, lo scorso 23 aprile, è proprio la decarbonizzazione. Un termine che, nel settore delle costruzioni, andrebbe applicato a tutta la filiera, dalla produzione e distribuzione dei materiali, alla progettazione del sistema-edificio e delle fasi di costruzione, senza tralasciare il tema del recupero e della rigenerazione del patrimonio immobiliare esistente e degli stessi centri urbani. Non a caso, nel quadro del Green Deal e di Next Generation Eu, spicca la strategia denominata Renovation Wave che indica, letteralmente, un’ondata di ristrutturazioni che l’Unione Europea prevede possa toccare circa 35 milioni di edifici entro il 2030, raddoppiando l’attuale tasso di rinnovamento, con benefici non solo ambientali, ma anche economici (per stimolare la ripresa del settore)
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OBBLIGATORI O FACOLTATIVI? STRATEGIE A CONFRONTO
Trattando il tema dei crediti di carbonio può essere utile sottolineare come si distinguano due differenti approcci di mercato. Quello cogente, ovvero definito in forma obbligatoria da enti istituzionali come Stati e agenzie, a cui si aggiungono i mercati volontari, adottati su iniziativa delle singole aziende. Un esempio di mercato cogente è quello messo in campo dalla Commissione Europea: si tratta del sistema Eu Ets (European Union Emission Trading System). È il maggior esempio di mercato regolamentato di quote di emissione a livello mondiale, che già dal 2005 si è occupato di fissare un tetto alla quantità di gas serra che gli impianti possono emettere ogni anno, rendendone obbligatorio il monitoraggio. Questo sistema funziona secondo il principio sintetizzato nell’espressione cap and trade: si stabilisce un tetto massimo (cap) alle emissioni complessive di gas serra delle industrie, degli impianti di produzione energetica e di altre installazioni e, all’interno di tale soglia, le imprese ricevono quote di emissioni che possono vendere o acquistare tra loro (trade), secondo le proprie necessità. Il limite al numero complessivo delle quote disponibili ne assicura il valore e ogni anno le imprese devono disporre delle quote necessarie a coprire le proprie emissioni, altrimenti sono severamente multate. Quelle che riducono le proprie emissioni possono scegliere se tenere le quote eccedenti per coprire un fabbisogno futuro oppure venderle. Ma c’è anche un altro tipo di mercato di crediti di carbonio, che funziona, invece, secondo il principio baseline and credit: non ci sono tetti alle emissioni, ma ciascuna azienda stabilisce una propria linea di guida tramite il proprio bilancio aziendale delle emissioni e genera crediti mediante azioni di riduzione o di compensazione delle emissioni. Come Carbomark, progetto italiano radicato in Veneto e FriuliVenezia Giulia, che rientra nel mercato di tipo volontario.
e sociali (edifici più efficienti sono un’arma in più contro la povertà energetica). Ricordiamo che, in Europa, gli edifici consumano circa il 40% dell’energia e rilasciano il 36% delle emissioni di gas serra. Ma ogni anno solo l’1% di questi edifici, che per l’85% hanno più di vent’anni, è sottoposto a lavori di manutenzione.
TRANSIZIONE ECOLOGICA
Vale la pena di ricordare gli obiettivi: secondo la normativa europea, occorre dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 e azzerarle entro il 2050: appare evidente, dunque, che servano azioni efficaci e immediate. Certo, per raggiungere il traguardo di un’economia e di un’edilizia a zero emissioni, servono molte risorse: secondo la Commissione Europea è necessario prevedere il contributo di capitali privati. Per questo, a marzo 2018, Bruxelles ha lanciato l’Action plan on sustainable finance, un enorme piano per creare un corpo di regole attorno al tema della finanza sostenibile. La strategia si riferisce al processo di inserimento di criteri ambientali, sociali e di governance (i cosiddetti criteri Esg, Enviromental, social and governance considerations) nelle decisioni degli operatori finanziari. In particolare, quelli ambientali includono la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, la salvaguardia della biodiversità, la prevenzione dell’inquinamento e l’economia circolare. Il piano contiene anche un regolamento che definisce i presupposti secondo i quali un investimento possa definirsi verde, per aiutare gli investitori a compiere delle scelte in ottica di transizione verso un’economia a basse emissioni: parliamo di tassonomia.
FINANZA GREEN
La normativa sulla tassonomia per la finanza sostenibile è in vigore dal 13 luglio 2020, quando è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Europea il Regolamento (UE) 2020/852, mentre l’emanazione dei primi atti delegati, che la rendono effettivamente attuativa, è avvenuta lo scorso 21 aprile. Il dibattito resta però ancora aperto sull’inclusione di alcune categorie energetiche, in particolare su nucleare e gas naturale, attualmente oggetto di studio da parte di due comitati indipendenti. Si prevede, però, che entro il 2022 gli investitori che offrono fondi in Europa, dichiarati sostenibili per l’ambiente, avranno l’obbligo di spiegare come e fino a che punto hanno utilizzato la tassonomia per determinare la sostenibilità alla base degli investimenti e in che proporzione la tassonomia è applicata a investimenti, fondi o portafogli. Semplice? No. Infatti, la scadenza è già stata posticipata perché ha incontrato molte resistenze, sia da parte di alcuni Paesi membri sia di associazioni ambientaliste. Insomma, non è facile trovare la quadra, anche perché rimanere fuori dal mercato finanziario green significa estraniarsi da una realtà in forte crescita.
GLI STRUMENTI
Ma torniamo alle aziende che, come abbiamo visto, hanno un interesse in più a dimostrare la propria sostenibilità al mercato e agli investitori. Un indicatore essenziale è la quantità di emissioni, dirette e indirette, provocate e che, è inutile dirlo, vanno ridotte al minimo. Come? L’approccio più comune corre su due binari, sintetizzabili con le terminologie inglesi reduction e offset. Il primo indica l’adozione di strategie volte a ridurre le emissioni di gas Ghg (Greenhouse gas, i gas a effetto serra), mentre il secondo comprende tutto l’universo delle azioni di compensazione delle emissioni, come i crediti di carbonio. Questi ultimi, in teoria, rappresentano una soluzione provvisoria da considerare quando non è ancora possibile ridurre a zero le emissioni, come accade per alcuni settori, oppure per chi ha avviato il proprio processo di trasformazione in chiave sostenibile ma deve completarne alcune fasi. Secondo le stime della Taskforce on Scaling Voluntary Carbon Markets, il gruppo di esperti creato per studiare un mercato
volontario del carbonio ampio, trasparente ed efficiente per il settore privato, la domanda di crediti di carbonio potrebbe aumentare di 15 volte o più entro il 2030 e fino a cento volte entro il 2050. Un mercato che potrebbe arrivare a valere più di 50 miliardi di dollari nel 2030.
VERSO LA RIDUZIONE
L’adozione effettiva a criteri di produzione sostenibile non deve però essere solo una questione di facciata: l’accusa di greenwashing, infatti, può comportare ripercussioni negative sulla reputazione del proprio brand o azienda. Per questo motivo è possibile selezionare certificazioni affidabili nel riconoscere la sostenibilità di prodotti e organizzazioni, basate sulle metodologie più diffuse. Per esempio, Pef (Product Environmental Footprint) e Oef (Organisation Environmental Footprint) sono metodologie che consentono di misurare le prestazioni ambientali rispettivamente lungo il ciclo di vita dei prodotti e servizi o delle organizzazioni, basati sul metodo Life Cycle Assessment (Lca). Per le emissioni di CO2, in particolare, si parla di impronta climatica di prodotto (Cfp, Carbon Footprint di prodotto), mentre per le organizzazioni vengono predisposti inventari Ghg (Greenhouse Gas), regolati dalla famiglia delle norme Iso 14060, che forniscono i requisiti nel modo più chiaro possibile e sono riconosciute a livello internazionale.