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Gianna Petrone

La Medea di Seneca tra paradigma retorico e tradizione letteraria Hic amor Medeae quanta miseriarum excitavit incendia. Cic. Tusc. disp. 4, 69

Sulla Medea di Seneca come archetipo culturale, da cui sono germinati innumerevoli scritti, tante altre Medee del teatro europeo, del melodramma o della narrativa, si potrebbero scrivere libri.1 Come per il mito di Edipo, anche la storia di Medea segna un paradigma della cultura occidentale, su cui ogni tempo ha riflettuto interpretando a suo modo l’antico racconto della donna di un paese lontano, esperta nei saperi della natura e della magia, che per vendetta verso l’uomo che l’ha tradita e abbandonata, dopo aver avuto da lei amore assoluto

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Qualcuno c’ è già, come il recentissimo Medea. Variazioni sul mito (a cura di M.G. Ciani), Venezia 1999, che comprende, oltre alla Medea di Euripide, quella di Grillparzer e Lunga notte di Medea, tragedia in due tempi di Corrado Alvaro. Al raffinato filo conduttore individuato nell’ introduzione, quello di un percorso che alleggerisce le colpe del personaggio e tende a trasformarlo in vittima, non mi sembra risulti estraneo, paradossalmente, lo snodo rappresentato dal testo sene-cano. Questo, infatti, è vero che accentua la valenza di Medea come ‘demone del male’ ma lega l’ esplosione della furia vendicatrice ad una infrazione oggettiva che Giasone ha portato alle leggi dell’ universo e sposta quindi altrove il peso della responsabilità prima, finendo appunto con l’ ‘alleggerire’ Medea stessa.


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e aiuto senza scrupoli, uccide i suoi stessi figli. Non è diventato un ‘complesso’ questo racconto, come invece quello relativo ad Edipo, ma è come se lo fosse: da Euripide in poi leggiamo attraverso il personaggio di Medea il conflitto estremo tra ragione e passione, l’ eccesso di un amore divenuto odio che cancella persino il legame più naturale di tutti, quello della maternità. Nella cultura e nella morale europea la Medea di Seneca occupa un posto, nella scuola l’ ha occupato. In quella gesuitica, che sul teatro senecano modellava i suoi scritti, ma anche nella retorica latina, cioé nella scuola antica. Il teatro dei reverendi padri si esemplava su quello senecano dal punto di vista formale, trovandovi attuata la norma della divisione in cinque atti, e lo seguiva nella scansione delle parti, di regola quattro seguite da un coro, l’ ultima senza, modellandovi sopra anche la metrica e il lessico.2 Non solo l’ insegnamento formale veniva dal teatro di Seneca al dramma gesuitico e, in genere, secentesco ma naturalmente anche un repertorio compiuto di situazioni e di affetti dal grande potere generativo. Lasciamo comunque ad altri un’ indagine in questo senso, sarebbe davvero una lunga storia quella del mito di Medea nella letteratura europea, per occuparci invece della Medea di Seneca come punto terminale di altre elaborazioni dello stesso mito soprattutto nel mondo latino e cercare di leggere nell’ interpretazione senecana anche alla luce per così dire di una letteratura latina vista con gli occhi degli antichi stessi. Poiché abbiamo toccato, anche se solo per allontanarcene, il tema della fortuna del mito di Medea nelle letterature moderne e accennato ai vari percorsi che si possono seguire attorno alla sua storia, segnalo un motivo che vede proprio la Medea di Seneca al centro di sviluppi letterari di lunghissima durata: il tema della nave Argo, dello stupore suscitato dall’ apparizione della prima nave, dalla scoperta della navigazione e dei pericoli ad essa connessi. In uno

2 Lo ha mostrato, in una rivisitazione di grande utilità, C. Questa, Il modello senecano nel teatro gesuitico (Lingua, metro, strutture), in «MSt» 7, 1999, pp. 141181.


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studio esemplare il Curtius ha dimostrato come il motivo della nave degli Argonauti dal mondo latino arriva ininterrotto sino a Dante, ispirando tra l’ altro anche il canto di Ulisse, sino a Calderón de la Barca sino a Goethe etc.: «Il tema di Argo ci permette di entrare, seguendolo, nell’ economia della tradizione letteraria», scrive il Curtius, «... questa può sembrare un confuso groviglio e un conglomerato di frammenti... ma è come se fossero stati usati con estrema cura e con calcolo massimo dell’ effetto e del rendimento».3 In realtà questa ricerca illumina di una grande intelligenza tali pezzi sparsi: dai polverosi scaffali di una biblioteca in parte poco nota, quella di scrittori medievali più o meno oscuri, trae un pezzo di qua, un’ altra tessera di là e compone il quadro ordinato di un motivo letterario, quello della scoperta di mondi altri e della coraggiosa intraprendenza del navigare. Un argomento che attraverso il Medioevo arriva sino ai nostri giorni a partire dal mito di Medea, l’ eroina barbara di un paese remoto raggiunto da Giasone nella spedizione argonautica per la conquista del vello d’ oro con un’ impresa per la prima volta compiuta per mare. Con un po’ di disinvoltura, nella posterità di quest’ ultimo tema ci si potrebbe spingere sino alle epopee della fantascienza e delle guerre stellari: in effetti il nome di Argo è rimasto impresso in questo tipo di letteratura. Su questo punto, ovvero la connessione del mito di Medea con quello argonautico, il testo senecano ha, come vedremo, molto da dire; al di là di quelli che erano i punti fermi del mito, ovvero gli elementi inamovibili del racconto, la nostra tragedia rende infatti questo nesso molto esplicito e lo carica di significati morali che prima non sembrava avere, interpretando la spedizione argonautica come un nefas,4 un’ empietà e facendo dei delitti di Medea il frutto

3 Cfr. E.R. Curtius, Letteratura della letteratura, tr. it. Bologna 1983, p. 325. Sul motivo della meraviglia suscitata dall’ apparizione della prima nave cfr. adesso R. Degl’ Innocenti Pierini, Tra Filosofia e Poesia. Studi su Seneca e dintor-ni, Bologna 1999, pp. 221-242. 4 Come ha messo in evidenza G.G. Biondi, Il nefas argonautico. Mythos e Logos nella Medea di Seneca, Bologna 1984.


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avvelenato di un viaggio maledetto dagli dèi: qual è stato il guadagno del mettersi per mare e dell’ inventare le navi? Medea, «male maggiore del mare, guadagno degno della prima prora» (maiusque mari Medea malum, / merces prima digna carina, vv. 362-363). Veniamo dunque al nostro intento, quello di valutare la ‘diversità’ della tragedia del nostro autore, la nuova interpretazione del mito, cosa che non si può fare senza misurare la tradizione precedente. Come si sa, bisogna allora fare i conti innanzitutto con la Medea di Euripide, con la versione epica del mito degli Argonauti data da Apollonio Rodio e soprattutto con le Medee latine, quella di Ennio, la Medea exul, e quella di Accio, con la presenza tra le due anche di un Medus di Pacuvio. Dunque tre tragedie, oltre le quali si devono contare le tre Medee di Ovidio, innanzitutto la tragedia perduta, della cui grandezza ci sono testimoni Quintiliano (Inst. or. 10, 1, 98) e Tacito (Dial. de orat. 12, 6), ma anche la Medea elegiaca della XII Eroide, patetica eroina innamorata, e quella del lungo episodio del VII libro delle Metamorfosi, dove prevalgono due aspetti, quello della fanciulla che soccombe all’ amore per Giasone e quello della maga. Quando Seneca dunque affrontò questo argomento esso era fortemente occupato dalla letteratura, anche da quella a lui più vicina e che più lo condizionava. Ma al mito di Medea si richiamava assai spesso anche l’ insegnamento retorico. Quando Orazio nell’ Ars poetica scriveva come si doveva rappresentare il personaggio di Medea, sit Medea ferox invictaque (v. 123), riassumendone le qualità distintive, riproponeva un esempio drammatico su cui la retorica aveva elaborato tutta una serie di riflessioni: Quintiliano definirà atrox Medea, con occhio al sentimento che a lei si collega, ma già prima di lui Cicerone, quando nel De oratore parla delle modulazioni della voce, che l’ oratore come un attore deve saper assumere, ricorre all’ esempio di Medea per designare la voce flebile della disperazione di chi tutto ha perduto (3,


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58).5 Significa che Medea era già per la retorica un paradigma. E qui si può osservare forse come anche in quella sorta di irrigidimento che un racconto subisce quando diventa esempio, il personaggio conservava tutta la sua straordinaria ricchezza e contraddittorietà: mentre Orazio, come poi Quintiliano, guarda, per così dire, alla seconda parte della tragedia, quella che vede lo spaventoso prevalere della mostruosa vittoria di Medea, Cicerone, nel momento in cui cita un brano dell’ opera di Ennio come caso tipico di miseratio ac maeror, guarda invece evidentemente alla prima parte, quella dove Medea è indubitabilmente vittima. Persino nella semplificazione della retorica si manteneva dunque l’ oscillazione massima tra i due estremi su cui si fonda l’ organizzazione euripidea del dramma, (che ancora il rifacimento enniano rispettava fedelmente): la più patetica delle vittime di un’ ingiustizia, degna di figurare come limite nella scala dell’ infelicità prodotta dalla malvagità altrui, come emblema di commiserazione e afflizione, è poi anche la più terribile dei carnefici, adeguata a rappresentare il limite opposto nella scala di chi dà infelicità. Famosissimo era soprattutto nelle scuole di retorica l’ inizio del dramma euripideo, dove la nutrice malediceva la nave Argo su cui Medea era salita per abbandonare la Colchide e seguire Giasone, andando incontro alla sua sventura: non fosse mai stato abbattuto dalla scure il pino del Pelio che con il suo legno diede i remi ai nobile eroi che mossero alla conquista del vello d’ oro!6 Ennio nel suo

5 Aliud enim vocis genus iracundia sibi sumat... Aliud miseratio ac maeror, flexibile, plenum, interruptum, flebili voce: quo nunc me vortam? quod iter incipiam ingredi? domum paternamne? anne ad Peliae filias? Il passo ciceroniano, interessantissimo per la teoria latina della ‘voce’ , mostra come ogni personaggio tragico avesse una sua propria intonazione canora, quasi una propria ‘aria’ . 6 Sulle figure patetiche che vi erano poste in atto abbiamo un’ articolata riflessione degli scoli (Euripides Medea mit Scholien, hrs. E. Diehl, Bonn 1911), di cui si accorse F. Leo, Plautinische Forschungen, Berlin 19122 (= Darmstadt 1966), p. 98.


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dramma l’ aveva tradotto in un passo imitato da molti poeti successivi che cominciava con un utinam ne in nemore Pelio etc..., «Avesse voluto il cielo che mai nel bosco di Pelio tronchi d’ abete tagliati dalle scuri fossero caduti a terra, né che di là si fosse cominciato a costruire la nave che ora è chiamata con il nome di Argo».7 Lo riprenderà Catullo nel c. 648 ma, tra gli altri, anche Virgilio,9 che farà dire a Didone, una donna abbandonata pensata con molti tratti appartenenti a Medea, «... se soltanto le prore dardanie mai avessero toccato i nostri lidi» (...si litora tantum / numquam Dardaniae tetigissent

7 Utinam ne in nemore Pelio securibus / Caesa accedisset abiegna ad terram trabes, / Neve inde navis inchoandi exordium / Coepisset, quae nunc nominatur nomine / Argo, quia Argivi in ea delecti viri / Vecti petebant pellem inauratam arietis / Colchis imperio regis Peliae per dolum. / Nam numquam era errans mea domo efferret pedem/ Medea animo aegro amore saevo saucia, Enn. Scen. 246 ss. V2. Ricchissimo è il dibattito retorico su questi versi. Secondo Rhet. ad Her. 2, 34, Ennio avrebbe dovuto limitarsi all’ affermazione finale, ossia ‘magari Medea non fosse stata innamorata’ . Questo argomento, cioé che il poeta ha preso le mosse da troppo lontano, rimane una costante osservazione di Cicerone: in Pro Cael. 18 l’ oratore per esempio ironizza, portando l’ esempio dei nostri versi, sul longius... contexere carmen. In Top. 61 l’ inizio enniano è finalizzato invece ad una discussione di tipo logico-filosofico, mentre in De fin. 1, 4 la citazione è in funzione dell’ ammirazione letteraria per l’ opera latina giudicata all’ altezza di quella euripidea. Ma della fortuna persistente di questi versi come exemplum testimonia una serie numerosa e continua nel tempo di passi grammaticali: a partire da Varrone (De l. L. 7, 33), li cita poi Donato (Ter. Phorm. 157) come caso di vetus elocutio e, con il rispetto per i tragici vetustissimi, Prisciano (De metr. Ter. G.L. 3, 423, 3, 16). Più ‘tecnico’ torna a rilevarvi il vitiosum genus argumentationis Vittorino (R.L. 415, 24). La citazione di Girolamo (Epist. 127, 5), che li riferisce a commento di una situazione dell’ attualità (... rectissime illud Ennianum aptari potest ...), mostra come costituissero un vero e proprio modello paradigmatico. 8 Il varo della prima nave, da cui comincia Catullo, è infatti ripresa ennia-na: cum lecti iuvenes, Argivae robora pubis, / auratam optantes Colchis avertere pellem, / ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi (c. 64, 4-6); cfr. A. Traina, Allusività catulliana (Due note al c. 64), in Id., Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici I, Bologna19862, pp. 131-158. Nella ricca bibliografia vd. F. Cupaiuolo, Struttura e strutture formali del carme 64 di Catullo, in «BSL» 24, 1994, pp. 432-473. 9 Sulle peripezie del motivo di Medea tra Virgilio e la letteratura successiva interessanti osservazioni in S. A. Cecchin, Medea in Ovidio tra elegia ed epos, in AA.VV., Atti delle giornate di studio su Medea, (a cura di R. Uglione), Torino 1995, pp. 69-89.


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nostra carinae (Aen. 4, 657-658). Destinato a diventare un luogo comune della poesia, questo inizio, che esprimeva un desiderio impossibile proiettato nel passato, il desiderio che non fosse avvenuto qualcosa che invece è accaduto, fu preso di mira dalla retorica come una deduzione illogica, lecita ai poeti ma non ai retori, che devono andare a cercare le cause non così lontano e soprattutto devono individuare ferrei legami di causa ed effetto. Di questo passo, un segmento famoso della saga di Medea, si impadronisce dunque il pensiero retorico per dire cosa non bisogna fare, scambiare, potremmo dire noi, un post hoc per un propter hoc, un nesso temporale per una concatenazione necessaria. Con ragionamento ineccepibile, la retorica latina sostiene l’ erroneità della dimostrazione che connette gli alberi del bosco del Pelio e le sofferenze di Medea, una licenza poetica che è però una vitiosa expositio (Rhet. ad Her. 2, 34): tra le due cose non c’ è nessuna relazione. Un buon numero di passi retorici esemplifica con i versi enniani che traducono l’ inizio della Medea di Euripide il concetto che non bisogna cercare le cause troppo alla lontana, sbagliando peraltro il bersaglio: si tratta, secondo un diffuso precetto di longius... repetita (Cic. De inv. 1, 91). Cicerone a volte ci scherza sopra, divertendosi anche a provocare, come in De fato 15, 34: per causa non si deve intendere qualcosa che semplicemente precede un certo avvenimento ma quello che oltre a precederlo lo determina effettivamente, così non si può chiamare Ecuba la causa della fine dei Troiani, per il fatto di aver generato Paride Alessandro, né si può addebitare a Tindaro, il padre di Clitennestra, la morte di Agamennone. Sarebbe, dice Cicerone, con ottimo humour, come affermare che un viaggiatore ben vestito è la causa che provoca la rapina da parte di un ladro. Ottima messa in guardia, possiamo commentare, da un paralogismo, un falso ragionamento. Cicerone lo suffraga con l’ esempio dell’ inizio della Medea di Ennio: «di questo tipo è quel famoso verso di Ennio “utinam...trabes” - avrebbe potuto dire ancora più alla lontana “non


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fosse mai nato un albero sul Pelio”, o addirittura ancora oltre, “ non ci fosse mai stato un monte Pelio” così, a cercare i precedenti, si potrebbe continuare all’ infinito...».10 L’ osservazione ciceroniana demistifica il ricorso al passato come spiegazione univoca, la vocazione eziologica, che, buona per la poesia, non porta le prove in un’ aula di tribunale. Molto chiaro in questo senso sarà anche Quintiliano (Inst. or. 5, 10, 84): «Giustamente ci insegnano a non risalire in ogni circostanza al passato più remoto, come fa Medea quando dice “ utinam ne in nemore Pelio”, come se la sua infelicità o la sua colpa fossero dipese dal fatto che lì era caduto il tronco d’ abete a terra».11 Tutta intera la tradizione retorica, anche tarda, attraverso Donato e Prisciano conserva questo argomento e tiene a svincolare gli alberi cresciuti sul monte Pelio da ogni responsabilità nelle disgrazie di Medea, con un accanimento, un’ insistenza, diremmo, che si spiega soprattutto con le parallele utilizzazioni poetiche e le molteplici imitazioni di questo celebre motivo: da una parte i poeti continuavano ad usarlo, imitandolo e ricodificandolo, dall’ altra i retori ne prendevano le distanze per quanto riguardava l’ uso, per così dire, nell’ ambito della loro professionalità. In che senso tutto ciò può interessarci riguardo alla Medea di Seneca? Traiamo una prima parziale conclusione, quella della consistenza che la tragedia euripidea, attraverso le sue rielaborazioni latine, aveva assunto nella cultura romana: da un lato le molte riprese letterarie, dall’ altro l’ uso retorico testimoniano come quella storia tragica si fosse radicata, anche nei particolari e nelle modalità del racconto. Vedremo come i due filoni, quello poetico e l’ altro della tradizione retorica finiscano per coincidere nella tragedia senecana,

10 ...ex hoc genere illud est Enni: “utinam ...trabes” licuit vel altius “utinam ne in Pelio nata ulla umquam esset arbor”, etiam supra “utinam ne esset mons ullus Pelius” similiterque superiora repetentem regredi infinite licet... (De fato 15, 34). 11 Recte autem monemur causas non utique ab ultimo esse repetendas, ut Medea “utinam ne... Pelio”, quasi vero id eam fecerit miseram aut nocentem, quod illic ceciderint “abiegnae ad terram trabes” (5, 10, 84).


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trovando un’ articolazione che pur mantenendo le linee di svolgimento del dramma euripideo lo modifica tanto profonda-mente da diventare un nuovo modello per le esperienze letterarie successive. La tragedia senecana è debitrice a tutti i suoi predecessori eppure finisce con l’ essere completamente altra. Su un piano generale, rispetto ad Euripide, il dramma senecano procede molto oltre nella dimensione umanistica: è l’ uomo, ormai, l’ origine degli accadimenti e soprattutto le sue passioni. Singolarmente questo accade anche rispetto alla Medea di Euripide, cioé per quella tragedia che, come nota giustamente il Paduano,12 era stata vista dagli antichi come una sorta di rivoluzione copernicana proprio in questo senso, cioé nella direzione umanistica, in quanto era dall’ interno dello sconvolgimento passionale di Medea che nasceva l’ azione tragica, con un segno formale anche vistoso, i celebri monologhi interiori attraverso cui l’ eroina faticosamente e con molti ondeggiamenti prendeva le sue terribili decisioni. Seneca procede oltre anche laddove il modello sembrava non dargliene la possibilità: la sua Medea è certamente più ridotta, meno ricca, ma pienamente razionale, anche nella follia, implacabile nelle sue deduzioni, lucida nel programmare gli atti da compiere.13 Naturalmente anche le rielaborazioni latine hanno lasciato un’ impronta leggibile e soprattutto forte è, come si sa, l’ influsso di Ovidio. Mi limiterò a pochi cenni. Della tragedia tanto famosa ai suoi tempi, di cui ci rimangono due esili frammenti, certamente Seneca subì il fascino; lo prova la corrispondenza tra uno dei due frammenti, in cui l’ eroina si diagnostica consapevolmente l’ istabilità motoria di 12 Cfr. l’ utile scheda sulla Medea senecana contenuta in G. Paduano, Il teatro, in AA.VV., La poesia Latina. Forme, autori, problemi, (a cura di F. Montanari), Roma 1991, p. 236. 13 Sull’ eversività rappresentata dalla lucida follia del personaggio senecano, cfr. G. Mazzoli, Medea in Seneca: il logos del furor, in AA.VV., Atti delle giornate di studio su Medea, cit., pp. 93-105. Particolarmente utile alla comprensione del personaggio e della costruzione della tragedia è infatti l’ osservazione che Medea « ...àncora il chaos psichico al cosmos fisico e fonda l’ iperbole ineluttabile del furor proprio sulla sussistenza dell’ ordine universale».


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un’ invasata, feror huc illuc ut plena deo, con il verso 123, incerta vecors mente non sana feror, dove c’ è una stessa, diremmo, autoanalisi. Anche qui, va detto, Seneca andava molto oltre e la rappresentazione degli effetti fisici dell’ ira, della devastazione che l’ oltranza della passione portava sul volto e sul corpo della protagonista è fortemente insistita e ripetuta in modo financo stucchevole, in corrispondenza agli interessi etici dell’ autore, sicché una strettissima relazione corre tra il ritratto dell’ irato quale compare nel primo libro del De ira e le descrizioni protratte dei segni fisici dell’ ira in Medea. Ancora innamorata di Giasone come nelle Eroidi, la Medea senecana ne conserva molti tratti: per esempio l’ attacco dopo il primo coro, dove l’ eroina ha un soprassalto all’ udire l’ imeneo che è stato intonato per le nuove nozze del suo sposo, il v. 116: aures pepulit hymenaeus meas, è un sicuro rifacimento di Ov. Her. 12, 137-138: ut subito nostras Hymen cantatus ad aures / venit.14 Come pure riflessa è la Medea delle Metamorfosi, una fanciulla che scopre la potenza di eros e che, nel conflitto tra il tradimento della propria famiglia e la vita dell’ uomo che l’ ha stregata sceglie que-st’ ultimo:15 Giasone deve vivere o morire?... vivat tamen (Ov. Met. 7, 23-24); e così ancora decide la protagonista di Seneca, con la stessa dinamica mentale, spostata però dal momento dell’ innamoramento, quello descritto da Ovidio, a quello successivo al tradimento e dunque privo d’ illusioni: vivat meus, / ut fuit, Iason; si minus, vivat tamen (vv. 141-142). La memoria ovidiana si è trasferita cioé ad una fase temporale

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Cfr. A. Perutelli, Il primo coro della Medea di Seneca, in «MD» 23, 1990, pp. 99-117. L’ ambizioso mosaico letterario che Seneca compone in tale coro, dove temi e metri dell’ epitalamio costituiscono un’ antitesi al prologo, è in questo studio indagato con acutezza nei sottili legami della ripresa di molteplici modelli ma anche nelle sue incongruenze drammatiche. 15 Sulle variazioni interne alla Medea ovidiana cfr. L. Landolfi, Nescio quid certe mens mea maius agit (Her. XII, 212). Medea fra analessi e prolessi letteraria, «Pan» 15-16, 1998, pp. 57-89. Una nuova valutazione dell’ influenza ovidiana in L. Baldini Moscadi, I volti di Medea: la maga e la virgo nella Medea di Seneca, in «Paideia» 53, 1998, pp. 9-25.


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successiva nella sequenza della storia ma opera ancora. Queste e molte altre allusioni letterarie sono inserite tuttavia in un quadro d’ insieme assai mutato, dove tutto si è molto rarefatto, concentrato e reso assoluto. C’ è un’ autoreferenzialità di Medea: con ragione si è detto che la trama senecana è legata al raggiungimento da parte dell’ eroina della sua identità. La Medea senecana ha il problema di diventare quello che è, cioè Medea. Un percorso segnato in effetti da alme-no tre battute: due alla nutrice. Quando le obietta che deve essere prudente, perché è in una condizione di totale debolezza, non avendo nulla e nessuno su cui contare, la maga risponde Medea superest, racchiudendo nel suo nome tutte le forze della natura (vv. 166-167: «Resta Medea: in lei c’ è mare e cielo, e ferro e fuoco, i fulmini e gli dei») e quando semplicemente la nutrice la chiama per nome, Medea, risponde fiam, lo diventerò (v. 171); una promessa davvero mantenuta, nella terza battuta, tanto che dopo i suoi delitti potrà dire al v. 910: Medea nunc sum, crevit ingenium malis, «ora sono Medea, il mio io è maturato nel male», come traduce A. Traina.16 Medea è arrivata al suo telos, al compimento di sé stessa (in un modo rovesciato, potremmo osservare, rispetto al sapiens della filosofia, dal momento che l’ esperienza dei mali ha prodotto la sua crescita criminale). Versi affascinanti, non alieni tuttavia da una certa durezza, dove si può anche vedere chiaramente, mi sembra, l’ influsso dell’ exemplum usato dalle scuole di retorica. L’ insostenibile rigidità di quella risposta oracolare, fiam, da figura di marmo, prosopopea e non persona umana, credo che provenga direttamente dalla declamazione

16 In Lucio Anneo Seneca, Medea. Fedra, (Introduzione e note di G.G. Biondi), Milano 1989. Sempre di Traina, a proposito del nome di Medea, cfr. Due note a Seneca tragico. 1. L’antroponimo Medea, in Id., Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici II, Bologna 1991, pp. 123-129; cfr. anche Ch. Segal, Nomen sacrum. Medea and other Names in Senecan Tragedy, in «Maia», 34, 1982, pp. 241-246. Sulla questione degli antroponimi vd. anche il mio Nomen / omen: poetica e funzione dei nomi (Plauto, Seneca, Petronio), «MD» 20-21, 1988, pp. 33-70.


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e dalle sue abitudini: cattive in questo caso. Questa autoreferenzialità fa mostra di sé anche nel prologo, una preghiera ‘al nero’ rivolta agli dei superi e inferi, in cui potenzialmente è già tutto avvenuto e persino l’ uccisione dei figli, complice l’ intesa con i sofisticati e consapevoli destinatari dell’ opera senecana, viene fatta presagire nei foschi bagliori di una sentenza che intreccia la sicurezza da parte di Medea del compimento della vendetta al fatto che lei è madre: «procurata, procurata è la vendetta: ho partorito» (vv. 25-26: parta iam, parta ultio est: / peperi). La si chiamerebbe una freddura, se non fosse una concettosa ambiguità, una sorta di sarcastica ironia tragica. Comunque significa che nel prologo il personaggio coincide con il proprio paradigma, il che non può non essere un effetto di quella lunga storia letteraria e retorica che abbiamo cercato di tracciare: ancor prima che l’ azione cominci a dipanarsi è virtualmente già conclusa, l’ inizio manda già i segnali espliciti della fine. Ne è prova, mi sembra, il fatto che dopo il primo coro Medea si mostri appunto sconvolta dal canto imeneo che ha sentito e da qui muova verso i suoi propositi di vendetta: ma come, potremmo dire, non ne era già avvertita nel prologo, non sapeva già del tradimento del suo uomo? Perché agisce invece come se lo scoprisse solo adesso? È che l’ azione deve ricominciare, da qui la contraddizione. Seneca è costretto ad un ritorno indietro, dato che ha anticipato nel prologo molti dei motivi della vicenda ancora da svolgere drammaticamente: dopo essere andato troppo avanti, deve cercarsi un nuovo inizio. Questo andirivieni mostra come ci sia un punto fermo, da cui il poeta parte nel suo girovagare attorno al mito e alla letteratura che lo rivestiva, e questo punto fermo è naturalmente il paradigma di Medea, praticato anche secondo tecniche retoriche. E quel famoso inizio sulla nave Argo, il monte Pelio che fine avrà fatto? Non c’ è, ma le sue rimostranze, la maledizione verso la navigazione hanno ispirato i cori senecani. Seneca sopprime l’ inizio ormai trito, ma riscrive l’ intera tragedia sulla base del suo motivo principale e la storia di Medea diventa quella della vendetta che la natura violata prende sull’ eroe, Giasone, che con sacrilega audacia ha


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empiamente solcato i mari con una nave che non sarebbe dovuta partire. La mancata ripresa del celebre incipit è in ragione di un ruolo fondamentale che invece il tema della nave Argo adesso assume, diventando effettivamente quello che la retorica invece si era sforzata in tutti i modi di negare, cioé la vera causa della vicende di Medea. Mentre la precettistica oratoria aveva preso i versi euripidei e poi enniani a spiegazione di un falso ragionamento, negando con forza che ci fosse un rapporto tra la prima nave, il pino del Pelio, e gli atti di Medea, Seneca, per primo a quanto ci risulta, chiude i due avvenimenti in un sillogismo, stabilisce una perfetta circolarità, per cui il primo diventa la causa efficiente del secondo. Medea con l’ incontenibile, barbara passion-alità che provoca i suoi delitti, è appunto il ‘guadagno’ paradossale di un’ impresa che ha provocato gli dèi, spingendoli a vendicarsi, è appunto la merces digna prima carina, un demone che l’ incauto Giasone ha volontariamente suscitato con la violazione del mare. Il tema così famoso si sposta dunque nei cori, il secondo, dove è appunto la riprovazione della navigazione, e il terzo, che narra le morti di tutti i partecipanti alla malaugurata spedizione, un elenco cui manca il solo Giasone. Il senso ne risulta completamente modificato: nell’ esclamazione dolorosa della nutrice euripidea, la nave Argo era maledetta per le sventure portate a Medea, era un danno per lei, sottratta alla sua terra e alla sua famiglia, e adesso nella scomoda posizione di chi è in esilio e senza più beni né affetti: lasciando la Colchide e navigando verso Corinto era andata incontro al suo triste destino. Invece, per Seneca, è chiaramente Medea il danno stesso, la merces, e il malum ma è appunto un danno oggettivo, cosmico, qualcosa che è stato Giasone a provocare e a scatenare nel mondo. La vendetta di Medea collima infatti in modo decisamente preoccupante con quella richiesta dal mare e, in genera-le, dal cosmo, il mondo ordinato, per l’ infrazione, portata da Giasone, che ne ha alterato il ragionato equilibrio.17

17 Cfr. Biondi, op. cit. (1984), p. 44 ss. Sulla significatività della polemica sulla navigazione, sul suo ruolo storico e politico di tema letterario che ha però dei solidi


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Attraverso i cori Seneca accenna dunque ad una antiepica, leggendo in un certo senso al contrario la saga argonautica, un viaggio che ha rotto l’ ordine del mondo e che perciò ha la sua punizione, in una specie di contrappasso, nell’ uccisione dei figli di Medea, un delitto contro natura, che diventa la punizione dell’ argonauta, da parte della donna-maga che domina le forze della natura e ne è come il rovescio negativo. Medea finisce con il saldarsi al lato oscuro della natura stessa. In fondo i cori senecani nei confronti della protagonista procedono in senso contrario rispetto ad Euripide. Qui bisogna dire di un’ innovazione decisiva: in Euripide era il coro delle donne Corinzie e ancora in Ennio doveva essere così, dato che un fram-mento traduce precisamente il discorso in cui Medea si rivolge loro. In Seneca, per quanto poco consistente come personaggio reale, è un coro di vecchi Corinzi. La presenza femminile era in Euripide essenziale all’ azione: le donne compatiscono la donna tradita, la capiscono, le danno ragione, tanto che, ed è anche questa una rivoluzione euripidea, non parlano, conservano le tremende confidenze dell’ eroina riguardo ai suoi progetti delittuosi: una solidarietà che naturalmente non arriva sino alla fine. In Seneca il coro, che nulla ha a che fare con il precedente euripideo, è invece maschile e così duramente fazioso, così attaccato verso i suoi governanti, che non solo non ha all’ inizio nessuna pietà per l’ esule abbandonata ma non esita a maledirla e a scacciarla, è il finale del primo coro, con totale insensibilità. Tutto preso a cantare la bellezza dei nuovi sposi, nell’ atmosfera festiva dell’ imeneo, il coro è sprezzante e disumano. Un atteggiamento che, se non cambia totalmente, si modifica sino ad annoverare le colpe di Giasone e, all’ ultimo, fin quasi a comprendere se non le ragioni almeno le sofferenze di Medea. Un rovesciamento, in questo, del procedere euripideo: mentre lì

addentellati nella attualità, pagine di grande spessore ha scritto V. Tandoi, Albinovano Pedone e la retorica Giulio-Claudia delle conquiste, in Id., Scritti di Filologia e di Storia della Cultura Classica I, Pisa 1992, pp. 509-585.


La Medea di Seneca tra paradigma retorico e tradizione letteraria

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dal massimo dell’ avvicinamento emotivo nei confronti dell’ eroina man mano il coro si allontanava da lei, pur nel compatimento, qui dal massimo della distanza il coro progressivamente si avvicina. Se il potere infero di Medea è spaventoso e il suo assassinio dei figli alla fine francamente satanico, così come Seneca lo rappresenta, questo caos della natura e della famiglia, con l’ infrazione delle leggi naturali e familiari, ha la sua origine e motivazione nell’ empietà ‘oggettiva’ di Giasone. Dunque lo sfondo su cui si proiettano i significati del mito è un altro. Come si vede, peraltro, dalla presenza di un tema non presente in Euripide con la stessa importanza: l’ assassinio che Medea ha già compiuto del fratello Absirto, di cui l’ uccisione dei figli è, nella versione senecana, una specie di accresciuta ripetizione. Un’ altra perversa circolarità Seneca stabilisce tra quel che ha fatto ‘prima’ Medea e quel che farà ‘dopo’ : se ha seguito il suo sposo con i delitti, soprattutto facendo a pezzi il fratello e gettandolo in mare per ritardare il padre Eeta al suo inseguimento, nella stessa maniera, cioé con uno stesso tipo di delitti, adesso lo abbandonerà. È quanto dicono, concisamente, i vv. 53-54 del prologo (... quo virum linques modo? / hoc quo secuta es). L’ ombra del fratello ucciso le si presenta nel finale e arma la sua mano contro i figli, sicché questo assassinio funziona come una ‘riparazione’ che reinstaura per Medea il suo vecchio equilibrio. Dirà in versi deliranti a commento dell’ uccisione in atto di aver ritrovato così la sua famiglia d’ origine (recepi... germanum patrem) e la sua verginità perduta. Un mostruoso ritorno al passato ma anche un simbolico ‘risarcimento’ verso il fratello bambino sacrificato alla passione per Giasone. Se questo sillogismo ha i caratteri precipui dell’ intellettualismo senecano ed è una tipica connessione della cui paternità e originalità non si può dubitare (la catena di uno stesso genere di colpa attraverso una stessa famiglia è un elemento proprio delle tragedie senecane) è pur vero che l’ assassinio di Absirto era stato messo in luce dalla tragedia romana. Un bellissimo frammento, citato da Cicerone in De nat. deor. 3, 67, probabilmente della Medea di Accio secondo alcuni (ma altri


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l’ attribuiscono ad Ennio e c’ è chi non si pronuncia),18 narra di come Medea in fuga uccida il fratello bambino e lo faccia a pezzi, per ritardare l’ inseguimento del padre. Una immagine fosca di omicidio familiare che Seneca più volte riprende, mostrando in quell’ evento un’ anticipazione e un presagio: Medea ha l’ abitudine di uccidere bambini del suo stesso sangue.19 Torniamo alla ‘colpa’ oggettiva degli Argonauti. Gli altri scrittori, poeti e retori, questa enorme valenza negativa di Giasone (forse, ma è un discorso da rimandare ad altra occasione, una controfigura negativa del pio Enea e simbolo di un’ antiepica) non mostravano di averla a tal punto notata. Solo forse la nutrice euripidea e le sue imitazioni latine. Seneca, in definitiva, legge a suo modo una storia che già tanti altri avevano scritto e compone un puzzle in cui pezzi già noti, stimoli per la sua creatività e per la sua intellettualistica riflessione, sono inseriti a formare un disegno completamente differente. Nella sua Medea confluiscono le tante precedenti Medee della tradizione a formare un nuovo modello, in un’ interpretazione che, muovendo da un paradigma letterario e retorico, lo rinnova profondamente e lo consegna mutato alla successiva riflessione delle culture euro-pee.

18 Il frammento adespoto (Inc. inc. fab. 165-171 R3) ha più riecheg-giamenti in Cicerone ed Ovidio; cfr. Degl’ Innocenti Pierini, Studi su Accio, Firenze 1980, 147 ss. Raccolta di materiali in A. Arcellaschi, Médée dans le théâtre latin. D’Ennius a Sénèque, Roma 1990, p. 167 ss. 19 Sul delitto familiare come centro ideologico del teatro senecano cfr. il mio, Metafora e tragedia. Immagini culturali e modelli tragici nel mondo romano, Palermo 1996.


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