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PREFAZIONE
LA GENESI DEI RACCONTI DI GUERRA Nel mese di giugno di quest'anno (1998) ero a Quarto Flegreo con la mia famiglia, per uno dei nostri fugaci soggiorni a casa dei miei genitori. In quell'occasione mio padre, su insistenza di mia madre, quasi in "punta di piedi", com'è tipico del suo carattere schivo, mi consegnò dei fogli. Su di essi stava riportando, con calligrafia chiara e sicura, le memorie del suo vissuto durante la seconda guerra mondiale. Nel leggere quelle righe, la mia mente volò indietro nel tempo, quando, io ed i miei fratelli ascoltavamo quei "racconti di guerra": tanti episodi, dalla tragica notte dell'affondamento dell'incrociatore ZARA nelle acque di Capo Matapan, alla lunga prigionia in Sudafrica, fino al ritorno a casa, accolto dal padre, dalla madre e dalle sue sorelle. In realtà quei racconti, avvincenti e mai noiosi, ci furono narrati più volte, in varie occasioni, e sempre con l'aggiunta di nuovi particolari. Negli anni recenti, venivano riproposti anche ai nostri figli, che non si stancavano di chiedere al nonno la narrazione di quelle storie, "…di quando era giovane marinaio, durante la guerra". Tante storie, ora tragiche, ora commoventi, ora grottesche, ma tutte realmente vissute; sempre narrate e mai trascritte. Operazione, quest'ultima, che noi figli ci eravamo riproposti di compiere, tentando di ricomporre i vari tasselli. In quella occasione, invece, con mia grande sorpresa, leggevo quelle storie, non più isolate, e ne scoprivo i legami, il "file rouge" che le accomunava! La lettura di quelle righe mi risultò subito agevole e coinvolgente, come se fossero state redatte da una persona avvezza a scrivere, da una vita. La dovizia di particolari riportati, molti a me inediti, è degna di un cronista. Eppure mio padre non appartiene al cosiddetto mondo degli intellettuali; un tratto della sua "Premessa" recita <<Non sono né laureato, né diplomato; il livello scolastico più alto acquisito nella mia vita fu la licenza elementare, conseguita nel lontano 1928...>>. Ha tuttavia sempre allenato la sua formidabile mente, grazie alla lettura di testi di ogni tipo e, soprattutto, attraverso l'osservazione attenta e l'elaborazione delle immagini trasmesse dal mondo circostante. E’ difficile che qualche particolare, qualche sfumatura possa sfuggirgli; anche oggi che la sua vista si è notevolmente affievolita. In realtà riesce ancora a "vedere", a "navigare", utilizzando tutti i suoi strumenti di percezione, frutto della sua lunga esperienza. Lui stesso, nella premessa, ci ricorda <<.. per tutta la vita, si ha sempre il modo di apprendere qualcosa ed ora, giunto a questa venerabile età, devo dire che il trascorrere del tempo è stato, per me, pieno, colmo di “pagine” da sfogliare e da leggere giorno per giorno.>>. Così, alle soglie degli ottantadue anni (dopo oltre cinquant'anni da quegli avvenimenti), forse come atto liberatorio, ha aperto qualche saracinesca ed ha riversato sulla carta, come un torrente in piena, quanto aveva impresso nella sua memoria; come lui stesso riporta <<Oggi,
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ad un'etĂ avanzata e sul viale del tramonto (ai tempi supplementari direi) mi è venuta l'idea e la volontĂ di scaricare su queste pagine tutto ciò che mi frulla nella memoria, senza sforzo alcuno, con naturalezza e, soprattutto, a modo mio. CosĂŹ mi sento un poâ&#x20AC;&#x2122; liberato â&#x20AC;Ś.>>. SicchĂŠ, dopo la prima lettura, ho chiesto a mio padre di affidarmi il manoscritto, per riscriverlo integralmente, con l'ausilio del mio Personal Computer. Operazione emblematica, perchĂŠ, in tal modo i suoi ricordi, appena liberati, sono stati affidati alla memoria "artificiale" di una macchina; quest'ultima, tuttavia, consente, in qualsiasi momento, di riprodurre quanto viene immagazzinato, replicandolo in tante forme. Quei "racconti", quindi, grazie ad un mezzo elettronico, che è entrato in tutte le nostre case, possono essere rivisti, riletti o anche trasmessi a chi (figli, nipoti, parenti, amici, conoscenti, ecc.) voglia fruirne. Mio padre non solo ha acconsentito alla nuova "memorizzazione" dei suoi ricordi, ma, spinto dall'entusiasmo (ed affascinato dalla "Macchina"), ha ampliato notevolmente la prima stesura del suo manoscritto, integrandola con altri avvenimenti, frutto di letture o di testimonianze di altri protagonisti di quelle tragiche vicende. Ha inoltre arricchito la narrazione con foto e disegni, tratti da testi, e, in chiusura, ha aggiunto alcune appendici: il glossario dei termini tecnici, oltre ai nomi delle navi, degli aerei, dei personaggi e dei luoghi citati. Ha riportato anche le sue deduzioni personali sullo svolgimento degli avvenimenti bellici che lo coinvolsero, facendo affiorare il suo "pensiero politico"; di un uomo fondamentalmente "laico" ("Non sono stato fascista â&#x20AC;Ś"), ma emotivamente e, nostalgicamente, convinto che il Fascismo non fu un evento negativo ("Nel contempo, devo dirlo sinceramente ed onestamente, io ammiravo molto il Fascismo e Mussolini ..."). Non è questa ovviamente la sede per discutere delle sue e delle mie convinzioni "politiche"; mi troverebbe, come sempre, allineato su posizioni diametralmente opposte alle sue (ne abbiamo discusso in tante occasioni!). Tramandare oggi la sua testimonianza, riproporre oggi tratti della Storia di quegli anni, narrata da chi l'ha duramente vissuta, ritengo sia un atto doveroso, affinchĂŠ noi stessi e le nuove generazioni non dimentichino quegli avvenimenti; soprattutto non si perda memoria dei princĂŹpi folli che condussero a quella immane tragedia. In quegli anni si respirava costantemente un'atmosfera bellica; ci si preparava alla guerra, come testimonia anche mio padre <<â&#x20AC;Ś dovevo (come tutti gli altri giovani) partecipare obbligatoriamente al â&#x20AC;&#x153;premilitareâ&#x20AC;? e, quindi, oltre allâ&#x20AC;&#x2122;"Unò, duĂŠ,â&#x20AC;Ś", dovevo imparare anche a smontare e rimontare fucili e moschetti â&#x20AC;Ś>>. L'epilogo scontato fu, per tutti, un nuovo tremendo conflitto mondiale. Ed allora, le memorie, i racconti, le testimonianze che riaffiorano diventano esse stesse un atto di accusa contro la Guerra, contro quella guerra, contro tutte le guerre. Concludo qui la mia prefazione, non intendo dilungarmi oltre. Il mio piccolissimo contributo è un omaggio a mio padre, che per nostra madre, per me, per i miei fratelli e, spero per altri, è un punto di riferimento, un esempio da seguire. Le sue memorie costituiscono, per noi, un tesoro, un piccolo capolavoro che non resterĂ chiuso in un cassetto. Grazie papĂ ! 0RQWHSRU]LR &DWRQH 6HWWHPEUH
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PREMESSA
Prima che qualche lettore possa apprestarsi a leggere queste mie memorie, ho il dovere di dire che non mi sono mai “piccato” di essere uno scrittore, tantomeno un giornalista, un critico, un commentatore televisivo, ecc.. Non sono né laureato, né diplomato; il livello scolastico più alto acquisito nella mia vita fu la licenza elementare, conseguita nel lontano 1928, presso la scuola “Luigi Vanvitelli” a Napoli, al Vomero, insegnante Giovanni Feola. Nei primi anni di scuola (allora abitavamo ancora nel quartiere Chiaia), tra i miei compagni di classe c’erano Oberdan Sallustro e Ottavio Nappi; con essi assistevo (e, a volte, intrufolandoci) alle interminabili partite di calcio, che i fratelli più grandi, Attila e Oreste Sallustro e gli altri tre fratelli Nappi (di cui non ricordo i nomi), insieme ai fratelli Ernesto e Pino Ghisi, al portiere Vincenzo Triunfo ed altri ancora, organizzavano durante i pomeriggi, con palloni fatti di stracci strettamente legati. Si giocava sul Viale Elena, lungo il quale, allora, passava qualche carrozza, sì e no, ogni paio d’ore; oggi, per la stessa strada, passano centinaia e centinaia di automobili ogni ora, e gli abitanti sono costretti a tener sempre chiuse le finestre degli appartamenti. Gran parte di quei baldi giovani, i più grandi di età, qualche anno dopo, nel 1927, diedero vita alla neonata squadra “Calcio Napoli”, che poi ottenne lusinghieri risultati nella massima divisione. Io, con la mia famiglia, ero passato, nel frattempo, dal quartiere Chiaia al quartiere Vomero, dove terminai la scuola. Contemporaneamente frequentavo il "Circolo degli Esploratori Cattolici" (i boy-scout), presso l’oratorio dei "Salesiani" al Vomero; associazione che fu soppressa nel 1928 ed io ne fui profondamente addolorato. Così terminai presto la scuola, quella dei libri, degli insegnanti, s’intende, perché, in realtà, per un periodo della vita si va a scuola, poi, per tutta la vita, si ha sempre il modo di apprendere qualcosa ed ora, giunto a questa venerabile età, devo dire che il trascorrere del tempo è stato, per me, pieno, colmo di “pagine” da sfogliare e da leggere giorno per giorno. Dovetti subito imparare il “mestiere”, che per me fu quello di sarto, perché mio padre era sarto. In quegli anni non fui “Balilla” (e pure ammiravo i piccoli Balilla), semplicemente perché non m’andava giù di fare "Avanti march, unò, duè e dietro front!". E spesso cantavo l’”Inno dei Balilla”, ma forse per aver appreso del gesto eroico ed altruista compiuto nel 1746 dal piccolo genovese Gian Battista Perasso, soprannominato Balilla.
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Non sono stato fascista (e non lo dico nel senso dispregiativo come fanno tanti pseudopolitici); non potevo esserlo nel 1922, al tempo della “Marcia su Roma”, perché avevo solo sei anni, e non lo sono stato dal 1928 in poi, dopo aver “completato gli studi”. Così non sono stato fascista a diciotto anni, quando, al sabato pomeriggio, dovevo (come tutti gli altri giovani) partecipare obbligatoriamente al “pre-militare” e, quindi, oltre all’"Unò, duè,…", dovevo imparare anche a smontare e rimontare fucili e moschetti. E fu allora che mi iscrissi al corso di radiotelegrafisti (sempre come pre-militare) presso l’I.T.I.S. “Gian Lorenzo Bernini” (che poi era ubicato anche vicino casa, perché, nel frattempo, eravamo tornati ad abitare nel quartiere “Chiaia”). Non conseguii il brevetto di R.T. (radiotelegrafista), ma mi ritrovai inscritto, d'ufficio, nelle liste di leva della Marina. Fu così che, quando partii per il servizio militare, fui destinato sull’incrociatore “ZARA”, allora nave ammiraglia della prima Squadra Navale al comando dell’Ammiraglio Umberto Bucci (da Napoli). Capo di Stato Maggiore era l’allora Capitano di Vascello Angelo Jachino, valentissimo ed apprezzato ufficiale già da tempo; ed oggi, dopo tutto ciò che ha fatto nella buona e nella cattiva sorte, a distanza di tanto tempo, come non si può avere un commosso e riverente pensiero nel ricordarlo? Spesso, il sabato pomeriggio, recandomi al “pre-militare”, incontravo il “capomanipolo” Sodano dei “Giovani Fascisti” (del circolo “Luporini” nel quartiere Chiaia), che, incontrandomi, mi rimproverava (bonariamente), non vedendomi mai al Circolo, mentre tutti i miei amici lo frequentavano. Nel contempo, devo dirlo sinceramente ed onestamente, io ammiravo molto il Fascismo e Mussolini. Tanti giovani, allora, li ammiravano, anche più di me e poi rinnegarono tutto … (già anche Pietro rinnegò per tre volte Gesù: è umano, è una delle tante “miserie” dell’umanità: la viltà). Io ammiravo il Fascismo e Mussolini, sia per quanto avevano fatto di buono all’interno del Paese, per il bene del Popolo, sia in politica estera. Quella misera “Italietta” s’era scrollata di dosso un po’ di quella polvere secolare di cui s’era ricoperta. Dapprima, col sacrificio dei primi “pionieri” e dei martiri del “Risorgimento” (dallo Stelvio a Lampedusa) venne scosso e risvegliato questo popolo sempre assoggettato allo straniero, e poi …venne Mussolini (perché no?). Nel ‘35/36 l’Italia subì le “sanzioni” perché aveva osato invadere l’Etiopia. In realtà, in Etiopia non c’era nulla da sfruttare, perché altrimenti gli Inglesi l’avrebbero invasa ben prima di noi! E quando il Negus Ailè Selassiè tornò, nel 1941, nella sua terra, avrebbe dovuto, innanzitutto, vendicarsi e farla pagare duramente agli Italiani non militari che restarono laggiù; invece, a poco, a poco, si rese conto delle grandi opere “civili” portate a termine dagli Italiani in quei pochi anni di permanenza nel suo Paese. Fu così che cominciò ad ammirare il lavoro degli ex-occupanti e finì col proteggerli sempre di più, anche contro alcuni “ras”, e tutto ciò durò finché visse. Il 10 giugno del 1940 iniziò anche per noi la guerra. Non dovevamo entrare in guerra (già iniziata nel settembre del 1939, tra gli “Alleati” e la Germania)? Forse è vero, fu un errore, ma son cose che si dicono con il senno di poi; allora la gran maggioranza del popolo italiano era consenziente! Tranne coloro che tradirono (“quei vermi”!). Sì, perché certe cose
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le ho viste, sentite e constatate personalmente, da “Punta Stilo" a "Matapan” e oltre; sono avvenimenti tragici e indimenticabili, che restano indelebili nella mente di un uomo, anche di un uomo abbastanza modesto come il sottoscritto, anche dopo tantissimo tempo dall’epoca dei fatti. E ciò che mi accingo a narrare in questo mio scritto non è fantasia (poiché non si tratta di un romanzo), ma è, almeno al settanta per cento, frutto di ciò che ho vissuto sulla mia pelle e nessuno me lo può contestare, poiché si riferisce a sacrosanta verità. Oltre alle mie memorie, ho aggiunto altri episodi, non vissuti personalmente, che ho ritenuto comunque riportare, in quanto si ricollegano agli altri accadimenti. Tra questi, leggerete di movimenti navali (italiani ed inglesi), di ordini e direttive di Comandi Superiori, e di azioni di guerra come il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941 e la prima incursione vittoriosa dei nostri “arditi” sommozzatori nella baia di Suda (isola di Creta) del 26 marzo 1941. Quegli uomini ebbi modo di incontrarli in un capannone del porto di Suda, il mattino del 30 marzo dove ci trattennero temporaneamente per poche ore, appena sbarcati dai cacciatorpediniere inglesi, che ci avevano “pescati” in mare, superstiti dopo il tragico affondamento dell’incrociatore ZARA, quasi al tramonto del giorno precedente. Essi non riferirono a nessuno della loro impresa, nemmeno al giornalista Alberto Mondadori (inviato di guerra sull’incrociatore ZARA e salvatosi con noi) e tantomeno ai nostri Ufficiali. Poi ci divisero ed ognuno riprese la sua strada. Altri episodi, come le gesta degli “Eroi di Giarabub” e dei soldati della Cirenaica e della Marmarica, li ascoltai direttamente dai protagonisti, durante i lunghi cinque anni di prigionia, quando ci raccontavamo a vicenda le nostre vicissitudini, secondo quanto ho riportato nel capitolo “Prigionieri di guerra”. Ed ancora nel capitolo “Il Ritorno”, dove, tra l’altro, ho narrato le romanzesche peripezie della nave oceanografica ERITREA, ricondotta in Italia dal suo validissimo Comandante, Marino Iannucci, da Napoli, con tutto l’equipaggio. Fatti, questi ultimi, narrati, dapprima da mio padre, strada facendo, quando mi venne incontro al porto di Napoli, al ritorno dalla prigionia, poi riportati di persona dal protagonista, quando m’invitò, un giorno, a casa sua, per ascoltare da me i tragici avvenimenti di Capo Matapan, dove, tra le navi, s’inabissò l’incrociatore ZARA, su cui era stato imbarcato nel 1939, quale comandante in seconda. All’epoca Iannucci aveva il grado di Capitano di Fregata, poi, promosso, ebbe il comando dell’ERITREA, nave che allora era di base a Massaua, nel Mar Rosso. E quando l’incontrai nella sua casa, a Napoli, alla salita Piedigrotta, era già divenuto Ammiraglio di Squadra, Comandante in Capo del Dipartimento del Basso Tirreno (a Napoli). Di altri fatti e particolari, che non fanno parte delle mie esperienze personali, ne sono venuto a conoscenza solo dopo la fine della guerra ed in anni recenti, in buona parte, documentandomi attraverso la lettura di testi, frutto di esperienze dirette degli autori, scrittori seri e validi, che sicuramente non hanno lavorato di fantasia.
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Figura 1 - Una foto in divisa da marinaio risalente al mese di aprile del 1939
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Figura 2 - Una lettera inviata nel 1941 dal marinaio Michele alla sorella Giuseppina per il suo onomastico
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CAP. 6 - CAPO MATAPAN: CRONOLOGIA DI UNA BATTAGLIA (28-29 Marzo 1941)
La squadra italiana, partita da diverse basi (Napoli, Taranto e Brindisi), la sera del 26 marzo 1941, si trovò, al mattino del 27, molto al largo della estremità sud-orientale della Sicilia. Le diverse formazioni non si erano ancora unite e viaggiavano tutte verso est, ma a grande distanza. Fu così che gli incrociatori della Divisione ZARA, che si trovava un po' più a nord-est, furono avvistati da un idrovolante ricognitore inglese, che informò la Divisione di incrociatori di Pridham Wippell; quest'ultima, in quel momento, stava operando a nord dell'isola di Creta a protezione di un convoglio viaggiante verso la Grecia. Quel ricognitore informò, nello stesso tempo, anche le più vicine basi aeree; così, poco più tardi, la Divisione ZARA fu sottoposta a ripetuti bombardamenti effettuati dai bimotori Blenheim. Durante questi primi attacchi, come per tutti gli altri, i bombardieri furono respinti dalla nostra efficace antiaerea. Lo scopo della missione italiana era quello di ridurre un po' il traffico dei convogli nemici da e per la Grecia; traffico che, in quel periodo, era diventato abbastanza intenso, come fu rilevato anche dai ricognitori italiani di base a Rodi e dai nostri sommergibili che operavano nel mar Egeo (la base di Rodi era abbastanza autonoma dagli Alti Comandi di Roma e, pertanto, le informazioni erano più che attendibili). A questo punto ci sarebbe da rilevare che: a) le navi italiane lasciarono le loro basi all'improvviso ed in piena oscurità (era una notte di luna nuova); b) di regola, un Comandante di Squadra può aprire il plico segreto (chiuso in doppia busta sigillata) dopo un notevole intervallo di tempo dalla partenza e solo allora, gli ordini vengono trasmessi ai Comandi di Divisione e, poi, da questi, alle unità dipendenti ed alle squadriglie di C.T.; ma, in quella circostanza, il Comandante in Capo della squadra nemica era già a conoscenza degli ordini (poi vedremo il perché …). La sera del 27 marzo, il grosso della squadra inglese lasciava la base di Alessandria e, nello stesso tempo Cunningham, comandante della Squadra navale di Alessandria, dava ordini al Vice Ammiraglio Pridham Wippell sull'incrociatore ORION, di trovarsi il mattino del 28, con i suoi incrociatori a Sud dell'isola di Gaudo (tra Creta e Capo Matapan). E, quel mattino, gli incrociatori inglesi incontrarono quelli italiani della Divisione TRIESTE, che non aveva ancora doppiato l'isola di Creta. Ci fu, subito, un reciproco scambio di colpi, anche se a notevole distanza. Poi, Pridham Wippell, stimando che gli incrociatori italiani possedessero una gittata superiore a quella delle loro unità e fossero anche più veloci, pensò bene di svincolarsi, coprendosi con dense cortine di fumo e defilandosi verso est, dov'era dislocato il grosso delle navi da battaglia e la portaerei. Più tardi, il Comandante in Capo gli ordinò di riprendere contatto con le navi italiane; così, ritornando verso occidente, Pridham Wippell, con i suoi incrociatori, incontrò la VITTORIO VENETO. Erano le 11, la corazzata italiana aprì subito il fuoco contro l'ORION ad una distanza di oltre 20.000 metri; nel contempo, la Divisione
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TRIESTE accostò, per inseguire ed intrappolare gli incrociatori inglesi che, ancora una volta, emettendo denso fumo nero, presero la rotta est. Le navi avevano notevolmente accorciato le distanze e per quelle nemiche la situazione stava diventando sempre più critica. Ma in quel momento arrivò la Provvidenza (per loro) sotto forma della prima ondata della forza d'attacco composta dagli aerosiluranti partiti dalla portaerei ancora lontana con le navi da battaglia. Erano sei Albacore e due Fulmar che lanciarono i loro siluri verso la VITTORIO VENETO, che, con abili manovre e con un nutritissimo fuoco di sbarramento, respinse questo primo attacco; era mezzogiorno, e Pridham Wippell fu salvo! Nello stesso tempo, due S 79 (aerei italiani) della base di Rodi attaccarono con i loro siluri la FORMIDABLE che, per puro miracolo, riuscì ad evitarli (cfr. “Azione notturna al largo di Capo Matapan” di S.W.C. Pack, ufficiale inglese imbarcato sulla portaerei). E l'azione degli aerosiluranti di Rodi avrebbe potuto chiarire meglio tutta la situazione di quel momento all'Ammiraglio Jachino, se gli fosse stata subito comunicata! Ma alle 14,30, Jachino ricevette due messaggi contraddittori: uno, da Rodi, che riferiva la presenza di una grande formazione di navi nemiche ad un punto che il Comandante italiano stimò ad 80 miglia a est e, poi, un altro da Supermarina che riportava: <<Navi nemiche ad una posizione di 170 miglia a est>>. Così, ancora una volta, Jachino fu ingannato dai subdoli messaggi di Supermarina e non invertì subito la rotta. Dalle ore 14 la VITTORIO VENETO fu ripetutamente attaccata dai bombardieri Blenheim, poi anche gli incrociatori furono continuamente bersagliati, senza che nel cielo comparisse un solo aereo italiano a difesa della flotta. E di questo Jachino se ne rammaricò molto. Così mentre i cannonieri e i mitraglieri delle navi italiane erano occupati a respingere i ripetuti attacchi dei bombardieri nemici, ecco che tre aerosiluranti Swordfish della FORMIDABLE, volando a pelo d'acqua, si avvicinarono alla VITTORIO VENETO e furono avvistati quando erano, ormai, vicinissimi. La reazione italiana fu violentissima, anche contro quest'ultimo improvviso attacco nemico. Ma uno degli aerosiluranti riuscì a sganciare il siluro a pochi metri dalla corazzata italiana; un attimo prima di inabissarsi, perché colpito a morte, finendo contro la poppa della nave dal lato sinistro, mentre quest'ultima stava virando per evitare altri siluri. Il pilota di quell'aereo non poté rallegrarsi, né poté provare alcuna emozione per quel colpo messo a segno e che segnò, a sua volta, il destino di tremila marinai italiani. In breve tempo la corazzata italiana imbarcò migliaia di tonnellate d'acqua e le macchine si fermarono. Erano le 15,30 e la tragedia stava per cominciare! Lentamente la VITTORIO VENETO affondava di poppa. Immediatamente, furono chiuse tutte le paratie stagne; le squadre dei servizi di sicurezza, i carpentieri, i macchinisti e gli uomini dell'equipaggio si misero al lavoro. Poi, le due macchine di destra furono ripristinate e, lentamente, si rimisero in moto. Fu allora che Jachino fece affiancare alla VITTORIO VENETO gli incrociatori pesanti. Tre a destra (ZARA, FIUME e POLA) e tre a sinistra (TRIESTE, TRENTO e BOLZANO), mentre i C.T: fecero cerchio tutt'intorno. Gli incrociatori ABRUZZI e GARIBALDI furono inviati, per prudenza, alla loro base di Brindisi. Jachino, in seguito, descrisse come, non senza commozione, in quell'occasione contemplasse quelle magnifiche e splendide navi che l'affiancavano, non immaginando che
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(quelle di destra) le stava guardando per l'ultima volta! In particolare c'era lo ZARA, su cui, anni prima era stato imbarcato quale Capo di Stato Maggiore dell'Ammiraglio, nel corso della guerra d'Africa. C'era il FIUME, sul quale era stato Ammiraglio di Divisione nel 1938 (durante la grande rivista navale di Napoli) e c'era il POLA, sul quale era stato anche imbarcato. Nel medesimo tempo, Cunningham dava ordini alla Divisione incrociatori di Pridham Wippell ed alla squadriglia di C.T. di Mack di dirigersi, a tutta forza, sulla scia della formazione italiana, per impegnarla, quanto più possibile, e per colpirla con i siluri (lanciati dai C.T.); mentre il grosso delle navi da battaglia, con la portaerei, s'avvicinavano lestamente. Alle ultime luci del giorno, dopo il tramonto, proprio nel momento più difficile e più improbo per il compito delle vedette, otto aerei della FORMIDABLE volteggiavano a bassa quota, avanti e indietro, come avvoltoi, alle spalle delle navi italiane, mentre, più in alto un aereo ricognitore riferiva agli attaccanti ogni mutamento di direzione delle unità italiane. Su queste ultime, ognuno era già al posto di combattimento, pronto per iniziare uno sbarramento di fuoco e ad accendere i riflettori abbaglianti al momento opportuno. Alle 19,30 era praticamente buio completo, quando, iniziò l'attacco: i pezzi antiaerei e le mitragliatrici aprirono un fuoco assordante. Quella scena la ricordo benissimo, quella visione apocalittica l'ho ancora davanti agli occhi, pur essendo trascorsi tantissimi anni da quella sera indimenticabile, perché io ero lì tra i cannonieri dei pezzi da cento antiaerei. Poco prima delle 20, terminato l'attacco, le navi italiane cessarono il fuoco e spensero i riflettori. Intanto, poco dopo, la VITTORIO VENETO fu in grado di aumentare la velocità, puntando verso nord ovest. Alle 20,15, Jachino ebbe notizia che, nella prima Divisione mancava all'appello il POLA. Così, alle 20,20, prese la decisione di far ritornare indietro ZARA e FIUME, per tentare il rimorchio del POLA, rimasto immobilizzato, perché colpito al centro, nel reparto macchine, da uno dei siluri lanciati nell'ultimo attacco degli aerosiluranti nemici. E, dopo aver ponderato la sua decisione e avvertito Supermarina, Jachino dette l'ordine, alle 21, all'Ammiraglio Cattaneo di andare ad assistere il POLA (del tutto ignaro che le navi nemiche stavano, inesorabilmente, avvicinandosi). Così, i due migliori incrociatori della flotta italiana invertirono la rotta nel buio di quella gelida notte, per soccorrere la loro unità gemella, gravemente e sfortunatamente colpita. "Eran trenta di una sorte e trentuno con la morte, se non torna uno dei trenta, torna quella dei trentuno …". Sì, sfortunatamente per noi, perché quello fu solo un gran colpo di fortuna per i nostri avversari, che con le loro forze preponderanti, con la loro bravura, con la loro secolare furbizia, con l'apporto dei radar (anche se, erano, in tutto, solo tre e non di grande efficacia, essendo i primi) e con l'appoggio di alcuni loro amici, quella sera non sarebbero comunque riusciti a mangiarsi neanche una pedina dallo scacchiere astutamente predisposto da Cunningham. Intanto, proprio verso le 21, l'incrociatore ORION segnalò che, nel rilevamento radar era visibile una grande nave ferma alla distanza di 5 miglia. Cunningham credette di essersi
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imbattuto, come aveva ardentemente sperato, nella VITTORIO VENETO e si diresse, con le sue navi da battaglia ed i quattro C.T. di scorta, verso quel punto, ordinando alle altre unità di tenersi a distanza. Anche la portaerei fu fatta prudentemente arretrare. Tutto ciò, effettivamente per prudenza o perché la polpetta doveva essere solo sua? (come facevano gli spadaccini dei secoli addietro!). Poco dopo le 22, giunto sul punto segnalato dall'ORION, il radar della VALIANT rilevò sei navi in movimento verso sud-est, a pochissima distanza, a portata di tiro (da ritrovarsele davanti, anche in assenza di radar, che fortuna!). Erano le navi ZARA, FIUME, ALFIERI, CARDUCCI, ORIANI e GIOBERTI, che si stavano dirigendo verso il POLA, il quale, andando alla deriva, sospinto dalle correnti e da un forte vento di tramontana, si era spostato di circa 5-6 chilometri verso sud-est, al di fuori della portata visiva dei rudimentali radar. I quattro C.T. inglesi accesero subito i fasci dei loro proiettori sui due incrociatori italiani in arrivo, mentre gli obici lanciavano razzi illuminanti. Erano le 22,25 quando la WARSPITE e la VALIANT aprirono simultaneamente il fuoco sul FIUME, mentre la BARHAM l'apriva sullo ZARA, che poi fu colpita anche dalle altre due navi con tutti i calibri. Le salve giunsero da ogni dove; la torre prodiera fu letteralmente spazzata in mare, mentre veniva colpita la turbodinamo, per cui venne a mancare del tutto l'energia elettrica, necessaria per brandeggiare i cannoni e per reagire. E gli uomini? Ancora oggi mi meraviglio di essere rimasto illeso, senza nemmeno un graffio, mentre i miei compagni che fine facevano? Vidi intorno a me spezzoni di corpi, di braccia, di gambe e poi elmetti che rotolavano con dentro le teste, staccate di netto dal busto. Alle 22,45, le corazzate nemiche virarono verso nord-est e scomparvero nel buio, ignorando del tutto il POLA. Verso le 23, il FIUME, alzando in alto la prua, affondò di poppa (scena che intravidi alla luce dei proiettori dei C.T. nemici, ch'erano rimasti ancora a scorrazzare tutt'intorno). Ero esterrefatto, ma lucido e cosciente nello stesso tempo! Allontanandosi da quel posto Cunningham diede ordine ai suoi C.T. di fare un po' di pulizia con le briciole lasciate da lui dopo il lauto pasto (ma non tanto soddisfacente, poiché non vi aveva trovato la VITTORIO VENETO, come sperava …). Nel frattempo i C.T. italiani s'erano lanciati a capofitto per tentare di mettere a segno qualche colpo con i loro siluri. Ma l'ALFIERI, colpito a sua volta dallo STEWART, affondò alle 23,15 e, contemporaneamente, il C.T. HAWOCK affondava il CARDUCCI, mentre l'ORIANI ed il GIOBERTI, benché colpiti, riuscivano a disimpegnarsi ed a tornare alla base. Lo ZARA, pur colpito ancora da due siluri e diversi colpi di cannone dallo STEWART, non affondava; fu così che il Comandante Luigi Corsi e l'Ammiraglio Carlo Cattaneo ordinarono ai superstiti dell'equipaggio di abbandonare la nave, dopodiché scesero giù al deposito munizioni (la Santabarbara) e, quando tutti si erano allontanati, fecero saltare la nave. Quest'ultima, con un gran boato ed un'immensa fiammata, si rovesciò su di un fianco e s'inabissò. Erano le 2,40 della tragica notte del 29 marzo 1941.
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Poi il C.T. HAWOCK, dopo aver affondato il CARDUCCI, scoprì, nel buio, la sagoma del POLA; gli sparò contro due colpi che, andando a segno, fecero scoppiare due incendi in zone distinte. Anche il comandante dell'HAWOCK credette che quella nave fosse la VITTORIO VENETO; così il C.T. si allontanò rapidamente, segnalando alla squadriglia di Mack di aver scorto la corazzata italiana immobile, ne rilevò le coordinate e le trasmise al caposquadriglia. Mack, ingannato già dal precedente messaggio dell'ORION (frainteso anche da Cunningham), abbandonò la rincorsa alla vera corazzata italiana, che, in quel momento era già ad oltre 85 miglia verso nord-ovest ed aveva aumentato la velocità ad oltre 20 nodi. Quando Mack giunse con la sua Squadriglia sulla scena della tragica battaglia notturna, lo spettacolo fu terrificante: sul mare erano sparsi, in gran numero, rottami di imbarcazioni, zattere e cadaveri, ma anche superstiti che nuotavano disperatamente in un mare di nafta cercando di sopravvivere. Così il comandante Mack (a mio parere, persona molto umana) ordinò ai suoi C.T. di coda di raccogliere i superstiti. Intanto, dopo i colpi ricevuti dal C.T. HAWOCK, il Comandante del POLA, Capitano di Vascello de Pisa aveva dato facoltà ai suoi uomini di abbandonare la nave. In maggioranza, l'equipaggio scelse di lanciarsi in mare, ma dopo poco, in parte, per sottrarsi al freddo pungente, ritornò a bordo. Alle 3,30 il Comandante Mack accostò il C.T. JERVIS al POLA e accolse a bordo i 257 uomini, che, in quel momento erano imbarcati, compreso il Comandante De Pisa ed il suo secondo. Poi, allontanandosi, ordinò al C.T. NUBIAN di dare il colpo di grazia all'incrociatore italiano, che, alle 4 del mattino, s'inabissò. Quella sera, almeno in tremila s'inabissarono nel baratro delle gelide e tumultuose acque di Capo Matapan. E dopo cinque anni, nel 1946 solo un pugno di superstiti, tra cui il sottoscritto, riuscì a riabbracciare i propri cari, dopo essere stati prigionieri di guerra in Egitto, prima, e nel Sud Africa, poi.
127( 1. Allo scontro navale a sud dell'isola di Creta, prima, e di Capo Matapan, poi, dal mattino del giorno 27 fino alla notte del 29 marzo 1941, parteciparono le seguenti navi italiane: • • • •
Corazzata VITTORIO VENETO (Comandante di squadra Angelo Jachino) 6 incrociatori pesanti: ZARA (Ammiraglio della 1a Divisione Carlo Cattaneo), FIUME e POLA; TRIESTE (Ammiraglio della 3a Divisione L. Sansonetti), TRENTO e BOLZANO 2 incrociatori medi: DUCA DEGLI ABRUZZI (Ammiraglio della 8a Divisione A. Legnani), G. GARIBALDI 17 C.T.: DA RECCO, PESSAGNO, MAESTRALE, GRECALE, SCIROCCO, LIBECCIO, CORAZZIERE, GRANATIERE, CARABINIERE, BERSAGLIERE, FUCILIERE, ASCARI, ALPINO, ALFIERI, CARDUCCI, ORIANI, GIOBERTI.
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La squadra inglese, comandata dall'Ammiraglio Andrew Cunningham, era così composta: • • • •
3 Corazzate: WARSPITE (nave ammiraglia), VALIANT e BARHAM La portaerei FORMIDABLE con 27 aerei a bordo:13 Fulmar,10 Albacore, 4 Swordfish 4 C.T. di scorta: STEWART, GREYHOUND, GRIFFIN, HAWOCK 1 Divisione di Incrociatori (Vice-ammiraglio Pridham Wippel), composta da 4 unità: ORION (nave ammiraglia), AJAX, PERTH e GLOUCESTER, con 4 caccia di scorta: VENDETTA, HASTY, ILEX e HEREWARD.
Su tre navi (VALIANT, FORMIDABLE e ORION), erano installati i radar (i primi radar, tipo 279, che non avevano un vasto campo di azione). Partecipò intensamente anche una squadriglia di 5 C.T. (al comando del Capitano di Vascello P.J. Mack): JERVIS, JANUS, NUBIAN, HOTSPOR e MOHAWK. Tre C.T. non parteciparono ad alcun combattimento, ma si trovavano comunque in mare da alcuni giorni a nord di Creta, fuori dalla loro base di Suda. Fortunatamente per loro, perché, se fossero stati in porto il mattino del 26 marzo, sarebbero stati bersaglio, con l'incrociatore YORK, all'incursione dei nostri sommozzatori. E fortunatamente per noi, perché il destino volle che nel pomeriggio inoltrato del 29 marzo si adoperassero al salvataggio di parte dei superstiti (tra cui il sottoscritto, salvato dal C.T. DEFENDER). 2. Il Capitano di Fregata Brèngola, comandante in seconda del POLA, che conosceva bene la lingua inglese, giunto nel quadrato ufficiali sullo JERVIS, vide, appeso alla parete, un ordine del giorno diramato dall'Ammiraglio Cunningham, in data 26 marzo 1941; il documento preannunciava l'azione che la flotta italiana si accingeva a compiere nel Mediterraneo orientale ed esortava gli equipaggi affinché si adoperassero al massimo, per profittare dell'occasione propizia (ancora una volta!, N.d.A.) e dare una lezione agli Italiani! Il Comandante Brèngola non credeva ai propri occhi! Si ricordò che nel pomeriggio del 26 marzo passeggiava per le vie di Taranto con sua moglie (che alloggiava temporaneamente, come diverse mogli di ufficiali, presso l'Hotel "Miramare"). Egli, quel giorno, era completamente ignaro che la sera avrebbe lasciato la rada di Taranto, per non farvi ritorno!
3. Nel tardo pomeriggio del 29 marzo, i tre C.T. della squadriglia Defender, mentre si accingevano a trarre in salvo il resto dei superstiti in mare (ne riuscirono a prelevare soltanto 110), furono soggetti ad un improvviso bombardamento degli aerei Stukas tedeschi, per cui lasciarono in mare diversi altri uomini. Tale episodio fu portato a conoscenza del Comandante in Capo Ammiraglio Cunningham, che, più tardi, con un gesto encomiabile, provvide a far pervenire a Roma le coordinate dell'area dov'erano i poveri superstiti. Fu così che la nave ospedale GRADISCA giunse sul posto il 31 marzo, restando in zona per altri tre giorni, riuscendo a recuperare soltanto 160 uomini.
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4. L'equipaggio dello ZARA (nave ammiraglia) era composto da 1500 uomini. Sul POLA e sul FIUME vi erano, complessivamente 2100 uomini. Sull'ALFIERI e sul CARDUCCI, insieme vi erano 900 unitĂ . Il totale era di 4500 uomini. Ne furono raccolti: nella notte, ben 900 dai C.T. di coda della Squadriglia di P.J. Mack; poi trasbordarono in 257 direttamente dal POLA sullo JERVIS; nel pomeriggio del 29, dalla Squadriglia Defender furono tratti in salvo altri 110 e, infine ulteriori 160 dalla nave GRADISCA. In totale furono salvati 1427 superstiti. Ne perirono 3073 â&#x20AC;Ś (tratto da "Azione notturna di Capo Matapan" di S.W.C. Pack e da "Navi e Poltrone" di A. Trizzino all pagg. 90, 91, 262)
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CAP. 7 - LA FORZA DEL DESTINO, OVVERO L'ODISSEA DEI SUPERSTITI DI CAPO MATAPAN
Quella sera del 28 marzo del 1941, dopo l’ultimo attacco degli aerosiluranti inglesi, stavamo navigando verso la base di Taranto, sempre affiancati alla VITTORIO VENETO, che procedeva alquanto lentamente perché colpita da un siluro. Era una notte buia, col cielo sempre più nuvoloso, col mare che s’andava ingrossando e, soprattutto, con un freddo insopportabile. Durante le notti serene, invece, guardando le stelle, noi cannonieri addetti ai pezzi da 100, stando in coperta, ci accorgevamo della direzione che prendeva la nave ad ogni accostata; ma quella sera, con quel tempo e anche perché eravamo abbastanza stanchi, non ci accorgemmo dell’improvvisa inversione di rotta della nostra nave, unitamente all’incrociatore FIUME ed ai caccia della squadriglia ALFIERI. Io mi trovavo, insieme al caro amico Luigi Guardascione (da Cappella di Bacoli), tra le riservette di munizioni, per ripararci un po’ dal freddo vento di tramontana e dalle spruzzate d’acqua che venivano dalle onde sottostanti. Ad un certo momento dissi all’amico accanto a me <<Gigì, vado un momento “sottocoperta” ad equipaggiarmi meglio!>> e, con un balzo infilai il boccaporto a pochi passi e, in un istante, raggiunsi il mio armadietto. Infilai, innanzitutto, un altro maglione accollato, quelli blu della Marina; legai, poi, ben stretti, due elastici al fondo dei pantaloni, per impedire il passaggio di spifferi di vento e calzai i guanti ed il passamontagna di lana fatto a mano da mia madre; tolsi poi il cappotto di panno che, col tempo, accorciandolo sempre (per fare il gagà) era diventato quasi una giacca (e agli anziani si chiudeva un occhio, anche perché si era in tempo di guerra) ed infine indossai il cappotto cerato (l’impermeabile che mi arrivava alle caviglie) con il relativo cappellone (il “Sud-ovest”). Mentre indossavo rapidamente il vestiario pesante, sbucò da un altro scompartimento, l’ufficiale di guardia sottocoperta con la sua brava fascia azzurra a tracolla, il Tenente del C.R.E.M. (Corpo Reale Equipaggi Marittimi) Sig. Luigi Jacono, da Serrara Fontana (nell’isola d’Ischia). Il tenente, appena mi vide, con la sua aria bonaria e paterna (io avevo 25 e lui 55 anni) mi apostrofò in dialetto partenopeo <<Guagliò, che ci fai ccà!>> ed io <<Signor Jacono, me so’ venuto a equipaggià meglio, ‘ncoppa fa nu fridde e pazze; bbiate a vvuje che ve ne state a riparo, specialmente quanno passate vicino all’osterriggio macchine, cu tutto chillu bellu calore che saglie da ‘e caldaie!>>. Lui, fissandomi negli occhi, annuì prima con il suo sorrisetto paterno, poi si fece serio e aggiunse <<Ma stasera tengo ‘nu brutto presentimento>> (quindi, lui sapeva che stavamo tornando indietro per tentare il rimorchio del POLA, rimasto immobilizzato). Mi avvicinai a lui per ascoltare ciò che pareva volesse dirmi, quando, un tremendo boato, proprio sulle nostre teste, in coperta, scosse la nave; poi ne susseguirono altri più avanti. <<Signor Jacono>>, dissi, <<’nce sentimmo doppo>>; con un balzo, saltai sulla scaletta del boccaporto e, in un attimo fui in coperta. Al contrario di quanto mi suggeriva lo spirito di conservazione, io corsi immediatamente verso il mio posto di combattimento, ma ahimè, il complesso di cannoni da 100 mm. era stato
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colpito e scoperchiato! Al posto delle due riservette di munizioni c’era solo un grande buco rovente e fumante, e … Gigino Guardascione? Gigino Guardascione da Cappella di Bacoli non c’era più, come non c’erano più quasi tutti gli altri componenti del complesso 3. Il cielo era illuminato da decine di razzi e, tutt’intorno, a poca distanza, si vedevano le fiammate delle salve di cannoni di tutti i calibri, che ci sparavano contro. Erano trascorsi solo pochi secondi, quando sotto i miei piedi, da sottocoperta, sentii lo stesso boato che avevo udito poco prima sopra le nostre teste, quando ero giù con il tenente Jacono. Il pavimento d’acciaio della coperta fu scosso come da un violento terremoto! Alzai gli occhi al cielo e dissi <<Addio Signor Jacono, ‘nce sentimmo doppo>>; in quell’attimo tremendo volevo dire <<Ci sentiamo dopo, all’altro mondo>>, poiché la fine la vedevo imminente. E diventai improvvisamente impassibile, sapevo che stavo per affrontare la morte, ma senza paura, senza tremare e, soprattutto, lucidamente. Allora notai intorno a me sul pavimento, elmetti con … le teste dentro che rotolavano, piano, ondeggiando e vidi spezzoni di corpi un po’ dappertutto. Poco dopo, come un fantasma, mi si avvicinò, barcollando, uno dei miei: era il marò Luigi Pittana (da Pordenone); gli scendeva, copiosamente, tanto sangue dalla testa e dal volto, ma mi riconobbe, poiché io ero il postino della nave, che spediva, tra l’altro, ogni fine mese, anche tanti vaglia, compilati a bordo nell’ufficio del Commissario, con i timbri della nave. Il marò ebbe la forza di esprimere il sui rammarico, per non essere riuscito a spedire il vaglia da cento lire alla madre (lui che percepiva solo 105 lire al mese … e la fine del mese era vicina!). Mentre le salve nemiche arrivavano continuamente, passò il Maggiore Medico, dott. Mazziotti (da Napoli); lo fermai e gli chiesi se potevamo portare in infermeria quel ferito grave che, a stento, si reggeva aggrappato a me. Il Maggiore mi rispose <<L’infermeria non c’è più, brucia tutto, non so neanche io come ne sia uscito fuori>>; allora tentammo di portare, insieme, il ferito verso la mensa Ufficiali, quando, dal locale della mensa stessa si sprigionarono fiamme e getti di vapore bollente. Adagiammo il marò Luigi Pittana, che nel frattempo era spirato, su di un mucchio di cordami ed io lo coprii con il mio cappotto cerato, come a volerlo riparare dal freddo. Seguii, quindi, il Maggiore Mazziotti che si dirigeva verso poppa, perché, in quel momento, sia il Comandante che l’Ammiraglio, attraverso gli altoparlanti, stavano ordinando (a quelli che potevano!) di portarsi tutti a poppa. Mi meraviglio ancora oggi, nel ricordare che avevo una lucidità ed una flemma straordinarie; esortavo il Maggiore Mazziotti di guardare bene dove mettesse i piedi, poiché potevamo trovare qualche buco nel pavimento e finire giù sottocoperta. Procedendo verso poppa, vedemmo, nei pressi della torre 4, disteso supino, il Comandante in seconda, Capitano di Corvetta Vittorio Giannattasio (anche lui da Napoli) e, poi, più avanti, la catasta di salvagenti e zatteroni, ridotti ai minimi termini, brucianti in buona parte. Poi, scorgemmo l’Ammiraglio Carlo Cattaneo, che, in quel momento, parlava con Alberto Mondadori (il figlio dell’editore Arnoldo), che era inviato di guerra sulla nostra nave.
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Intanto gli inglesi avevano diminuito e, quindi, cessato il fuoco, puntando, nel frattempo molti riflettori su di noi. L’Ammiraglio, con la sua voce limpida e forte, chiamò dai boccaporti e, attraverso le maniche a vento, tutti quelli che potevano ascoltarlo, esortandoli a salir su. Poco dopo, con poche parole, ci disse che la nave non poteva servire più la Patria; dovevamo, quindi, lasciarla e aggiunse <<… e se sarete in mano al nemico, ricordatevi di essere bravi Italiani>>. Infine gridò <<Viva l’Italia!>>. <<Viva l’Italia!>>, gli risposero i superstiti, poi ognuno s’industriò nel lanciarsi in acqua, con almeno un pezzo di zattera, con un residuo di salvagente, con un rottame galleggiante qualsiasi, sotto la luce intensa dei riflettori inglesi che, di tanto in tanto, sparavano ancora qualche colpo. Io m’avvicinai all’Ammiraglio e lo guardai negli occhi, come per chiedergli cosa avrebbe fatto, quale sarebbe stato il suo destino! Ci conoscevamo bene, lui sapeva che mio padre era il sarto del fratello (poi divenuto generale dei Carabinieri) e dei suoi cugini, che abitavano, sin dal tempo della prima guerra mondiale, a Napoli, al Parco Margherita, nel quartiere Chiaia. La risposta da quell’uomo l’ebbi subito: col braccio e l’indice tesi, m’indicò e, nello stesso tempo, mi ordinò di prendere la via del mare; allora mi permisi di abbracciarlo forte, poi, con un groppo di commozione alla gola, scattai sull’attenti e lo salutai militarmente. Dopodiché, salii sul lanciafumogeni, a destra della nave, proprio sopra la scritta “ZARA”, alzai gli occhi e guardai l’albero di maestra che sembrava una grande croce, appena inclinata sulla destra, mentre, più avanti si scorgeva il riverbero delle fiamme che salivano dalle torri di prua. Poi mi buttai giù a, piedi uniti, vestito e con le scarpe (che poi persi presto). L’impatto con l’acqua gelida fu tremendo, affondai per un bel po’, poi risalii subito e m’allontanai il più possibile. Attraverso la luce dei riflettori vidi, più avanti in acqua, anche il Maggiore Mazziotti; ben fu (purtroppo solo per me) che io fossi in ritardo, poiché, in quel momento, passarono velocemente alcuni caccia nemici … e gran parte dei naufraghi che erano davanti a me furono risucchiati e tranciati dalle eliche delle navi. Passata l’emergenza, ripresi a nuotare, perché, tra i fasci di luce dei riflettori, avevo intravisto uno zatterone a cui erano aggrappati diversi superstiti; lo raggiunsi, aggrappandomi alle cimette laterali, ma subito un’ondata lo capovolse e qualcuno che era sottovento rimase colpito e, purtroppo, non riemerse. Realizzai subito che era opportuno spostarmi sul lato opposto, in modo che, quando arrivava un’ondata, io lasciavo lo zatterone e poi lo raggiungevo dopo il capovolgimento, con l’aiuto della corrente che mi sospingeva. Lo stillicidio durò tutta la notte … diversi uomini non tornarono più a galla ed il resto lo fece il freddo intenso. Da lontano si vedeva la nostra nave che s’incendiava in diversi punti. Trascorso del tempo, sentimmo un gran boato e la nave, la nostra nave ZARA, piegandosi tutta su di un fianco, s’inabissò con il suo Comandante e con il suo Ammiraglio, che erano scesi giù alla Santabarbara per dar fuoco al deposito munizioni e provocare l’affondamento;
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con essi s’inabissarono in tanti, che, feriti e malandati, non avevano potuto abbandonare la nave. Più tardi, le navi inglesi, spenti i riflettori, lasciarono la zona e si allontanarono. All’alba si scorgevano, di tanto in tanto, gruppetti di naufraghi aggrappati a rottami di zatteroni; quando potevamo, ci lanciavamo cenni, per raggrupparci e avvicinarci quanto più possibile. Dovevamo essere uniti e non divisi! Questo principio è stato e sarà sempre vero. Durante tutta la mattinata sorvolavano lo scenario drammatico, a bassa quota, i grossi quadrimotori idrovolanti Sunderland. Pareva fossero giunti con l’intenzione di salvare un po’ di superstiti, ma, invece … facevano lavorare solo le loro cineprese e, poi, via, scomparivano da dove erano venuti. A nulla valse il nostro sbracciarsi per la richiesta di aiuto. Io, avendo visto, tempo prima, il film “Ben Hur” (quello con l’attore Ramon Novarro) e, ricordandomi la scena del naufragio di alcune galere romane, pensai bene di batterci l’un l’altro il torace, con le ultime forze residue; quell’atto costituì un bene fisico e morale. A un certo momento, dissi tra me <<Oggi è sabato (il sabato di Maria!) e, certamente, ci salveremo>>. Difatti, poco prima del tramonto, scorgemmo, lontano all’orizzonte, un fil di fumo, poi, la sommità degli alberi di maestra di alcune navi e, ancora, le navi stesse che si dirigevano verso di noi. Sperammo, in un primo momento, che fossero le nostre navi, ma quando furono vicine, ci accorgemmo ch’erano i caccia inglesi; forse gli stessi che, durante la notte appena trascorsa, avevano risucchiato e tranciato nei vortici delle eliche tanti nostri compagni. In quell’occasione, invece, le loro intenzioni sembravano buone; si erano fermati e, ai lati avevano ammainato delle grosse reti. In quel momento erano, per noi, come dei pezzetti di terraferma a cui potersi aggrappare per continuare a vivere, poiché il Destino ci aveva, ancora una volta, risparmiati. Mi ricordo ch’ero ridotto, come gli altri, proprio male: i muscoli facciali s’erano talmente irrigiditi che non potevo più parlare e, attorno alla testa sentivo come un cerchio di ferro ghiacciato che mi stringeva. Poi m’accorsi che avevo perso anche il vestiario inferiore, cioè, oltre alle scarpe, che erano andate via subito, anche i pantaloni erano scivolati giù, poiché la cinghia di cuoio e gli elastici che avevo messo alle caviglie s’erano spezzati; anche i calzettoni di lana s’erano sfilati, mentre le mutandine avevano strappi e spaccature in più punti. Tutto questo, per la lotta disumana contro gli elementi avversi. Mentre negli occhi, nelle orecchie, nel naso, nei capelli s’era appiccicata tanta nafta, e guai a quelli che, parlando troppo, per chiedere aiuto a tutti i santi, ne avevano ingoiata una parte perché, subito dopo, per il forte bruciore dello stomaco, mollavano e venivano travolti dalle onde andando alla deriva per poi inabissarsi. Nel frattempo il cielo s’era un po’ aperto e tra le nuvole che andavano squarciandosi, penetrava, di tanto in tanto, un benefico raggio di sole (era di sabato!). Quando riuscimmo ad aggrapparci alle reti che penzolavano dalle fiancate delle unità inglesi, sembravamo tante alici nelle reti dei pescatori, però noi non avevamo nemmeno più la forza di far un minimo gesto e, mentre loro, i marò inglesi, ci issavano in coperta, ebbi modo di leggere il nome della nave: “DEFENDER”, che era scritto sulla fiancata proprio sotto i nostri occhi! Appena a bordo, ci misero nei pressi delle caldaie o nei posti dove perveniva un po’ di
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calore, poi ci fu concesso del tè caldo ed una coperta per ciascuno di noi. Ci stendemmo sul pavimento, sottocoperta, e lì ci addormentammo profondamente. Al mattino seguente, ricevemmo altro tè caldo; poi riconsegnammo le coperte e, poco dopo, fummo sbarcati a Porto Suda (vasta e profonda insenatura situata sul versante nord dell’isola di Creta). Appena sbarcati, notammo una grossa nave inglese da guerra semisommersa: era l’incrociatore YORK da 10.000 tonn. di stazza, colpito dai micidiali ordigni che i nostri sommozzatori erano riusciti a portare a segno (cfr. "La vittoriosa incursione nella baia di Suda (26 marzo 1941)", cap. 5). Prima di sera, i nostri guardiani, dopo averci distribuito delle colazioni al sacco, ci imbarcarono nella stiva di un piccolo mercantile (piena di letame animale) e, al mattino seguente, ci ritrovammo al Pireo, il porto di Atene. Eravamo sempre scalzi e, soprattutto, seminudi: dovemmo percorrere quattro-cinquecento metri tra le cale, i moli e le banchine del porto, sorbendoci i gesti e le grida ostili dei portuali greci. Mi ricordo che, passando sotto un ponte, fummo innaffiati con la pipì di coloro che s’erano ivi radunati. Fummo, poi, imbarcati su un altro mercantile, che subito partì, raggiungendo altri mercantili fuori la rada tra il Pireo e l’isola di Salamina; dove si fermò per tutta la notte, forse in attesa di altre navi, per formare un convoglio. Al mattino seguente, martedì 1°aprile, ci fecero salire sulla stiva, per farci prendere una boccata d’aria e ci tennero, per una mezz’ora, in coperta, ben guardati dalle sentinelle. E tra le spine, trovammo anche le rose: da quel posto potemmo ammirare, non molto lontano, il Partenone che dominava su tutta la città di Atene. Verso sera, ci accorgemmo che la nave era partita e, quando ci ricondussero all’aria, il giorno seguente, contammo le navi che componevano il convoglio: erano una dozzina. Navigammo per cinque-sei giorni tra le innumerevoli isolette che formano le Cicladi. Ogni notte sentivamo dei lugubri scoppi e, quando di giorno ci riconducevano in coperta, contavamo le navi: ne mancava sempre qualcuna! Pensavamo che, molto probabilmente, anzi, sicuramente, era stata silurata da un nostro sommergibile. Quando, alla fine del viaggio, in vista di Alessandria, ci fecero salire ancora una volta in coperta, notammo che il convoglio era dimezzato. E noi eravamo passati indenni, ancora una volta …Ancora una volta la Forza del destino ci aveva risparmiati!
Appena sbarcati, nel porto di Alessandria fummo presi in consegna dagli Australiani, mezzi ubriachi, con il loro cappellaccio a larghe falde, che, facendo roteare lo scudiscio, gridavano il loro odioso <<Come on!>>.
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Fummo costretti a correre a piedi nudi sulla sabbia e sui sassolini infuocati, sino a quando raggiungemmo i vagoni di un treno merci. Più tardi arrivammo al campo di concentramento di Agami alla periferia di Alessandria, proprio in prossimità del campo d’aviazione! Ci raggrupparono con i nostri ufficiali, in un campo dove vi erano già gli ufficiali medici ed i cappellani, catturati durante la prima ritirata italiana, in Cirenaica.
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CAP. 8 - PRIGIONIERI DI GUERRA (Aprile 1941-Febbraio 1946)
Avremmo dovuto rallegrarci, perché, finalmente, eravamo con i piedi a terra o perché, come diceva Pulcinella <<A mare non ci sono taverne!>>. Ma, purtroppo iniziarono le sofferenze: innanzitutto per la sete, che nel deserto era più sentita. Ci assegnavano, una sola volta al giorno, una latta da circa 25 litri (che puzzava ancora di carburante) contenente acqua per 25 persone; quindi, un litro a testa, per 24 ore! E ci urlavano <<To drink, to wash!>> (per bere e per lavarsi). E cominciammo a guardare con cupidigia, le gocce d’acqua che potevano restare nel contenitore. In quanto al vitto, potevamo anche accontentarci! Mi ricordo che anche i nostri ufficiali, per dare l’esempio, andavano volentieri in cucina a dare une mano, a sbucciar patate, a pulire pentole (con la sabbia, poiché, l’acqua era sempre scarsa, anche quella non potabile). Un giorno il Comandante Arrigo Tralloni (da Pesaro), primo direttore del tiro sull’incrociatore ZARA ci fu di esempio: gli era caduto un pezzettino di pane, una briciola, e lui si chinò, lo cercò nella sabbia, lo riprese e lo mangiò, quindi disse <<Chissà quante volte dovremo desiderare una mollichina come questa>>. E aveva ragione, perché non fu lontano il tempo in cui vedemmo avverarsi quel presentimento. In quel campo conobbi tanti ufficiali medici e cappellani; tra questi ultimi c’era un giovane prete napoletano, Don Luigi Branco, che poi, al ritorno dalla prigionia, diventò parroco della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, nell’omonima strada a Napoli. Tra gli ufficiali medici c’erano il prof. Brancaccio, colonnello medico, che al ritorno, divenne il primario dell’ospedale “Maresca” di Torre del Greco, e il Capitano Marone, che, dopo la prigionia, incontrai all’ospedale Militare di Napoli, quale Colonnello Medico e Direttore dell’ospedale stesso e, ancora, il Tenente Bongiorno, valente oculista, che aveva lo studio in via Bonito al Vomero, a cui affidai, dopo molti anni, i miei figli, per il controllo della miopia. E, inoltre, il Tenente De Luca, anch’egli napoletano e tanti altri, molto giovani, che, appena laureati, erano stati inviati al fronte libico. Ma, fra tutti, ricordo particolarmente, l’allora Tenente Medico dott. Olimpio Ferraro, nativo di Ausonia e residente a Roma, dove aveva lasciato la giovane moglie incinta del primo figlio; quest’ufficiale medico ebbe subito tanta simpatia per me: vedendomi in quelle condizioni, con i piedi sanguinanti, mi regalò un paio di sandali che aveva precedentemente acquistato dagli Arabi, in Libia. Poi mi mostrò, nel suo zaino, un grande paracadute inglese, di pura seta, che, piegato, diventava sottilissimo, per nulla ingombrante. Ferraro lo aveva nascosto, in un primo momento, intorno al torace, per eludere le perquisizioni, e, così fasciato, non destò sospetto in alcuno. Gli confidai che ero sarto e, quindi, mi chiese se ero in grado di ricavare qualcosa di utile da tanto tessuto; ci pensai su e gli risposi che potevo ottenere camicie e mutandine. Ma come potevo operare? Con quali forbici, aghi e filo? Allora il dott. Ferraro trasse un paio di forbici e poi degli aghi ricurvi, quelli che s’adoperano in chirurgia. Per il filo ci procurammo una corda, di quelle che reggono le tende, di cotone bianco egiziano, di buona
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qualità; la sfilammo e ne ricavammo una bella matassa. In pochi giorni, pur essendo privo del ditale, ottenni un buon numero di mutandine e camicie; le prime, il Tenente volle che le indossassi io. Le altre le indossò lui, riservandosi, tuttavia, una camicia; e dieci anni dopo, quando passai a visitarlo con mia moglie a Roma, in via Merulana, durante il viaggio di nozze, ci mostrò quella camicia, che teneva caramente conservata e che era riuscito a far passare tra tutte le peripezie della prigionia. Pochi giorni dopo, gli inglesi ci fornirono del vestiario, che avevano preso nei nostri magazzini, in Cirenaica; non erano tutti indumenti nuovi: c’era anche qualche paio di pantaloni e qualche giubba bucati (dalle pallottole) ed anche sporchi di sangue; ma tant’è a questo non potevamo badarci! Passarono poche settimane e fummo visitati dalla delegazione della Croce Rossa Internazionale; presero i connotati di tutti, anche di coloro che provenivano dal fronte libico e poi ci fornirono un foglio di carta da lettera con la rispettiva busta ed una matita. Sul frontespizio della busta c’era scritto, prestampato “Par Avion – Pour L’intercession De La Croix Rouge – Geneve”. Era la prima lettera che scrivevamo ai nostri cari; la scrivemmo in un baleno, poi la riconsegnammo ai delegati della Croce Rossa, “per la verifica della censura”. Gli analfabeti ottennero aiuto da qualche compagno. Mi risulta, però, che quella lettera non giunse mai a destinazione, forse andò dispersa. Dopo qualche giorno ci immatricolarono; ricordo bene il mio numero (era facile da memorizzare): Uno, due, tre, quattro, zero, zero (123400). Ancora qualche altro giorno, poi venne il Delegato Apostolico del Vaticano che risiedeva al Cairo; era un vescovo e, con i suoi collaboratori, prese le generalità di ciascuno di noi, poi ci consegnò un libretto di preghiere, sul cui frontespizio c’era l'effigie di Papa Pacelli (Pio XII). Quell’intervento fu sollecito ed efficace! I miei genitori avevano ricevuto, subito dopo la battaglia di Capo Matapan un telegramma che diceva pressappoco così <<Vostro figlio Michele, in seguito ad azione bellica nel Mediterraneo, risulta disperso …>>; il telegramma, com’era la prassi, venne consegnato da un maresciallo del Comando della Marina, che aggiunse di suo, alcune parole di convenienza … e di speranza! E l’8 maggio, i miei genitori, tornando dalla vicina chiesa, dopo aver recitato, insieme agli altri fedeli, la “Supplica alla Madonna di Pompei”, incontrarono l’anziano parroco del rione, tutto sorridente, che sventolava un telegramma appena ricevuto dalla Santa Sede; il telegramma riportava <<Vostro figlio Michele è in buona salute, si trova in Egitto quale prigioniero di guerra>> (seguivano le solite convenevoli frasi con la benedizione del Pontefice …). Dopo qualche giorno ci trasferirono a Geneifa, vicino al lago di Ismailia (al centro del Canale di Suez), al “campo 308”. Ci divisero dai nostri ufficiali che furono condotti in India insieme agli ufficiali del fronte Cirenaico. Invece, gli ufficiali medici e cappellani restarono in Egitto, ad Ismailia. Al campo 308 ci restammo per un paio di mesi, ma fu dura! Meno male che ci unirono ai soldati catturati in Cirenaica, poiché essi avevano più esperienza di noi a convivere con il deserto, a resistere alla sete e a tutte le altre avversità, particolarmente quando arrivavano quelle raffiche di ghibli ( il violento vento del deserto proveniente da Sud).
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Ho visto gli Arabi, carponi sulla sabbia, avvolti nel loro classico barracano aspettare che la tempesta si placasse mentre, da noi, qualche tenda volava via perchĂŠ non era stata bene impalettata. Poi imparammo a convivere anche con i pidocchi! Al centro del grande accampamento, vicino alle tende degli Inglesi, câ&#x20AC;&#x2122;era una fontanella da cui scorreva sempre tanta acqua che poi veniva assorbita dalla sabbia. CosĂŹ capitava che qualche ardito volontario, di notte, si caricava a tracolla tante borracce vuote; dopodichĂŠ, carponi, si avvicinava alla doppia fila dei reticolati, li alzava di quanto bastasse per poter passare e correva a riempire i contenitori, mentre il fascio di luce dei riflettori (posti sulle alte garitte, dove câ&#x20AC;&#x2122;erano le sentinelle) passava dalla parte opposta. E quando uno di quegli eroi, qualche volta, si impigliava nel filo spinato ed era sorpreso dal fascio di luce che tornava, se la sentinella non lo scorgeva, poteva farla franca; altrimenti, una raffica di mitra eâ&#x20AC;Ś.addio! Questo accadeva sempre sulla via del ritorno, perchĂŠ il peso delle borracce piene di acqua, rendeva piĂš arduo il compito dellâ&#x20AC;&#x2122;audace compagno â&#x20AC;Ś poi, vi erano sempre altri pronti a sostituire il malcapitato, specialmente nelle notti di novilunio. Tra quei ragazzi câ&#x20AC;&#x2122;erano anche gli eroi dellâ&#x20AC;&#x2122;oasi di GIARABUB, che, tempo prima, avevano resistito a lungo ai continui attacchi delle preponderanti forze nemiche e che, ridotti al lumicino, malgrado tanti compagni morti o feriti, riuscirono, correndo da un capo allâ&#x20AC;&#x2122;altro del fortino in cui erano arroccati, a far fuoco con le mitragliatrici, che erano numericamente superiori ai superstiti stessi; nel contempo, ponevano i berretti dei compagni caduti sui muri di cinta e li spostavano con dello spago, dando lâ&#x20AC;&#x2122;impressione di essere ancora in tanti. Quando alzarono bandiera bianca, gli inglesi stentarono a credere in una loro resa, pensando ad unâ&#x20AC;&#x2122;imboscata ed attesero titubanti; poi entrarono in forze e restarono di stucco, quando si accorsero del numero esiguo di superstiti: chiesero dove erano gli altri (forse fuggiti!), e li trovarono morti e sepolti o completamente inabili, perchĂŠ feriti! Oltre agli eroi di Giarabub, vi erano tanti altri ragazzi in gamba: i fanti ed i bersaglieri, che tante volte si erano nascosti tra le dune di sabbia, mimetizzandosi con esse; poi al passare di un carro armato o di un autoblindo, armati di bottiglie incendiarie colme di benzina, scattavano come molle e giĂš, colpivano nellâ&#x20AC;&#x2122;abitacolo del mezzo, attraverso il portellone aperto. Parecchi veicoli corazzati furono espugnati con quel sistema, anche se, a volte, la benzina proveniente dallâ&#x20AC;&#x2122;Italia era annacquata ed allora â&#x20AC;Ś per quegli audaci era la fine. Ma torniamo alle vicende del campo di prigionia. Ogni campetto interno al campo 308 comprendeva circa seicento prigionieri italiani ed era affidato ad un caporale inglese (le sentinelle disposte intorno ad ogni campo erano truppe di colore). Il caporale arrivava ogni mattina per la conta, che non sempre tornava, se non dopo qualche tentativo, soprattutto quando eravamo in movimento, camminando in riga per quattro; e, allora gridando e bestemmiando, ci ordinava di restare fermi e seduti e ricominciava a contare <<One, two, three, four, five â&#x20AC;Ś>>. Quando anche lâ&#x20AC;&#x2122;ennesima conta non riusciva, il caporale lanciava il manganello, che aveva sempre a portata di mano, contro di noi, e â&#x20AC;Ś qualche malcapitato finiva in infermeria. Tante volte lâ&#x20AC;&#x2122;aguzzino ci costringeva, per punizione,
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sull’attenti sotto i raggi roventi del sole, per un’ora; oppure ci imponeva di passare per tutto il campo una coperta, in modo da lisciare la sabbia, in lungo ed in largo, lasciandoci in pace solo quando il terreno appariva perfettamente pareggiato. A mezzogiorno mangiavamo spesso una brodaglia di fave secche, che, pur essendo cotte per un’intera nottata erano sempre dure, e non solo, anche piene di bachi; particolare a cui non facevamo caso, anzi, ci sembrava di masticare un po’ di carne! Il guaio maggiore, forse, era l’indisponibilità di sigarette; solo, di tanto in tanto, qualche sentinella, per divertirsi, lanciava nel campo una cicca ancora accesa, provocando un parapiglia per il possesso di quel prezioso mozzicone di sigaretta. A volte ci conducevano, a turno, a lavorare fuori, per la pulizia dei tendoni inglesi, dove avevamo occasione di procurarci qualche fondo di tè; materia prima, che, essiccata al sole e miscelata, talvolta, con sughero pestato (ricavato dai caschi coloniali), diventava per noi (assetati anche di fumo) tabacco che avvolgevamo in qualunque pezzo di carta (anche i fogli del libretto di preghiere donatoci dal Delegato Apostolico). Quando passavamo fuori di un campo, dove erano rinchiusi i prigionieri tedeschi, notavamo che, per dieci tedeschi vi erano dieci sergenti inglesi e sentinelle bianche. I tedeschi, avendo saputo che non avevamo alcuna fornitura di sigarette (che invece ricevevano in buona quantità), quando potevano, ce ne lanciavano attraverso i reticolati, a pacchetti interi. In qualche occasione ci concedevano un bagno nel lago salato di Ismailia, dove, oltre al refrigerio dell’acqua, ci ripulivamo, liberandoci, in parte, degli insetti che ci tenevano compagnia. Per arrivare al lago, dovevamo attraversare un boschetto di palme, la cui ombra ci donava un ulteriore beneficio. E pensare che, nel dicembre del 1937 passammo per il lago di Ismailia con l’incrociatore ZARA (conducevamo il Duca Amedeo D’Aosta in Africa Orientale, che andava con la carica di Viceré ad assumere il comando nell’Impero, dando il cambio al Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani); dall’incrociatore, mentre era fermo in attesa di altre navi che risalivano il canale di Suez, ammiravamo quei boschi di palme che cingevano, tutt’intorno, il lago, ed io pensai <<Come sarebbe bello se un giorno, da turista, potessi visitare questo posto così incantevole, specialmente quando al tramonto il cielo diventa di cento colori>>. La permanenza, da prigionieri, a Geneifa terminò con l’arrivo in Libia del corpo tedesco comandato dal Maresciallo Von Rommell (la “volpe del deserto”, che determinò il nostro allontanamento dall’Egitto). Raggiungemmo dapprima Suez, sostando per qualche giorno in un altro campo, prima di imbarcarci per il Sud Africa. Nel breve viaggio venimmo a sapere che la Germania aveva invaso anche la Russia. Lungo tutti gli spostamenti, in treni con vetture normali o composti da carri merci, tutti gli egiziani che incontravamo ci salutavano ed esprimevano tutta la loro solidarietà verso di noi, specialmente quando facevamo sosta nelle stazioni; ci lanciavano, quando potevano, sigarette, pane e pezzi di focaccia. Quella solidarietà, in realtà, l’avevamo trovata già in altre occasioni, quando si avvicinavano temerariamente ai reticolati dei campi di concentramento e, alzando gli
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occhi al cielo, ci facevano intendere che imploravano all’unico Dio di tutta l’umanità, dicendoci, nella loro lingua <<Che Allah vi protegga!>> (parole che noi intendevamo). A Suez ci imbarcammo su un mercantile attrezzato per il trasporto delle truppe, con tante amache numerate, stese sottocoperta, ed assegnate a ciascuno di noi passeggeri. Ci guardavano a vista sentinelle indiane; erano bravi ragazzi, ma avevano tanta paura degli inglesi. Un giorno vidi un caporale delle truppe di Sua Maestà Britannica bastonare a pugni e calci un ufficiale indiano. Durante la navigazione socializzai con una delle sentinelle; un indiano di Calcutta, molto intelligente, sveglio e socievole, al quale spesso ripetevo, quasi a mo’ di saluto, <<Mahatma Gandhi is very good, english not good!>>, ricevendo in cambio un cenno ed un sorriso. Dopo la traversata del Mar Rosso e del Golfo di Aden e dopo aver superato il Capo Guardafui (il Corno d’Africa), entrammo nell’Oceano Indiano. Per quelli che soffrivano del mar di mare, furono pasticci! Un giorno, incrociando l’amico indiano, mi accorsi che soffriva molto; era pallido in volto ed aveva, ogni tanto, conati di vomito. Gli consigliai, da buon lupo di mare, di porsi, innanzitutto sottovento, cioè sul lato della nave riparato dal vento, in modo che non gli ritornasse addosso ciò che vomitava; poi gli consigliai di non bere molta acqua, ne caffè e di evitare cibi brodosi, assimilando biscotti, gallette, tonno e carne in scatola, con qualche goccio di liquore secco. I miei consigli furono ben accolti da coloro che soffrivano il mal di mare. E un giorno, l’indiano mi consegnò, di nascosto, un qualcosa che, in un primo momento, mi sembrava un uovo di cioccolata, abbastanza grandicello; appena sceso giù sottocoperta lo mostrai ai miei amici, poi lo annusammo e scoprimmo che era composto da tante foglie secche di tabacco, molto compresse tanto da prendere la forma di un bell’uovo pasquale! Ne prendemmo un pezzetto ciascuno e lo sbriciolammo, poi cercammo un po’ di carta per farne cartine e l'arrotolammo! Fumammo con avidità ma poi … quanta tosse! Non eravamo abituati ad aspirare un tabacco così forte, specialmente dopo una lunga astinenza. Qualcuno poi si procurò una pipa rubandola agli Inglesi, che avevano l’abitudine di metterla nel bordo dei calzettoni quando indossavano i pantaloncini corti. Ma nemmeno con la pipa quel tabacco era fumabile per noi. Un giorno ne presi un pezzettino e me lo sbriciolai tra i capelli, sotto le ascelle e altrove con il risultato che tutti gli insetti, che mi tenevano ancora compagnia, cadevano tramortiti quando mi si avvicinavano. Dunque, quel tabacco era più efficace del D.D.T., che ancora non conoscevamo! Dopo nove giorni di navigazione sbarcammo a Durban, nell’Unione del Sud Africa. Ci portarono subito al campo di disinfezione di Pietermaritzburg ad una ventina di chilometri nell’entroterra della regione del Natal. Appena giunti, ci fecero la rasatura completa di tutti i peli con la macchinetta per rasare a zero; quindi prima di entrare sotto le docce (molto calde), ci mettevano in testa, con una paletta di legno, del sapone molle disinfettante e, dopo un quarto d’ora ne uscivamo fuori, dalla parte opposta, puliti e disinfettati. Poi ci consegnarono il vestiario invernale, compreso il cappotto, perché laggiù, in pieno luglio, era inverno!
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Dopo pochi giorni ci rimisero in treno e, dopo 24 ore di viaggio, sempre in salita, facendo diversi giri per superare diversi valloni, giungemmo a Zonderwater, oltre Pretoria e Johannersburg, sull’altopiano del Transvaal a oltre 1.000 metri sul livello del mare. C’erano ancora pochi campi allestiti ma presto aumentarono perché arrivavano ancora altri prigionieri. Ogni quattro campi intercomunicabili tra loro formavano un blocco che era recintato da una doppia fila di reticolati. All’ingresso di ogni blocco c’era una garitta grande quanto una stanzetta, munita di una brandina per il sorvegliante, di un tavolino ed anche di un telefono. Il sorvegliante era sempre un sudafricano bianco, generalmente col grado di sergente. All’interno di ogni blocco c’era anche una tenda arredata, quale ufficio-comando a disposizione di un altro sergente che era il responsabile, coadiuvato da qualche soldato, anch’egli bianco. I soldati di colore (Zulù o Cafri) erano addetti al servizio di sentinella; passeggiavano, durante il loro turno, attorno al perimetro di ogni blocco. In ciascun campo c’erano duecento tende, in fila per dieci; le tende erano a forma di cono, a base circolare, con al centro un palo robusto e, tutt’intorno i tiranti di corda fissati ai relativi paletti. Sotto ogni tenda coabitavamo in dieci, con la testa verso l’esterno ed i piedi rivolti verso il palo centrale. In ogni campo c'erano, inoltre, due grandi tendoni a base rettangolare: uno per la cucina ed un altro per l'infermeria. Quando giungemmo a Zonderwater, c'erano solo quattro blocchi ed il blocco 3 era di smistamento, perché adibito ad una ulteriore disinfestazione (senza, tuttavia, cambio di vestiario); noi fummo alloggiati, per un po' di tempo, nel blocco 4, ma presto raggiungemmo il blocco 7. Nella tenda dove capitai (al campo 25 del blocco 7) eravamo tutti meridionali; in realtà ci eravamo precedentemente scelti ed andammo subito d'accordo. Tra i compagni di prigionia c'era il caro Domenico D'Alessio, superstite dell'incrociatore POLA; abitava a Napoli, a Posillipo, e fu, per me come un fratello, per tutto il tempo della prigionia. Poi c'era Antonio Belfiore, carrista, anch'egli di Napoli, del Quartiere Poggioreale, che, anni dopo, fu il compare d'anello al mio matrimonio. Anche Antonio Castaldo era della zona di Poggioreale; mentre Felice Maglione, altro napoletano, era del quartiere Ponticelli. Mi ricordo, inoltre, di Nardi, artigliere calabrese ed ancora, di Lillo Coiro e Giovanni Trimarco, entrambi della provincia di Salerno, e di un marinaio del Battaglione San Marco e, infine, dell'umile fante Michelangelo Venditto, da Morcone, in provincia di Campobasso; quest'ultimo era analfabeta e, quando doveva scrivere ai suoi, o riceveva posta, veniva in aiuto da me. Michelangelo volle che gli insegnassi a leggere e scrivere e, ricordo, che mi diceva <<Quando non capisco bene, dammi una "carocchia" in testa>> (cioè, mi chiedeva di picchiarlo con le nocche delle dita, così avrebbe imparato con maggior profitto). Ed imparò davvero e senza carocchie, tanto che, dopo cinque anni di prigionia, apprese anche un po’ di inglese.
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Erano tutti bravi ragazzi, tant'è, che per tutto il periodo di forzata compagnia, non ci fu, tra noi, il ben che minimo screzio; ci aiutavamo a vicenda, sempre, come tanti fratelli. Ricordo che, quando riuscivo a procurarmi qualche buon libro dagli ufficiali medici, lo leggevo e poi lo narravo, la sera, ai compagni di prigionia, sotto la fioca luce della lucerna ad olio, appesa al palo della tenda; tutti accovacciati sul pagliericcio, che mi ascoltavano con attenzione. Quando il romanzo era lungo (si trattava de: "I tre moschettieri", "I miserabili", "Teresa Raquin", "Il Conte di Brechard", "Vae victis", ed altri ancora …), ripartivo il racconto in più puntate. Il blocco 7 era separato dal blocco 8 da una sola fila di reticolato, nel quale, in breve tempo, furono aperti diversi varchi, non essendo, quel tratto sorvegliato dalle sentinelle; sicché i due blocchi divennero intercomunicabili. Al blocco 8, poco tempo dopo, giunsero gli ufficiali medici ed i cappellani che avevamo incontrato in Egitto, all'inizio della prigionia. Grande e reciproca fu la gioia, quando incontrai il Tenente Ferraro: aveva ancora le camicie create con la stoffa del paracadute, che, con diversi sotterfugi, era riuscito a far superare alla prima disinfestazione, nel campo di Pietermaritzburg. Nei campi di Zonderwater (Zona d'Acqua) c'era abbastanza acqua potabile ed il vitto era mangiabile, anche se, nelle pietanze si faceva largo uso di mais, che abbondava in quelle zone (e per i polentoni era una manna), … ma ci si abitua a tutto! Ogni giorno, un gruppo di prigionieri veniva prelevato e condotto a lavorare nell'accampamento degli inglesi; coloro che capitavano nelle officine o nelle autorimesse, dove c'erano diversi automezzi, spesso, smontavano le coppe dell'olio (che erano di buon alluminio) e le portavano al nostro campo, dove bravi zingari, veri maestri artigiani di attrezzi metallici, scioglievano l'alluminio, che poi, in apposite forme, veniva trasformato in tanti accendini e portasigarette, con incise sulle facciate, figure di nudi femminili. Tornando, giorni dopo, all'accampamento dei Sudafricani (Gli Africaander), i nostri commerciavano quei manufatti, scambiandoli con merce utile del loro spaccio. A sera, nei nostri campi, iniziava il mercato; non mancava nulla: sigarette, marmellata, dentifrici, spazzolini, lamette, sapone da barba e matasse di filo di cotone (ottenuto dalle corde delle tende degli Africaander). Tutto ciò veniva barattato, sovente, col lavoro degli artigiani: sarti, calzolai, barbieri, cesellatori, ecc.. E, una sera, sentimmo, in dialetto partenopeo: <<Chi s'accatta 'e pidocchi?>>; non pareva vero! Ma vendevano davvero quegli insetti! C'è n'erano tre o quattro in una boccettina vuota, prelevata all'infermeria. E c'era chi l'acquistava, ma perché? Perché qualcuno aveva saputo che al blocco 3 erano arrivati altri prigionieri e, tra questi, c'era un fratello, un parente o un compaesano ed era forte il desiderio di unirsi ad essi: al mattino seguente si poneva in capo gli insetti, in maniera ben visibile e correva alla tenda-comando, presentandosi al sergente responsabile del blocco e … <<Come on!>>, il malcapitato era condotto con tutto il suo arredo (coperta, pagliericcio, ecc.) alla disinfezione. Veniva lasciato in consegna al sergente del blocco 3, in cambio di un altro prigioniero, spesso volontario, che entrava nel blocco 7.
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Quando sopraggiungeva la stagione delle piogge, durante i temporali, cadevano fulmini in gran quantità, attirati dal terreno (eravamo vicinissimi alle miniere di diamanti di Cullinan); quando un fulmine cadeva sul palo di una tenda, impregnato d'acqua, per gli occupanti non c'era scampo! Così, per iniziativa del Cappellano superiore, nacque anche il cimitero dei prigionieri di guerra. L'ingresso, costruito in mattoni, era sormontato da tre grandi archi, visibili da lontano, che riportavano, sul frontespizio "VINTI NELLA CARNE - INVITTI NELLO SPIRITO - L'ITALIA LONTANA VI BENEDICE IN ETERNO". Intanto eravamo arrivati ad oltre 84.000 prigionieri (suddivisi in undici blocchi). Nel blocco 4 fu costituito l'ospedale, comandato, dal prof. Brancaccio, che impartiva lezioni di chirurgia a tutti gli altri medici, anche ai medici inglesi. Furono istituiti anche corsi speciali per infermieri; poi, man mano, giunsero anche le attrezzature ospedaliere. Nel 1942 furono costruite delle casermette in mattoni rossi, prodotti dai prigionieri; all'interno di esse, in ciascuna camerata, prendevano posto 25 persone, sistemati in letti a castello (il 25° letto era riservato al capo-camerata che, di solito, era un sott'ufficiale anziano). Anche le cucine, l'infermeria e i comandi furono costruiti in mattoni, mentre i refettori furono realizzati con grossi tronchi d'albero tagliati a metà, per lungo, e disposti affiancati lungo tutto il perimetro, formando solide pareti; sopra venivano disposte le capriate, ricoperte, a loro volta, da grossi fogli metallici ondulati. In ciascun refettorio furono disposti 200 tavoli in legno, con le rispettive panche ai lati ed ogni tavolo era assegnato a dieci persone. Così, in ogni campo c'era un refettorio per 2.000 commensali ed uno solo, per ogni blocco, era più lungo degli altri tre, perché la parte eccedente veniva adibita a teatro. Ma fin dall'inizio, nel 1941, quando non c'erano ancora i refettori né le camerate in muratura, già da allora si faceva teatro. Il palcoscenico era allestito su quattro assi di legno e gli scenari, le quinte e persino i vestiti degli attori erano fatti con la juta dei sacchi svuotati dai viveri che giungevano alle cucine. I primi spettacoli furono le canzoni e le sceneggiate napoletane, poi le canzoni tipiche di tutte le regioni italiane e poi si passò alle commedie di vari autori. Al pari dei teatri si costruirono, in ogni blocco, campi di calcio con le tribunette a gradini scavati nel terreno scosceso. Ogni campo aveva la sua squadra, così iniziarono subito i minicampionati tra le quattro squadre dello stesso blocco e poi tra le squadre rappresentative di ciascun blocco. Ricordo i nomi delle prime otto squadre (fino al blocco 8), poiché gli altri quattro blocchi furono allestiti per ultimi (all'arrivo degli ultimi prigionieri) e furono smantellati per primi (alle prime partenze per l'Inghilterra). La squadra del blocco 1 si chiamava "Savoia"; quella del blocco 2 "Diavoli rossi"; quella del blocco 3 "Diavoli neri"; quella del blocco 4 "Ospedale"; quella del blocco 5 "Andrea Doria"; al blocco 6 "Vittoria"; al blocco 7 "Virtus" e quella del blocco 8 si chiamava "Duca di Aosta". La formazione tipo della "Virtus" era: Romei (toscano), Bacigalupo (bergamasco), Fabris (friulano), Cantarella (barese), Bonomelli (milanese), Suprina (dalmata), Innocenti (di Piombino), De Angelis (di Santa Maria Capua Vetere), Puzone (di Napoli), Fattorini (di Imola) e Cucchianella (abruzzese); quest'ultimo aveva imparato a giocare a calcio in prigionia, era molto veloce e quando partiva da lontano, palla al piede, si beveva gli avversari che tentavano di fermarlo e, poi, giunto al limite dell'area di rigore tirava una stangata in porta e, molte volte, era goal. Al termine del
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campionato si svolgeva la "Coppa Italia" con partite ad eliminazione diretta: i quarti, le semifinali e la finale. Il tifo era enorme; quando segnava la squadra del cuore, l'urlo dei tifosi diventava un boato. Le finali come le partite più importanti, si svolgevano di sabato sul campo del Comando Generale, vi assistevano anche molti civili (che venivano dalle vicine Pretoria, Johannesburg e, poi, anche da più lontano). Tra questi v'erano diversi italiani che risiedevano nel Sud Africa da molti anni e che non erano stati internati (perché avevano molti interessi che agli inglesi facevano comodo). Questi civili (non solo gli italiani) costituirono insieme un centro di assistenza: il Welfare e spesso lasciavano, oltre ad un po' di denaro, anche tante attrezzature sportive. Poi inviarono anche spartiti e strumenti musicali (pianole, pianoforti, ecc.) e persino macchine da cucire; se c'era qualche oggetto un po' malandato veniva rimesso in efficienza dai nostri bravi artigiani. Così dopo gli spettacoli teatrali dei primi anni, si poterono allestire anche spettacoli come le operette: "La vedova allegra", "Il paese dei campanelli", "L'acqua Cheta", "La principessa della Czarda", "La Geisha", "Cin-ci-là" ed altre ancora. Io fui invitato a collaborare per i vestiti maschili e femminili di diverse operette, prima al blocco 7 poi al blocco 6 ed infine anche al blocco 1. Avevo il passo per poter entrare ed uscire dai diversi blocchi; potevo arrivare sino al "Comando Generale" e, di tanto in tanto, facevo una capatina allo spaccio dove acquistavo qualcosa di mio piacimento, poiché periodicamente, avevano iniziato a darci anche un po' di paga (secondo le Convenzioni di Ginevra). Tra i tanti prigionieri ce n'erano diversi che avevano studiato canto: chi aveva la voce di tenore, chi quella di baritono o di basso e c'erano anche quelli che sapevano cantare anche da soprano o da contralto! Le orchestre erano composte da bravissimi musicisti ed erano diretti da ottimi direttori. Quando a fine settimana venivano i civili (allorché non c'era un importante avvenimento sportivo), noi allestivamo lo spettacolo teatrale presso il Comando Generale. Gli spettatori rimanevano estasiati e poi, esprimendo tutta la loro soddisfazione, ci dicevano che non avevano mai assistito ad uno spettacolo simile, nemmeno quando, qualche volta, capitava laggiù una vera compagnia di professionisti! A fine spettacolo, tutti coloro che avevano svolto parti femminili (dalle soubrettes alle ballerine, alle primedonne, alle comparse), si toglievano la parrucca e salutavano il pubblico ringraziando per i calorosi applausi ricevuti! Alcune volte, veniva allestita, sempre presso il Comando, la mostra d'arte e dell'artigianato italiano. Si trattava di opere veramente pregevoli: dai quadri dipinti con colori ricavati da alcune radici di piante o da sassolini variopinti trovati nel terreno e poi ridotti in polvere; alle sculture in creta, in gesso, in legno e in metallo; poi c'erano anche tanti pezzi d'artigianato e, poi, lavori a maglia: calzettoni, guanti, maglioni etc.. Intorno agli stands giravano due treni in miniatura: uno con il locomotore elettrico e l'altro con la locomotiva a vapore; ognuno trainava quattro-cinque vagoni; e tutto era così perfetto tanto da far rimanere incantati i visitatori che facevano a gara per acquistare il più possibile! Un giorno il Colonnello Comandante, tra il serio ed il faceto, esclamò <<Questi Italiani, presto faranno uscire dal sottosuolo, carri armati, cannoni ed altro materiale bellico!>>. E finché le vicende belliche furono a noi favorevoli, gli Inglesi ci tennero un po' sotto controllo; di tanto in tanto subivamo improvvise ispezioni, ma non riuscirono mai a trovare qualcosa di sospetto. Poi, quando la situazione mutò a nostro sfavore, (ed eravamo nel 1943), ci
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installarono nei blocchi dei grossi altoparlanti, posti su alti pali, e, a sera, <<Ndò, ndò, ndò … parla Londra, qui Ruggero Orlando …>>, e giù con le solite filastrocche, vere o false che fossero, ma sempre, per noi, deprimenti (obiettivo che i nostri nemici di allora volevano raggiungere). A ciò si aggiungeva che, diversi prigionieri avevano ricevuto cattive notizie da casa, di modo che anche il campo dei malati mentali, annesso al blocco dell'Ospedale, si andò popolando. Un altro caro amico, divenne per me Italo Gherardi, marchigiano di Jesi, del campo 28, nel blocco 7. Era nella compagnia atleti, in qualità di pugile nella categoria pesi medi e, sempre allegro, raccontava tante barzellette, un po' come Gino Bramieri (che anni dopo cominciò ad apparire in televisione), cui somigliava fisicamente. Un giorno, dopo un violento temporale tropicale, raccolse un uccellino, ancora implume, caduto dal nido, e, con molta pazienza, lo imbeccò con mollichine di pane imbevute di acqua; l'uccellino, cresciuto, mise le piume d'un rosso fuoco, tant'è che lo appellammo "Garibaldi". Quando imparò a volare, non tentò mai di evadere dalla nostra camerata, neanche quando erano aperte le vie d'uscita; si posava sovente sulle nostre spalle, svolazzava sui letti a castello, come se fosse nel suo ambiente naturale. Purtroppo, un giorno, svolazzando, finì in un recipiente colmo d'olio e carburante, che serviva per alimentare la lucerna. Allora Gherardi costruì una piccola bara, vi pose dentro l'animaletto e lo rinchiuse, dopodiché, facemmo un corteo funebre, girando intorno al blocco, e, infine, lo sotterrammo con tanto di lapide, con su scritto <<Qui giace Garibaldi, l'uccellino di Gherardi, morto giovane e non vecchio, per essere caduto dentro a un secchio, dove c'era la benzina, sotto il letto di Pastina>> ("Pastina" era il soprannome di un atleta fiorentino). Nel 1972, soggiornando in estate al mare, a Civitanova Marche, i miei figli conobbero sulla spiaggia Loretta, una ragazza loro coetanea, che viveva, nel periodo estivo presso una sua zia, nostra temporanea vicina; me la presentarono e le chiesi la sua località di origine: mi rispose ch'era di Jesi. Allora le dissi che desideravo tanto andare in quella cittadina, dove viveva un mio caro amico, conosciuto durante la prigionia, che era una persona molto simpatica. Le narrai l'aneddoto dell'uccellino Garibaldi, descrivendone come era morto, e ricordai la frase che apponemmo sulla lapide <<Qui giace Garibaldi, l'uccellino di Gherardi, morto giovane e non vecchio…>>, ma non riuscii a terminare, perché lei, prontamente continuò << … per essere caduto dentro a un secchio, dove c'era la benzina, sotto il letto di Pastina>> e scoppiò in un pianto! Allora le chiesi <<Ma lo conosci?>> e la risposta che ottenni fu <<Si, era mio padre!>>. << Perché, era?>>, aggiunsi incredulo, mentre mi si accapponava la pelle. Loretta mi rispose che suo padre era scomparso l'anno precedente! Poi mi mostrò, a poca distanza da Civitanova, due grandi Silos, di uno Zuccherificio, dove il padre era caposquadra per la manutenzione. E li, calandosi per primo in uno dei Silos, per riparare alcune valvole malfunzionanti, fu tramortito dai gas emanati all'interno, dallo zucchero bollente e cadde giù, nelle caldaie. Morì, come trent'anni prima, l'uccellino Garibaldi! Addio caro Gherardi. Intanto, all'inizio del 1943, poco per volta, diversi prigionieri furono mandati in Inghilterra: prima di partire dai vari porti del Sud Africa, venivano messi bene in mostra, specialmente quando venivano imbarcati su quelle navi che trasportavano viveri e materiale bellico! E venne pure il 25 luglio del 1943; ad uno ad uno, gli ultimi blocchi si svuotarono ed infine anche il blocco 7. Rimasero così solo i primi blocchi, compreso l'Ospedale. Fu allora che
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venimmo inviati a lavorare nei campi agricoli nella regione dell'Orange. A Ottosdal c'era il campo di smistamento; lì venivano i proprietari terrieri che prelevavano il numero di prigionieri a loro occorrente. Versavano una cauzione, firmavano i necessari documenti e ci prendevano in consegna, unitamente ad un certo numero di tende (quelle a forma di cono a base circolare) e alle norme per il trattamento dei prigionieri. Così, in dodici, salimmo su un camioncino, guidato dal padrone coadiuvato da uno Zulù, molto sveglio ed intelligente: si chiamava Tony, era di religione cattolica, parlava abbastanza bene l'inglese, mentre il padrone parlava l'Afrikaans, la lingua dei Boeri. Dopo una ventina di chilometri raggiungemmo la farm (fattoria). Da lontano si scorgevano i mulini a vento, di cui ogni farm era dotata, per tirar su dai pozzi artesiani l'acqua, che poi andava a riempire talune vasche circolari in cemento. All'esterno di esse erano stati sistemati dei rubinetti, che venivano aperti alla bisogna. Ci sistemammo sotto tre tende; uno di noi, per sua volontà restava per cucinare e non era un lavoro da poco, perché già all'alba, per accendere un po’ di fuoco per preparare il caffè, occorreva soffiare come un mantice, sulle foglie e sterpi secchi ed umidi! Il latte ce lo portava Tony, mentre il padrone, per svegliarci, gridava <<Italy, coffee!>>. Così andavamo a lavarci un po’ sotto le fontanine (con il cappotto in dosso, perché faceva un gran freddo). Intanto il cuoco aveva preparato il latte ed il caffè ben caldi, che mandavamo giù in fretta, per riscaldarci un po'. Poi salivamo su di un carro trainato da buoi, tutti meno il cuoco, e, dopo circa mezz'ora, raggiungevamo il posto di lavoro, che era un grande campo di mais. Dovevamo raccogliere le pannocchie; ognuno di noi aveva un sacco, legato alla vita, e quando quest'ultimo era pieno, lo si lasciava ad un determinato posto e se ne prendeva un altro vuoto, avanzando sempre, solco per solco per tutto il campo, sino al confine e poi si tornava ancora. In questo lavoro ci guidava Tony mentre il padrone veniva ogni tanto (a cavallo) a sorvegliare. Verso le 10 Tony andava a ritirare il tè che il cuoco aveva preparato. Nei cinque minuti di stacco sorbivamo il nostro tè e, poi, ci concedevamo una fumatina di sigaretta, quindi, di nuovo a lavoro sino alle 13, quando, nuovamente Tony insieme al cuoco portavano da mangiare. Dopo una trentina di minuti si riprendeva per terminare al tramonto, quando col carro trainato dai buoi si ritornava all'ovile. Poi venne il momento della trebbiatura, ed allora tutti all'opera, attorno alla trebbiatrice che era manovrata da addetti specializzati. Mentre le foglie secche delle pannocchie, i torsoli, gli sterpi andavano da un lato, i chicchi di mais, netti e puliti, andavano a riempire i sacchi che ne contenevano cento libbre ciascuno; il sacco stesso veniva successivamente sigillato. Alla fine giungevano gli autocarri, che venivano caricati dai sacchi che noi avevamo precedentemente ammucchiati in ordine. L'operazione di carico avveniva a catena: due di noi prendevano un sacco dal mucchio e lo porgevano ad altri due, vicino all'automezzo, i quali, a loro volta, lo issavano sul piano dove, infine, c'erano altri due che sistemavano i sacchi all'interno. Io ero uno della coppia vicino all'autocarro e una volta, nell'issare, insieme al mio compagno, uno dei sacchi, scivolai col piede destro sul terreno viscido di brina e … crack!, sentii un tremendo dolore al ginocchio sinistro che fu colpito anche dalle cento libbre del sacco che mi cadde addosso (poiché il compagno non aveva potuto fare nulla per trattenerlo!). Immediatamente il ginocchio mi si gonfiò ed il dolore divenne insopportabile; i compagni mi applicarono subito degli impacchi freddi facendomi poi stendere nella tenda, sotto alla coperta. Il mio posto di lavoro fu poi preso, volontariamente, dal cuoco. Al mattino seguente il ginocchio era diventato
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come un pallone! Allora lo mostrai al padrone e, malgrado le sue reticenze, mi feci riportare al campo di Ottosdal dove fui ricoverato sotto la tenda-infermeria e qui incontrai il nostro Dottor De Luca che ordinò all'infermiere di farmi continui impacchi di salicilato. Dopo una decina di giorni ritornai, insieme con altri malandati a Zonderwater, dove mi spedirono al blocco 6; poi, per una quindicina di giorni andavo, con la camionetta di servizio, che mi prelevava, al blocco dell’ospedale, dove mi praticarono una Marconiterapia. Le mie condizioni migliorarono. Quando si è giovani e poi non si è molto furbi, non si pensa al futuro, e le conseguenze le ebbi, invece, dopo alcuni anni (eppure, pur avendo avuto l’opportunità tante volte, non chiesi mai alcun risarcimento!). Al blocco 6 ritrovai il caro amico Mimì D’Alessio e poi anche gli amici della compagnia teatrale, che prima erano con me al blocco 7. E ripresi nuovamente il mio lavoro; ad ideare e cucire vestiti, insieme ad altri colleghi sarti, per le operette che erano molto richieste, a tal punto che furono replicate, anche dopo diverso tempo. Poi, oltre all’odioso e lugubre "parla Londra" (che la sera, volenti o nolenti, eravamo costretti ad ascoltare, essendo l’audio degli altoparlanti molto alto), avevamo modo di ricevere notizie in altro modo, poiché le guardie dimenticavano, sovente, il giornale, in cucina, in infermeria, nelle vicinanze del comando di blocco ed un po’ dappertutto… E su uno di quei fogli, un giorno, leggemmo “Pantelleria captured!”. Ma come era possibile! Una volta, vidi con i miei occhi com’era difesa Pantelleria, circumnavigando l’isola con l’incrociatore ZARA. Era munita, tutt’intorno, di cannoni da 420 mm., alloggiati in grotte e caverne, sulla costa, che era abbastanza alta. Nessuna forza navale sarebbe stata in grado di espugnare quella fortezza, senza subirne gravissime conseguenze (e questo non era solo il mio modestissimo parere). Eppure, Pantelleria fu captured, senza sparare un solo fiammifero! E, in successione: Siracusa captured, Augusta (base navale) captured, Catania captured, Messina captured; Salerno captured e Naples captured. E, infine, venne Cassino, dove, gli “alleati”, dopo aver distrutto l’antica abbazia (per sloggiare un manipolo di tedeschi, che, invece, li bloccarono per diverso tempo sulla Casilina) aprirono la via per Roma, anch'essa captured. Loro non si sognarono mai di usare il vocabolo “liberata”! Ma ne riparliamo dopo. Nella seconda metà del 1945 (la guerra era finita da un pezzo), ai più meritevoli, cioè coloro che avevano svolto la loro opera nel settore dello sport, del teatro, dei servizi (ospedale, infermerie, cucine, assistenza-welfare, interpreti presso il comando, ecc.), fu concesso, a gruppi di quindici unità per volta, di visitare Pretoria, capoluogo della Provincia del Transvaal e sede, attualmente, degli uffici del governo della Repubblica del Sud Africa. Visitammo l’imponente monumento ai pionieri Boeri, poi ci soffermammo all’esterno di alcuni importanti edifici e, girando un po’ per la città, notammo che era ben alberata, con strade larghe e spaziose e tenuta in ordine. Consumammo la colazione al sacco, sdraiati sui sedili di un parco, poi visitammo lo zoo e, alla fine, facemmo compere presso alcuni negozi (quelli che ci venivano indicati dal sergente accompagnatore!). Alla fine di febbraio del 1946, iniziò il rimpatrio, poco per volta, a gruppi. Io capitai tra i primi. Ci riportarono al campo di Pietermaritzburg, dove sostammo qualche settimana (e questa volta senza disinfezione). Poi, finalmente, partimmo per il porto di Durban; a pochi chilometri dall’arrivo, scattai in piedi nello scompartimento del treno che ci portava a destinazione e, annusando l’aria che entrava dai finestrini, gridai ai miei compagni di viaggio <<Ragazzi,
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avvertite lâ&#x20AC;&#x2122;odore del mare?>>: dopo cinque anni, sentivo nuovamente quellâ&#x20AC;&#x2122;odore inconfondibile di alghe, quellâ&#x20AC;&#x2122;odore particolare che solo chi è nato in una cittĂ di mare o è vissuto per tanto tempo sul mare, può riconoscere! A Durban ci imbarcarono sulla nave MALOYA, adibita al trasporto delle truppe e dei passeggeri, che rimpatriavano dopo essere sfuggiti agli orrori della guerra in Europa (belgi, olandesi, danesi ed inglesi). Durante la traversata alcuni nostri teatranti si esibivano con romanze, canzoni e parodie comiche e venivano sempre applauditi. Per qualche giorno ci fermammo a Mombasa, in Kenya per i rifornimenti; poi oltrepassato lâ&#x20AC;&#x2122;equatore, il Corno d'Africa e lo stretto di Bab el Mandel, entrammo nel Mar Rosso. La gioia e l'euforia del ritorno a casa prendeva un poâ&#x20AC;&#x2122; tutti. Tra di noi c'era un ex operaio militarizzato, tratto prigioniero in Etiopia; era veneto ed abbastanza piĂš anziano di noi. La sua gioia era grande, parlava sempre della moglie e dei suoi figli, ma due giorni prima dello sbarco fu stroncato da un infarto e, ventiquattr'ore piĂš tardi lo posero in una bara avvolta dalla bandiera italiana e â&#x20AC;Ś giĂš nelle fosforescenti acque del Mar Rosso. Giunti qualche giorno dopo a Suez, ci trasferirono subito nel campo di Ismailia, dove sostammo ancora qualche settimana. Poi, un bel mattino, finalmente, tutti noi ex-marinai fummo chiamati per raggiungere Porto Said, sul Mediterraneo e lĂŹ venimmo imbarcati su una nave da guerra con la bandiera italiana sullâ&#x20AC;&#x2122;asta di poppa: era lâ&#x20AC;&#x2122;incrociatore RAIMONDO MONTECUCCOLI, una delle poche unitĂ superstiti della flotta italiana! Appena salito a bordo e, salutata la bandiera italiana, mi inchinai a baciare il ponte di ferro di quella nave: era, per me, come una Zolla di terra italiana, era suolo patrio ed io non ero piĂš, dopo cinque lunghi anni, prigioniero di guerra, matricola 123400!
Figura 15 - L'incrociatore R. Montecuccoli
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CAP. 9 - IL RITORNO (22-26 Febbraio 1946)
A bordo dell’incrociatore MONTECUCCOLI, passando per le cucine, sentii un piacevole odore di pasta e piselli, tanto che mi venne un’acquolina in bocca, a stento sopportabile. Non vedevo l’ora che arrivasse la distribuzione del rancio; nel mentre, i marinai della nave imprecavano, perché dovevano mangiare, ancora una volta, “polvere di piselli”, proveniente dagli States d’America… Ma, per noi, ex prigionieri di guerra, solo l’odore era oro colato. Sul far della sera il MONTECUCCOLI salpò da Porto Said e… dov’era diretto? Era diretto a Napoli! Vi saremmo giunti dopo tre giorni e quattro notti di navigazione. A metà percorso, calcolando tempo e luogo, una sera, dopo il tramonto, salii in coperta, poi raggiunsi in plancia l’ufficiale di rotta e lo pregai di segnalarmi il momento in cui saremmo passati al largo di Capo Matapan. Io avevo, sul petto del giubbotto, una striscia con la scritta “ZARA”, che l’ufficiale notò, chiedendomi così la narrazione di quella indimenticabile notte di cinque anni prima. Poco dopo, guardando le carte nautiche e osservando con il sestante le stelle, mi fece un segno con l’indice teso verso il mare. Capii al volo e, con grande commozione, mi misi sull’attenti. Anche lui, l’ufficiale di rotta dell’incrociatore MONTECUCCOLI, si tenne in rispettoso silenzio. Laggiù, nell'abisso, vi era la tomba di tremila marinai italiani morti insieme, durante quell’immane tragedia del 28 marzo 1941! E il mio pensiero corse a loro: al Signor Jacono, a Gigino Guardascione, a Luigi Pittana, al Maggiore Mazziotti, all’Ammiraglio Cattaneo e a tutti gli altri … <<L’Eterno Riposo dona loro o Signore …!>>. E il giorno seguente, guardando avanti, sulla sinistra, scorsi prima l’Etna, poi Taormina ed i Monti Peloritani: era la Sicilia, era l’Italia! Quanto c’era mancata la nostra cara Italia! Ora comprendo di più il sentimento d’amore che hanno per la Patria gli Italiani che vivono all’estero da tanti anni: gli emigrati! <<So bene i lucciconi e quanta tosse gli ha chi lontano dalla Patria gli è…>> (da una nota canzone toscana). Poi, attraverso lo stretto di Messina, iniziammo a costeggiare la Calabria Tirrenica. Tutta quella costa la conoscevo a memoria; vi ero passato decine di volte, in su ed in giù, con l’incrociatore ZARA. Ricordo che amavo salire sulla plancia vedette col binocolo a portata di vista e, nei primi tempi, anche con la carta geografica in mano (allora ero socio del "C.T.I.Consociazione Turistica Italiana", poi divenuto "T.C.I. - Touring Club Italiano"). Così osservavo tutte le località della costa, che poi imparai a riconoscere a memoria: Scilla, Bagnara, Palmi, Gioia Tauro, Capo Vaticano, Tropea, mentre ad Ovest si scorgevano le più settentrionali delle isole Lipari, con lo Stromboli fumante, che sembrava un piccolo Vesuvio.
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Poi, oltre il Golfo di Sant’Eufemia, si vedevano un po’ più lontano, Amantea, Paola, Fuscaldo, Cetraro, sino a Capo Bonifati; poi, con lo ZARA, ci scostavamo, per tagliare al largo l’ampio Golfo di Policastro e, da Capo Palinuro, si prendeva a costeggiare la Campania, fino alla Penisola Sorrentina ed alle Bocche di Capri, tra la Punta Campanella ed i Faraglioni. Quei paesi, grandi e piccoli, li riconoscevo tutti (anche quelli ch’erano appollaiati sulle cime dei colli e dei monti), li riconoscevo dalla peculiarità delle loro abitazioni, dalle loro torri, da un po’ tutto e, di notte, anche dai fari posti all’ingresso dei porticcioli o sulla punta di una penisola che si protraeva nel mare. Mancavo da casa dal 23 dicembre del 1940, ed era l’antivigilia di Natale. Eravamo a Napoli, con le navi da guerra, da alcuni giorni e riuscii a fare un salto a casa. I miei abitavano, allora, al piano più alto (oggi diremmo attico) di un antico palazzo al largo Ferrandina a Chiaia e, da lassù, dal terrazzo, oltre che alla vista del mare fino a Capri, si scorgeva tutta la sottostante via Fiorelli. Ero rimasto d’intesa con mia madre, che il giorno seguente, vigilia di Natale, appena m’avrebbe visto sbucare da via Fiorelli, all’angolo di via Poerio, lei sarebbe corsa a buttare gli spaghetti per il cenone (abbastanza parco) della prima vigilia natalizia di guerra! Ma gli spaghetti non li assaporai mai … Nel corso della notte, ci fu, su Napoli, un intenso bombardamento: erano gli inglesi che sorvolavano la zona del porto a più di ottomila metri di altitudine, sganciando bombe, senza badare alla precisione (tanto, qualcosa dovevano pur colpire, poiché, in quei giorni il porto di Napoli era abbastanza intasato, per la presenza di molte navi, mercantili e da guerra). Fortuna volle che molte bombe cadessero sulle banchine, sui moli ed in mare, tra una nave e l’altra; ma una bomba colpì l’incrociatore POLA (sempre il POLA …), entrando nella fiancata e bucando la chiglia, ma senza esplodere! E noi, sulla nave ZARA, eravamo proprio accanto, a pochissimi metri! Il POLA fu prontamente rimorchiato in bacino, per le dovute riparazioni, mentre le altre navi da guerra lasciavano Napoli. Era l’alba e, mentre il sole spuntava dietro il pennacchio fumante del Vesuvio, si mostrò ai nostri occhi la visione incantevole del Golfo: dalla punta Campanella a Capo Miseno, con, al centro, Posillipo, il Vomero e Capodimonte, distinguendo le case abbarbicate sui fianchi scoscesi delle colline, ed il luccichìo dei vetri delle finestre, su cui si rifletteva il sole nascente! Ci fermammo, poi, per alcuni giorni alla Maddalena, in Sardegna, per poi ritornare alla base di Taranto, dove restammo fermi, inerti, per tutto l’inverno, fino alla partenza da quella base, il 26 marzo del 1941, e non vi facemmo più ritorno! Ed ora, col MONTECUCCOLI, all’alba del quarto giorno di navigazione, stavo entrando nuovamente nel Golfo di Napoli, dopo cinque anni e tre mesi! Andai in coperta, questa volta, col cuore trepidante; ma la gioia del ritorno non era grande come quando ero passato per quel posto, tante altre volte. Alla gioia si univa, ora, tanta mestizia e nell’animo c’era un po’ di tristezza ed un grande punto interrogativo: come avrei trovato, prima di tutto, i miei cari? L’ultima lettera l’avevo ricevuta molto tempo prima ed era, a sua volta datata di oltre 6mesi ancora. Volgendo lo sguardo verso est, notai che il Vesuvio non aveva più il suo caratteristico pennacchio (dopo l’eruzione del 1944, aveva smesso di fumare …).
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Entrando nel porto, notai subito la lunga fila di macerie per il litorale, su tutta la sua lunghezza, parallelamente al porto: da Piazza Municipio, ai Granili, ed oltre, non c’era un solo palazzo in piedi. Che desolazione! Poi sbarcammo su un pontile insolito: era la fiancata capovolta dell’incrociatore ATTENDOLO, gemello del MONTECUCCOLI (poi seppi che, dentro, vi erano ancora tanti marinai morti, sorpresi da un bombardamento a tappeto, compiuto dagli aerei nemici il 4 novembre del 1942, mentre a bordo si festeggiava la Santa Barbara, patrona dei marinai e degli artiglieri). Raggiunto, poi, il molo Pisacane, incontrammo alcune Dame della Croce Rossa che ci offrirono un panino, un’arancia e qualche dolcetto. Più in là c’era, assiepato, un bel mucchio di persone, in ansiosa attesa, e tra queste, scorsi mio padre (com’era dimagrito!). Egli aveva saputo del mio arrivo, perché avvertito dall’Ammiraglio Marino Jannucci, Comandante in Capo del Dipartimento Marittimo del Basso Tirreno, che aveva ricevuto, a sua volta, via radio, dal MONTECUCCOLI, l’elenco degli ex prigionieri che stavano per giungere a Napoli. Mio padre era il sarto di famiglia Jannucci, avendo conosciuto l’Ammiraglio, per mio tramite, già dal 1939 (subito dopo il nostro sbarco, in Albania), quando l’Alto Ufficiale era Comandante in Seconda dell’incrociatore ZARA, col grado allora di Capitano di Fregata. Prima dell’inizio della guerra, promosso Capitano di Vascello, fu inviato a Massaua a prendere il comando della nave oceanografica ERITREA. Alla caduta dell’impero, dal porto di Massaua, passò sotto il naso degli inglesi, per lo stretto di Bab el Mandel, attraversò tutto l’Oceano Indiano settentrionale e condusse la nave in Giappone dove ebbe asilo. Poi, l’8 settembre del 1943, all’atto del cosiddetto Armistizio, per non essere internato dai giapponesi, salpò improvvisamente (insalutato ospite). Attraversò nuovamente l’Oceano Indiano, puntando questa volta a sud e, superato il Capo di Buona Speranza, risalì l’Oceano Atlantico, fece rifornimento presso le colonie portoghesi e spagnole, attraversò lo stretto di Gibilterra e, infine, condusse la sua nave con l’equipaggio nel Golfo di Napoli. E mio padre riprese ad essere il suo sarto. Poi venne il tempo della sua promozione ad Ammiraglio di Squadra e quindi, ebbe l’alto Comando del Dipartimento Marittimo del Basso Tirreno. Tutta la storia dell’Ammiraglio mi fu raccontata da mio padre, strada facendo, mentre ci avviavamo, a piedi, a casa. Così non mi presentai subito al Distaccamento Marina, per la visita medica e per il disbrigo delle pratiche. Decisi di andarci il giorno seguente; in quel momento mi premeva rivedere mai madre e le mie quattro sorelline (mio fratello si trovava, in quel momento, in provincia di Macerata). Dopo aver percorso il tunnel della Vittoria, giungemmo a Piazza dei Martiri e lì notai subito l’antico palazzo Partanna, privo della sua facciata vanvitelliana, ridotta in macerie e, alle nostre spalle, in via Cappella Vecchia, altri antichi ed importanti palazzi squassati dalle bombe e, più avanti, sino a San Pasquale a Chiaia, tanti altri ancora. Questa visione mi colpì molto ed il perché lo racconterò appresso!
In mezzo a tanti edifici feriti e mutilati, scorsi, appena sbucato sulla via Fiorelli, angolo di via Poerio, che il palazzo dove abitavano i miei, era ancora in piedi, intatto! E mia madre? Sì
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mia madre m’aveva visto da lassù, dal terrazzo, ma non corse subito a buttare la pasta (acquistata al mercato nero), ma restò a salutare, insieme alle quattro sorelline. Poi salimmo su e ci abbracciammo a lungo, non riuscendo a parlare per la commozione. Infine, pian piano, incominciammo a raccontarci vicendevolmente le nostre trascorse vicissitudini; proseguendo i reciproci racconti nei giorni seguenti. La cosa più importante fu che ero, finalmente, tornato a casa! (TORNA, STA’ CASA ASPETTA A TE …).