Fattoria dell'albero del pero

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Bruna Roccoli

FATTORIA DELL’ALBERO DEL PERO



Bruna Roccoli

FATTORIA DELL’ALBERO DEL PERO


Dedicato a mio padre, Giulio Roccoli , sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, uomo dai tanti silenzi... e a mia madre, Vitalina Cucchi , donna di cuore e di allegria.


Lentamente ma inesorabilmente la mamma si sta spegnendo. E’ bisognosa di cure e attenzioni, la malattia sta demolendo il suo fisico, ma non ha intaccato la memoria. Temo abbia capito la gravità della situazione, spesso sorridendo dice: < Io sento tutto e capisco tutto >. Vorrei essere in grado di proteggerla come fosse una figlia e non più la mamma. Quando le forze glielo consentono, parliamo… parliamo soprattutto del tempo andato e in particolare delle vicende che si svolsero, della vita piena di miseria che viveva da bambina e degli anni a venire. Le piace ricordare storie di vita che in parte già conosco… ma non importa, i ricordi la rendono serena. Con voce sempre più affaticata, mi sta raccontando un episodio della sua infanzia, sempre molto doloroso per lei: < Bruna, ti ho mai raccontato della mia mamma?... ora sono sicura, non sopportava la presenza di sua madre in famiglia. Aveva modi aspri con lei, spesso le dava degli spintoni; mia nonna era completamente cieca, io cercavo di aiutarla come potevo, la prendevo per mano e l’accompagnavo per farla sedere sulla sedia che stava nell’angolo vicino al camino, così non dava fastidio. Ci soffrivo tanto! La mia mamma era una persona molto nervosa, anche con me, se non facevo presto a portare la posta, mi picchiava con un ramo di ginestra sulle gambe >. Quando le affiorano questi tristi ricordi, gli occhi di mia madre si riempiono di lacrime, era sempre stata molto affezionata alla sua nonna non vedente. I suoi genitori erano i postini del paese, un paesino medievale chiamato “Montebello", costruito su uno sperone di roccia nell’entroterra riminese, ai piedi del quale si estendeva la campagna dove viveva la gente contadina. La mamma e i suoi fratelli, anche se bambini, dovevano contribuire al servizio di portalettere. Per distoglierla da quei tristi pensieri cerco di parlare d’altro:


< Mamma, raccontami quando è passata la guerra nel paese >. Allora rammenta i bombardamenti, la fame, le corse nei rifugi, poi ricorda scherzosamente come passavano il tempo lei e le amiche poco più che bambine durante il coprifuoco: < In quei momenti così pieni di paura, si cercava di stare tutti uniti. Le donne con il rosario in mano pregavano per una buona sorte. Nel rifugio assieme a noi, misera gente, c’era anche Molari il più ricco del paese. Si notava che aveva nascosto tutti i suoi averi nella tasca interna della giacca, perché da un lato era più gonfia. Io sussurravo alle mie amiche: < Dai... mettiamoci sedute vicino a Molari che, se viene colpito da una bomba, gli prendiamo tutti i soldi . Un'altra cosa che facevo assieme alle mie amiche, era nasconderci nelle stalle, per guardare i soldati di colore fare pipì >. < Mamma! > esclamo: < Eravate proprio terribili tu e le tue amiche>. Ride divertita, poi continua nei suoi ricordi: < Quando arrivava la posta, la mia mamma la divideva, e appena notava che una lettera era stata spedita da qualche soldato in guerra, guardava l’indirizzo e chiamandomi diceva: < Lina corri... corri, fa’ presto, oggi devi portare questa lettera a Monte di Sopra, ha scritto il figlio dell’Adele dal fronte, è da tanto tempo che aspetta sue notizie, lo piangeva morto! > < Io correvo più veloce che potevo giù per il monte, poi prendevo la strada che costeggiava i campi e infine sempre di corsa, percorrevo il sentiero che si apriva sulla cresta dei calanchi. Arrivavo a casa dell’Adele con un fiatone terribile, consegnavo la posta, poi rifacevo la strada al contrario sempre correndo... se non facevo presto, c’era il ramo di ginestra che mi aspettava. Chiedo alla mamma: < Il babbo non lo conoscevi? Anche se tu vivevi in paese e lui in campagna, la zona era piccola, non vi conoscevate tutti? >. < Non lo ricordavo, quando lui è partito militare io avevo undici


anni, ero una bambina, poi è scoppiata la guerra ed è tornato dopo tanti anni >.

Oggi la mamma non sta bene, sorridendo, per non farmi preoccupare, mi dice che il respiro è un po’ corto. C’è Ester che presta il suo aiuto nell’assistenza, ma per sentirmi più tranquilla vado spesso a controllare, abito nella casa accanto. Entrando in casa della mamma, cerco di non far rumore, temo di svegliarla. Ultimamente resta molto tempo ad occhi chiusi, è sempre difficile capire se dorme oppure no. Mi siedo, accenna un sorriso perciò capisco che è sveglia, resto in silenzio; quando vorrà, sarà lei a parlarmi, sa che le sono accanto. La guardo, povera mamma quanta sofferenza! In questo momento ha un’ espressione particolare sul volto, gli occhi sono sempre chiusi ma il viso è rilassato, sereno, le labbra stanno sussurrando... non riesco a capire che cosa. La chiamo sotto voce: < Mamma… mamma > . Lei mi risponde senza aprire gli occhi: < Oh!… Bruna, c’è il babbo con noi >. < Sì... mamma, ma… non riesco a vederlo...>. < E’ seduto in fondo alla scala... lì... ai piedi del letto >. Le chiedo sempre sottovoce: < Gli dai un bacio per me?> Mi fa un cenno di consenso.


E’ estasiata dalla visione, vorrei che l’incantesimo continuasse a lungo ma, ad un tratto è percorsa da un brivido, apre gli occhi, si guarda attorno come se cercasse qualcosa, o qualcuno: vede me, mi sorride poi chiude nuovamente gli occhi. Passano i giorni, oggi la mamma è nuovamente triste, appena mi vede, dice: < Lo sai che la mia mamma trattava male mia nonna Teresona, io ci soffrivo tanto! > < Mamma, > le dico: < dai, non ci pensare più. Parlami del babbo, di quando è tornato dalla guerra >. So che in questo modo i suoi ricordi vanno altrove: < Adesso ti racconto. La guerra era finita da mesi, eravamo nel 1946, i soldati cominciavano a ritornare a casa, per alcuni di loro la vita era finita al fronte, non li avremmo più rivisti. Erano in pochi a dover fare ritorno, fra questi mancava ancora Giulio, il figlio della povera Adele. L’Adele era morta circa un anno prima di un brutto male; raccontavano i vicini che ha invocato il nome del figlio fino all’ultimo respiro, povera donna quanta sofferenza. Loro vivevano in campagna, a Monte di Sopra, in una di quelle quattro case diroccate, costruite chissà quanti secoli fa in fondo al sentiero che passava sulla cresta dei calanchi. Non avevano luce elettrica e per l’acqua decideva il cielo se riempire le pozze. Nei mesi invernali, per uscire da Monte di Sopra e raggiungere la strada maestra, si dovevano usare i buoi e al giogo al posto del carro si attaccava la “vegla”, una slitta che scivolava sul fango. I giovani invece per spostarsi più velocemente in quella fanghiglia si erano costruiti dei trampoli come i clown. La primavera aveva cacciato l’inverno. Era maggio, le giornate


avevano più luce, i raggi del sole davano tepore all’aria. Benilde, quel pomeriggio a tarda ora, andò a prendere un secchio d’acqua alla piccola pozza che stava sotto la siepe dei melograni; quando gli uomini tornavano dalla campagna, in casa serviva acqua fresca. Mentre aspettava che il secchio si riempisse, alzò lo sguardo e vide un giovane uomo che stava camminando a passo svelto lungo il sentiero che bordeggiava i calanchi, e si chiese chi fosse quel giovane con una valigia in mano che stava dirigendosi verso Monte di Sopra. < Sì!! > Pensò: Non può essere che lui… < Giulio! Giulio! > Si mise a urlare: < E’ ritornato Giulio! > Fu subito un chiamarsi di casa in casa, chi stava lavorando nei campi corse a quelle grida lasciando a terra zappe, vanghe, falci, corse verso la siepe di melagrani per abbracciarlo. Tutti volevano sapere, fare domande, raccontare, era stato assente tanti anni! La guerra l’aveva portato lontano, tante cose erano accadute e altre cambiate. Giulio sapeva che le sorelle si erano sposate e la mamma non c’era più. Chiese del fratello, il padre gli disse che era nei campi. Lo vide arrivare, gli andò incontro, quando furono vicini, il fratello lo scrutò un istante poi gli chiese: < Chi sei? > < Sono Giulio > rispose. Dario si ricordava di un fratello poco più grande di lui che gli costruiva gabbie per i grilli; ora aveva di fronte un giovane uomo, che non conosceva. Fra le persone che si erano riunite sotto la siepe di melograni, mancava il nonno Bagoz, ormai molto anziano, gli era diventato faticoso camminare, ma attendeva con impazienza di vedere il


nipote varcare la soglia di casa. Il sole stava calando, il padre, rivolgendosi al figlio ritornato, gli chiese: < Facciamo la piada per cena? > Il figlio rispose: < Se si può >. Quei tre uomini s’incamminarono verso casa, c’era da impastare la piada, cuocerla, nessuna vicina osò proporsi per aiutarli, la grande famiglia di un tempo non esisteva più, ma quattro uomini si erano ritrovati dopo sette anni, e quella sera andavano lasciati soli .

Giulio era partito militare nell’aprile del 1939 non aveva ancora compiuto diciannove anni. Tutti ricordavano un ragazzino allegro con una bella voce, che amava cantare. Nei giorni di mietitura i giovani si univano in gruppo e con le loro falci luccicanti sotto il sole cominciavano a mietere, poi qualcuno ad alta voce diceva: < Giulio! Intona una canzone >. Il canto di quei giovani, come un fiume in piena inondava la campagna, mutando giorni di duro lavoro in giornate di pura allegria. Ritornò a casa nel maggio del 1946, aveva compiuto da pochi giorni ventisei anni, e durante tutta la sua vita nessuno lo udì mai più cantare.


Dico alla mamma di riposare, ma non si sente stanca: <Ti racconto quando ho incontrato il babbo per la prima volta, poi mi riposo. Era il tempo delle ciliegie, quel giorno dovevo portare la posta a Monte di Sopra, quando sono arrivata sull’aia ho visto un giovane venirmi incontro, non lo conoscevo ma avevo capito chi era. Quel giovane mi chiese: > < chi sei, la postina? > < Sì, sono la figlia di Fafin il portalettere > risposi < Immagino che tu sia Giulio, tutto il paese aspettava il tuo ritorno>. Mi sorrise. Conversare con lui era bello, gli dissi che ero fidanzata ma piuttosto che sposare quel giovane, sarei andata a vivere da mio fratello a Genova. Lui mi raccontò che quando era partito aveva una fidanzata, ma durante i sette anni di attesa aveva sposato un altro. Ci siamo messi a ridere. Mi ha chiesto se volevo un po’ di ciliegie, sarebbe andato nella selva a raccoglierle. L’ho seguito e mentre saliva sull’albero guardavo quel giovane dai modi gentili. Ho messo le ciliegie nel grembiule che avevo annodato in vita, il grembiule si è sciolto e sono cadute tutte in terra, mentre cercavamo di recuperarle abbiamo continuato a parlare. Ci siamo sposati pochi mesi dopo. Il giorno delle nozze abbiamo festeggiato con dei biscotti e un po’ di vermut, poi siamo partiti per il viaggio di nozze a Genova.


Viaggio di nozze a Genova

La guerra aveva molto segnato il babbo, e benchÊ non amasse parlarne diceva di aver patito quanto bastava nella vita. Questo mi addolorava molto. Bruna, hai presente la fotografia di quella famiglia inglese che il babbo teneva sempre nel borsellino? > < SÏ mamma, ricordo quella foto >. < Li rammentava spesso, diceva che loro l’avevano trattato bene. Aveva lavorato nella loro fattoria gli ultimi due anni di prigionia. Veramente si era portato anche un'altra fotografia >. Ricorda la mamma con un pizzico di gelosia.


< Era la foto della fidanzata inglese, si chiamava Scila, la teneva nella cornice dello specchio. Quando ci siamo sposati, gli ho detto: < Adesso è arrivato il momento di buttarla >. La mamma, orgogliosa della sua vittoria sulla fidanzata inglese continua nei suoi ricordi come se avesse timore di perderli: < Il tempo passava, si viveva tutti assieme, con il nonno Augusto, il bisnonno Bagoz e lo zio Dario; il piccolo podere, con quella terra arida, non produceva abbastanza da sfamare tutti. Il nonno, per cena dava due fette di salame con un pezzetto di piada; non era permesso dire che si aveva ancora fame, ma sai, si era giovani e la fame era tanta! >. Dico alla mamma di riposare, ma non mi ascolta, continua a parlare della sua vita passata con il babbo. < Sei arrivata tu, ero felice, anche il babbo fu contento, erano passati cinque anni dal suo ritorno dal fronte, i brutti ricordi avevano allentato la stretta. Di notte, mentre dormivi accendevamo la candela per guardarti…! Eravamo poveri ma si può essere ugualmente contenti. Bruna, ricordi quando siamo andati a vivere a Scanzano?> < Mamma, non riuscirei mai a dimenticare quel periodo >. < Il babbo > continua la mamma con affanno < aveva deciso di non vivere più in casa del nonno, così siamo andati ad abitare su quel piccolo podere >.

Ora è veramente stanca, le costa fatica parlare… il respiro è debole… si è addormentata.


Sono sola, seduta accanto a lei, la guardo mentre dorme, è cosi indifesa! Vorrei stringerla a me questa piccola grande mamma, che in ogni istante della sua vita ha donato amore senza chiedere nulla in cambio. Nel silenzio della stanza mi torna alla mente il periodo vissuto a Scanzano e in altri luoghi. Gli anni dell’infanzia sono indimenticabili. La vita era sempre dura, il babbo aveva trovato lavoro presso un signore che possedeva macchine agricole. Restava fuori casa anche settimane. Con il suo amico Armando lavoravano nei campi ventiquattro ore su ventiquattro, spostandosi fino al Ravennate; a turno dormivano spesso ai piedi dei pagliai, non sempre i contadini avevano un letto da offrirgli per riposare. Quando tornava, era sempre molto stanco, il suo volto ancora giovane ma già rugoso, raccontava la vita di stenti che aveva sempre condotto. Io e la mamma eravamo spesso sole, ma i vicini erano sempre molto cordiali. La Caterina insegnava alla mamma di cucire i pantaloni da uomo; Rosina aveva tre figli e un marito un po’ nervoso, si diceva perché aveva assistito alla morte del fratello mentre combattevano sul fronte russo, poi c’era Ada, sempre allegra, metteva tutti di buon umore. Nel piccolo podere, dove eravamo andati a vivere, abitavamo in una casa con due stanze, una ampia, dove c’era la cucina con un grande camino, l’altra più piccola, era la stanza da letto. Il mio letto era posto sotto la finestra, ricordo ancora le persiane, erano talmente malandate che di notte anche se chiuse si vedevano le stelle. Un altro ricordo della mia infanzia che non mi ha mai abbandonato, sono le ombre sui muri. Quando scendeva la sera, la mamma accendeva una candela per


illuminare la stanza, in quel momento apparivano loro... le ombre. Erano grandi, grigie, con braccia lunghissime, mi seguivano ovunque andassi. Per rincuorarmi la mamma mi spiegava che quelle figure sui muri non era altro che le nostre immagini. Controllavo le mie braccia, ma erano molto più corte di quelle delle ombre, no! no! Erano fantasmi, ne ero certa; per sentirmi più sicura mi aggrappavo a un lembo di gonna della mamma e per tutta la sera non la mollavo più. Poi finalmente arrivava l’inverno e anche per il babbo c’era un po’ di riposo, erano mesi molto freddi, con tanta neve. Nelle interminabili serate invernali, si andava spesso a veglia nella stalla di Caterina e Vergilio il marito. Avevano una stalla spaziosa, con due belle mucche che mandavano calore, si stava bene. Durante le serate di veglia si beveva del vin brulè. Nell’aria si sprigionava un delizioso profumo di cannella, arancia, chiodi di garofano, gli aromi delle spezie si mescolavano con gli odori aspri della stalla, quello era il profumo dell’inverno, odori forti che entravano nelle narici dando ebrezza, si rideva, si scherzava, cose semplici di povera gente. Nel corso della serata, gli adulti parlavano dei problemi che dava la campagna, c’erano ancora gli eventi della guerra da raccontare, come quella volta che un tedesco voleva portare via il somaro a Franzchin. Lui non aveva nessuna intenzione di darglielo, era suo, gli serviva per portare a casa la legna e l’acqua per la famiglia. Il tedesco gli puntò una pistola alla testa, mio nonno Fafin che era presente al fatto, si mise in mezzo ai due facendo mille gesti per far capire al tedesco che Franzchin era un povero demente, non valeva la pena ammazzarlo. In questo modo gli salvò la vita. Il babbo ascoltava in silenzio: quella guerra non la conosceva, lui aveva vissuto un'altra guerra, quella lontana da tutto e da tutti.


Vergilio gli chiese: < Giulio, parlaci dell’Inghilterra >. Il babbo, che non parlava mai della sua prigionia o di guerra, raccontò che una volta giunto là lo mandarono a lavorare nelle fattorie. Nella seconda fattoria, dove restò gli ultimi due anni di prigionia, i proprietari erano gentili, lo trattavano bene, gli avevano dato una stanza tutta per sé. La sera, quando andava a dormire, trovava sul comodino un bicchiere d'acqua fresca. Dopo qualche tempo chiese il motivo di quell’acqua, la signora le disse che era per la dentiera. Il babbo ridendo esclamò: < Pensavano che portassi la dentiera! >. Raccontava che in Inghilterra i contadini usavano forche molto grandi per la raccolta del fieno e per innalzare i pagliai, erano comode, peccato che in Italia non ci fossero. Quando le donne terminavano di rammendare e attaccare pezze si andava a dormire, fissando un altro appuntamento per un’altra serata di veglia. Quell’inverno, particolarmente freddo, ritrovarsi nella stalla di Caterina era diventata un’abitudine. Una sera ricordo che furono portati semi di zucca e di girasole che, consumati sorseggiando il vin brulè, avevano fatto diventare la serata piacevole; a noi bambini ne era concesso solo un sorso. Poi per rallegrare la compagnia, qualcuno raccontò di quando Manghin aveva visto il diavolo. A quei tempi con qualche folletto era normale averci a che fare, soprattutto per colpa del buon sangiovese, ma incontrare il diavolo era una cosa davvero seria... Il povero Manghin si era alzato di buona ora per accudire alle bestie, mentre usciva dal pollaio vide spuntare da dietro la collinetta un’enorme figura nera, con due corna gigantesche. < Oh! Povero me, il diavolo! > Esclamò terrorizzato.


Scappò in casa come una saetta, chiuse la porta a chiave e si mise a letto con gli occhi sbarrati nel vuoto. La moglie corse subito da lui preoccupata e gli chiese cosa fosse accaduto per essersi tanto spaventato. Con la parola balbettante, a causa della lingua a ventosa per mancanza di saliva dallo spavento, tentò di dire: < L’ho visto…! L’ho visto…! Era tutto nero, aveva sulla testa due corna lunghe come forche >. < Chi hai visto! > Strillò la moglie. < Ti dico che ho visto il diavolo! Veniva verso di me chiamandomi, Manghin… Manghin... Oh! Povero me, sicuramente voleva portarmi con sé, oppure prendersi la mia anima > disse alla moglie disperato. La moglie preoccupata raccontò ai vicini quello che era accaduto al marito. Tutti ascoltavano stupiti, e la signora Mariana a un certo punto esclamò: < Il diavolo ero io! Mi ha scambiata per il diavolo! > E si mise a raccontare. Ieri, verso sera, si è rotto l’estirpatore, dovevo ripararlo in fretta, c’è da finire con urgenza il lavoro nel campo, così mi sono alzata che faceva ancora buio, ho caricato l’estirpatore sulle spalle e sono corsa giù nell’Uso dal fabbro. L’ho svegliato per farmelo aggiustare, è stato premuroso, si è messo subito al lavoro. Quando sono ritornata albeggiava. Arrivata sulla collinetta, ho visto Manghin che usciva dal pollaio, l’ho chiamato per salutarlo, volevo raccontargli che ero stata dal fabbro ma lui è corso in casa e non si è fatto più vedere >. I vicini risero divertiti, non era chiaro se ridevano per il povero Manghin che credeva di aver visto il diavolo, oppure… tutti ebbero un unico pensiero: nel vedere nella penombra quel colosso della


Mariana tutta vestita di nero con l’estirpatore sulle spalle, dotata com’era, di scarsa bellezza… certamente anche il diavolo sarebbe scappato. Prima della fine dell’inverno si passarono altre serate nella stalla, con altri racconti di guerra, di fantasmi e problemi che dava la campagna.

Con l’arrivo della primavera tutto si risvegliava. Il babbo ritornava a lavorare con il suo amico Armando dai contadini. Io e la mamma periodicamente restavamo sole, c’era il piccolo podere da mandare avanti, avevamo due pecore e sei galline da accudire. La mamma era sempre più brava nel mestiere di sarta, cominciava ad avere i suoi primi clienti. Un giorno, preoccupata, corse dalla sua amica Ada per raccontarle il problema che aveva con una gallina. < Ada, > disse la mamma < hai presente la mia gallina, quella bella, grassa, con le piume bianche che faceva sempre le uova con due tuorli? > < Sì, > rispose la Ada < Sta male. Sarà colpa delle uova troppo grandi che deponeva, ma adesso ha problemi con l’intestino > le disse agitata. < Bisogna subito venderla a Migani > propose Ada. < Come faccio? > chiese la mamma < appena sta in piedi, perde le budella! > < Non ti preoccupare, ci penso io > la rassicurò Ada. Il giorno dopo, misero la gallina in un cesto e s’incamminarono per


Masrola, un piccolo paese dove viveva il signor Migani che di mestiere faceva il commerciante, commerciava di tutto, galline comprese. Prima di arrivare a Masrola, dovevano attraversare un torrente, e mentre lo oltrepassavano la mamma disse: < Ada, cosa ne pensi se guardo dentro al cesto per controllare come sta la gallina? > Alzò la gallina e vide che una parte dell’intestino era fuori, disperata esclamò: < Torniamo a casa! Non riusciremo mai a venderla, quei soldi mi farebbero comodo ma è impossibile farla passare per una gallina in buona salute.> Allora la Ada, vedendo la mamma dubbiosa prese una decisione. Raccolse un sassolino dal torrente, poi lo mise assieme all’intestino all’interno della gallina, con la speranza che facesse da tappo. Arrivate nel negozio di Migani, dissero che avevano una gallina da vendere. Migani guardò la gallina, la alzò dal cesto… Ada intanto dava dei pizzicotti nel braccio della mamma, poi Migani esclamò: < Che bella gallina mi avete portato deliziose signore! Che splendida cresta rossa, oh! Com’è grassa, la compro, la compro > . Nel passare degli anni la mamma e Ada quando s’incontravano ridevano sempre per com’erano riuscite a vendere la gallina a Migani.


Nel periodo vissuto a Scanzano, ricordo di essere stata una bambina sempre piena di paure, oltre alle ombre sui muri, mi spaventava anche il vento. Spesso soffiava impetuoso, s’infilava con forza dentro i camini, nelle gole dei calanchi e sfogava la sua rabbia ululando come un lupo affamato. La nonna della mia amica Loredana, era molto anziana e quando sentiva ululare il vento pregava e fra una preghiera e l’altra diceva a noi bambine: < Ascoltate…. Ascoltate il lamento del vento, questi sono i nostri morti che ci chiamano >. Allora io tornavo a casa dalla mamma talmente di corsa che i talloni mi toccavano il fondoschiena. Mi sentivo serena solo quando il babbo era a casa con noi; la mamma mi aveva detto che era stato in guerra a combattere, perciò doveva essere molto coraggioso, certamente non aveva paura di nulla, neppure del vento e delle ombre sui muri.

Un giorno il babbo, mentre prelevava dei soldi dal portamonete, notò che tentavo di sbirciare la foto della famiglia inglese, allora me ne parlò: < Sai > mi disse: < Da loro, per la prima volta ho mangiato cioccolato, non l’avevo mai assaggiata in vita mia. Quando andavano al mercato con la loro merce da vendere a volte mi chiedevano di accompagnarli. Avevano un calesse che veniva trainato da uno dei loro cavalli, io mi sedevo


dietro in mezzo alle patate, cipolle, uova, ero contento quando m’invitavano, erano brave persone >. Ascoltavo sempre con molto interesse quando il babbo mi parlava della guerra o della sua prigionia, ma ciò accadeva raramente. In quel periodo il babbo e la mamma, riuscirono ad acquistare un fornello a gas con tre fuochi, così non furono più costretti ad accendere il fuoco anche d’estate per cucinare. Furono acquistate anche tre trecce di crine vegetale per rinforzare i materassi che diventarono più alti e morbidi. La mia amica Bigia per materasso aveva un sacco pieno di foglie di granoturco, il mattino mi chiamava per aiutarla ad alzare le foglie. Dai buchi laterali, scappavano sempre dei topolini, noi strillavamo e ridevamo contemporaneamente; non avevamo paura di quelle povere bestioline, anche loro cercavano un posto caldo, dove passare la notte e un riparo dai gatti.

Arrivò anche per me il tempo di andare a scuola. Per evitarmi nei mesi invernali il percorso nei sentieri fangosi, il babbo e la mamma decisero di andare a vivere in paese, a Montebello. Anche in paese furono anni belli, fatti di vita semplice ma serena. Il babbo continuava a lavorare in campagna, mentre la mamma era diventata una brava sarta. Presero in affitto una vecchia casa di contadini, dove il babbo installò un piccolo allevamento di conigli. Un anno fu talmente abbondante la vendita, che con il guadagno si riuscì a comprare un’automobile, la TOPOLINO. Un giorno mi fu detto che c’era una sorpresa per me, la cicogna mi


avrebbe portato una sorellina. La notizia non mi rese per nulla contenta, c’era già stata la bambina inglese, con il suo grande nastro fra i capelli, che si era tenuta per due anni il mio babbo a casa sua, ora avrei dovuto dividere i miei genitori con una sorella; la cosa non mi entusiasmava. Poi arrivò. Tutti mi dicevano: < Guarda che bella sorellina ti ha portato la cicogna >. Io pensavo che la cicogna non ci vedesse bene, oppure fosse l’ultima sorella che le era rimasta. Come potevano dire che era bella, se era tutta rugosa e aveva la pelle rossa e blu. Da grande ho capito che la cicogna non ha colpe e le sorelle per venire al mondo possono passare dei brutti momenti e diventare rosse con qualche macchia blu. In paese la vita scorreva tranquilla, io andavo a scuola e mia sorella aveva preso un bel colorito. Nei mesi freddi per il babbo il lavoro diminuiva, aveva più tempo da dedicare alla lettura, amava molto leggere. Se chiudo gli occhi, mi sembra ancora di udire la sua voce, le parole che usava nel riassumere a me e alla mamma la storia di ogni libro letto. Libri che gli passava Marta, ne possedeva tanti! Lei era istruita, aveva vissuto in un collegio, a Roma. Al bisogno faceva anche le iniezioni ai paesani e se si stava poco bene prima di andare dal medico si consultava la Marta. Zoffoli era il proprietario dell’osteria del paese, e per stare al passo con i tempi, aveva acquistato un giradischi. La domenica sera, nei giorni di carnevale, nella stanza più grande del locale, si ballava. La sala si riempiva di gente, salivano anche dalla campagna, soprattutto nelle serate gelide quando la luna brillava in cielo


illuminando il cammino e la brina nella sua trappola di gelo, racchiudeva il fango e le pozzanghere permettendo un cammino migliore. Il babbo durante la serata mi invitava sempre a ballare un valzer; rammento ancora l’emozione che provavo, timorosa di sembrare troppo bassa ai suoi occhi, ballavo in punta di piedi. Quelle serate di musica e balli erano un inno alla vita che a piccoli passi stava migliorando per tutti.

Gli anni passavano, e in quel piccolo paese non c’era futuro per noi figli. Fu presa la decisione di andare a vivere a Rimini, era il 1963. Quanta nostalgia per i luoghi lasciati! L’arrivo di mio fratello portò altro amore in famiglia, questa volta da parte mia non ci furono forme di gelosia, ero grande, la bambina paurosa del vento e delle ombre non c’era più. Col passare del tempo mi resi conto di quanto il babbo fosse sempre triste e di poche parole. Era come avvolto in un mantello sotto il quale poteva celarsi con i suoi silenzi, i rimpianti, le sue paure. Una sera i suoi occhi erano velati da una grande tristezza, cercai di prendere coraggio, sapevo che non amava parlare di guerra, ma ugualmente gli chiesi: < Babbo, gli Inglesi come sono riusciti a catturarti? >. Non si aspettava una simile domanda da parte mia. Ricordo che accese una sigaretta, si mise seduto accavallando una gamba sull’altra e cominciò a raccontare: < Erano giorni che si combatteva, eravamo attaccati in tutte le


direzioni, era un inferno. Ero in una buca assieme ad un altro soldato, egli decise di spostarsi e cambiare postazione, cosi rimasi solo; il soldato della buca a fianco fece cenno di unirmi a lui, era solo, andai, feci appena in tempo a raggiungerlo che la buca dov’ero fu colpita, e se non mi fossi spostato, sarei morto. Dal punto in cui eravamo, riuscivamo a intravedere, nonostante le bombe e la sabbia che acciecava, una grotta. Come ti ho detto eravamo sfiniti, pieni di pidocchi, attaccati dagli Inglesi da tutti i lati, non avevamo più nulla da mangiare e da bere, e abbiamo pensato che se fossimo riusciti a raggiungerla forse ci saremmo salvati. Con l’aiuto del cielo ci riuscimmo. Era piena di soldati sfiniti come noi, anche loro avevano avuto la nostra stesa idea. Restammo in quella grotta per ore, poi fuori fu silenzio, non si sentivano più i bombardamenti. Dei soldati dissero: < Noi usciamo, a restare qui si muore di fame e di sete, moriremo sapendo quello che sta avvenendo fuori >. Ci accordammo che, se fosse stato possibile, uno di loro sarebbe ritornato per informarci su quello che stava accadendo all’esterno. L’attesa fu vana, nessuno ritornò. Altri decisero di uscire, tanto lì nella grotta si moriva ugualmente, ma neppure loro ritornarono per farci sapere. Anch’io assieme ad altri presi coraggio e uscimmo, e finalmente capii perché non si tornava indietro. Fuori dalla grotta c’erano i soldati inglesi con i fucili puntati, che, come apparivamo, ci facevano mettere in fila uno a destra e uno a sinistra. Fu cosi che diventai un prigioniero. Poi ci portarono in un recinto dove restammo tre giorni. Ci diedero da mangiare solo un poco di riso, per derisione nell’acqua di cottura fu messo molto sale inglese, a tutti arrivò una grossa indisposizione intestinale. Il nemico era molto divertito del suo gesto, ricordo ancora le loro risate.


Poi fummo trasferiti in Sud Africa, quando ci imbarcarono, dissero che il mare era minato, forse non saremmo mai arrivati a destinazione, ma fortunatamente non fu cosi >. Mentre raccontava, stavo immobile temendo di distrarlo, era la prima volta, dopo tanti anni che mi parlava della sua guerra. Stupendomi, continuò nei suoi ricordi: < Quando sono arrivato in Africa, nei mesi precedenti allo scoppio della guerra, durante l’addestramento, mi fu insegnato a guidare il camion. A fine corso ci fu un esame. Con dei barili del gasolio vuoti formarono un percorso, chi riusciva a non rovesciare i barili era promosso. Il percorso non era facile ma sono riuscito a superare l’esame >. Non aggiunse altro. Sempre molto rigido nei suoi principi, noi figli non ci permettemmo mai di fargli ripetere un sì o un no, due volte. Ha amato la sua famiglia più della sua vita. La mamma spesso ripeteva, se mi mancasse il babbo non riuscirei neppure ad attraversare la strada. Passò gli ultimi anni di lavoro presso un’azienda agricola, dove ne era anche il custode. Quando arrivò il momento della pensione, era riuscito ad acquistare una modesta casetta accanto alla mia, finalmente possedeva un nido dove passare il resto dei suoi anni e non dover ringraziare più nessuno per il tetto che gli copriva il capo. La mia più grande gioia era averlo accanto a me, ero certa, sarei riuscita a infilarmi sotto quel mantello. Quando il silenzio lo catturava e s’impossessava dei suoi pensieri e della sua vita, avrei tentato di aiutarlo. In silenzio, avrei ascoltato i suoi silenzi… anche il silenzio ha voce. Un giorno accusò dei dolori, in un primo momento non si diede importanza alla cosa, poi, in base agli esami, subì un intervento.


Nei sette mesi che gli rimasero di vita, spesso diceva: < Ho i cani dentro di me che mi stanno mangiando, guai se sapessi che a voi figli tocca la mia stessa sorte >. Quando ancora sperava in una guarigione, mi disse: < Se mi riprendo voglio ritornare là >. Come sempre fu di poche parole ma non fu necessario aggiungere altro, sapevo in cuor mio quello che lui aveva sempre desiderato, rivedere l’Inghilterra e la famiglia inglese che lo aveva trattato bene. Da trentasei anni portava la loro foto nel borsellino. I cani finirono di divorarlo il 23 novembre 1982, aveva sessantadue anni. Il dolore per la sua morte potrei descriverlo in mille modi, vagare per il mondo cercando un peso o una misura per quantificarlo non serve, non esiste un peso o una misura per il dolore.

La mamma sta ancora dormendo, guardo l’orologio, si è fatto molto tardi… col ricordare. I ricordi vivono nella nostra mente come imprigionati all’interno di una ragnatela, ogni piccolo filo è un sentiero di vita percorso. Incamminandoci per i tanti sentieri, i ricordi affiorano e non vogliono più lasciarci per paura di dover ritornare prigionieri. Un altro giorno è sorto, la mamma preferisce restare a occhi chiusi, non lamenta dolore ma ha molta difficoltà nel respirare. Vorrei che continuasse a ricordare aneddoti della sua vita o inventasse qualche burla come ama fare per farmi ridere, ma devo rassegnarmi, non ha più forze.


Insisto nel dirle: < Mamma, il 2008 sta finendo... fra pochi giorni è Natale, saremo tutti a pranzo qui assieme a te, ti fa piacere? > A stento risponde: < Sì, mi fa piacere… pensavo fosse Pasqua.. .sto facendo confusione>. Poi richiude gli occhi. E’ sera, chiedo a mio fratello se domani per la colazione può aiutare Ester, io sono impegnata con il lavoro. Do alla mamma il bacio dalla buona notte, lei accenna un sorriso.

Questa mattina non riesco a salutare la mamma, è tardi, devo scappare, appena torno vado da lei. Chiedo a Riccardo come ha trascorso la mattinata mia madre, mi dice che l’ha lasciata alle undici, il respiro non era buono ma nell’insieme abbastanza bene. Vado a salutarla, nell’uscire vedo Ester sul terrazzo che stende dei panni, la saluto ed entro in casa. La mamma respira con affanno, la chiamo, non mi risponde, tento con più forza … nulla. Corro da Riccardo, gli dico che mia madre si è aggravata, chiamo tutti come impazzita. In poco tempo, figli e nipoti sono accanto a lei uniti in un unico abbraccio. Il babbo le ha teso la mano aiutandola ad attraversare la strada della vita per condurla nel grande viale della vita eterna.


SECONDA PARTE

Un nuovo anno è arrivato. Io e mia sorella decidiamo di mettere ordine fra le cose della mamma, compito molto doloroso. La casa è immersa in un profondo silenzio, nell’aria aleggia ancora il profumo delle creme e medicinali usati durante la sua lunga malattia; fingiamo di essere serene ma in fondo al cuore vorremmo abbracciarci e piangere. Tante cose dobbiamo buttare ma sono molto più quelle che vorremmo conservare, ogni oggetto che sfioriamo ci ricorda i giovani anni della nostra vita, come riuscire a buttare una parte di essa? Mi sposto di stanza in stanza, vorrei ancora ascoltare le voci a me care… in questa casa non vivono più voci ma solo ricordi. Entro in camera, guardo i mobili, no, non mi sarei mai permessa di aprire un’anta dell’armadio o un cassetto senza il consenso della mamma. Con timore, come commettessi un’azione non bella, apro il primo cassetto del comò, rivedo le sue cose, sposto degli oggetti, e in un angolo con meraviglia noto la cassettina di legno marrone dove il babbo metteva i suoi risparmi. Chiamo mia sorella: < Bianca, vieni... >. Sento che sta salendo la scala velocemente, poi, emozionata esclama: < La cassettina marrone! >.


L’apriamo, all’interno la mamma aveva riposto piccoli oggetti appartenuti al babbo: l’orologio da taschino, l’accendino, la patente; sul fondo notiamo la fotografia della famiglia Inglese. La prendo in mano, mi emoziona rivederla dopo tanti anni... è sempre stata considerata una cosa personale del babbo, faccio notare a mia sorella che sul retro aveva scritto i loro nomi. Leggiamo con attenzione:

Retro della foto


Famiglia Brandon

Per anni abbiamo visto questa fotografia fare capolino dal borsellino del babbo e non avevamo mai prestato molta attenzione allo scritto che c’era dietro. Osservo attentamente i loro volti, esprimono molta serenità. La mia attenzione va in particolare alla bambina, ricordavo vagamente il nastro bianco fra i capelli, il viso simpatico e paffutello, ora so, si chiama Margaret. Margaret… Margaret...questo nome entra con forza nella mia mente e qualcosa dentro di me mi sta suggerendo... perché non cercarla?…


Nella foto può avere un’età compresa fra i sette/otto anni, era il 1946, ora siamo nel 2009, matematicamente pensando, dovrebbe essere una signora sui settanta anni. I genitori se fossero in vita sarebbero centenari, chissà? Quelle tre persone anche se in fotografia hanno sempre fatto parte della nostra famiglia. Se riuscissi a incontrare Margaret, quante cose vorrei chiederle….! “Ricorda ancora quel giovane prigioniero italiano che sapeva costruire bellissimi tricicli e caratelle di legno?" Forse ne aveva costruito uno anche a lei, "Le parlava mai della sua famiglia o del suo paese lontano?" Riemergono alla memoria le parole del babbo, quando pochi mesi prima di morire mi disse: < Se mi riprendo, voglio ritornare là >. Quelle parole riecheggiano nella mente come se un eco le ripetesse all’infinito. Guardo mia sorella e con una certezza assoluta, le dico: < Cercherò questa famiglia. Il babbo desiderava tornare da loro, rivedere quei luoghi, la vita non glielo ha concesso, io li cercherò e quando li avrò trovati, andremo in Inghilterra. I nostri occhi saranno i suoi >. Mia sorella mi guarda stupita. < Bruna > mi chiede: < Come fai a trovare questa famiglia? Il babbo ha sempre evitato di parlare di quel periodo, non sappiamo nulla di loro, non abbiamo un minimo indizio di dove vivessero in Inghilterra >. < Lo so > rispondo < ma esisterà pure un ufficio militare dove sono archiviati tutti i documenti riguardanti i soldati che partivano per la guerra, vedrai, basterà fare qualche telefonata >.


Decido un punto di partenza per ritrovare la famiglia Brandon. Non escludendo nulla, penso che la cosa migliore da fare sia chiedere a parenti e amici del babbo, a loro forse ha parlato della sua prigionia in Inghilterra. Tentativo andato a vuoto, solo un cugino ricorda che un giorno mentre raccoglievano le pesche nell’azienda agricola sotto un sole cocente il babbo disse: < Gli Inglesi raramente vedono il sole, il cielo è sempre grigio, non passa giorno che non piova >. Non ricorda altro, pazienza. Ho un’idea, andrò a San Giovanni in Galilea dove vive l’amico del babbo, Armando. Per tanti anni hanno lavorato assieme, forse a lui qualcosa ha raccontato. La prima domenica libera che ho mi metto in macchina, raggiungo il piccolo paesino medioevale, chiedo ai paesani dove posso trovare Armando. Me lo indicano, è seduto fuori dal bar, mi avvicino, non mi riconosce, sono anni che non ci vediamo. Sento lo stomaco che si aggroviglia, la sua immagine mi ricorda il babbo, la vita di duro lavoro che conducevano assieme. Mi avvicino ancora un po’, mi guarda, gli chiedo se si ricorda di me, fa cenno di no con la tasta. < Sono la figlia di Giulio > gli dico sorridendo. < Bruna! > esclama. Mi abbraccia con affetto, poi inaspettatamente dice: < Quante volte... quante! Io e il tuo babbo aravamo nella zona di Montebello, quando arrivava il mio turno di riposo, i tuoi genitori mi offrivano sempre il tuo letto per riposare, quante volte ti ho rubato quel letto! >. Sorridiamo entrambi ricordando il passato, gli parlo della mia intenzione di ritrovare la famiglia dove il babbo visse durante la prigionia, chiedo se gli ha raccontato qualche aneddoto utile per la


mia ricerca. Armando dice che sicuramente gli avrà parlato al riguardo ma non ricorda, è passato troppo tempo. Prometto che se riuscirò nel mio intento ritornerò a San Giovanni In Galilea. Penso e ripenso a chi posso ancora chiedere ma credo di aver esaurito ogni fonte, nessuno sa.

Mi rivolgo al distretto Militare di Forlì, risponde una signora con un forte accento romagnolo, le chiedo per cortesia se può controllare negli archivi, se esistono documenti riguardanti mio padre, le spiego il motivo della mia ricerca, poi con molta sincerità le dico: < Signora, vorrei tanto ritrovare quella famiglia ma non so da che parte cominciare >. La signora molto gentilmente dice che mi spedirà il Foglio Matricolare, unico documento in suo possesso, poi aggiunge: < Mi creda, non c’è mai scritto da nessuna parte dove li hanno mandati, ma provi al Centro Documentale di Bologna >. Chiamo il Centro Documentale, ripeto il motivo per il quale li ho interpellati, chiedo se hanno documenti a me utili, mi viene detto di richiamare dopo qualche giorno, controlleranno. Passa qualche giorno, richiamo. Sì, hanno documenti riguardanti mio padre, mi saranno spediti; molto gentilmente il signore che sta dialogando con me, mi consiglia di rivolgermi anche al Ministero della Difesa. Non voglio perdere del tempo prezioso, chiamo immediatamente il


Ministero della Difesa, spiego quello che sto cercando, mi dicono che controlleranno negli archivi, poi mi faranno sapere. Dopo qualche giorno di attesa, arrivano per posta i Fogli Matricolari, leggo attentamente, i documenti sono molto interessanti, ma non c’è nessun riferimento particolare alla prigionia in Inghilterra. Il giorno successivo mi sono recapitati anche i documenti del Centro Documentale di Bologna. Apro la busta, all’interno c’è un piccolo foglio scarno con scritto in lingua Inglese che il 3/1/1941 mio padre è stato catturato a Bardia e internato a Geneifa.


Documento del Centro Documentale di Bologna


Rimango sbalordita, cerco di stamparmi nella mente il nome di questi due luoghi a me sconosciuti, non riesco ad associarli a mio padre non avendone egli mai parlato. Sto aspettando con frenesia una risposta dal Ministero della Difesa, forse dopo riesco a capire meglio. Spesso, durante i tanti giorni di attesa mi pongo una domanda, per quale motivo in Italia non esiste un archivio di guerra dove tutti vi possono accedere per delle informazioni? Ho richiamato il Ministero della Difesa chiedendo notizie sui documenti da me richiesti, sono convinta che siano sommersi di lavoro, per mesi è stato un susseguirsi di telefonate, di attese, di non c’è nessuno, oppure chiami più tardi perché l’addetto è impegnato. Oggi è un giovedì qualunque ma la risposta è diversa. Mi è stato detto: < Signora, martedì sono i Santi Pietro e Paolo patroni di Roma, richiami lunedì della settimana dopo >. Ho richiamato. Nei loro archivi era conservato un documento a mio parere importante, era riportato che il giorno “7/5/1941” mio padre sarebbe stato trasferito in Sud Africa. Molto gentilmente mi consigliano di rivolgermi all’Albo D’oro asserendo che probabilmente avrebbero avuto altri documenti. Solo ora, mi sono resa conto che dalla mia prima telefonata fatta al Ministero della Difesa a oggi sono trascorsi sei mesi. Gli impiegati dell’Albo D’oro, persone meravigliose, mi spediscono l’unico documento in loro possesso. In quel documento c’è scritto che mio padre dopo essere stato trasferito in Sud Africa, l’8/9/1942 è mandato in Gran Bretagna e internato nel campo di prigionia n°71.


Documento del Ministero della Difesa e Documento dell’albo d’oro

Ancora una volta mi rimane difficile capire ciò che leggo... mio padre in un campo di prigionia… ma quando mai! Non ha mai parlato di campi di prigionia o concentramento! Ha sempre raccontato a noi famigliari che era stato catturato in Libia e dopo la cattura di essere stato rinchiuso per tre giorni assieme ai suoi compagni di sventura in un recinto, per poi essere trasferiti in Sud Africa. Quando noi figli gli chiedevamo di parlarci dell’Africa, non faceva


mai riferimento a un luogo esatto, ma sorridendo raccontava: < In Africa ho imparato a guidare il camion, sapete, ci sono delle strade dritte, lunghissime >. Quando ne parlava, quelle strade erano nei suoi occhi, poi aggiungeva: < L’Africa è bella >. Più vado avanti in quello che sto cercando, più mi rendo conto di non sapere nulla dei sette anni di guerra vissuti da mio padre. Ho una grande confusione in testa… cerco ugualmente di fare il punto della situazione. Dai documenti in mio possesso ho capito che mio padre è stato catturato a Bardia, in Libia, poi mandato nel campo di concentramento n°306 a Geneifa in Egitto, per poi essere trasferito in Sud Africa. Dall’Africa Meridionale, dopo mesi di prigionia, è imbarcato per essere trasferito in Gran Bretagna, una volta giunto viene internato nel campo di prigionia N° 71. Solo in questo momento mi rendo conto di essere riuscita a trovare un aggancio con l’Inghilterra. Se riesco a trovare il luogo dove sorgeva il campo N°71 pensando ai mezzi di trasporto dell’epoca, la fattoria non doveva essere troppo distante. Non mi resta che chiamare l’Ambasciata inglese in Italia. Mi risponde una signora, le parlo delle mie ricerche, del desiderio che ho di ritrovare la famiglia Brandon. Mi suggerisce di rivolgermi all’Archivio Nazionale di Londra e alla Croce Rossa Internazionale. Non perdo tempo. Dopo pochi giorni di attesa L’Archivio Nazionale di Londra mi comunica che tutta la documentazione riguardante i prigionieri di guerra è stata consegnata al governo italiano. Mentre la Croce Rossa Internazionale mi darà notizie entro un anno.


Se il mio desiderio era di ritrovare la famiglia Brandon in breve tempo, mi devo ricredere. Sono molto delusa, non so a chi rivolgermi per avere un aiuto.

Apro il computer e digito “ campo di prigionia n°71 Inghilterra “. Mi appare un sito dedicato a Guglielmo Marconi, in cui una signora sta conducendo ricerche riguardanti il campo di prigionia Inglese n°61, nel quale era stato internato suo padre. In quel campo il padre progettò e poi costruì assieme ad altri prigionieri un immenso monumento dedicato a Marconi. Riesco ad avere il numero telefonico della signora, si chiama Laura Porciani. Le telefono. E’ una signora molto gentile, dialogare con lei è piacevole, mi sembra di parlare con l’amica di sempre, le spiego quello che sto cercando. Con molta comprensione dice: < Capisco benissimo quali sono i tuoi desideri, le emozioni che provi quando scopri qualcosa di nuovo, gli stati d’animo quando perdi fiducia in quello che ti sei ripromessa di fare. Sono quattro anni che faccio ricerche su mio padre, purtroppo neppure lui amava parlare della guerra che aveva combattuto, ma io continuo a cercare. Ti aiuterò... per quello che mi sarà possibile >. Ora sono più serena, spero nell’aiuto della signora Porciani. Continuo a cercare nel sito di Guglielmo Marconi, appare una lettera scritta da un signore, si firma Andrea Marchetti.


Andrea nella lettera parla del padre Italo, combattente nella seconda guerra mondiale; lo descrive come una persona lucidissima pur novantenne, con una memoria di ferro. Con chi desidera contattarlo è ben felice di ricordare quei tempi. Telefono immediatamente. Risponde Andrea, mi presento, spiego il motivo per il quale ho chiamato, gli parlo di mio padre, della guerra che ha preferito non raccontare. Confesso ad Andrea che ogni notizia riguardante quel periodo per me è una cosa nuova tutta da scoprire e capire. Andrea afferma che neppure suo padre amava rammentare la guerra, poi una sera in televisione vennero trasmessi i mondiali di calcio che si svolgevano in Sud Africa, il padre ascoltando il nome di determinate città Sudafricane cominciò a ricordare e raccontare. Ricordava che in quei luoghi sorgeva un campo di concentramento chiamato “Zonderwater" dove lui era stato rinchiuso. Andrea continua a parlarmi, riportando le parole del padre. Il campo era situato in un’area brulla nelle vicinanze di Pretoria, gli Inglesi v’internavano i soldati Italiani catturati sui fronti dell’Africa Settentrionale e Orientale. Ogni giorno, ricorda il padre Italo, a Zonderwater arrivavamo a centinaia, eravamo in condizioni pietose: laceri, sporchi, pieni di pidocchi, sfiniti dalla fame e dalla sete. Tanti non erano solo distrutti fisicamente ma anche psicologicamente, per le tante sofferenze subite sui campi di battaglia e durante il loro forzato peregrinare nei campi di prigionia Inglesi sparsi in molte parti dell’Africa. Ascolto Andrea in silenzio, senza intervenire. Provo un senso di vergogna rivelargli che non so di cosa sta parlando, non ho mai saputo dell’esistenza di un campo di concentramento chiamato Zonderwater in Sud Africa.


Dico solo che anche mio padre è stato prigioniero in Sud Africa ma non conosco il luogo esatto. Mi suggerisce di rivolgermi all’ingegner Emilio Coccia presidente dell’Associazione Zonderwater Block ex POW, affermando che se mio padre fosse stato richiuso in quel campo di concentramento l’ingegner Coccia mi avrebbe fatto avere la documentazione. Saluto Andrea Marchetti, con la promessa d’incontrarci una domenica assieme alle nostre famiglie.

Sono sempre più incredula, non riesco a capire come e quando mio padre abbia vissuto in quel luogo. Per togliermi ogni dubbio scrivo immediatamente all’ingegner Emilio Coccia. L’indomani chiamo Laura, le parlo della mia grande sorpresa nello scoprire l’esistenza di un campo di concentramento in Sud Africa chiamato Zonderwater dove probabilmente mio padre era stato rinchiuso. Laura sapeva dell’esistenza del campo, ma non ha mai approfondito il suo interesse avendo la certezza che suo padre non vi fu mai internato. Oltre un anno fa desideravo ritrovare una famiglia inglese, per ora non ho raggiunto il mio scopo e chissà se ci riuscirò. In quest’arco di tempo una cosa è accaduta che non ritenevo importante: conoscere e capire la seconda guerra mondiale. Per comprendere meglio quale immensa tragedia umana porta ogni guerra, ho cercato libri e testimonianze scritte da ex prigionieri. Ora posso raccontare la guerra, finalmente l’ho trovata e lei ha


trovato me. Ho dissotterrato quella combattuta da mio padre con le parole di coloro che hanno avuto la forza di narrare. Poveri ragazzi... quante sofferenze e umiliazioni subite, quanta fame e sete patiti. Sono stati mandati a combattere una guerra senza armi e indumenti adeguati, hanno combattuto con quello che di più grande possedevano: il loro coraggio e la loro giovinezza.

Oggi è arrivata la risposta dell’ingegner Coccia alla mia lettera. Questo è quanto:

Gentile signora Roccoli, ho trovato la cartella ospedaliera di suo padre Giulio, che le invierò volentieri se mi darà un indirizzo postale. Le anticipo comunque quanto risulta. Roccoli Giulio n. il 6/5/1920 a Montebello, da Augusto e Adele; celibe – ultima residenza Montebello (FO). Soldato di Artiglieria, fu preso prigioniero il 3/1/1941 in zona Bardia (confine Libico Egiziano) e, dopo qualche peregrinazione in campi Egiziani, imbarcato per Durban come POW 195556. Da qui fu internato nel campo di Zonderwater fino al 23/7/1942, quando fu nuovamente trasferito a Durban ed imbarcato sulla nave S.S.”Strathven” che salpò due giorni dopo alla volta dell’Inghilterra. Durante la sua permanenza in Sudafrica non fu mai ammesso in alcun ospedale, né fu assegnato a lavori esterni al campo. Non è molto, ma in quel primo anno a Zonderwater la vita dei prigionieri fu veramente dura e monotona: unici avvenimenti di


rilievo furono fughe dal campo o decessi. La ringrazio per aver inviato copie di documenti e fotografie, che andranno a far parte del nostro archivio museale. Le auguro buona fortuna nella ricerca della famiglia Brandon: per esperienza posso dire che saranno molto contenti di avere un contatto dopo tanti anni, da chi ancora conserva il ricordo positivo di quel lontano periodo. Con i più cordiali saluti Emilio Coccia

Quanta tristezza ho nel cuore, da questo momento ho la certezza che anche mio padre è stato internato nel campo di concentramento di Zonderwater. Mi chiedo quanto siano stati grandi i suoi patimenti per riuscire a tacere quella terribile guerra e l’aspra prigionia subita nei vari campi di concentramento. Ora comprendo quando riferendosi ai signori Brandon diceva: < Loro mi hanno trattato bene >. La famiglia Brandon l’aveva rispettato come essere umano.

Ho ricevuto una telefonata dalla signora Laura, mi comunica che ha due notizie importanti da darmi. La prima: ha rinvenuto, dove sorgeva il campo N°71. La seconda: esistevano due campi N° 71. < NO! Non è possibile > esclamo.


< Ora> precisa Laura < si tratta di capire in quale dei due campi è stato mandato tuo padre>. Mi spiega che oltre ad avere un numero, i campi avevano anche un nome e si chiamavano: “Sheriff Hales Camp” (Seriffhales), Sifnal, Shopshire “CAMPO DELLO SCERIFFO” e “Lower Hare Park” London Road, Newmarket Cambridgeshire “CAMPO DELLA LEPRE”. Sono nello sconforto più totale, come riuscirò a sapere in quale è stato confinato mio padre? Laura è ottimista, mi consiglia di scrivere agli uffici pubblici, nelle librerie e biblioteche delle contee dove sorgevano i due campi. Nei giorni e nei mesi che seguiranno, invio innumerevoli e-mail a ogni indirizzo utile che riesco ad avere spiegando il motivo delle mie ricerche. Spesso non ricevo alcuna risposta, tanti mi scrivono che non sanno, alcuni mi consigliano di rivolgermi all’Archivio Nazionale di Londra. Dall’Italia continuo a bussare a tante porte dell’Inghilterra, non perdo la speranza, anzi, in forma amichevole sto combattendo la mia guerra.

L’inverno è ritornato, le giornate sono fredde, si resta volentieri nel tepore delle pareti domestiche. Riccardo spesso mi sorprende mentre scruto per l’ennesima volta la fotografia della famiglia Brandon, sa che la guardo in ogni minimo particolare con la speranza di trovare qualche indizio a cui aggrapparmi, per capire in quale luogo è stata scattata.


Sorridendo, con leggera ironia dice: < Smetti di guardarla.. .la stai consumando, non troverai nulla su quella foto perché non c’è nulla che ti possa aiutare >. < Ti sbagli > rispondo < vedi l’automobile, si nota che è parcheggiata leggermente in discesa, io troverò quella discesa >. Mi guarda ancora una volta rassegnato dalla mia ostinazione, poi borbotta fra i suoi lunghi baffi: < Credo che tu sia l’unica persona al mondo che cerca una discesa in tutta l’Inghilterra>. < La troverò > insisto.

Ci siamo lasciati alle spalle l’anno vecchio e la vita continua a scorrere nel nuovo, il “ 2011”. Chiamo Laura per farle gli auguri, come sempre parliamo un po’, poi mi chiede: < Bruna come vanno le tue ricerche? >. < Un disastro > le rispondo. < Sto veramente cercando l’ago nel pagliaio, mi sono illusa di ritrovare quella famiglia ma non ci riuscirò mai, l’unica speranza è nella risposta, quando arriverà, della Croce Rossa Internazionale >. Laura, che di solito è ottimista, sospirando dice: < Certo non è facile > poi aggiunge: < Cercando sul computer cose per me, ho trovato due e-mail che potrebbero esserti utili, forse te le ho inviate? > < Non le ho ricevute > rispondo. < Guardo fra le mie mille cose dove le ho messe, poi te le invio >. Verso sera da Laura mi arrivano i due indirizzi mail che utilizzo


immediatamente per i destinatari, esponendo quello che sto cercando. Due giorni dopo arriva la risposta. Chi scrive è una signora di nome Kerry, la quale mi ringrazia per l’email che le ho spedito, dicendo che se gradisco identificare dove era prigioniero mio padre, devo prendere contatto con vari archivi ed uffici, di cui gentilmente mi scrive gli indirizzi. Aggiunge che la mia ricerca l’ha resa molto curiosa, così, pensando di fare una cosa gradita, ha controllato direttamente lei nei vari uffici. Kerry spiega che consultando rapidamente l’elenco provinciale di Cambridgeshire del 1937 non ha trovato il nome Brandon e neppure nell’elenco dei coltivatori a Newmarket vi era una famiglia dal nome Brandon. Ha pensato che la sua intuizione non era corretta, Mr W. H. Brandon non era nell’area di Newmarket, quindi ha consultato l’ufficio “indice di nascite in Inghilterra e nel Galles”. Dalle fonti contenute in questo ufficio risulta che W. H. Brandon vivesse a Staffordshire, spera che finalmente si sia acceso un fiammifero. Aggiunge dicendo che è stata aiutata anche dai colleghi e in particolar modo la collega Rebecca nel consultare un elenco del 1940, ha buone speranze che W. H. Brandon in quel periodo vivesse alla "PEAR TREE FARM". La fattoria sorgeva nelle campagne poco distante dalla città di Uttoxeter. Mr W. H. Brandon viveva nella fattoria con la famiglia composta dalla moglie e due figli, Margaret nata nel “1937” e John nato nel “1945”. Kerry crede che ci siano buone probabilità che la signora Margaret nata nel “1937” sia la stessa bambina della foto.


Mi consiglia di scrivere a queste persone, dandomi l’indirizzo postale delle loro abitazioni, se non avrò successo, mi suggerisce di rivolgermi ai giornali locali di Uttoxeter, aggiungendo vari nomi di quotidiani. Il mio stupore è senza confini, la fattoria, se quella giusta aveva un nome “ PEAR TREE FARM “ FATTORIA DELL’ALBERO DEL PERO. Quante cose non sapevo!

Mi chiedo a quale porta ho bussato… forse dietro quell’uscio viveva un angelo? Ho la sensazione di essere stata investita da una bottiglia di spumante appena stappata. Mi sento sommersa da tante bollicine gonfie di felicità e vorrei urlare al mondo… forse li ho trovati!!! Raduno tutte le mie forze e con immensa commozione scrivo alla signora Margaret.

Gentilissima signora Margaret Brandon, mi chiamo Roccoli Bruna, le scrivo per chiederle informazioni riguardanti la vita di mio padre Roccoli Giulio. Ha combattuto nella seconda guerra mondiale, nel 1941 fu catturato dagli inglesi e visse nel suo paese come prigioniero di guerra per cinque anni. Gli ultimi due anni li passò lavorando presso la fattoria della famiglia


Mr. W.H. Brandon. Per tutta la vita ha conservato la loro fotografia e ricordandoli con affetto amava ripetere: < Loro mi hanno trattato bene >. All’età di sessantadue anni si ammalò gravemente. Un giorno mi disse: < Se mi riprendo, voglio ritornare là >. Purtroppo non gli fu possibile, poco tempo dopo ci lasciò. Sono passati tanti anni, sento nel mio cuore il desiderio di realizzare il suo sogno. Quando in famiglia si parlava di quel periodo si faceva riferimento all’Inghilterra, ma mai ad un luogo esatto, dove lui visse. Sono circa due anni che faccio ricerche e che mi hanno condotta fino a lei. Non so se la fotografia che le invio le appartiene, ma se così fosse, la prego di comunicarmelo. Mi farebbe immensamente piacere visitare i luoghi dove mio padre avrebbe desiderato tornare. Le sono grata per la sua attenzione. Cordiali saluti Bruna Roccoli

In questo lungo cammino ho sempre cercato di non perdere la speranza e di portare avanti quello che mi ero ripromessa. Ho scritto a Margaret un mese fa, sto attendendo una risposta che non arriva. Mi sono posta mille domande e altrettanti perché, ma la


realtà resta, non ho ricevuto nessuna conferma. Sarebbe stato bello se ciò fosse accaduto. Domani invierò una lettera a John Brandon e come mi ha consigliato Kerri, se non avrò successo, mi rivolgerò ai quotidiani di Uttoxeter. Ripensandoci, non credo che aspetterò un altro insuccesso, perciò domani scriverò sia a John che ai quotidiani. Ho spedito delle raccomandate, passeranno giorni prima di sapere se arriverà una risposta. Ancora una volta attendo. Riflettendo, mi sono resa conto che in fondo la vita è fatta di tante attese.

Oggi Riccardo ha il computer che non funziona, dopo cena andrà da un amico per capire se sarà possibile risolvere il problema. Sto guardando un film poco interessante; mi sto annoiando, se Riccardo si trattiene ancora dall’amico non lo aspetterò in piedi, andrò a dormire. Sento la chiave girarsi nella toppa, meno male, sta rientrando. Noto che ha un foglio in mano, gli chiedo se fuori fa freddo, risponde di no. Ha il volto arrossato e i baffi dritti come gli aculei di un istrice; viviamo assieme da quarant’anni capisco quando qualcosa lo turba. Si avvicina al divano dove sono seduta, gli chiedo se il problema al PC è stato risolto, risponde di sì, come volesse scusarsi, mi spiega che dal computer dell’amico sono entrati nella nostra posta elettronica, allungandomi il foglio dice: < Questo è per te >.


Prendo il foglio, è scritto in Inglese, l’unica cosa che riesco a leggere è la firma in fondo "John Brandon". L’emozione mi avvolge: < Mi ha risposto!!! Ci sono riuscita! Mi ha risposto! >... < Riccardo... Mi ha risposto John Brandon! , non ci posso credere! >. Sorreggo il foglio con le mani tremanti, credo di non riuscire a leggere… dopo poche righe mi fermo e penso.. .no… devo condividere questa lettera con mio fratello e mia sorella. E’ tardi, telefono ugualmente a mia sorella, che mi risponde preoccupata: < Bruna cosa è successo! > < Nulla di grave stai tranquilla, scusa l’ora ma volevo dividere con te questa mia grande emozione, leggeremo assieme la lettera che mi ha spedito John Brandon >. < Ti ha risposto! > esclama < Sì, mi ha risposto >. Lei non mi ascolta più, chiama il marito: < Gabriele! Gabriele!... li ha trovati… le hanno scritto! >. E’ incredula, poi con tenerezza dice: < Bruna... li hai trovati… ti posso abbracciare>. Comincio a leggere, la lettera è stata riassunta sommariamente in italiano, mia sorella ascolta in silenzio, spesso mi devo fermare, la voce mi s’inceppa in gola. “ Ciao, ho ricevuto la tua lettera e la fotografia, sì sono i miei genitori, William e Frances Brandon e mia sorella Margaret. Io sono John William, nato nel 1945, otto anni dopo mia sorella. Mio padre è morto nel 1987, mia madre e mia sorella sono morte nel 1998.


Abbiamo vissuto a Pear Tree Farm fino al 1958 poi ci siamo trasferiti in un’azienda più piccola. Io personalmente non ricordo tuo padre, ero solo un bambino, neppure Geof (marito di Margaret) sa, ma siamo disposti ad aiutare in ogni modo possibile nella tua ricerca. Siamo stati contattati da un vicino di casa che viveva poco distante a Pear Tree Farm, ha letto l’articolo sul giornale locale circa la vostra ricerca. L’articolo sul giornale ha ovviamente causato interesse nella zona, forse qualcuno ricorderà qualcosa. Se ci sono domande specifiche, cercheremo di aiutarvi. Come avrete modo di apprezzare la zona è molto cambiata dal 1945. Noi non abbiamo le foto del tempo, ma ho una foto di mio padre e mia madre quando hanno celebrato le loro nozze d’oro e due foto della loro azienda. Se vi sono d’interesse sono lieto di mandarle. Infine posso solo assicurarvi che tuo padre è stato trattato bene e mia madre ha sempre fatto in che avesse buon cibo abbondante. Nessuno si è mai alzato dal tavolo di mia madre affamato. Erano buoni agricoltori che lavoravano sodo e trattavano tutti allo stesso modo. Saluti John Brandon.

Entrambe esultiamo per aver trovato la famiglia Brandon e la fattoria, ma una cosa ci rattrista immensamente, la bambina della foto, quella bella bimba dal nastro bianco fra i capelli che da sempre ha fatto parte della nostra famiglia, la nostra bambina, non è più fra noi.


Quanto avrei desiderato incontrarla! “ Oh… Margaret… solo tu potevi ricordare l’arrivo di mio padre nella tua famiglia e parlarmi di lui ". Controllo se mio fratello è ancora in piedi… sì… la luce è accesa, non è andato a dormire. Busso, sono sull’uscio con il foglio stretto a me, quando apre la porta gli dico: < Leggo assieme a te come ho fatto con nostra sorella questa lettera, voglio condividerla con entrambi >. Leggiamo assieme, terminata la lettura mio fratello mi abbraccia commosso. Ora sappiamo con certezza dove nostro padre ha vissuto gli ultimi due anni di prigionia in Inghilterra. Ho recuperato una piccola parte della sua vita che non ci apparteneva. E’ molto tardi ma l’euforia non mi abbandona, prendo dei fogli, voglio dare immediatamente una risposta a John. No, nulla è come vorrei, mi sento vuota, questa notte non riesco a scrivere. Le parole nella mia mente sono volate via. A volte nel descrivere i momenti importanti della vita , le parole si spaventano e scappano… ma io due sono riuscita a trattenerle e bastano per esternare quello che provo: < Sono felice >.

Una cosa importate devo ancora fare, mandare un' e-mail a Laura: < Cara Laura, sono circa le ventiquattro, grazie al tuo aiuto poco fa ho ricevuto la lettera che t’invio, passerò una notte insonne, tu puoi capire >. Un abbraccio Bruna


Hi I have received your letter and photograph, and yes they are my parents, William and Frances Brandon and the little girl was my sister Margaret. I am John William and was born in 1945, eight years after my sister. My father died in 1987 and mother and sister died in 1998. We all lived at Pear Tree Farm until 1958 when we moved to a small holding on the outskirts of Stoke onTrent. I personally cannot remember your father, I would only be a baby at the time, neither can Geoff Corbishely (Margarets husband). Geoff and I have spoken about your letter and are willing to help in any way we can in your research. We have also been contacted bya neighbour who lived near to Pear Tree Farm who has read an article in the local paper about your search. The newspaper article has obviously caused interest in the area so maybe someone will remember something. If there are any specific questions you wish to know we will try to help. As you will appreciate the area has changed greatly since 1945 but the modernised farm still stands. We do not have any photos of the time but I will have one of my


father and mother when they celebrated their Golden Wedding and just two of them on the farm. If these would be of any interest to you I will gladly post them. Lastly can I just assure you that your father would have been treated well and my mother would have made sure he had good plentiful food. No one ever went hungry at mothers table. They were good hard working farmers and treated everyone the same. Regards John Brandon.

L’indomani di buon’ora scrivo a John.

Gentilissimo Sig. John Brandon Ho ricevuto la sua e-mail e con immenso piacere ho capito di avere trovato quello che da circa due anni sto cercando. Ho tentato di ricostruire i sette anni di guerra vissuti da mio padre e con la sua lettera questo cammino è terminato. Desiderava rivedere l’Inghilterra e la famiglia Brandon, purtroppo non gli fu possibile ci lasciò nel 1982. Ho sempre portato nel mio cuore questo suo desiderio. Quando ho avviato le ricerche in Inghilterra, gentilmente tante persone nei vari uffici mi hanno aiutato, al punto di arrivare a lei. Chiedo scusa se ho invaso la sua vita privata. Mi farebbe molto piacere avere la foto dei suoi genitori, mi addolora che sua sorella Margaret non sia più in vita.


Mio Padre è stato trattato bene dai suoi genitori, per questo ha sempre avuto una grande ammirazione nei loro confronti. Se qualche persona ha ricordi, mi farebbe piacere essere contattata. Io e mia sorella organizzeremo un viaggio in Inghilterra per visitare quei luoghi a noi cari. John, vorrei mostrarle la fotografia originale della sua famiglia, è molto più bella di quella elaborata al computer; se lo desidera, quando verrò in Inghilterra, lo farò personalmente. So che a casa dei suoi genitori c’era buon cibo, perché mio padre la prima volta nella sua vita mangiò cioccolato, fu sua madre a dargliene. Ancora la ringrazio per la sua cortesia. Rimini 25/03/2011 Roccoli Bruna

Con John Brandon e la moglie Chris seguirà nei mesi a venire una bella corrispondenza. L’uscita dell’articolo sui giornali locali nella contea di Staffordshire e in quella dello Shropshire ha destato molto interesse. Ogni quotidiano gentilmente mi ha inviato l’articolo pubblicato.


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Published: 23/03/2011 09:00 - Updated: 22/03/2011 16:53 Appeal from POW's family to find farm JAMES BRINDLE AN Italian woman is appealing to townsfolk who may remember her father who she believes worked at a farm near Uttoxeter when he was a prisoner of war.

Bruna Roccoli contacted the Advertiser as she and her cousin Fausto Cucchi are interested in visiting the area where her father spent time during his days as a prisoner during the Second World War. Her father Giulio was said to have fond memories of his time working at a farm owned by the Brandon family and he kept a picture of them right up until his death at the age of 62. Before he died he told his family that if he had recovered he would have gone back to the place where he worked in his youth but sadly he passed away before he could.


Bruna and Fausto told the Advertiser that Giulio didn’t mention the exact place that he worked but from their own research over the last two years they believe it was Pear Tree Farm in Birch Cross. Bruna said: “My father fought in the Second World War and was taken prisoner by British troops in 1942 when he was 21 and he lived for five years in England as a prisoner of war. “During his last two years there he lived and worked on Mr WH Brandon’s farm and all his life he kept a picture of the Brandon family, saying they had always been very kind to him. “Many years have passed since my father died but I feel deep in my heart that I have to make my father’s dream come true.” Fausto said his uncle first became involved in the war in February 1940 when he was sent to fight in Libya. He said: “In May 1941 he was captured by the British in Bardia (a seaport in Eastern Libya) and was interned at Gerifa before soon being transferred to South Africa. “In September 1942 he was transferred to Great Britain, camp 71 int 59526, before returning to Italy in May 1946. “He didn’t like to talk too much about the period he was a POW but he told us that while he was a prisoner he worked on two farms. “Of the first we know nothing because he said that the farmer was unfriendly but the second we know he probably worked the last two years and had a good memory of that time. “For my cousin to find the place where my uncle lived and worked during the war is a must and her aim is to soon visit these places. “Many years of research have been made and at the end we found out that a family called Brandon lived at a place called Pear Tree Farm in Birch Cross. “It seems that all the tracks we have found drive us to Pear Tree farm but we would like confirmation.” The Advertiser contacted the current occupants of the farm who are not aware of the family who owned the farm during the war.


Anyone who thinks they may have information to help can email Bruna and Fausto at monicac@ omniway.sm or telephone us on 01283 524851 so we can pass on the information.

Articoli dei quotidiani.

Ho ricevuto tantissime e-mail, due di particolare interesse parlano del campo di prigionia n° 71 lo “Sheriffhales”. Un signore, mi comunica che il campo fu demolito negli anni settanta. Visitò quel luogo circa dieci anni fa, vi erano ancora dei resti che includevano la fontana costruita dai prigionieri Italiani e qualche baracca. I prigionieri adibirono una baracca a cappella per le funzioni religiose, quando fu demolita le immagini sacre dipinte dai POW “prigionieri” furono salvate e immagazzinate in un edificio posseduto dalla Chiesa Cattolica Romana a Newport. Questo signore m’invierà una foto aerea del campo prima della demolizione.


Nella seconda e-mail, mi viene comunicato che lo Sheriffhales (o Sheriff Hales) è un piccolo villaggio disperso nelle campagne dello Shropshire. Abitato da un centinaio di persone, c’è una scuola, un ufficio postale, un campo da calcio e una chiesa. Il campo di prigionia sorgeva nelle vicinanze del villaggio e ne prese il nome. A stento credo in tutto quello che sta accadendo, è fantastico! Sarebbe meraviglioso, una volta giunti in Inghilterra se riuscissimo a ritrovare i resti del campo.

John e Chris cortesemente ci stanno aiutando a organizzare il viaggio, danno consigli sul mezzo migliore per spostarci dall’aeroporto di Liverpool all’albergo di Stafford dove alloggeremo. Prendono contatti con i proprietari attuali della “ Pear Tree Farm ” chiedendo la loro disponibilità per visitarla. Noi in Italia siamo preoccupati per la lingua, solo Gabriele, il marito di mia sorella, riesce a parlare un modesto inglese, non ci sembra sufficiente per il nostro incontro con John, occorre urgentemente un interprete. Siamo italiani e l’arte dell’ arrangiarsi non ci manca; a Gabriele viene un’idea luminosa, chiamare alcuni ristoranti Italiani a Stafford e chiedere se c’è un Italiano disposto ad accompagnarci ad un appuntamento in data da stabilire, su compenso. Per quanto possa sembrare incredibile, l’idea ha funzionato, abbiamo trovato Giuseppe.


John mi ha inviato un’e-mail dove mi è chiesta una cosa a mio parere incredibile. Kelly, sua amica, di professione giornalista, chiede se accetto un’intervista telefonica dalla BBC Radio Derby in diretta. Gradirebbe raccontare assieme a me la storia di mio padre e della famiglia Brandon. “ Amavi l’ombra all’apparire, preferivi il silenzio, ma ascoltare il tuo nome a una radio inglese, il tuo nome e non quello che ti è stato assegnato una volta prigioniero (matricola n°195556)... no… non posso rifiutare”. Accetto, ma pongo il problema della lingua, chiedo se può sostituirmi mio cugino Fausto, che, da sempre, risolve i miei problemi con l’Inglese. La signora Kelly accetta e prende accordi con Fausto. L’intervista sarà trasmessa in diretta alle otto e trentotto ora Inglese. Questa mattina in Inghilterra andrà in onda l’intervista, saranno le nove e trentotto ora italiana. “ Quando sarà pronunciato il tuo nome, io udirò solo i botti dei fuochi d’artificio... no!… ci sono altri boati… sì… sono loro… sono gli URRA!!! dei prigionieri di guerra!... Oh!... Babbo mio... quanto rumore ho fatto! “

Ogni giorno mi giungono e-mail dall’Inghilterra, ricevo la foto aerea del campo di prigionia n°71“Sheriffhales.” Quanta amarezza provo nel guardarla! Nessuna persona mai, deve essere costretta a vivere in un campo di concentramento.


Foto aerea campo n째 71 Sheriffhales

John mi fa avere le fotografie dei suoi famigliari quando ancora vivevano alla Pear Tree Farm. Sono molto belle, Margaret piccolissima con la madre ha fra i capelli il suo meraviglioso nastro bianco.


Margaret con la madre France


I coniugi Brandon nell’anniversario delle nozze d’oro


La terza fotografia mi è particolarmente cara. Eccoli i cavalli! Sono gli stessi che trainavano il calesse quando i coniugi Brandon e mio


padre si recavano al mercato. Il babbo li accudiva. Un giorno mi raccontò che mentre li strigliava si ferì a una mano, accadde circa sei mesi prima della fine della sua prigionia, la ferita non riusciva a cicatrizzarsi per colpa del clima sempre umido, così pensava. Poi arrivò il giorno in cui gli fu permesso di salire sulla nave che l’avrebbe riportato in patria da uomo libero. < Sai > mi disse: < Più la nave si avvicinava all’Italia più la ferita migliorava, quando sono arrivato a casa, era guarita >. < Babbo > dissi: < Io credo che quella ferita fosse stanca di essere prigioniera, voleva essere libera >. Come sempre sorrise senza fare commenti.

Il nostro viaggio in Inghilterra è stabilito per il 22 maggio 2011 con l’arrivo a Liverpool, poi alloggeremo a Stafford. Il giorno ventitré incontreremo John e Chris per visitare la Pear Tree Farm. Pranzeremo assieme, questo mi fa molto piacere. John mi comunica che la fattoria, ora restaurata, è stata divisa in due civili abitazioni, i proprietari, due persone anziane, il giorno della visita non gradiscono pubblicità. Posso capire, li assicuro che da parte nostra nessuno saprà quando ciò avverrà.


Sono in volo verso l’Inghilterra, considero questo un giorno speciale nella mia vita. Riccardo come sempre mi ha ceduto il posto vicino al finestrino, sa che amo guardare fuori, ammirare le mille sfumature del cielo, il soffice candore delle nuvole, l’immensità che ci circonda. Cerco fra le nuvole uno spiraglio che mi permetta di guardare dall’alto il suolo inglese, sono impaziente di conoscere questa terra. Ricordo mia madre quando da bambina mi raccontava che il babbo era vissuto in Inghilterra. Immaginavo quel luogo irraggiungibile, pensavo a quanta strada si doveva percorrere per andare tanto lontano, poi c’era il pericolo di perdersi per le tante strade del mondo, no, non sarei mai riuscita ad andare così lontano. Quante fantasie e timori si hanno da bambini! Come previsto siamo atterrati a Liverpool, all’uscita dall’aeroporto c’è ad attenderci il taxi che John ha consigliato per raggiungere Stafford. Durante il tragitto Gabriele riesce ad avere una discreta conversazione con il signore che ci sta accompagnando in albergo. Soprattutto, tenta di spiegargli dopo che se ci portiamo le mani agli occhi e nello stesso tempo a questo gesto ci accompagniamo qualche esclamazione, non è per colpa della sua guida, ma è perché in Italia il senso di marcia è al contrario; per questo motivo ad ogni automobile che incrociamo abbiamo la sensazione che c’investa. Arrivati in albergo ci rendiamo conto che alloggiamo in periferia, la citta di Stafford dista circa cinque miglia. Sono le due del pomeriggio, siamo un po’ indecisi sul cosa fare, vorremmo utilizzare al meglio il tempo a nostra disposizione. Decisione presa, chiediamo di chiamare un taxi per farci condurre in stazione a Stafford, dobbiamo acquistare dei biglietti per martedì, poi, visto che non è tardi e restano ancora diverse ore di luce,


potremmo tentare di cercare il campo di prigionia. Ci siamo portati la descrizione del luogo dove sorgeva e la foto aerea. Il taxi è arrivato, Gabriele chiede di accompagnarci in stazione. Durante il tragitto ci informiamo con il tassista se per caso sa dove fu costruito il campo di prigionia n° 71, chiamato Sheriffhales, ma non sa nulla, è un giovane ragazzo di origine Pachistana e vive in Inghilterra da pochi anni. Gabriele tenta di spiegare nel suo inglese che durante la seconda guerra mondiale in questo paese furono costruiti tanti campi di prigionia. Vi erano destinati i soldati catturati sui vari fronti del continente africano. Gli mostriamo la foto aerea e la descrizione del luogo dove sorgeva il campo che vorremmo trovare. Spieghiamo che siamo venuti dall’Italia per visitare quel luogo in memoria di nostro padre. Arrivati in stazione, il giovane tassista fa cenno di attendere, estrae dal cruscotto dell’auto un grosso elenco, lo consulta, poi dispiaciuto dice che non ha trovato nessun riferimento al luogo e purtroppo lui non sa. Lo ringraziamo della sua cortesia, immaginavamo non fosse facile trovare un campo di prigionia esistito sessantacinque anni fa. Gentilmente ci lascia il suo biglietto da visita, si chiama Alì, lo ringraziamo ancora una volta. Siamo un po’ delusi, avremmo voluto trovare il campo. Decidiamo di visitare Stafford, camminando per le vie di questa bella citta, ci rendiamo conto di essere nuovamente in stazione. Ne approfittiamo per chiedere ad un altro tassista il costo per ritornare in albergo e se conosce il luogo dove sorgeva il campo di prigionia n° 71 dando tutte le indicazioni in nostro possesso. Non conosce quel luogo e per rientrare in albergo il prezzo ci sembra alto.


Propongo di chiamare il ragazzo pachistano, era così gentile, abbiamo ancora il suo biglietto da visita. Pochi minuti dopo eccolo arrivare, sorride, chiediamo se ci riaccompagna in albergo, sempre sorridendo dice: < Se volete, vi porto al campo di prigionia di vostro padre, mi sono documentato, ora credo di sapere dove si trova >. Io e mia sorella ci guardiamo incredule, no! Non è possibile! Per puro caso abbiamo richiamato lo stesso tassista e adesso ci sta dicendo che sa dove si trova lo Sheriffhales. Saliamo in auto. Qualcuno si è preso il mio cuore e lo stringe dentro il pugno. Ci inoltriamo nella campagna inglese… sempre più all’interno… è splendida: gli alberi, i prati, tutto sembra dipinto nelle tante sfumature del verde smeraldo, gli occhi non riescono a distogliersi da tanta meraviglia. Entriamo nel parcheggio di un campo da golf, ci fermiamo, Alì chiede a un signore intento a sistemare nel bagagliaio le sue mazze, se quella che stiamo percorrendo è la strada giusta per arrivare al campo di prigionia che sorgeva in quella zona. Il signore ascolta con attenzione, poi chiede ad un compagno di gioco che stava giungendo conferma sulla via da prendere, sì, lui sa, consiglia di continuare per la stessa strada. Ripartiamo velocemente, si sta facendo tardi, continuiamo la nostra corsa nel cuore della campagna inglese, immersi nel verde. Il tassista si ferma nelle vicinanze di un incrocio, dice di scendere. L’aria è talmente gelida che taglia gli abiti e la pelle. Il cuore mi battere in gola, riaffiorano i timori che avevo da bambina… forse ci siamo persi per le strade del mondo. Il ragazzo del taxi si avvicina ad una abitazione, suona il campanello, nessuno viene ad aprire, suona ad un altro portone, resta chiuso,


ancora un altro, nulla. Noi siamo fermi sull’incrocio, guardiamo quel ragazzo tanto gentile che si affanna nella speranza di vedere aprirsi una porta per chiedere se quella che stiamo percorrendo è la strada giusta per arrivare al campo di prigionia n°71. Nessuno apre. Sto osservando queste poche case, noto la chiesa, una scuola, mi torna alla mente la descrizione del campo fatta dal signore che mi aveva inviato un’e-mail mesi fa. Riferiva che il campo era stato costruito poco distante ad un piccolo villaggio, entrambi avevano lo stesso nome (Sheriffhales). Ora sono certa, queste poche abitazioni appartengono allo stesso paesino descritto dal signore, perciò siamo vicino al campo di prigionia. Il tassista si avvicina a noi con un’espressione desolata sul volto. Gabriele, che si è rivelato essere un bravo interprete, gli dice di non preoccuparsi, questo paesino è Sheriffhales, il campo non può essere distante ma se non riusciamo ad imboccare la strada giusta per raggiungerlo, non fa nulla. Propongo di fare delle foto come se virtualmente questo luogo fosse il campo di prigionia. Poi c’è quest’aria talmente gelida che spezza le ossa. Penso al babbo... chissà quanto freddo ha sofferto in questo paese. Continuiamo a restare sull’incrocio, scattiamo qualche foto qua e là senza nessun particolare interesse.


Incrocio nel piccolo paesino di Sheriffhales Ad un tratto ho la sensazione di avere qualcuno alle mie spalle, mi giro, una signora molto anziana è vicina a noi, sta camminando lentamente, ci supera. Ha un incarnato molto chiaro, i capelli sono bianchissimi, porta al guinzaglio un cane di grossa taglia di colore bianco. Restiamo stupiti e increduli dall’apparire della signora, nessuno di noi ha visto da quale lato è arrivata. Alì le chiede se sa indicarci la strada per arrivare al campo di prigionia costruito durante la seconda guerra mondiale. La signora molto tranquillamente risponde che gli italiani li portavano là allo Sheriffhales e indica la direzione.


Vorrei le fosse chiesto quante volte da ragazza è rimasta su quell’incrocio a guardare mentre passavano i prigionieri italiani, ma non c’è tempo. Ripartiamo velocemente. Mentre ci allontaniamo rivolgo ancora una volta lo sguardo alla signora con il cane, è assurdo pensarlo ma assomigliano, sono fasciati nel loro candore, camminano lentamente, il cane sa che sta accanto ad una persona molto anziana, non ha fretta. A un tratto Alì svolta in una via alberata, percorre pochi metri poi arresta l’automobile, guardandoci dice: < Qui sorgeva il campo >. In questo istante il mio cuore ha cessato di battere, neppure il respiro sale. Al lato del viale c’è una splendida villa, l’area è proprietà privata, il ragazzo chiede al proprietario il permesso di visitare i resti del campo. Ci incamminiamo lungo la stradina che divideva le baracche, a sinistra ora c’è un recinto con all’interno delle pecore al pascolo, dal lato opposto sono stati piantati degli ortaggi. Continuiamo a camminare, ho in mano la foto aerea del campo, noto una baracca, la guardo, guardo la foto aerea, si, è la stessa! Le baracche risparmiate alla demolizione sono in fondo alla stradina. Sento il bisogno di piangere, forse dopo il cuore mi farà meno male e il respiro tornerà a salire.


Resti del campo di prigionia N° 71 “ Sheriffhales ”


Ci chiediamo se la fontana sia ancora in piedi, non la vediamo. Forse pretendiamo troppo, sono passati tanti anni. Gabriele riferisce ad Alì che nel campo, gli italiani avevano costruito una fontana. Alì s’incammina, dopo pochi passi, la indica, era seminascosta da alti arbusti.

La fontana fu costruita dai prigionieri italiani.

Lo stupore nel vederla è grande, mi sembra di aver incontrato una vecchia zia, noto le rughe ma sorridendo le dico che è sempre giovane nonostante il passare degli anni. Il pensiero più grande va a quei prigionieri, che con pochi mezzi sono riusciti a costruire una fontana. Non mi sarà mai dato a sapere


se mio padre ha partecipato alla costruzione. La giornata giunge al termine, ci incamminiamo per la stradina che riconduce alla via alberata. Quando siamo entrati nel viale, era tanta l’emozione che non avevo notato la bellezza di questi alberi secolari, li osservo, sono immensi. Chiedo a mia sorella di starmi accanto e ascoltare assieme a me il loro fruscio.

Io e Bianca ascoltiamo

Se avessero voce narrerebbero che tanti anni fa molti giovani sono passati sotto i loro lunghi rami per entrare nel campo di concentramento. Le ampie fronde hanno protetto quei ragazzi riparandoli dalle intemperie, hanno ascoltato le immense paure.


Le foglie con il loro bisbiglio le hanno dato loro la forza per andare avanti come avrebbero fatto le loro mamme.

Prima di andarmene abbraccio questo luogo magico

Stiamo rientrando in albergo, la luce del giorno si sta spegnendo, l’imbrunire avvolge questa sconfinata campagna che ancora riesce a brillare in tutto il suo splendore. Guardando i prati, noto su di essi delle piccole macchioline bianche immobili, penso siano nuvole che stanche di stare appese in cielo sono scese per riposarsi un poco. Mi sto sbagliando, non sono nuvole, ma piccole pecore intente a brucare gli ultimi fili d’erba


della giornata. Durante il tragitto siamo increduli ma felici di come si è svolta la giornata. Anche Alì lo è, ad un tratto ferma il tassametro e chiede se può offrirci da bere. Accettiamo con piacere. Oggi è stata una giornata talmente piena di tutto il bello che può accadere in un solo giorno, che mai la dimenticherò. Mentre ci incamminiamo verso il pub penso a domani, all’incontro con John Brandon.

Sono le nove del mattino, siamo fuori dall’albergo ad attendere Giuseppe, il nostro interprete. Ha chiamato Gabriele dicendogli che ha confuso il luogo dove ci troviamo, avrà un ritardo di mezz’ora. Come è potuto accadere questo, devo attendere ancora, sono due anni che aspetto questo momento, ma Giuseppe questo non lo sa, come non sa chi dobbiamo incontrare, gli abbiamo solo detto che ci attende un amico al distributore Tesco nelle vicinanze di Uttoxetter. Come promesso ai proprietari della Pear Tree Farm, nessuna pubblicità per la nostra visita. Mentre attendiamo, ci raggomitoliamo dentro le nostre giacche, oggi c’è vento, un forte vento gelido. Il cielo è gonfio di nuvole che minacciano la pioggia. Che paese freddo è mai questo! Finalmente Giuseppe arriva, siamo terribilmente in ritardo. Giuseppe è un signore di mezza età, di origini siciliane. Durante il tragitto parliamo del nostro bel paese, lui ha lasciato l’Italia da


bambino ma tutti gli anni ritorna in Sicilia. Ci rendiamo conto che John sta aspettando da un quarto d’ora, lo chiamiamo al cellulare scusandoci del ritardo. Giuseppe nel limite del consentito cerca di avere una guida veloce. Come sempre guardo fuori dal finestrino, il vento è sempre impetuoso, sta sfogando la sua forza su tutta la campagna. Non riesco a non pensare al babbo, chiedermi se anche lui ha percorso queste strade. Che cosa provava ogni volta che veniva spostato per l’ignoto? Ai prigionieri non era mai comunicato dove venivano trasferiti. Ci siamo fermati in un centro abitato dove noto un supermercato e il distributore Tesco. Mia sorella ancora prima di scendere dall’auto riconosce John, ha lo stesso volto gioioso del padre, accanto a lui c’è la moglie Cris. Di fronte a me c'è John Brandon, per un attimo ci scrutiamo, potremmo stringerci la mano, o semplicemente sorriderci, ma viene ad entrambi spontaneo abbracciarci. Dico a John: < Se a mio padre gli fosse stato concesso qualche anno in più di vita i nostri genitori si sarebbero ritrovati, avrebbero ricordato e prima di andarsene mio padre avrebbe ringraziato per non essere mai stato trattato come un POW >. John sorride, dicendomi: < Sì, si sarebbero incontrati >. Ora dobbiamo avviarci, i proprietari della Pear Tree Farm ci stanno aspettando. Sto andando alla fattoria, quella fattoria che mio padre silenziosamente ha sempre portato nel cuore. Non so cosa spero di trovare in quel luogo, lui non vive lì come da nessun’altra parte, ma lo sto cercando, cerco frammenti della sua


vita per portarli via con me. “ Perché non si ha la forza di lasciar andare le persone amate ma si vogliono trattenere anche dopo la morte. ” Abbiamo lasciato la strada principale, stiamo transitando su una piccola strada di campagna leggermente in salita, percorsi ancora poche centinaia di metri ci troviamo dinanzi ad un’immensa abitazione, siamo arrivati alla Fattoria del Pero. Un anziano signore ci attende, salutiamo, è molto cordiale, ci parla della fattoria, racconta che con il passare degli anni molte cose sono cambiate, l’abitazione era molto malandata, poi è stata restaurata e trasformata in due civili abitazioni indipendenti una dall’altra. Lui vive nella parte dove c’erano le stalle. Mentre parla s’incammina lungo un sentierino all’interno del suo giardino, e noi lo seguiamo ascoltandolo in silenzio, oltrepassiamo il piccolo cancello. Ora ci troviamo dalla parte opposta del caseggiato dove viveva la famiglia Brandon. Mi guardo attorno, vorrei avere tanti occhi per non farmi sfuggire nulla. Guardo ogni albero, ogni cespuglio, ogni fiore, ogni filo d’erba. Tutto deve rimanere stampato nella mia mente per attingerne quando questo giorno diventerà un ricordo.


Alle nostre spalle la Fattoria e i campi che il babbo coltivava.

Indicazione per raggiungere “Pear Tree Farm�


John ricorda che con la famiglia ha lasciato la fattoria all’età di dodici anni e non vi ha più fatto ritorno, si sente emozionato nel rivederla. Rammenta che vi erano due laghetti, giù, nei campi verso il basso non distanti dall’abitazione, ora non ci sono più. Richiama alla memoria il ricordo di una fattoria molto grande, con tanto terreno, i genitori nel 1958 preferirono trasferirsi in una fattoria più piccola. Poi rivolgendosi a me dice: < Se a tuo padre era stata data una stanzetta, la finestra non poteva essere che quella > e la indica. < Era la stanza più piccola, quella sopra il granaio >. Nessuno si è reso conto ma io e mia sorella ci siamo sedute sul muretto vicino all’ingresso di casa perché credo che ad entrambe l’emozione nel vedere la finestra dove il babbo si affacciava al mattino ci abbia tolto forza.


Alla sinistra della foto la finestra della stanza del babbo

Finestra della piccola stanza.


Siamo sedute vicine, quasi abbracciate. < Bruna > dice mia sorella: < ci pensi quante volte il babbo si è affacciato da quella finestra >. < Sì Bianca, se chiudo gli occhi lo rivedo dietro ai vetri mentre scruta il cielo. Credo che da quella finestra riuscisse a vedere anche i laghetti, John ha detto che erano lungo la piccola discesa >. Noto sull’uscio di casa una signora che ci sta fotografando, strano, forse è la proprietaria ma non si è presentata, nessuno fa caso a lei. Continuiamo a visitare l’esterno della fattoria, John ci mostra dov’era la porcilaia, quella parte non è stata restaurata. Si avvicina a noi l’anziano signore, chiede se accettiamo un caffè, lo sta offrendo la padrona di casa e indica la signora che scattava foto senza volersi far notare. Non bevo caffè, se lo faccio poi mi sento male ma non rinuncerei a quel caffè per nulla al mondo, ho capito che è l’unico modo per visitare l’interno della fattoria. Il caffè fumante è sul tavolo, solo guardarlo mi sento male, siamo in piedi, ognuno di noi prende la propria tazza, in questo istante rammento di non aver ancora mostrato a John la foto che i suoi genitori diedero a mio padre nel lontano 1946. Ne approfitto per posare la tazza del caffè. John prende la foto in mano, la osserva, vedendo sul retro le inziali del padre dice: < Mio padre si chiamava Wiliam Enrico Brandon >. Poi mi chiede: < Come hai fatto a trovarmi? >. Cerco brevemente di riassumere due anni di ricerche. Mentre parlo, Giuseppe oltre ad essere molto bravo nella traduzione, riesce a trasmettere gli stati d’animo da me provati nei momenti di fallimento o nelle conquiste, fino a quando sono arrivata a John.


Mentre parlo, tutti ascoltano in silenzio, oserei dire commossi. Ognuno sorseggia il proprio caffè, riprendo la tazza in mano, non ho scampo, queste tazze sono enormi, sembrano tini pieni di caffè. L’interno della fattoria è molto meno restaurato dell’esterno, e John ricorda ancora i chiodi piantati nelle travi che servivano per appendere i prosciutti e il piccolo camino è sempre lo stesso. Rivolgendosi a noi dice: < Nei mesi invernali i miei genitori e vostro padre si riscaldavano a questo fuoco, ai tempi cadeva tanta neve, diventava difficile aprire anche la porta >. Credo sia arrivato il momento di ritornare all’aperto, ringraziamo la signora per la cortesia. La mattinata sta passando in fretta, il vento è sempre forte, mi sembra di percepire il suo ululato, ma qui non ci sono calanchi. Non ho più paura del vento. Chiedo a John se è possibile scattare una foto nello stesso punto dove i suoi genitori posarono ai tempi per la foto ricordo che diedero a mio padre.


Foto ricordo con John Brandon. Stesso luogo dove i suoi genitori e la sorella Margharet posarono per la foto che diedero a mio padre nel 1946.


Ora siamo noi figli, dopo sessantacinque anni a ripetere gli stessi gesti, avere il ricordo di una foto e il piacere di avere vissuto qualche ora alla fattoria. Come ultima cosa da visitare è rimasto il frutteto, John ricorda che c’erano tanti alberi da frutta, per questo motivo fu dato il nome di Pear Tree Farm ( Fattoria dell’Albero del Pero ). Si va verso gli alberi... poi li raggiungo. Mi siedo un attimo sul muretto, voglio restare sola, sola con il vento. Oggi è impetuoso. Per un istante placa la sua furia… mi avvolge, mi accarezza il viso. Chissà se il vento nasce e poi muore, oppure è immortale e come un girovago si sposta per poi ritornare. Il vento che sta accarezzando me, forse è lo stesso che sfiorava il suo viso… vorrei restare ad occhi chiusi il più a lungo possibile, finalmente ho realizzato il mio grande desiderio… conoscere quei luoghi rimasti nel cuore a mio padre. "Babbo vieni... siediti vicino a me... sogniamo insieme di vivere una vita serena alla Fattoria dell’Albero del Pero, lontano dalle cattiverie della guerra e del mondo”.


Roccoli Giulio 1980

Cucchi Vitalina 2005


Campagna di Libia dell’Artigliere Roccoli Giulio Chiamato per il servizio di leva il 18/04/1939. Chiamata alle armi il 09/02/1940 fu assegnato al “26° Rgt. Art. D.F. Div. Pavia del XX C.A. si imbarcò a Napoli per la Libia. Sbarcò a Tripoli il 20/02/1940. Da Febbraio a Giugno del 1940 addestramento a Zauia 50 km a w.n.w. Di Tripoli, sede del XX C.A. quindi del 26° Rgt. Art. D.F. (17° Div. Pavia). Il giorno 11/06/1940 viene inviato in zona di guerra (Tripolitania). Il 25/07/1940 a Zauia Tripoli gli viene cambiata assegnazione, il 26° Rgt. Art.D.F. viene assegnato al XXIII C.A. come 201° Rgt. Art. D.F. della 1° Div. CC NN “23 Marzo” con sede a Tripoli. Da Luglio a Settembre 1940 avanzata verso l’Egitto (Tripolitania – Cirenaica – Egitto. Dal 16 al 18 Settembre 1940 presa di Sidi el Barradi, località sulla costa egiziana a circa 100 km oltre il confine Libico. Dai primi giorni di Novembre riposizionamento settore di Solum sulla costa egiziana a pochi km dal confine libico. Dal 14/12/1940 posizionamento per la difesa di Bardia. “Il 9 dicembre è iniziato il contrattacco Inglese con la riconquista di Sidi el Barradi (10/12) e l’avanzata fino a Solum e al confine (15/12)“ Dal 20/12/1940 al 03/01/1941 difesa contro l’assedio di Bardia. Il 03/01/1941 catturato a Bardia.


Prigionia dell’Artigliere Roccoli Giulio Catturato il 03/01/1941 a Bardia, porto della Cirenaica. Da gennaio a maggio 1941 internato nel campo di concentramento n° 306 Geneifa- Nord Egitto, zona dei Laghi Amari ( Bitter Lake ) Prigioniero – matricola n°195556. Il 07/05/1941 viene trasferito dal Nord Africa al Sud Africa. Sicuramente via mare, da Porto Said ( Egitto ) al porto di Durban per proseguire, via treno, per Zonderwater ( Sud Africa ). Da giugno 41 a luglio 42 è internato nel campo di concentramento di Zonderwater – Cullinan Pretoria – Sud Africa. A Zonderwater fu confinato nel blocco n° 2. Il 23/07/1942 venne trasferito da Zonderwater a Durban in attesa dell’ imbarco per il Regno Unito. Imbarcato sulla nave S.S. “STRATHAVEN” salpò il 25/07/1942 verso la G. B. Arrivò il 27/08/1942 nel campo di prigionia n° 19 – Happendon – Douglas – Lanarkshire – Scotland, a circa 30 km da Glasgow. Da agosto a settembre internato nel campo n° 19 in attesa di smistamento, gli fu cambiata la matricola con il n° T/59526. Il giorno 08/09/1942 fu trasferito nel campo di prigionia n° 71 Sheriff Hales – Shifnal – Shopshire – England, distanza del campo dalla “Fattoria dei Tre Peri” circa 37 miglia. Dal settembre 42 a luglio 43 internato nel campo 71. Fu trasferito il 21/07/1943 nel campo di prigionia n° 96 Wolseley Road – Rugeley – Staffordshire – England, distanza del campo dalla “Fattoria dei Tre Peri” circa 12 miglia. Da luglio 43 a maggio 46 internato nel campo n° 96 gli fu permesso come agricoltore di lavorare presso le fattorie. Rimpatriato, il 04/05/1946 sbarcò nel porto di Napoli, finalmente da uomo libero.


6 gennaio 1941. Colonna di prigionieri italiani catturati durante l'assalto a Bardia in Libia, in marcia verso un campo di concentramento britannico.


Porto di Bardia


Egitto campo di concentramento n째 306 Geneifa


Estate 1941. Uno scaglione di prigionieri di guerra Italiani entra di corsa nel campo di concentramento di Zonderwater


Mappa del campo di concentramento di Zonderwater disegnata da un prigioniero italiano



Documento ricevuto dall’Archivio Segreto Vaticano


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