Tesina di Mara Di Gregorio "Zonderwater - lettere dal campo" Nicola De Antonellis POW 281001

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ZONDERWATER LETTERE DAL CAMPO

Mara Di Gregorio | Classe V ASU | A.S. 2016/2017


«Possa questa mia lettera giungere a colpire il cuore di chi è interessato a noi.» Nicola De Antonellis Zonderwater, 15 maggio 1945


Il Campo di internamento di Zonderwater, considerato il più grande campo di prigionia costruito dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, è situato a 43 km da Pretoria, in Sud Africa.

Zonderwater, che in lingua boera significa “senza acqua”, ospitò, tra l’aprile del 1941 e il gennaio del 1947, oltre 100 mila soldati italiani, catturati dagli inglesi nei fronti dell’Africa settentrionale e orientale: tra quei soldati c’era anche Nicola De Antonellis, il mio bisnonno.

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Inizialmente il campo era del tutto privo di baracche, costruite solo in seguito, ed i prigionieri erano costretti a dormire in tende: frequenti erano gli episodi di violenza e umiliazione cui erano sottoposti quasi quotidianamente, mentre l’insufficiente approvvigionamento alimentare, testimoniato dalle lettere e dai diari dei prigionieri, rappresentava uno dei problemi maggiori. La situazione cominciò a cambiare a partire dalla fine del 1942, quando il colonnello Hendrik Frederik Prinsloo venne chiamato a dirigere il campo: Prinsloo, ancora bambino, aveva conosciuto gli orrori della segregazione nel campo di concentramento inglese, il quale ospitava i prigionieri boeri durante la guerra che li aveva visti opposti agli inglesi.

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Sotto la sua direzione, e grazie al lavoro dei soldati prigionieri, il campo di Zonderwater crebbe enormemente, sino a diventare una vera e propria città, divisa in 14 blocchi, ognuno dei quali era suddiviso a sua volta in 4 campi. Per far fronte al problema del deterioramento fisico e mentale dei detenuti, Prinsloo garantì la presenza di: Scuole di lingue, medie e tecnico professionali

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Teatri

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Campi di calcio, bocce, scherma, da tennis

Strutture per competizioni di pugilato, lotta greco‐ romana, pallacanestro e pallavolo

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Ospedali

Assistenza religiosa

Prinsloo dimostrò così d’essere un uomo di notevole capacità e umanità. PAGINA 6


Nonostante le associazioni sportive e teatrali offrissero occasioni di svago ai detenuti, si trattava pur sempre di prigionia: all’interno del blocco, recintato da filo spinato e sorvegliato da sentinelle armate posizionate in cima a torrette, i prigionieri potevano circolare liberamente, ma i mesi o anni di combattimenti e di privazioni, di umiliazione per la sconfitta, vissuti nell’incertezza sulla data del ritorno, mettevano a dura prova la psiche di ognuno.

Alcuni prigionieri impazzivano e venivano perciò ricoverati in uno speciale reparto dell’ospedale; altri tentavano invano la fuga.

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Numerosi erano i ricoveri, dovuti per lo più alle piogge di fulmini che si abbattevano sul territorio: l’eco di quel suono assordante e la paura di non riuscire a superare la tempesta restano uno dei ricordi più vividi nella memoria del mio bisnonno e di chi, come lui, ha vissuto l’incubo di Zonderwater. “Le tende erano fatte a forma di cono. In ogni tenda eravamo in otto prigionieri; si dormiva distesi sul terreno con i piedi rivolti al palo di sostegno e la testa verso l’esterno. A Zonderwater i fulmini erano un concreto pericolo per le persone. Al tempo della tendopoli, dal 1941 al 1943, le punte dei pali di ferro che reggevano le tende si trasformavano in vere e proprie calamite per i fulmini; così i prigionieri che si trovavano a contatto o vicino ai pali metallici morivano fulminati”. Testimonianza di un ex prigioniero PAGINA 8


Moltissimi furono i caduti vittime dei temporali di Zonderwater: in loro memoria è stato edificato all’interno del campo un monumento commemorativo.

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Chi, invece, tentava la fuga, per lo più verso il Mozambico, ove era aperto un Consolato italiano, scontava il suo gesto con 28 giorni di permanenza nella “casetta rossa”, ove subiva un trattamento punitivo abbastanza duro. “I puniti venivano confinati nella casetta rossa, una prigione nella prigione, un edificio stretto e basso, che aveva preso il nome dal colore dei mattoni. Le sanzioni comminate seguivano una sorta di legge del contrappasso: chi faceva sport, per esempio, doveva correre e saltare tutto il tempo; chi lavorava come manovale doveva tenere addosso, anche durante il sonno, un sacco pieno di sabbia. Il massimo della pena era di ventotto giorni e veniva affibbiato di norma a chi aveva tentato di evadere dal campo. La smania di riconquistare la libertà era un’ossessione di molti, malgrado fossero già falliti numerosi tentativi. Il piano di fuga era quasi sempre lo stesso. Si approfittava dei temporali, che toglievano la luce al campo, per scavalcare i reticolati.” “I diavoli di Zonderwater”, Carlo Annese.

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L’8 settembre 1943 determinò un profondo mutamento delle dinamiche interne al campo, trasformazioni che seguivano i diversi orientamenti politici dei soldati: alcuni di loro scelsero di collaborare con i detentori, ottenendo così svariati vantaggi, come la possibilità di recarsi a lavorare anche fuori dal campo, che migliorarono le loro condizioni di vita; altri invece restarono fedeli al giuramento fatto, scegliendo di aspettare in precarietà il rimpatrio. Non tutti i detenuti riuscirono a fare rientro in Patria: 252 prigionieri riposano nel cimitero di Zonderwater che, assieme a un museo, una cappella e un monumento chiamato I Tre Archi, costituisce un lembo di terra italiana in Sud Africa, tutto ciò che è rimasto del campo dopo il suo totale smantellamento, avvenuto nel 1947.

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Monumento "i Tre Archi"

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Tra i soldati detenuti all’interno del campo di Zonderwater c’era anche Nicola De Antonellis, il mio bisnonno, nonché padre di mia nonna. Membro dell’Esercito Italiano, rivestì la carica di maresciallo con sede ad Asmara, Eritrea, dove visse insieme alla moglie Rina, la mia bisnonna, negli anni dal 1939 al 1941, in una casa di proprietà da lui stesso acquistata. Nel luglio del 1940 nacque la loro prima figlia, Giacinta (o “Cintì”, come lui era solito chiamarla), ma all’incirca 9 mesi dopo, l’arrivo delle truppe alleate inglesi in Eritrea costrinse la famiglia a dividersi: la mia bisnonna, con una bambina di soli 9 mesi al seguito, venne confinata in un campo inglese fino al novembre 1942, quando arrivarono le navi italiane che le riportarono in Patria. Sebbene all’interno del campo non subissero violenze o abusi, erano comunque costrette a vivere in tucul (piccole capanne di paglia) e a fare i conti con lo scarso rifornimento di cibo. Nel gennaio del 1943, dopo aver circumnavigato il continente africano, sbarcarono finalmente in Italia. Il mio bisnonno, invece, affrontò 5 anni di prigionia, dal 1941 al 1946, scontati all’interno del campo di internamento di Zonderwater.

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Nonostante i limiti imposti dalla guerra e dalla censura, i miei bisnonni intrattennero una fitta corrispondenza, che durò per tutto il periodo di prigionia, e che rappresenta una forte testimonianza della vita all’interno del campo. Lontano da casa, confinato all’interno di quelle che lui stesso nelle sue lettere definisce come “odiose gabbie”, Nicola fece esperienza del lato più oscuro della guerra: costretto a dormire per terra, a soffrire per la mancanza di cibo e la nostalgia di casa. 10 giugno 1943

“È straziante questa lontananza e solo la mano di Dio può alleviarla, farla accorciare, ma quando? Vi sono dei momenti di angoscia indescrivibili, capitano spesso nell’attesa delle lunghe giornate fastidiose.” 23 giugno 1943 “Sopporto serenamente questo stato di cose, con pazienza, non con rassegnazione, perché l’uomo paziente vale più d’un uomo forte.”

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Natale 1943 “Il Dio della verità e della giustizia ascolterà la mia sempre più crescente preghiera di proteggere la mia Patria e la mia famiglia. Non è festa per nessuno, ma voi che avete una certa libertà di pensare e di agire accettate il grido di dolore che parte da questa gabbia lontana.” 21 aprile 1945 “Oggi non è facile discernere più il bene dal male. Il mondo è sulla completa rottura morale e materiale, per cui occorre rassegnarsi e augurarsi che almeno dopo tutto vinca il genio del bene. Divento sempre più filosofo, chissà forse la vita, l’apatia, l’indifferenza forzata a tutto e a tutti. Non so io stesso. Fisicamente non c’è male, si vivacchia alla meglio: anche lo stomaco si è rassegnato all’indispensabile per le sue funzioni. Che mondo schifoso. Abbiate pazienza mie care, la Provvidenza ci aiuterà, ci assisterà e vivremo di nuovo felici e contenti, alieni di ogni cosa mondana. Vi abbraccio.” 28 agosto 1945 “La radio dice che stiamo bene fisicamente, materialmente e moralmente. Non posso dire che fisicamente stia male, ma moralmente sto malissimo, perché lontano da voi, perché chiuso in un recinto spinato da quattro anni e cinque mesi. Perché sono anche privo del mio unico conforto che è la posta e tutto il resto viene da sé: se questo è benessere, auguro al commentatore di radio Londra delle 20:15 di passare un guaio simile al mio, quanto più presto gli aggrada.”

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Riuscì comunque a guadagnarsi un posto di discreta rilevanza all’interno del campo, che gli garantì una sorta di sicurezza: grazie al suo diploma di insegnante, prestò servizio all’interno delle scuole di Zonderwater, insegnando italiano e inglese agli altri soldati detenuti. 6 agosto 1945 “Sono andato in gita a Johannesburg ospite di un signore italiano. Ciò in premio del mio impiego che ho nel campo. Puoi immaginare quanto raccapriccio ha provato il mio cuore nel trovarsi in una famiglia circondata da ogni agio! Che strazio è stato per me assistere allo svolgersi di una vita sana e salubre dopo quattro anni che sono chiuso in un recinto spinato. Sono stato trattato benissimo; la città è bella, spaziosa, ricca, elegante.”

Nonostante i piccoli privilegi che traeva dal suo ruolo di insegnante, la vita all’interno del campo risultava comunque dura: sebbene non facessero largo uso della violenza fisica, gli inglesi torturavano i prigionieri a livello psichico, vietando loro di leggere le lettere appena ricevute, facendoli sentire abbandonati, soli, dimenticati; costretti a dormire per terra, a vivere in condizioni precarie, a fare i conti con lo scarso rifornimento di cibo e vestiti, ai soldati non restava che affidarsi alla scrittura, nell’attesa del giorno del rimpatrio.

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9 marzo 1943 “Chiedo solo alla mia famiglia, a cui sono tanto legato, il conforto almeno dello scritto, null’altro.” 23 marzo 1943 “Tutte quelle mogli che sono rimpatriate con te hanno già scritto, come va che le tue non arrivano? Io non so più a che santo votarmi! Spediscimi 50 lire, pacco biancherie e oggetti per la toilette.” 21 febbraio 1945 “Dopo molti mesi di tuo silenzio ho ricevuto il tuo messaggio del 26 giugno 1944.”

10 maggio 1945 “È finita la guerra! I cannoni non rombano più, gli aerei passano dai compiti di guerra a quelli di pace. Esultiamo nella speranza ora che gli alleati, in riconoscimento dei sacrifici immensi fatti dall’Italia, almeno permettano il ritorno in Patria di centinaia di migliaia di prigionieri.”

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15 maggio 1945 “Non una parola di conforto ci arriva né dal governo né dalle famiglie. Perché? Siamo proprio stati abbandonati alla deriva? Che mai abbiamo fatto? Abbiamo sofferto tutto l’orrore che ad essere umano può essere dato, abbiamo combattuto per una causa destinata al fallimento, privi di ogni sollievo morale, credemmo finalmente nel luglio 1943 che tutta l’ignominia gettataci in viso fosse finita, plaudimmo alla liberazione, gettammo il doloroso fardello di anni di obbrobrio, accettammo la cooperazione, e quale ricompensa? Ancora il campo di concentramento, con le sue privazioni, con il peso degli anni sulla groppa e con malattie latenti nel fisico e nel morale. Possa questa mia lettera giungere a colpire il cuore di chi è interessato a noi. Neanche il Santo Padre si occupa di noi, abbandonati a circa ventimila miglia lontani dalle famiglie.” 1 settembre 1945 “Sono ancora lungi da voi, ancora gettato in campo di concentramento, recinto di filo spinato. Fardello umano, di un umano bottino di guerra, ormai sorpassata, finita, vinta dal detentore mio! La radio esalta la ripresa dell’Italia! Se è così, perché il governo italiano, degno di questo nome, non richiama i suoi figli lontani? Non siamo forse noi la parte del popolo che ha sofferto e soffre per una guerra condotta malamente e ingiustamente dichiarata? Non siamo stati proprio noi la carne da macello buttata inerme davanti a un nemico che è stato troppo generoso con noi? Che ci ha risparmiati dopotutto? Perché tanta inerzia? Perché tante delusioni che appaiono sempre più laceranti per i nostri cuori già ulcerati? Echeggiate anche voi il nostro grido e dite all’Italia che siamo per lei e con lei, pronti a soffrire, si, ma in Patria, accanto ai nostri affetti più cari, e non lontani in un paese straniero.” PAGINA 18


Le tempeste di fulmini, che imperavano a Zonderwater, privarono il mio bisnonno dell’udito, che perse in seguito a un’otite non curata, causata dal suono assordante dei fulmini caduti a terra.

Pasqua 1943 “Sto bene, solo l’orecchio mi dà fastidio; spero che la commissione medica mi vorrà concedere il rimpatrio. Fido solo in dio.” 1 agosto 1945 “Si parla tanto della liberazione, invece non si vede né posta né si parla di rimpatrio, e dire che da circa quattro anni soffro con l’orecchio e non sono neanche stato riconosciuto dalle varie commissioni miste.”

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Il campo mise a dura prova lo spirito dei prigionieri che ospitava: 12 di loro non riuscirono a sopportare la loro condizione e si tolsero la vita; altri, come il mio bisnonno, scelsero di non abbattersi, cercando rifugio e conforto nella prospettiva di un futuro migliore, che già si figurava nella loro mente. 3 ottobre 1945 “Il mio diploma di maestro l’hai depositato al provveditorato? Mi hai iscritto all’istituto superiore lingue estere, ramo inglese? Ho intenzione di laurearmi e spero bene, perché sono molto avanti. Speriamo che il destino non sia poi tanto crudele.”

Il mio bisnonno fece rientro in Patria alla fine di febbraio del 1946 e poté finalmente riabbracciare la sua famiglia. Tentò di intraprendere la carriera di insegnante, desiderio che aveva più volte espresso nelle sue lettere, ma non riuscì: la guerra aveva reso impossibile per sua moglie sbrigare tutte le faccende burocratiche che gli avrebbero consentito di esercitare la professione di maestro.

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Trovò lavoro presso le ferrovie dello stato e decise di abbandonare definitivamente la carriera militare. L’esperienza del Sud Africa lo segnò per tutta la vita, nel fisico così come nello spirito: i ricordi erano vividi nella sua memoria, ma ancora più vive erano le emozioni che quelle immagini facevano riaffiorare. Non amava parlare di Zonderwater, né della sua vita all’interno di quel campo, ma ha conservato le sue lettere perché potessero “giungere al cuore di chi è interessato”.

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SOMMARIO Zonderwater: presentazione del campo .............................................. 1 Primi anni del campo .............................................................................. 2 Amministrazione Prinsloo .................................................................... 3 Temporali a Zonderwater .......................................................................... 6 La casetta rossa ...................................................................................... 10 Lettere dal campo .................................................................................. 13

FONTI    

Carlo Annese, “I diavoli di Zonderwater”. www.zonderwater.com www.lavocedelmarinaio.com Lettere e documenti ereditati dal mio bisnonno.

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