Massimo Valentini
GABBIANI DELLE STELLE
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GABBIANI DELLE STELLE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Massimo Valentini ISBN: 978-88-6307-338-6 In copertina: immagine Shutterstock.com Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
Prefazione
Con Gabbiani delle Stelle Massimo Valentini arriva al suo quinto libro, l’ultimo a essere composto esclusivamente da racconti, in attesa di poter leggere i nuovi romanzi appartenenti a quella che i suoi lettori chiamano Seconda Generazione. Qui parliamo di quattro storie, tutte accumunate da uno stile suggestivo e un sapore che sa spesso di poesia volta in prosa. Con queste quattro vicende scritte tra il 2006 e il 2010 (Il libro della vita, Sull’Oceano del Tempo, Il Mare della Memoria e La Donna che sussurra nel vento) l’autore ripercorre uno spaccato del suo vissuto e, come solo lui sa fare, canta le emozioni contrastanti dei protagonisti, talvolta vittime, altre carnefici. Storie di amanti incompresi, di sentimenti osteggiati, di viaggi in posti remoti, odissee del cuore che si scontrano con la ragione. Lo stile è come di consueto quello pulito valentiniano che riporta alla luce leggende fantastiche - senza scomodare elfi e fate - e ipocrisie di una vita poco benevola, ma che nonostante tutto merita di essere vissuta fino in fondo. Gabbiani delle Stelle guida per mano il lettore che non può non innamorarsi della perfezione emotiva di queste storie, dei luoghi descritti con maestria (sembra di vederli) e dei personaggi autentici nei quali tutti possono immedesimarsi. L’amore che descrive è un sentimento raro anche se nasce da quello comune che tutti conosciamo. Ma se tutti amano, pochi sanno farlo realmente e i protagonisti di questi intensissimi racconti cercano la strada che porti alla consapevolezza di questo sentimento. Vogliono andare oltre, desiderano imparare a volare tra le stelle. Combattono persino contro se stessi affinché quell’amore desiderato, voluto e sperato non si perda nelle nubi del tempo. Lottano ma hanno paura. E così paragonare Massimo Valentini al miglior Jacques Prévert non è un azzardo. Leggere Gabbiani delle Stelle significa leggere un libro struggente come Questo amore, nota poesia del poeta e sceneggiatore francese. Entrambi cantano un amore testardo, a tratti egoista, ma assolutamente insostituibile. Su tutto il volo dei gabbiani, quelli delle stelle, simbolo di immortalità di un sentimento autentico e sano. Un libro certamente da leggere, da assaporare e da vivere intensamente. Antonella Caruso (giornalista LetterMagazine.it)
“Quando due persone si amano davvero pensano, sognano e guardano nella stessa direzione. Solo così i gabbiani dispiegano le ali e possono volare. Questo libro è dunque per te, Leyla. Sei tu che rendi possibile il sogno dei Gabbiani delle Stelle…” Maximus De Valois
Alpha…
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Il Libro della Vita “Sono con te, ovunque tu sia.” (Manoscritto trovato sull’Higravstinden)
Non sono più tornato a Svolvær, una delle città più popolose delle isole Lofoten, in Norvegia, perché ciò che ho visto laggiù mi ha scosso profondamente anche se ricordo quell’esperienza come piacevole. Con questo non voglio intendere di aver visto mostri, spettri o altre simili entità che sanno di folklore e soprannaturale, ma solo che sono rimasto impressionato da una vivida serie di sensazioni assolutamente inesplicabili. Questa storia inizia qualche mese fa, quando ho affittato una piccola casetta completamente in legno, sistemata davanti a un paesaggio mozzafiato che trovava la sua ragion d’essere nel magnifico sfondo dell’Higravstinden. Dieci giorni in un paesaggio da sogno, tra gite in barca, riposo, interessanti escursioni tra i boschi della zona e le fantastiche aurore boreali che si possono osservare ovunque quando il cielo è sereno. Visto il periodo il clima era anche piacevole perché, nonostante le Lofoten si trovino oltre il circolo polare artico, le temperature sono relativamente miti grazie alla corrente del Golfo. Svolvær è una città con storie di tradizioni marinare, fantasmi e dei celeberrimi merluzzi stesi a essiccare che tanta fortuna ebbero per l’esportazione fin da quando l’esploratore italiano Pietro Querini li vide per la prima volta. Verso la fine del mio soggiorno, quando ormai mancavano solo un paio di giorni al traghetto che mi avrebbe portato nei pressi di Oslo e da lì al primo aereo per New York, ho deciso di scalare l’Higravstinden la cui cima si erge a picco sul mare da un’altezza di più di mille metri. La salita è stata difficile, non lo nego, ma sono un alpinista esperto e adoro le passeggiate in montagna, soprattutto se una volta arrivato in cima posso osservare paesaggi suggestivi come quelli marini. Sapevo che la salita non mi avrebbe deluso, e infatti una volta arrivato su quel picco solitario ho contemplato la superficie del mare coperto dalle perle delle onde, il blu cupo del cielo e la voce del vento che da quelle parti risuona roca come l’alito di un mostro leggendario. Ricordo di aver aguzzato la vista il più possibile aiutandomi con un binocolo, alla ricerca delle orche che spesso nuotano in questi tratti di mare a caccia di merluzzi. Non ne ho
10 vista nessuna, ma quando ho fatto qualche passo verso il pericoloso bordo della piccola piattaforma brulla che mi serviva da campo base improvvisato, sono inciampato in una piccola sporgenza. Il binocolo mi è sfuggito di mano cadendo nel precipizio, ma non me ne sono preoccupato; al suo posto avrei potuto esserci io. Ancora scosso dall’accaduto ho gettato uno sguardo istintivo alla causa di quel capitombolo. Era un vecchio cilindro metallico, incastrato nella pietra come se la massa rocciosa si fosse letteralmente fusa intorno a esso. Incuriosito, ho cercato di svellerlo aiutandomi col mio scalpellino da roccia, che solitamente uso per prelevare campioni di cui faccio collezione, ma soltanto dopo un’ora di tentativi indefessi sono riuscito a intaccarne la superficie corrosa dai venti e dalla salsedine. L’oggetto si è rivelato il contenitore di una sorta di pergamena metallica sottilissima che, pur arrotolata, si è dispiegata tra le mie mani con una certa facilità. La consistenza e il peso parlavano di alluminio ridotto a un foglio sottile, ma questa considerazione non si accordava con la sua eccezionale robustezza e col fatto che, anche piegato, non mostrava segni di usura. Le forma era quella di un quadrato di venti centimetri per lato, fittamente inciso in latino con una calligrafia ordinata e armoniosa. Per quale motivo fosse lì o come mai nessuno prima di me lo avesse trovato, considerata la connotazione turistica di quella zona, non avrei saputo dire. Al mio ritorno a New York ho sottoposto lo strano foglio a diversi esperti nel campo della metallurgia, della linguistica e del folklore. Il materiale in questione sembra possedere il ridotto peso molecolare dell’alluminio e la robustezza del titanio, ma non si tratta di una lega. Anche con un affilato martellino da roccia sono riuscito solo a intaccarlo, mentre le parole che reca incise sono ben evidenti e pulite, senza alcun segno di sfilacciamento. La datazione, fatta con appropriati esami di laboratorio, ha inoltre rivelato che chiunque lo abbia forgiato ha inciso le parole non più di una decina di anni fa. Il testo ha tutta l’aria di essere un resoconto o la pagina di un diario, ed è vergato nella lingua dei Cesari: questo aggiunge un tocco di mistero alla sua esistenza. In Norvegia non ho tentato di tradurlo limitandomi a conservarlo e a riportarlo indietro, ma una volta a casa un buon vocabolario e le mie reminiscenze del college mi sono state di notevole aiuto per capirne il senso. Sul capoverso sono incise altre parole latine che sembrano un titolo o un’intestazione, come se fosse un vero e proprio racconto.
11 Liber Vitae “Il libro della vita”, questa la traduzione letterale, è stato probabilmente vergato da una mano maschile, ma non offre alcuna identificazione sul suo autore. Le parole brillano se sottoposte alla luce di una lampada a fluorescenza, come animate da un tipo peculiare di esistenza vitale e incomprensibile e di notte, quando il cielo è coperto e la luna fa capolino tra le stelle, provo la sensazione che celino misteri ancestrali di cui pochi sono a conoscenza. Eppure lo scritto è breve e non presenta una datazione storica o geografica; ciò non aiuta a capire il perché della sua esistenza. Non c’erano altri fogli dove ho trovato l’oggetto e non esiste indizio che possa far ipotizzare l’esistenza di altre “pagine”. Ma ecco il testo, così come sono riuscito a tradurlo, senza alcun commento da parte mia. Il tempo ci dirà se il destino preveda che questo mistero sia un giorno svelato o se resterà parte dei tanti punti oscuri che affollano le reminiscenze della vita umana: Io che sono l’ultimo parlo al nulla in ascolto. Io che ho sondato gli abissi della consapevolezza espongo quel che ho imparato in questa vita e che mai più vorrò dimenticare. Sono stato un uomo attratto dagli antichi misteri, splendide avventure in luoghi fatati, gelide carezze di viaggio sussurrate da posti remoti dove il sole tinge di cremisi i sogni del mondo. Alcuni dicono che esistono luoghi dimenticati dove le emozioni vivono davvero, ma che sono inaccessibili per i mortali. Ma è difficile se non impossibile recuperare in un solo momento le emozioni di una vita. Vanno e vengono e mai si fermano per più di pochi istanti in uno stesso posto, in un medesimo cuore. A volte provo la curiosa impressione di avvertirle in me talmente potenti da rimanere assordato dalla loro immensità. Il loro canto carezza i miei sensi e li fa vibrare delle possenti voci della notte silenziosa. A volte capita che in queste notti siano comprensive e allora mi lasciano riposare, non visto, in universo un fatto di sogni colorati e struggenti. Altre volte, però, non sono così carezzevoli. Gridano nelle mie orecchie e risuonano dei loro gemiti inumidendo il mondo di lacrime amare, le mie, ormai inutili come tante lucciole che abbiano inesorabilmente smarrito la strada di casa. E la mia mente si svuota e il mio cuore, esanime, rintocca per me la vita che mi resta da vivere in solitudine. Ecco, io non sono più un uomo e forse non esisto più per gli altri che un tempo furono miei simili. Qui dove sono non ho né saggezza né una visione migliore del mondo, ma voglio lasciare un messaggio per la donna che mi ama senza riserve. Per chi
12 lotta con me e contro di me per non farmi restare solo. Talvolta, di notte, allungo le mie dita da spettro nel chiarore lunare, ascolto i fugaci battiti del mio cuore aleatorio temendo che ciascuno di essi possa essere l’ultimo. Ci sono momenti in cui il mio animo stanco recepisce i messaggi giusti e allora mi affanno, provo, m’invento, cerco in ogni modo di capire che la solitudine non è sempre giusta se minaccia di essere la sola compagna di una vita. Ma i miei occhi hanno visto troppo, le mie orecchie sono state sferzate a lungo dal vento della morte. Per questo motivo non sono sempre pronto a capire la differenza tra un diverbio e un’offesa. È così che divento sordo, che penso alle mie emozioni come alle uniche possibili, le sole in grado di preservare la mia anima dall’eterna dissoluzione. E più tempo passo in loro compagnia, più i battiti del mio cuore proseguono nella loro corsa selvaggia e il tempo finisce refluendo nell’infinito. Non so cosa rimarrà di me alla fine della mia esistenza, sempre che questa si possa definire “vita”. È, questa, la maledizione di chi passa la propria vita a sognare di vivere. Chi riesce a far innamorare delle sue pagine intrise di lacrime non sempre riesce a far sognare chi gli è vicino. E come il fiume della vita scorre verso il mare dell’oblio, così i miei attimi scorrono verso il nulla. No, non soffia vento nel cielo. Non c’è pioggia nelle nuvole che scorrazzano non viste sui sogni del mondo. Su tutti, tranne i miei. Alzo gli occhi verso il manto funereo della notte ma non vedo stelle, non vedo luce passibile di essere vista da occhi umani. Eppure riverbera ovunque un chiarore soffuso, una luce spettrale che arde, non vista, in cui brilla la parola “solitudine”. Allora mi alzo e apro la finestra che dà sulla squallida visione di un luogo come un altro. La mia mente ha il potere di cancellare questa visione ma non quello di scegliere quale utilizzare al suo posto. Non è il suo compito, non prova lei le emozioni dettate dall’istinto. E così i miei occhi percorrono quella desolazione dove leggo il mio nome, guardo alberi le cui cime irrequiete si agitano al suono di un vento fantasma, sondo il cielo frusciante di nuvole oscure, patetici sospiri, lacrime amare. Adesso piove. Gocce di rugiada, fatte di pianto e rabbia. Gocce fatte di lacrime che mi fanno tremare di tristezza. Davanti a me si erge l’ombra di chi amo, riamato, che forse torce le sue dita in un sonno convulso. Lo fa per causa mia, non posso esimermi dal restare sveglio. Sta dritta, in piedi, in un paesaggio desolato, gli occhi neri di pianto, le labbra scosse da un tremito di rabbia e tristezza. Fragile nonostante le apparenze, mi guarda scandendo per me il tempo che mi resta. Il chiarore della desolazione l’avvolge, la rende più tesa, oscura. Vorrei poterle cingere le spalle durante le sue
13 lacrime. Oggi stesso ne ho avuto la voglia, avrei voluto ascoltare i suoi singhiozzi senza volgere il capo dall’altra parte. Mi tendeva le mani ma io non le ho afferrate. Ho lasciato che le mie emozioni sconvolte parlassero per me. Ecco, vorrei essere lì dove ora riposa la sua vera anima, il suo viso dagli occhi faticosamente assopiti. “Resta con me” le direi “e torna indietro a quando questi alberi non stormivano e questa pioggia non cadeva. Io non parlerò, non griderò contro di te della mia rabbia repressa e tu non dovrai gonfiare di lacrime le nuvole del cielo.” Vorrei potermi inginocchiare al suo cospetto e carezzarne dolcemente i capelli. Adesso tenderei le mie mani nella sua direzione, bacerei le sue dita convulse, carezzerei il suo povero cuore fatto di rabbia e sospiri. È difficile vivere quando si hanno troppe responsabilità. Troppa solitudine che lascia l’anima ricoperta di un sottile strato di ghiaccio. Ma è un ghiaccio bollente che non riscalda. Ma come il sole cerca sempre il mare dove spegnere la fiaccola della rabbia per accendere quella della vita così io cerco te che dormi tranquilla nella notte, dove la pioggia è desolazione. Senza le tue ali non volo, ma senza le mie piangi. Senza di noi non ha senso far di tutto per vivere se devo sopravvivere. Desidero che il mio cuore perda l’asprezza datami da una vita infelice, sola e desolata, per comporre finalmente il libro della vita, la nostra. Per non dover temere, come ora, di ascoltare per l’ultima volta la tua voce lontana nel vento. Ma forse esiste una speranza. Forse la luce che adesso sto vedendo può riscaldare queste mani ormai fredde e questo cuore spento. Vado verso di lei, i suoi occhi mi guardano, le sue labbra tremano di speranza. E capisco che il cielo è ancora nostro; ma devo crederci. Le nostre dita s’incontrano una volta ancora e finalmente mi sorride. A lei prometto di tornare a volare insieme, e questa volta sarà per sempre. Adesso le mie labbra sorridono dopo una vita di oblio e sussurrano qualcosa alle sue. Perché adesso e per sempre io sono con te, ovunque tu sia… Qui finiscono queste note, ma non il loro mistero. Chi sia o cosa fosse il loro autore è difficile dirlo. Forse si tratta di uno scherzo bizzarro, ma nessuna delle persone che conosco è stata in grado di chiarire al di là di ogni ragionevole dubbio se il materiale di questa pagina sia noto alla scienza. Come ho detto, non dovrebbe neppure esistere. C’è una cosa che non ho ancora evidenziato e che forse è collegata in modo francamente inesplicabile al Libro della Vita. Ho già osservato che di notte, quando la luna è alta nel cielo, le parole risplendono debolmente come
14 se fossero vive. Aggiungere qualcosa su questo punto è difficile perché l’oggetto è di per sé già abbastanza enigmatico senza fornire altri dettagli cui nessuno nel pieno possesso delle sue facoltà presterebbe attenzione; per questo motivo scrivo senza avanzare alcuna teoria sul fenomeno. La logica vorrebbe che le visioni che provo possano essere spiegate con sostanze allucinogene, ma giuro di non fare uso di miscugli psicotropi e l’esame al Carbonio 14 non ha rivelato la presenza di composti organici sul liscio foglio metallico. Non conosco il motivo per cui ogni volta che leggo queste parole di notte, quando il rumore del mondo tace, mi appare un paesaggio di tenebra dove l’oceano urla il suo silenzio alla notte dell’eternità. Lassù, in quel cielo punteggiato dei bagliori stellari la pioggia non cade mai. E capita che veda due forme alate che brillano misteriose, una accanto all’altra, di cui non riesco a scorgere i lineamenti. Cosa siano o rappresentino le due figure che in eterno volano tra le stelle io non saprei dire. Forse sono solo illusioni della mia mente particolarmente fantasiosa, forse sono gli spiriti immortali di qualcuno o qualcosa che ha vissuto laggiù e che ha voluto lasciare una traccia della propria esistenza. Sinceramente, non lo so. Mi è sufficiente sgombrare la mente e leggere il foglio sconosciuto. Allora i due esseri alati dispiegano le loro ali sul mondo e come gabbiani delle stelle volano per sempre attraverso gli insondabili Cieli del Sogno.
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Sull’Oceano del Tempo “Due cuori veramente uniti non hanno bisogno delle convenzioni umane: essi esistono, al di là di persone, cose o dello stesso scorrere del tempo”. M. V.
1 È difficile spiegare il motivo del fascino che il mare esercita sull’animo umano. Questa sconfinata distesa liquida attrae l’uomo ma contemporaneamente lo respinge evocando sensazioni, delicate o terrificanti che siano, sempre intense. Personalmente sono molto legata al mare, soprattutto quando è in tempesta, e a volte può succedere che nei week-end molli la vita quotidiana per scappare verso quello che mi appare come un azzurro universo per contemplarne la misteriosa bellezza. La mia mente si perde sulle sue onde tempestose, sulla sua superficie corrucciata dal vento, e osservo le procellarie e i gabbiani che eseguono le loro delicate piroette tra i flutti iracondi, avendo come unica compagnia i miei sogni più nascosti. A volte mi accade di restarmene sola, in cima a una scogliera che si protende per alcuni metri sull’abisso, apparentemente intenta a scrutare le acque ma avendo in realtà gli occhi chiusi perché in quei momenti non ho bisogno di aprirli per avvertirne la maestosa melodia. Eppure, per natura non sono mai stata una persona romantica o impulsiva, bensì scettica e razionale. Alcuni anni fa, però, accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la mia visione del mondo, del tempo e della vita stessa. Il fatto in questione non avvenne qui, tra le prosaiche strade e gli enormi edifici di New York, ma in una modesta cittadina costiera sconosciuta ai più. Con il senno di poi potrei agevolmente catalogare ciò che è avvenuto come appartenente a sogni piuttosto vividi, ma ci sono dettagli e ricordi che mi fanno capire quanto la vicenda che ho vissuto non possa essere limitata entro confini tanto evanescenti. Essa esiste più che nella mia mente, nel mio cuore e ha fatto di me ciò che sono: una donna curiosa e aperta a nuovi piani dell’essere e ai sogni. Ma forse è meglio che proceda con ordine. Mi
18 chiamo Leyla Blueland e sono una giornalista del Big Apple Time, un noto quotidiano di New York. Sono sposata da quattro anni con Max Steel, reporter per l’Advertiser, giornale facente parte dello stesso gruppo editoriale. All’epoca io e Max non ci conoscevamo ancora ma, in un certo senso, fu proprio grazie a ciò che avvenne nello sperduto villaggio di Greentown, nel Maine occidentale, che vennero gettate le basi per la nostra unione. Come ho già detto, ciò potrebbe essere il risultato dello stress originato dai mille impegni della vita moderna: non sono poche le volte in cui le immagini che ho visto e le esperienze che ho vissuto e sperimentato mi appaiono come eventi fantastici, del tutto slegati con la realtà. Ma quando il mio sguardo si posa sulle onde dell’oceano per contemplarne la selvaggia potenza, ciò che credevo un sogno svanisce come la nebbia del mattino e i ricordi si affacciano prepotenti nel mio cuore per farmi rammentare che esistono, che non sono stati ombre della mente. Perché avevo scelto proprio Greentown, una zona isolata e non certo attraente per il turista medio? La risposta è da ricercare nel mio carattere, da sempre affascinato dalle storie raccontate accanto al fuoco e dal mistero. Avevo appena ventiquattro anni e un’insopprimibile passione antiquaria che mi aveva portata molte volte in giro per paesini il più possibile isolati, posti dove il turista non andrebbe mai perché troppo scomodi o all’apparenza noiosi, ma che per me rivestono una profonda attrattiva. Se poi da quelle parti c’è anche il mare allora è impossibile che possa restarne alla larga. Tutto iniziò il giorno in cui, per un caso fortuito, spulciando tra le carte di famiglia avevo appreso dell’esistenza di certe lontane parentele di cui fino ad allora ero all’oscuro. Mia madre non me ne aveva mai parlato e quando trovai i documenti e le carte nella polverosa soffitta assunse una strana espressione di timore a mio giudizio assolutamente misteriosa. Mi parlò di una storia fatta di credenze e dicerie su persone che si diceva fossero in combutta con strane entità nei primi anni del 1920. Tutte sciocchezze, naturalmente, ma che nella mia razionale testolina si spiegavano con quelle assurde credenze ancora profondamente radicate in certe zone di provincia. Conoscendomi perfettamente mia madre, donna pratica e schietta, mi mise in guardia dall’idea di recarmi sul posto per saperne di più, limitandosi ad asserire, in verità in modo sibillino, che i personaggi in questione non godevano dell’incondizionato rispetto della popolazione del paese; ciò significava che se mi fossi messa in testa l’idea di guardare più a fondo nella faccenda gli eventi avrebbero potuto non essermi troppo favorevoli. Ma il mistero attrae il mistero e le parole di mia madre ebbero, come unico effetto, quello di suscitare un profondo
19 interesse da parte mia. La mia famiglia dovette abituarsi all’idea e devo dire che, vista l’inutilità del loro tentativo per convincermi del contrario, mi diede tutto l’aiuto possibile. Fu così che pochi giorni più tardi acquistai un giaccone pesante, pantaloni in lana grezza, robusti scarponi per escursionisti e razzi da segnalazione. Tutta roba che si aggiunse alla già nutrita attrezzatura che mi aveva accompagnata nel mio girovagare per posti e zone caratteristiche. Quando lasciai New York il mio lavoro era momentaneamente finito e l’inchiesta sullo strapotere delle grandi multinazionali faceva bella mostra di sé sul tavolo del mio direttore. Avevo impiegato quasi un anno a concluderla ma ne ero soddisfatta e, soprattutto, lo era il mio capo. Così non fu difficile farmi concedere qualche giorno libero e un bel mattino rassicurai la famiglia e salutai gli amici. Organizzare la spedizione di una sola persona è semplice: sistemi la tua roba, saluti i familiari e parti. Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno i miei mi accompagnarono all’aeroporto dove salii sull’aereo che mi avrebbe portata sulla costa orientale. In seguito avrei proseguito fino a Cape Cod, circa a sud est di Boston, per poi raggiungere finalmente la mia meta. Il viaggio fu noioso, ma non quanto il tragitto che dovetti compiere, al volante di un’auto non in ottime condizioni, fino a Greentown. Più che strade asfaltate, incontrai quelli che erano poco più che sentieri tracciati nei boschi, peraltro ingombri di detriti e avvallamenti. Fortunatamente la segnaletica era precisa e ciò mi permise di non perdermi tra le tante stradine che costeggiano quella zona. Qua e là mi capitò di incontrare alcune zone abitate e tre o quattro volte sfilai davanti a bellissime ville che risalivano agli inizi del diciannovesimo secolo. Era una giornata molto mite e soleggiata: il tempo ideale per viaggiare in auto. Quando arrivai a Plum Island il paesaggio cambiò e gli alberi e i boschetti che avevo incontrato soltanto pochi chilometri prima lasciarono il posto a strisce di sabbia sconfinata e deserta. Solo l’azzurro dell’oceano, così carico da sembrare dipinto, dava un tocco di vita a un paesaggio dal carattere altrimenti noioso e solitario. Lasciai la provinciale prima di mezzogiorno e imboccai una stradina secondaria che, costeggiando l’Atlantico, mi avrebbe portata verso la mia destinazione. Greentown mi apparve quasi all’improvviso dopo qualche ora e fu con vero sollievo che imboccai il corso principale, ingombro di auto, che divide letteralmente in due la zona. Le insegne dei negozi oscillavano pigramente nella brezza del pomeriggio, tanto balsamica quanto gradevole, che spirava dal mare con costanza e continuità quasi matematiche. Le case, tutte basse e nel tipico stile dei primi del novecento, davano all’insieme un tocco fiabesco di un luogo uscito per incanto dal
20 passato, indifferente allo scorrere del tempo che, dal canto suo, non ne intaccava minimamente l’aura di maestosa antichità. I giardini delle tante villette che oltrepassai erano generalmente ben tenuti, dalle aiuole rigogliose, i viottoli e i marciapiedi senza un filo d’erba fuori posto, delimitati da staccionate in legno dipinto di bianco. Tanto era l’ordine che ovunque regnava assoluto che per un momento mi chiesi se, invece che in un tipico paesino americano di provincia, non fossi finita per errore in qualche cantone svizzero non segnato dalle carte. Persino il traffico, teutonicamente ordinato, era anni luce lontano dal caotico guazzabuglio di New York e non solo per il volume incomparabilmente minore. Anche gli abitanti mi parvero all’altezza della loro cittadina, perché chiunque incontrassi dispensava allo stesso tempo informazioni e gentilezza. Seppi così di alcune zone molto caratteristiche di Greentown e che valevano almeno una visita. Tra queste la vecchia fabbrica del pesce, costruzione pittoresca e affascinante con i suoi mille comignoli e i mattoni lastricati bianchi in perfetto old-style, il Passo del Salmone sul Wild River, un fiume selvaggio che attraversa l’estremo nord della cittadina e la curiosa immagine dell’Osservatore dell’Infinito, un statua costruita sulla sommità di uno strapiombo da brividi all’estremo nord del porto. Grazie alle indicazioni dei passanti seppi anche il nome dei tre soli alberghi della città, ciascuno a suo modo caratteristico. Se il primo subiva l’invadenza tipica delle grandi metropoli con tutti i relativi agi e difetti, gli altri erano più normali anche se era il terzo ad attirarmi di più. Si trattava dell’Onda perfetta, una pensioncina a conduzione familiare dove mi dissero che la cucina era ottima, il trattamento buono e i prezzi modesti. Dopo alcune sviste che mi portarono lontano dalla mia meta riuscii a raggiungere la locanda in questione per mezzogiorno e ne apprezzai lo stile austero ma non privo di eleganza, la costruzione lignea dipinta di un bianco abbagliante, la base in mattoni di cotto che contrastava visibilmente, ma non in modo pacchiano, con il resto dell’insieme. L’ingresso principale era a pianta quadrata, il giardino era spazioso, disseminato di rose e piante basse, mentre alcune sedie a sdraio disposte strategicamente garantivano agli ospiti la brezza o l’ombra a seconda del momento. Quando entrai vidi un ambiente lindo e pulito, reso ancora più gaio dalla luce che entrava a fiotti dalle finestre. Subito mi resi conto che al pianterreno non c’erano altre stanze fuorché quella che serviva allo stesso tempo da ingresso, sala da pranzo, cucina e legnaia. Un enorme caminetto, deliziosamente rifinito con decorazioni che richiamavano scene di caccia alla balena, troneggiava al centro dell’ambiente. Accanto, qualcuno aveva sistemato una grossa catasta di
21 legna da ardere. Più in là una mezza dozzina di tavolini già apparecchiati, anche se non vidi nessun avventore. Davanti a un bancone in legno laccato di bianco c’era una donna di una certa età, ma non anziana, che stava lavando velocemente qualcosa nell’acquaio. La sua matura bellezza mi apparve evidente, dandomi l’impressione di una giovinezza che ai suoi tempi doveva essere stata invitante. Quando mi avvicinai sollevò la testa squadrandomi con un gaio sorriso chiedendomi se potesse essermi utile. «Buongiorno!» esordii «la porta era aperta e così…» «Ha fatto benissimo!» rispose la donna senza darmi il tempo di finire la frase «sono Liira Finetti, la proprietaria. In cosa posso esserle utile?» «Vorrei una stanza!» risposi anch’io con un sorriso e poi «lei è italiana?» «Da molte generazioni. I miei antenati vennero qui oltre trecento anni fa; pare che la gente accogliesse bene i forestieri e così decisero di restare. Lei invece di dov’è? Dall’accento mi sembra di New York.» «Lei ha un buon orecchio per le pronunce, ma è vero!» le sorrisi «sono qui per acquisire informazioni genealogiche.» La donna mi guardò un secondo poi timidamente azzardò: «Be’, se mi dice di che si tratta forse potrei aiutarla io. Da queste parti, come immagina, è difficile non conoscere molta gente.» La tipica diffidenza newyorchese mi tenne in scacco per alcuni secondi, ma poi il mio carattere naturalmente esuberante ebbe la meglio: «Sono qui per notizie su Maximus e Leyla De Valois di cui ho trovato solo scarne informazioni. Pare siano tra i miei avi più prossimi. Sono un’amante delle vecchie storie e mi piacerebbe saperne di più.» «È buffo che sia venuta proprio qui da me a chiedermi informazioni su Maximus e Leyla!» sbottò in una risata garrula. «Ma io sono una sciocca, mi scusi! Lei non può certo sapere. Le persone di cui chiede sono al centro di una bellissima leggenda. Io stessa, in un certo senso, vanto una certa parentela in proposito.» Capitava a puntino. Qualcosa mi disse che avrei potuto sapere molte cose dato che quella donna sembrava disponibile al dialogo. Immaginai non avesse molte occasioni per parlare con una forestiera e forse avremmo potuto esserci utili a vicenda. Cominciai allora a farle molte domande, ma quella rifiutò con un elegante quanto risoluto diniego del capo: «Prima le faccio vedere la sua stanza e poi stasera, dopo una buona cena, le racconterò ciò che so di una storia che troverà certamente di suo gusto.»
22 Visto che non potevo fare altro, assentii. La mia ospite mi aiutò a portare di sopra le valigie spiegandomi che, poiché eravamo nella bassa stagione, avrei potuto scegliere la stanza che più mi piaceva. La seguii per una rampa di scale anguste, costruite con pesanti assi di pino, sempre verniciate di bianco. A quanto pare il bianco era la tonalità predominante a Greentown. Alla fine della rampa ci ritrovammo in un corridoio rivestito con una carta da parati decisamente pesante. Notai che vi erano solo quattro stanze. Ebbi occasione di vederle tutte e ne scelsi una non troppo grande ma realmente deliziosa. Osservandola, confermai a me stessa che quella pensione era davvero una casa delle bambole. Come spiegare altrimenti un letto in ferro battuto decorato con motivi naif, una cassettiera bianca con i cassetti rosati, due comodini della stessa tonalità e delle tendine in pizzo che ornavano finestre molto civettuole? Era anche spaziosa e aveva un’aria molto comoda. Solo il bagno, cui si accedeva tramite una porticina dai motivi floreali incisi direttamente nel legno, era invece piuttosto angusto. «Pensa che possa andare bene?» mi chiese la padrona di casa. «Benissimo, grazie!» Posai le mie valigie sul letto che scricchiolò leggermente: «È affamata?» «Molto! È da stamattina che non mangio un boccone.» «Posso darle solo il piatto della casa. Oggi il menù prevede stufato di cernia ai funghi. Se il pesce rientra tra i suoi alimenti preferiti penso che non resterà delusa.» Risposi che mi andava bene e, dopo avermi informata che si cenava alle venti, la donna mi lasciò sola nella stanza. Disfeci le valigie e sistemai la mia roba con tutta l’attenzione che la stanchezza del viaggio mi consentiva, poi mi gettai sul letto, pensierosa. C’era un ché d’indefinibile nella padrona della locanda, qualcosa che sulle prime non avevo notato. Non era repulsione, ma semmai uno strano interesse e curiosità come se mi aspettassi istintivamente qualche rivelazione. Sul momento non sapevo cosa pensare di questa sensazione ma in seguito, quando venni a conoscenza di certi eventi, avrei capito che il mio istinto non si sbagliava. La situazione, tuttavia, mi elettrizzava. Alle otto precise ero già seduta a un tavolo (scoprii ben presto di essere la sola ospite della pensione) davanti a un piatto di stufato fumante e in procinto di conoscere i primi dettagli di una storia memorabile. È grazie a essa se ora la mia esistenza è cambiata, e fino a quando avrò vita conserverò quelle esperienze nel mio cuore per insegnarle ai miei figli.
23 2 Eravamo sedute a uno dei tavolinetti dell’Onda perfetta, dopo una cena squisita e davanti a una buona tazza di caffè nero e fumante che sorseggiavamo appena quando la mia ospite cominciò a parlare. Fino a quel momento avevo discusso delle cose più svariate, ma quando le accennai della vecchia leggenda che m’interessava Liira assunse una curiosa espressione, quasi avesse accesso ad altre, e più sublimi, sfere d’esistenza. Così mi misi comoda sulla sedia e mi preparai ad ascoltare il suo racconto. «All’estremo nord di questa cittadina» disse «le montagne raggiungono una notevole altezza e hanno un aspetto inusuale, composte come sono di nuda roccia o ammantate di vegetazione. Per molta gente quei rilievi montuosi e imponenti sono una meraviglia della natura mentre per altri, al contrario, hanno un ché di inquietante. Ma per enigmatiche che siano sono nulla al confronto del possente sperone di roccia che si erge adiacente al porto, una solida massa che poggia le proprie basi tra la terra e il mare, mai intaccata dagli uomini o dagli elementi. Quel picco desolato sembra uscito dal tratteggio nervoso della mente di un folle o un genio, perché si protende in un vasto spazio che niente ha di terrestre. Il viaggiatore che lo contempli per la prima volta è preso dalla stessa paura vaga e indefinibile che deve aver provato il primo uomo che contemplò l’oceano, migliaia di anni fa. La gente di qui guarda allo sperone con un misto di terrore e venerazione e la cosa è tanto più curiosa se si considera che non è più in vita nessuno di coloro che furono presenti ai fatti che costituirono l’inizio della leggenda dell’Osservatore dell’Infinito. Alcuni abitanti di Greentown ne ammirano le pareti scoscese sul mare, strutture titaniche fatte di roccia e marmo, ma è un dato di fatto che quell’eremo inesplicabile sia temuto perché troppo vicino al cielo. Soprattutto, la gente ne teme la statua sulla sommità. Le persone più sensibili e fantasiose dicono che sia viva, e parli alle nebbie del mattino che salgono fluttuando dall’oceano. Sono tutte storie, è ovvio, ma nessuno che abiti qui ha mai osato salirvi quando il cielo notturno svela agli uomini il dorato disco della luna. I pochissimi turisti non credono a queste storie e alcuni vi sono saliti senza riportare indietro immagini inspiegabili, ma resta il fatto che non riuscirebbero a far capitolare dalle proprie convinzioni nessuno che sia un abitante di Greentown.» Osservai quella donna infervorarsi mentre parlava, in un modo che capita spesso anche a me quando mi appassiono a un concetto. La vista
24 del suo viso le cui guance si erano imporporate e la sua voce dal tono inusuale e melodico avevano il potere ipnotico di mettermi a mio agio, consentendomi di poter vedere attraverso le sue parole fatti e persone di cui mi parlava. Ma in quel momento mi accorsi che i suoi occhi avevano perso quell’aria sognante di prima, come se fosse tornata a guardare di nuovo me, chiudendo per un momento il suo accesso ad altre realtà certamente più poetiche. «Quella statua» continuò la mia ospite «è intimamente connessa ai due giovani, Maximus e Leyla De Valois, due persone di cui si è sempre parlato nel modo sbagliato, secondo me. La loro storia risale praticamente alla fondazione di Greentown. Lei era figlia di una buona famiglia del posto, retta da un uomo che aveva fatto la sua fortuna dedicandosi alla caccia al Capodoglio, che le sue navi inseguivano fino all’Artico con alterne sorti. Ma allora, quando guadagnavano i Valois e i Finetti, guadagnavano tutti. Maximus era un eccentrico, una persona che non godeva di una buona stima da parte del prossimo, ma non per crimini o cose del genere. Semplicemente non accettava di vivere secondo le norme della società, con i mille paradossi che questa rappresenta. Quindi niente feste, niente inchini e riverenze, niente formalismi inutili. Il suo comportamento era spesso motivo di discordie in famiglia. Dal canto suo Leyla era una ragazza educata, nata in una famiglia tradizionale e ligia al proprio dovere nella società civile. Anche lei, però, non era esattamente conforme alla società in cui viveva ed era ribelle quel tanto che bastava per attirarsi le simpatie di Maximus, e non solo in senso amichevole…» «Si misero insieme?» chiesi incuriosita. «Non esattamente. Le famiglie dei due erano quanto di più diverso si potesse immaginare e, al contrario, i due ragazzi erano così simili che potevano essere agevolmente scambiati per fratello e sorella tanto la visione della vita era la stessa per entrambi. Ma per uno di quegli imperscrutabili scherzi del destino il loro incontro andò subito ben al di là della pura e semplice amicizia. Il rampollo dei Valois aveva la fama di conquistatore di cuori femminili, mentre lei, al contrario, era schiva e riservata, eppure bastarono pochi sguardi perché le loro anime si fondessero una nell’altra senza via di uscita. Si amarono, e molto anche, ma non furono capiti dalle famiglie e nemmeno dalla gente della contea. I soliti curiosi vociferavano che fosse una storia di breve durata visti i trascorsi di lui, per altri erano semplicemente scandalosi perché lei era stata promessa a un altro. Le chiacchiere della gente fecero in modo che presto i due giovani si vedessero braccati come dei criminali. Poi, un
25 giorno, scomparvero senza lasciare tracce e si parlò di magia nera, inganni, sortilegi, anche di assassinio. Ma nessuno seppe più nulla, non veramente. Oggi la loro storia è una leggenda, un monito che i genitori raccontano ai bambini sul far della sera, uno spettro che aleggia nel buio dell’ignoranza umana. Se va in giro a chiedere del perché quella statua troneggi sulla rupe all’estremo nord del porto le parleranno di una maledizione o, nella migliore delle ipotesi, le diranno che era la giusta punizione per un uomo che ha sbagliato corteggiando la donna di un altro. Ma nessuno di qui sa, o sapeva, dei sentimenti che c’erano dietro ai comportamenti dei due amanti. E forse a nessuno è mai interessato sapere qualcosa.» «Cosa rappresenta “l’Osservatore dell’Infinito?”» Liira annuì: «Quella statua rappresenta Maximus De Valois ed è praticamente un monumento, anzi no, il monumento di Greentown. Osservarla al tramonto fa un certo effetto, soprattutto se se ne conosce la storia. Anche se, da queste parti, non tutti sembrano interessati agli eventi che accaddero in quel periodo perché considerano quella statua con molta superstizione. Ma mi chiami Liira, mi fa sentire meno vecchia!» Sorrisi: «Quanto è stretta la tua parentela? Sono troppo indiscreta a farti questa domanda?» «Sono la pronipote di Leyla ed è da tanto tempo che sono appassionata della loro storia. In un certo senso mi fa compagnia, specialmente da quando sono rimasta sola. E tu, sei sposata?» «No, sono felicemente sola e senza nessuno che attenti ogni giorno al mio equilibrio mentale!» Liira rise di gusto: «Ti capisco, per complicarsi la vita c’è sempre tempo!» Per rispetto verso di lei evitai di farle domande sulla sua vita privata, anche se la mia curiosità da giornalista impenitente non avrebbe usato tanti riguardi. Notai però che si era fatta meno loquace rispetto a soli pochi minuti prima, sulla statua: «Se davvero vuoi saperne di più su di loro fa’ un giro per il paese, chiedi alla gente e va’ alla Biblioteca Comunale. Lì fai il nome di Sheila Tilton e dille che ti mando io. Ti darà tutte le informazioni che desideri sia su Greentown che sulla statua.» «Perché non mi dici tu tutto quello che voglio sapere? Se ne sei così attratta le tue informazioni mi risulterebbero preziose.» «Questa è la giornalista che viene fuori…» «È la mia natura.» «Allora non ti sarà difficile condurre una tua personale inchiesta sull’argomento, però stai tranquilla: penso che farti rendere conto da
26 sola, con i tuoi occhi, della loro storia, sia la cosa migliore. La mia voce è solo una campana, ma è giusto che tu conosca anche i pareri di gente diversa da me. Poi, se vorrai, ne riparleremo insieme, d’accordo?» L’argomento era virtualmente chiuso ed evitai di porle altre domande per non indispettirla. C’era però qualcosa di misterioso nel suo atteggiamento e mi ripromisi di tornar presto alla carica, ma non quella sera. La nostra conversazione cambiò argomento; Liira si mostrò molto curiosa sulla mia vita professionale, la mia famiglia, persino le mie amicizie. A tratti mi parve invadente, ma nel senso buono, anche se per forza di cose dovetti mettere dei limiti a quello che poteva o non poteva conoscere della mia vita. Nonostante questo mi dava la curiosa sensazione di una di famiglia anche se non sapevo assolutamente spiegarmene la ragione. Di lei seppi che non era mai stata sposata ma che aveva amato un uomo e che, a volte, s’incontravano per stare un po’ insieme e chiacchierare, ma senza impegno. La sua pensione era stata la sua casa natale ed era tutta l’eredità che le avevano lasciato i suoi. Ne aveva fatto un albergo e guadagnava quel tanto che bastava per condurre un’esistenza decorosa e tranquilla. Le chiesi se a volte si sentisse sola e lei mi guardò con degli occhi che esprimevano una tristezza infinita, anche se le parole che le apparvero sulle labbra sembravano animate dalla saggezza tipica di chi ha già visto troppe cose per poter ripetere gli stessi errori. «Non mi sento sola più di tanti altri, e non lo sono mai veramente. Ieri sei apparsa tu, quando andrai via ci saranno altri ospiti. Conosco molte persone e come ti ho già detto c’è un uomo che mi dà il suo appoggio quando serve. Mi manca, è vero, qualcosa, ma non è l’amicizia. Avrei voluto dei bambini ma il destino ha deciso altrimenti. Pazienza! Vuol dire che mi dedicherò ad altro finché Dio mi darà le energie per vivere la mia vita. Ma un sogno ce l’ho anch’io…» «E qual è?» Liira mi sorrise, complice: «Vorrei vivere il tempo che mi resta in compagnia della persona che una volta ogni tanto vado a trovare.» «L’uomo di cui mi hai accennato prima?» Annuì: «Gli ho parlato ed è d’accordo. Dobbiamo sistemare alcune questioni e se le cose si risolveranno forse andremo a vivere insieme per sempre.» Un lieve accenno di lacrime le velò per un attimo gli occhi, ma finsi di non notarlo. «Sarebbe meraviglioso!» esclamai, ma non sentivo davvero queste parole.
27 Avevo notato che il suo sguardo si era di nuovo fatto sognante. Di nuovo ebbi l’impressione che si perdesse in un mondo fatto di nuvole e sogni e qualcosa mi disse che soltanto il suo corpo era vicino a me e che il suo pensiero e il suo cuore aleggiavano tranquilli lassù, sull’inesplicabile picco che si eleva tra il cielo e la terra.
3 Il mattino seguente mi alzai presto, mi lavai, indossai un abbigliamento leggero e scesi nella saletta per mangiare un boccone. Liira m’invitò, prima di fare un giro per raccogliere le informazioni che volevo, a dare un’occhiata alla statua. Erano le nove in punto. Accettai di buon grado e, mentre camminavo immersa nell’ombra dei viali alberati, ripensai alla strana, ma bellissima, storia di Leyla De Valois. Sembrava uscita da una leggenda medievale ma era affascinante nella sua semplicità. Arrivata al porto mi fermai un istante a guardare le imbarcazioni entrare e uscire dalla rada, gli uomini che preparavano le reti, assaporai gli aromi tipici dell’ambiente e osservai rapita i gabbiani volteggiare alti per poi tuffarsi, veloci e furtivi, sui pesciolini che i pescatori gettavano fuoribordo. La scena mi mise una pace incredibile e, con un sorriso sulle labbra, mi diressi verso la zona di mio interesse. Anche dalla mia relativa distanza era impossibile non restare stupiti dalle dimensioni e dall’altezza di quel picco solitario. Era un immenso obelisco di pietra e la sua superficie appariva nel complesso scura anche se presentava curiose zone luminose come se recasse incastonate migliaia di stelle. Arguii che doveva trattarsi del marmo che faceva parte della sua composizione. Fui veramente impressionata da quell’effetto fantasmagorico che di certo, da solo, sarebbe bastato a dare adito alle più svariate leggende. La base, grossolanamente squadrata, era ammantata ancora dalla nebbia che, vaporosa ed eterea, si alzava dalle profondità del mare per unirsi dolcemente alle nuvole. La mia guida mi propose di salire fino in cima ma quando arrivai davanti ai grossi gradoni esitai perché il posto m’infondeva una sottile inquietudine. Soprattutto, avevo paura delle raffiche di vento che potevano agevolmente spingermi verso l’abisso, data l’assenza di una qualsiasi struttura di protezione sulla roccia nuda. Spinta da Liira superai quelle paure e affrontai quella fatica fino alla sommità della piattaforma. Più di una volta fui tentata di tornare indie-
28 tro verso la sicurezza della terraferma, ma alla fine vinsero l’incoscienza e la curiosità. La prima cosa che notai una volta in cima era che nessun volatile l’aveva eletta come propria dimora. Quanto alla statua, si trovava su una piana grossomodo romboidale, massiccia, dalla tinta indefinibile, e non posava su alcun piedistallo. L’oggetto era a grandezza naturale, alto circa uno metro e settanta, e pareva sfidare la sua stessa natura rocciosa, tanto era ben realizzato. Raffigurava un uomo giovane, e quando mi avvicinai per esaminarlo più da vicino scoprii con una curiosa, indefinibile eccitazione che Liira non aveva affatto esagerato nella sua storia. Ogni dettaglio, ogni piega del mantello, ogni pelo della barba, i capelli, gli occhi, le labbra erano stati delineati con una perfezione squisita e ogni aspetto, anche il più minuto, riprodotto con una sovrumana perfezione. Il volto placido mostrava tutta la tranquillità di chi è consapevole che nella vita esista qualcosa di più oltre la nebbia della nostra ignoranza di uomini. Devo confessare che mi sentii a disagio davanti a essa, come se fosse una creatura vivente, anche se non nel senso con cui gli esseri umani intendono con il termine vita. Il ragazzo sembrava essere in attesa, di chi o cosa non saprei dire, ma tutto nella sua postura indicava quello stato d’animo. Il vento era sferzante e il suo ululato si confondeva con il cupo rimbombare dell’oceano ma era chiaro che quello non era un posto come tutti gli altri. C’era un che di strano in quel luogo, come se un’invisibile presenza aleggiasse da tempo immemorabile a guardia della statua, una presenza che confondeva la sua voce con i rumori della natura che, dal canto suo, sembrava proteggere quella statua dall’invadenza degli uomini e dalla loro arroganza. Il materiale non sembrava neanche granito o arenaria ma una sostanza estranea, diversa, quasi come se l’oggetto in questione fosse stato forgiato in un posto che non seguisse le leggi fisiche a noi note. Non riuscivo a spiegarmi il perché delle strane sensazioni che provavo e forse non avrei neanche voluto. Guardai il panorama mozzafiato che mi si stendeva davanti, stando bene attenta a non avventurarmi troppo vicino al ciglio oltre il quale si spalancava l’abisso. Provavo la curiosa sensazione di essere sospesa nel cielo insieme a quella statua enigmatica perché il mio mondo, lì, era fatto di nuvole e oceano. Proprio il liquido elemento si estendeva in tutta la sua maestosa bellezza, sconfinato in ogni direzione, rivaleggiando in potenza con il cielo, la cui stupenda gradazione di azzurro si perdeva a sua volta nelle acque. Le nuvole, nere e imponenti, minacciavano un temporale coi fiocchi e se fossi stata in un altro luogo il buon senso mi avrebbe senz’altro suggerito di andar via, ma qualcosa d’indistinto mi tratteneva, un ché di magico che non mi
29 permetteva di allontanarmi e che m’infondeva, anzi, una sicurezza sconosciuta nella mia capacità di sfidare impunemente gli elementi. Quando arrivò la pioggia battente non provai paura ma una strana, insperata tranquillità, come se il volto di pietra accanto a me mi proteggesse dal vento e dai lampi che avevano iniziato a scatenarsi tutto intorno. Chiusi gli occhi, ancora incredula di trovarmi davvero in una situazione così stupidamente rischiosa, io che sono stata sempre una razionale per eccellenza, protetta solo da una statua dall’età indefinibile e da una buona dose d’incoscienza. E a un tratto non mi sentii più sola, come se oltre a noi ci fosse qualcosa o qualcuno, che ci osservasse. Mi voltai indietro e fissai la stupefacente statua alle mie spalle; l’impressione di non essere le sole creature viventi era quanto mai intensa, ma dietro a noi c’era solo quell’oggetto indefinibile. Io e Liira restammo lì per qualche tempo, non saprei dire quanto, poi il tramonto cominciò a inondare d’oro le acque agitate e decidemmo di tornare indietro. Soltanto quando fui nuovamente sulla terraferma quella strana sensazione disparve. Allora mi accorsi dei miei capelli fradici di pioggia. Sollevai il cappuccio impermeabile del mio giaccone e tornammo alla pensione il più velocemente possibile.
FINE ANTEPRIMA CONTINUA...