Green Cage, Caterina Peschiera

Page 1

Inuscitail28/4/2023 (15,70euro)

Versioneebookinuscitatra fineaprile e inizio maggio 2023

(5,99euro) AVVISO

Questaèun’anteprimacheproponelaprimapartedell’opera (circail20%deltotale)inletturagratuita.Laconversione automaticadiISUUavoltealteral’impaginazioneoriginale deltesto,quindivipreghiamodiconsiderareeventualiirregolaritàcomestandardinrelazioneallapubblicazionedell’anteprimasuquestoportale. Laversioneufficialesaràprivadiquesteanomalie.

CATERINAPESCHIERA

GREENCAGE

ZeroUnoUndiciEdizioni

ZeroUnoUndiciEdizioni

WWW.0111edizioni.com

www.quellidized.it

www.facebook.com/groups/quellidized/

GREENCAGE

Copyright©2023ZerounoundiciEdizioni

ISBN:978-88-9370-605-6

Copertina: Immagine Shutterstock.com

PrimaedizioneAprile2023

CAPITOLO1

Sempre lei, la vecchiaccia. La scruto da lontano mentre parla e parla, abituata a lasciar pendere dalle sue labbra i giovani innocenti seduti sull’erba.

Le piacciono le lezioni all’aria aperta, dice che il cervello va ossigenato, cheilverdeintornotranquillizzaglianimieapreallaconoscenza.

Su quell’erbatenera ci ho posatoanche il mio culetto di bimba, poco più diunadecinadiannifa.

Capto qua e là alcune parole pronunciate dalla bocca della più anziana maestra di questo famigerato Quadrante Dieci, nel quale ho la disgrazia di trovarmi a vivere. Anch’io me ne stavo lì, muta e attenta, preda del fluireininterrottodellesueparole.Tuttebelle,tutteballe.

Tranne oggi, perché quanto uscirà dalla sua bocca, tra un momento, sarà pura e sconvolgente verità. Sospendo quindi il mio proposito di sbatterle infacciailmioaddio:èun’occasionedanonperdere.

«Vi siete mai chiesti il perché del nome Greencage?» domanda la signora Walker Plitch. Ed eccola a rendere nota ai visi allegri dei suoi pargoletti la verità inquietante su quella che è stata da sempre la loro amata,bellissima casa,studiata intutti iparticolariperospitareal meglio la specie umana. È il momento di cogliere la loro intatta innocenza, e d’infrangere la bolla magica in cui questi piccoli sono vissuti. Qualcuno devepurfarlo.

«Facile! Greencage perché è tutto verde, maestra!» esclama subito un bambino.

«Bravo,avoipiaceilverde,vero?»

Il coro dei bimbi recita un lungo sì. La rivelazione va preparata con arte, un’arte appresa nel tempo, perfezionando, anno dopo anno, questo difficilepassaggionell’esistenzadeinostrifigli.

«Vi piace, insomma, e perché?» continua lei, guardando i piccoli, uno peruno.

Gli studenti, uno alla volta, danno voce alle loro idee: perché è il colore dell’erba; perché è un bel colore; perché nell’erba ci si può sedere; perchéilmiocane,altrimenti,nonsaprebbedovefarelacacca.

Tutti ridono. La maestra, con modi garbati, riporta la concentrazione e l’alluvionedirispostecontinuecomeepiùdiprima.

«Perché altrimenti le case, senza i rampicanti, sarebbero tristi e grigie» esordiscequalcuno.

«E le terrazze sarebbero vuote, senza nessun albero» spiega un altro. «I prati sarebbero solo terra, i coniglietti del parco giochi non saprebbero cosamangiare.»

La donna sorride. «Siete bravissimi! Allora vi faccio un’altra domanda: voi lo sapete cosa c’è lì fuori?» chiede ancora, indicando oltre i boschi verticalideicondomini.

Pianpianoarrivailbello.

«Niente.»

«Enoicomelochiamiamoquestoniente?»

«Deserto!»recitaunanimeilcorodivocine.

I bambini riprendono a dire la loro: «Dalla vetrata della mia camera si vedebenissimo.»

«Anchedallamia.»

La maestra li riporta all’ordine: «Da tutte le vetrate, bambini. Ma ditemi, cosamancaaldeserto?»

«Ilparcogiochi!»

«Poi?»

«Mancanolepersone.»

«Epoi?»

«Ilverde,maestra!»

«Sì,glialberi,lepiante!»

«Noisiamofortunatiaviverequi,dovetuttoèbello!»

Siamo al momento cruciale. La signora Walker Plitch non mi ha visto, mi trovo proprio dietro le sue spalle. Mi auguro che non debba girare lo sguardoproprioadesso.

«Sì bambini, nel deserto non c’è vita, non c’è acqua ed è caldissimo. Sapeteperché?»

I bambini si guardano perplessi, forse non se lo sono mai domandato.

Fuori è così diverso dall’interno dell’immensa cupola in cui vivono, ma perloroèsemprestatocosì.

La signora Plitch spiega: «Lì fuori, bambini miei, il verde è morto, bruciatodalcaloredelsoleedegliincendi.»

Ibambinisgrananogliocchi.Siamosoloall’inizio.

«Che cattivo il sole, può raggiungerci anche qui dentro?» chiede una bambina,congliocchiquasiinlacrime.

La maestra allarga le braccia, come a indicare lospazio incuisi trovano.

«Certo,iraggidelsolesonoquitranoi.»

I bambini si guardano intorno, studiando preoccupati mani e vestiti, temendo che la luce sui loro corpi cominci a infiammare ogni superficie. Aqualcunotremailmento,potrebbepiangeredaunmomentoall’altro.

«Ma qui dentro siamo alsicuro»si affrettaa direladonna. «La cupolaci protegge e sfrutta proprio la forza del sole, perché non è cattivo, grazie alla sua luce le piante vivono, il biposto sfreccia sulla rotaia e i vostri tablet funzionano. Queste cose ve le spiegherò per bene, ma un po’ alla volta. Vorrei invece che tornassimo a capire insieme perché chiamiamo questo posto Greencage. Perché verde l’abbiamo capito. E gabbia, secondovoi?»

Ibambinisonoperplessi.Perloroèunnomecomeunaltro. Sorrido dentro di me: so già come la mia ex maestra affronterà questa spinosa questione. I più furbetti e curiosi allungano lo sguardo verso l’oggetto misterioso che, coperto da un drappo, è rimasto parcheggiato sottounalberellodimele.

«Làsotto,èlà!»

Il bambino paffutello si è addirittura alzato in piedi per l’eccitazione, indica sotto l’albero, dando una scossa potente alla quiete di tutto il gruppo, che inizia ad agitarsi incuriosito. Il ricordo di me stessa bambinetta,conl’indicepuntato,m’illanguidisce:erodavverosveglia.

«Calmi, bambini, calmi» dice la signora Plitch. «David ha ragione, lì sotto c’è una gabbia, ve ne ho portato una, così la vedete. È un oggetto molto vecchio che si usava tanto tempo fa.» La maestra solleva il drappo. I bambini lanciano un sonoro oh, allarmato, schifato, come se stesserovedendodelsanguesuunginocchio.

L’uccellino giallo dentro la graziosa gabbietta, sposta a scatti la testa da una parte e all’altra. Poi, nel silenzio, osa un sonoro pigolio che turba talmenteogniinfantilesensibilità,dascatenareunpiagnucoliogenerale.

«Calmibambini,oraloliberiamosubito.»

La maestra apre la porticina della gabbietta. L’uccellino sembra non accorgersene e continua a muovere il capo, agitatissimo. Poi, tutto a un tratto,eccolochesaltasulbordodellaporticinaaperta.

«Scappa, scappa!» lo incitano i bambini. In un attimo, l’uccellino vola via, fino a raggiungere la cima dell’alberello. Resta fermo a guardare dall’alto, forse intenzionato a non perdersi il resto dell’assurda pantomimachel’havistocomeprotagonista.

«Tanto tempo fa, le gabbie servivano per metterci gli animali» spiega la maestra.

«Anchegliscoiattoli?»

«Anchelegalline?»

«Eigatti?»

Ladonnaannuisce.«Qualchevolta.»

«E perché abbiamo chiamato con il nome di una cosa così brutta questo posto così bello?» David la sta costringendo a saltare qualche passaggio dellasuacollaudatalezione.

«Bravissimo, e per spiegarlo bene, torniamo al deserto lì fuori. Il sole nonha nessuna colpa.Sonolepersone chehannofattoscaldare troppola Terra, fino a far morire il verde e gli animali, fino a bruciare tutte le foreste,finoacostringereanchegliumaniascappare.»

Il delicato passaggio non è stato modulato alla perfezione, e più di un piccoloorastafacendolalacrimuccia.

«Lamiamammanonèstata…»

«Neanchemiofratello!»

LasignoraPlitchsiaffrettaa placaregli animi: «Èsuccessomoltotempo fa, quando la gente era diversa. Purtroppo, da quella volta, gli umani hannocapitodiessereanchecapacidifaremalanni.»

Un bambino sgrana gli occhi, con espressione colpevole, ed esordisce:

«Mio papà, quando ho chiuso il mio fratellino in bagno, mi ha messo in castigo.»

«Iltuopapàhafattobene»annuiscelamaestra,poitornaarivolgersialla scolaresca. «Fate conto che gli umani si sono messi tutti in castigo, perché la finissero di fare giochi pericolosi come il tuo. È così che ci siamocostruitiunagabbia,maunagabbiabellissima.»

«Quandoècheilsoleciperdonerà?»chiedeunabambina.

«Miopapàmihaperdonatosubito!»replicailbambinodiprima.

Ladonnaspiega:«Civorràtantotempo,perchétuttotornicomeprima.»

Tra i bambini si levano grida di protesta: ma io sto bene qui; anch’io, nonvogliouscire;tu,maestra,vuoiandarefuori?

La donna apre le mani e fa segno di calmarsi. «Tranquilli, da qui per il momento non esce nessuno. Adesso prendete il tablet e scrivete un bel pensierinosuquellocheabbiamoappresooggi.»

«Maestra…» Margaret alza l’indice per prenotare un intervento. «Io qui sonolapiùalta,èvero?»

«Sì,Margaret»

«PerchéibambinidelQuadranteNovesonotuttitantopiùaltidime?»

LasignoraPlitchla guardaperplessa.«Be’,tesoro,èinteressantema non c’entraconquantostiamodicendo.»

Rilassati, piccola Margaret: ti trovi nel Quadrante Dieci e una questione del genere resterà sempre e comunque il tuo buco nero. Ti capisco fin troppo bene, anch’io ho compreso presto quanto l’essere nata in questo Quadrantecomportitante,tropporinunce.

La maestra distoglie da lei lo sguardo, mentre la piccola china il capo. Una rotazione di troppo: mi ha vista e mi fa cenno con la mano. Forse è contentachequalcunosiavenutoatoglierladall’impiccio.

Rispondo al saluto stiracchiando un angolo della bocca. Forse crede davvero che io le abbia sorriso e già fa segno ai bambini di stare buoni

mentre lei perderà qualche minuto a salutare la sua cara alunna di tanti annifa.

La signora Plitch si avvicina, mi guarda quasi commossa, poi raccoglie le mie manirigidelungoi fianchi,ricambiandola mia immobilitàconun gesto affettuoso. Distolgo lo sguardo dalla vecchia autorevole signora: una farfalla bianca sta per posarsi sul tablet di una bambina, invece svolazza via seguita dal suo sguardo incantato, fino a raggiungere uno dei molti fiori cresciuti al tepore della nostra eterna primavera. Avessi le alianch’io…

«Sylvia…bambinamia…alfunerale,hocercatodisalutarti.»

Bambina mia. Ho diciannove anni compiuti, dall’altro ieri vivo da sola, non sono una bambina. Se fossi una bambina dovrei sentirmi un’orfana, disperatamenteorfana.

Non so cosa rispondere, in realtà non voglio farlo, sono qui soltanto per avvertire.

«Comestai?»michiededopounpo’.

«Stocome unafigliachehapersopadreemadreinseimesi»rispondoin modofreddo.

Lei mi guarda e scuote la testa, affranta. «Cosa farai, figliola, adesso?

Volevistudiare,vero?»

Annuisco.«Volevostudiare,sì.»

«Allafinetiseidecisa…l’annoègiàiniziato.»

Taccio.Fremo.Traunsecondolegireròlespalle.

«Nontisentibene?Sehaibisognodiqualcosa…»

Bisogno? Oh sì! Ho bisogno di dire che avete sbagliato tutto! Lei, signora maestra, mio padre, mia madre, mio zio, ognuno qui nel QuadranteDieci.

«Sei molto provata…» dice, dopo avermi squadrata dall’alto in basso. «Dimmi dei tuoi studi. Tuo zio sarà contento, hai una bella testa.»Prova asorridere.

Scuotolatesta.«Mioziononc’entra,nonm’interessanofioriefarfalle.»

La donna resta perplessa, lo sguardo imbambolato. Sembra caduta dal cielo.Seesistessedavverosopralenostreteste.

«Midispiace.»

«A me dispiace aver perduto troppo presto i miei genitori, mi dispiace essere brutta, soffrire inutilmente, essere destinata a conoscere malattie e infermità, e lasciare questo mondo quando gli altri continueranno a vivereinottimasalute.»

La signora Plitch apre la bocca, sconvolta, e mi mette una mano sulla spalla.«Sylviacalmati,tiprego.»

«Ah, mi dispiace anche udire questa mia voce gracchiante mentre le sto comunicandoquestecose.»

«Pensisempreallatuavoce»dice,scuotendolatestacondisappunto. Faccio una smorfia divertita. «So bene come un timbro simile, tra gola e cavitànasali,possarenderegrottescaognimiaparola.»

«Lasolitaesagerata!Epoinonècolpatua.»

«Infatti,ècolpavostra.»

La maestra mi guarda a lungo, restando in silenzio. Dopo alcuni istanti dice:«Ètristechelapensicosì.»

Scrollo le spalle. «Il destino, scritto dal caos sulla mappa dei geni di questo mio corpo imperfetto, mi esporrà a chissà quali malattie nel futuro,comehafattoconimieigenitori.Leparechenondebbadetestare l’anacronismodiquestostrampalatoQuadranteDieci?»

«Èunascelta.»

«Iononhosceltoniente…»

Per cambiare vita, qui, nella Greencage, basta cambiare Quadrante. In praticavannotuttibene,l’importanteèusciredalQuadranteDieci.

Il biposto scivolerà, trasportato dal nastro magnetico, e io mi troverò in pochi minuti nel Quarto successivo dell’enorme struttura a pianta circolare. Tornerò al mio Quadrante d’origine solo per dormire ma la mia vita, i miei amici, i miei divertimenti, tutto dovrà svolgersi altrove, tragentenormale.

Ho desiderato fin da piccola poter avvicinare questo popolo di Dèi con un misto di timore e venerazione. Purtroppo non sono mai riuscita a condividere con loro un rapporto sereno. Ogni volta che, anche da bambina, la mamma mi portava nelle aree gioco fuori dal mio Quadrante, dinanzi a ragazzini così dissimili da me, mi ritraevo con una timidezzachenonmiappartiene.

Ripensoalsuoamorevolesguardo,conlasolitafittaalcuore.

«Sylvia,tesoro…coraggio,selainvitiagiocare,micatimangia!»

Niente da fare. Sono un osso duro. Così, tra pianti e proteste, si concludevanolenostresortitefuoridalQuadranteDieci.

Quando fui libera di muovermi da sola, le cose andarono, se possibile, anche peggio. Riuscivo a sentirmi me stessa solo qui, tra ragazzi imperfetti,destinati come me auna vitadisofferenze.Qui,doverabbia e infelicitàmitormentanoognigiornodipiù.

Ma ora tutto dovrà cambiare. Devo impormi di reagire e fare della congiunturatragicachemiharesoorfana,l’occasionepervoltarepagina. Ecco il primo biposto che arriva. Accanto a me siede una ragazza a dir poco bellissima: pelle bronzata senza alcuna imperfezione, occhi verdi, un po’ a mandorla, ciglia che non finiscono più e lunghi capelli mori avvolti in morbide spire. Non ha bisogno di acconciarseli lei, fanno tutto

da soli, a differenza dai miei che sembrano programmati per aggrovigliarsinelleformepiùscomposte. Mostra i suoi denti splendenti mentre mi rivolge un sorriso. Se lo riprendesubito,dopoavermi vistoinfaccia.Hacapitoa quale Quadrante appartengo. Nessun genitore, al di fuori del Quadrante Dieci, avrebbe dimostratotantocattivogustonell’accostarefrontebassaenasogrosso. Vorrei rivolgerle tante domande: corsi, programmi, professori, software ma ho timore a gracchiarle in faccia. Problema risolto, mi sta già dando il retro della sua formidabile chioma che, agitata dalla velocità, mi finisceinbocca.

«Scusa… i capelli…» mi faccio coraggio e glielo faccio notare, scegliendo con cura le note più armoniose. Lei si riprende la sua cascata bruna, schifata dalla mia saliva, quasi potessi contagiarla con il mio deplorevoleaspetto.Pazienza,tranonmoltosaremoarrivate. Intanto, dove il vento non esiste, mi godo la carezza della velocità sulla faccia, assaporando il suo tocco invisibile sulla fronte e tra i capelli. Penso alla gente qui, che gira e gira percorrendo molte volte la circonferenza della Greencage, Quadrante dopo Quadrante, unicamente conquestoscopo:poterimmaginareilvento.

A qualcuno piace figurarselo violento e turbinoso, come quegli uragani che devastano ancora oggi molte zone della Terra. Io lo immagino nella sua veste bonaria, quando era in grado di spingere le vele nell’infinito orizzonte del mare. Dicono fosse piacevole quando recava sollievo al caldoafosodell’estate.

Che sforzo d’immaginazione, qui, dove mare e orizzonte nemmeno esistono. Così come l’estate o l’inverno. Ci troviamo nella verde gabbia dell’eternaprimavera,cosadesideraredipiù?

La bella ragazza scende, cammina veloce lungo il breve raggio che congiunge la banda ruotante al basso edificio dalle pareti ricoperte di gelsomini profumati e sovrastate da alberi in fiore. Peschi, ha detto mio zio, piantati lì e ovunque, come tutte le altre piante da frutto, indispensabili a fornirci cibo e ossigeno all’interno dell’immenso cielo fintochecisovrasta.

È un cielo che si rispetti, però. In trasparenza si vede l’azzurro, solcato da ondeggianti strisce bianche, come quello di una volta, dove le nuvole abbondavano.

Da noi invece abbondano le cellule fotovoltaiche, di cui quelle bianche pennellate sono costituite per fornirci tutta l’energia di cui abbiamo bisogno.

Il tratto non è lungo e avvicinarsi alla meta mi crea più ansia di quanto avessi previsto. Camminando in modo spedito, ho sempre la bella mora che mi precede, con quell’andatura sinuosa creata da un’eccellente

combinazione di fondoschiena rotondo e figura slanciata. L’invidia mi sta facendo un regalo: credo di sapere cosa farò nella vita. Genetista estetica: tra le numerose opportunità offerte dal Centro di Genetica, la mia scelta cadràpropriosuquestoaffascinante corsodi studi. La cosami solletica da impazzire, ci vuole conoscenza e gusto per accontentare i capricci dei genitori: progettare un volto non è come accostare maglietta ecalzoni.Quellotelotienipertuttalavita.

Camminando verso l’entrata del Centro, sento l’eccitazione cedere all’imbarazzo. Per disgrazia ho iniziato a immaginarmi nelle mie prossime vesti di genetista estetica. Ed ecco il futuro genitore, pronto a dare un bel volto e un bel corpo al suo nascituro, che già trasalisce nel vedermi,epiùancoraalsentirmiparlare,rapitodall’originalità dellamia voce. E mentre si domanda cosa ci fa lì, dinanzi a un simile prodigio di armonia, osserva la mia statura ridicola, le spalle larghe e tutto il resto. Nientepaura,sonounatipaingamba,miripetoinuneternomantra. Prima di varcare la soglia del Centro di Genetica, resto un istante immobile domandandomi, tra orgoglio e timore, se sono davvero la prima in centosettantacinque anni di esistenza della Greencage a essermi affrancata da quel giogo disumano chiamato Quadrante Dieci. Già tremo nelsentirmipesataemisuratadall’insistenzadeglisguardideimieifuturi compagni,espostaallapietosaaccoglienzadiragazzieprofessori. Storaccogliendocoraggio e determinazioneconprofondi respiri,quando mi sento afferrare la mano. Mio zio. È spuntatodal nulla,o meglio, deve esseresalitoappostanelveicoloappenadopoilmio.Mihaseguita.

Istintivamenteliberolamiamanodallasua,conunostrapponervoso.

«Ma zio,seiimpazzito?»

«Dai,vienichefacciamoduechiacchiere.Tioffrodaberealchiosco.»

Loguardosconvolta.«Forsenonhaicapito.»

«Tidevofareunaproposta»insistelui.

«Fioriefarfalle?»

Senza nemmeno sapere come, mi ritrovo a camminare in direzione contrariaaquellaincuierodiretta,ilchemimettedicattivoumore.

Evito di sbraitargli contro, con uno sforzo estremo: se pochi giorni fa ho perso mio padre, lui ha perso un fratello al quale era molto affezionato.

Sarebbeinfametrattarloapesciinfaccia.

La muratura del chiosco è ricoperta di rampicanti che scendono su porte efinestre,comecapellitroppolunghi.

Ci avviciniamo all’ampio bancone, che tra breve sarà gremito di studenti che arriveranno per bere qualcosa prima delle lezioni. La nostra tranquillitàdureràpoco,pensoconsollievo.

Un bell’uomo al bancone ci guarda a turno e poi sorride a mio zio.

«Professore,comesta?Ah,haportatoanche…»

«Mianipote,Sylvia.»

L’uomo mi tende la mano e io ricambio frastornata. Dovrebbe essere sull’ottantina, in pratica nel fiore degli anni. Possibile che mio zio, sessantaappenacompiuti,debbasembrareunosfattograssone?

«Ci sarà un po’ di confusione tra poco al banco» spiega, guardandosi intorno. «Se volete sedervi dentro, bisogna scostare la vite americana. Purtroppoilgiardinieresièammalato.»

«Non si preoccupi, restiamo fuori. Facciamo prestissimo» mi affretto a comunicargli prima che a mio zio vengano brutte idee. Con la coda dell’occhiolovedotormentarsiunbaffo,deluso.

Il barista prosegue, come se non avessi parlato: «Se ha tempo, professore, posso dare io una scorciatina alla pianta…» poi si blocca, colto da un’ilarità improvvisa: «Ah! Ma che dico! Mipreoccupo per due fogliementreleièabituatotuttiigiorniafarsilargotraleliane!»

«Ohmoltodipiù!»rispondemiozio,illuminandosid’orgoglio.

«Non la invidio! La Teca la lascio a lei. Preferisco girarle attorno in barcasull’Anellino»sorride.

«Sono d’accordo: dafuori,al dilà di un vetro bellospesso, è magnifica» aggiungosenzapietà,mamioziostavoltanonfaunagrinza.

Il centrifugato è davvero ottimo, mio zio credeva senz’altro di ammansirmi e il suo sguardo tutto miele la dice lunga sui suoi propositi malandrini. Dovevo esserepiù secca, piùcattiva, perché conserva ancora tutta l’aria di voler sfruttare il poco tempo a sua disposizione per attaccare con la sua “proposta”. Sento nascere l’impellente bisogno di ringhiargli addosso. Magari se mi esprimessi digrignando i denti, come farebbeunpredatoremarsupiale,potrebbefinalmenteintendermi.

«Graziezio,andiamo?»

Saluto il barista e giro i tacchi senza indugio. Non è riuscito a dirmi mezza parola. L’ho fatto per lui, se mi avesse proposto ancora una volta didarmiaglistudinaturalistici,l’avreilasciatosolo.

Midirigoversol’entratadelCentro.Luimisiappiccicadietro.

«Da piccola ti piaceva ascoltarmi quando ti parlavo della Teca, ti ricordi?»

Accentinostalgicidavoltastomaco,nondemorde.

«A quel tempo non avevo ancora capito di essere stata allevata in una comunitàdipazzi,zietto.»

«Parlicosìperchéhaipersoigenitoridapoco.»

«Parlo così perché, se fossi nata in una famiglia come le altre, i miei genitori sarebberovivi,sanie pieni dienergie,giovanicomel’ottantenne checihaversatodabere.»

«Noi siamo nati com’è giusto che si debba nascere, vivremo com’è giustochesidebbavivere,moriremocom’ègiustochesidebbamorire.»

«Giusto?»ilmiotonoèpungente.

«Tunoncapisci.»

«Noncitengo.»

«BasterebbechemiseguissiunavoltadentrolaTeca.»

Imieiocchisfidanolesueiridiscure:«Io,nellaForesta?»

«Perchéno?»

«Ma zio!Solotucipuoientrare!»

Pergraziadelcielo.

«Permianipotepotreifareun’eccezione.»

«Credevochequestalogicaappartenessealpassato.»

«Cercosoloqualcunochemiaiuti.Lasolitudineiniziaapesarmi.»

«Ma zio! Se ci entriamo in due, potremmo scuotere l’animo sensibile di qualchekoala…»

«Lasalute dell’ecosistema va misurata ognigiornoe io,be’,diciamocela tutta,comincioainvecchiare…»

«Potevifareameno.»

«Diche?»

«Diinvecchiare.»

Mio ziosospirae tace.Iodecidodi metterefinealladiscussione:«Se hai bisogno di aiuto, fai un bando! Magari qualche matto lo trovi, nel QuadranteDiecinonnemancano.»

«Maamepiacerebbeche…»

«Tihodettochenonmipiaccionoiprivilegi». Chiamo privilegio unacondanna,lestoprovandotutte. «Unapiccolaingiustiziaafindibene.»

«Ilbenedichi?»

«Ilbenedi tutti,laforesta sapràparlartiinmodopiùconvincente dimee dichiunque,sapràconquistarticonisuoisuoni,isuoiprofumi…»

Sorridoe scuoto la testa,miomalgradodivertita.«Zio,sei unnaturalista, ecomepoetaseiundisastro.»

L’ispirazione gli muore tra i baffi mentre le sue folte sopracciglia faticano a riposizionarsi in modo neutrale. Mi fa un po’ pena. L’importante è che abbia capito che una visitina in quell’Inferno, dominato dal caotico intrecciarsi delle spinte evolutive, non basterebbe maiariportarmiall’ovile.

CAPITOLO2

«Avrebbepotutoannunciarelasuavisita,noncrede?»

Il Direttore del Centro di genetica è un bell’uomo sui centodieci anni. Come chiunque qui,dovrebbe essere statounoschiantoingioventùe per certiversiloèancora.Occhi azzurrissimi,capellichedovevanoesseredi un nero corvino, ora chiazzati di bianco solo in qualche ricciolo sbarazzinosullafronte.

Sono eccitatissima al pensiero di poter creare tanta bellezza seduta davanti a uno schermo e vedere poi il mio lavoro realizzarsi in una creatura vivente. Per il momento ho già sbagliato approccio: troppo entusiasmo,dovevodocumentarmi.

«Intendecheavreidovutopresentarmiprimainmodalitàolografica?»

È divertente osservare le diverse reazioni quando aprobocca, c’è sempre almeno un primo momento di sorpresa e un secondo di messa a fuoco nell’udirelamiavoce.

«VienedalQuadranteDieci,vero?»

GrazieDirettore,miharisparmiatolafatica.

«LamodalitàolograficaèriservataallavisitadapartedialtreGreencage, tra di noi è buona norma servirsi delle nostre presenze in carne e ossa. Era opportuno, però, l’invio di un semplice messaggio, tanto per lasciarmiiltempodiorganizzarmi.Mifacciacontrollareunattimo…» Resto con il fiato sospeso mentre lo osservo digitare sullo schermo olograficochehadifronte.

«Sì, in centosettantacinque anni di storia della nostra Greencage, lei è la primaiscrittaprovenientedalQuadranteDieci.»

Evvai! L’entrata trionfale ha inizio, speriamo non ci sia bisogno di brindare.

«Mi tolga una curiosità: il suo cognome Wilson Ryan… è parente per casodelprofessore…?»

«Èmiozio»tagliocorto. Perdisgrazia.

«Suozio!Come bensaprà,il professoredirige il CentroStudi Ecologia e Biodiversità presso il suo Quadrante. Con questo non voglio di certo rimandarlaindietro…»

«Indietrononcitorno,nonsipreoccupi.»

«Bene,hagiàleideechiare.Dicosavorrebbeoccuparsi?»

«Vorreidiventaregenetistaestetica.»

«Ah…»

Il mio garbato interlocutore resta interdetto. Impegnato con tutto se stesso a evitare di sbottare in una sonora risata, necessita di alcuni secondididecantazione.

«Bene, ottimo. È una branchia della genetica molto interessante, di questo troverà spiegazioni dettagliate sulle pagine informative del Centro. L’avverto comunque che, provenendo dal Quadrante Dieci, non per discriminarla sia ben chiaro, ho bisogno che venga verificato in che misura il suo grado di preparazione risulti allineato con i nostri programmi. Sappiamo quanto l’impostazione del percorso scolastico da lei affrontato possa presentare discrepanze sostanziali con quanto ascolterà qui dentro. Se ha scelto di impegnarsi qui, significa per lei abbandonareuncertomododivederelecose…osbaglio?»

«Nonsbagliaaffatto.»

«Non per spaventarla, ma l’esame di ammissione verterà su domande generali di storia e filosofia contemporanee, dopo di che potrà essere inserita nel gruppo che intende raggiungere il suo stesso obiettivo professionale.Desiderachelaintroducaoggistesso?»

Sono frastornata. Storia, filosofia, benissimo, sono assai curiosa di ascoltare punti di vista diversi da quelli che ho dovuto sciropparmi finora. È l’ultimo punto della chiacchierata che mi ha lasciato di stucco.

Èunamossageniale.

Entro,vedo,svengoemenetornodadovesonovenuta.

Non è vero che mi sta aprendo le braccia, mi vuole solo scoraggiare, risparmiandomi,forsepersincerapietà,un’umiliazione.

«SignorinaWilsonRyan,nonmiharisposto.»

«Cistopensando.»

«Vedo.»

«Maquandodovrei…»

«Adesso.»

Inarcolesopracciglia,stupita.«Adesso…subito?»

«Riflettapure,intantoleoffrounatisana.»

È gentile, cerca di mettermi a mio agio. Mi viene spontaneo paragonare il suo comportamento a quello della mora antipatica sul biposto, speriamoassomiglinotuttialui.

«Desidero solo che anche l’ambiente umano la convinca della sua scelta.» Sembra mi stia leggendo nel pensiero. Intanto pone sulla sua ampia scrivania un vassoio con due tazze fumanti. «Credo abbia capito che si troverà a condividere lo studio con ragazzi abbastanza diversi da quellicheèabituataafrequentare.»

Frequento brutture appena un po’ meglio di me. Bruciare d’invidia non sarebbe un’ipotesi remota. Acuto questo distinto signore: ha già visto scrittosullamiafrontelaparola infiammabile.

Restare con lo sguardo sempre appeso a quello degli altri, tanto più alti di me, nel quotidiano sbigottimento dinanzi a tanta bellezza: è a quest’esperienzatraumatizzantecheanelodavvero?

Il Direttore forse ha ragione nel mettermi subito alla prova, senza che io debba essere costretta a rinunciare in un secondo tempo, aggiungendo sofferenzaasofferenza.

Penso a mia madre, a mio padre, morto appena l’altro giorno. Per loro ero la ragazza più bella del mondo, ed era magnifico sentirmi tale attraverso i loro occhi. Ora che la loro fiaccola bugiarda si è spenta, mi ritrovo sola dinanzi allo specchio. Non tollero il loro abbandono, l’immotivata rinuncia a tanti anni di salute, la mia stessa condanna a prematura morte, il disagio quotidiano per il mio corpo orribile. Mio zio vorrebbe che lo seguissi a respirare il profumo crudele del caos lì, oltre i vetri della Teca. Io invece gongolo al pensiero di restarmene qui, ad affrontare qualsiasi difficoltà per imparare a costruire ordine, bellezza e felicitàtutteumane.

Eccoci quindi, io e il Direttore, in silenzio dinanzi alle nostre tisane, a lasciarlievitareipensieri.

Mentre cerco di sondare la profondità della mia motivazione, un problematantourgentequantoinsignificantemicoglieallasprovvista.

Luisembraintuirlo,echiede:«Tuttobene?»

Mi riscuoto dalle mie elucubrazioni e mi affretto a rispondere: «Sì, certo.»

In realtà no. Come se non fossi già abbastanza pressata da situazioni critiche, la tisana al finocchio è quanto di peggio mi si possa offrire. Impegnata in pensieri di ben altro spessore, non ne avevo nemmeno percepitol’odore.

«Lavedoconcentrata…»

Annuisco, impegnata a far scendere almeno un po’ il livello della tazza, in modo da non dovergliela restituire piena. La prossima volta gli confessodipreferirelacicuta.

«Senonsisentepronta,possiamoanchevedercidomaniodopodomani.»

«Adessovabene»tagliocorto.Duepiccioniconunafava.

«Apprezzolasuadecisione,sevuoleseguirmi.»

Quando il Direttore si alza dalla sedia, non finisce più di allungare le gambe. I suoi genitori hanno voluto una specie di gigante. L’uomo appare di una mole esagerata ancherispettoalla media,pertuttala vita si è trovato a vedere la fontanella di chi gli sta davanti. Mi rendo conto che tra me e lui non potrà esserci un comodo contatto oculare, a meno che

non mi organizzi con una scala. Approdo in questo preciso momento a una certezza: una volta intrapresa la professione a cui aspiro, mai mi lascerò andare a eccessi tali a quello di cui sto inseguendo il fondo schiena,imparandoneamemoriabottoniecuciture. Ho lasciato il magnifico studio a cielo aperto, ombreggiato da una fitta pergola, ancora intontita dall’intenso melange di glicine e finocchio, e ora mi trovo in pieno corridoio, a guardarmi i piedi mentre calpesto l’erba rasata. Con lo sguardo basso, anzi bassissimo, intravedo sfilare allamiadestraeallamiasinistramoltistudentidelCentro.

Mi guardo bene dall’incrociare tutti quegli occhi curiosi dei quali subiscolapesanteattenzione.Coraggio,latorturaèappenainiziata. Noto che il basso edificio non presenta soffitti nemmeno lungo il corridoio che sto percorrendo. Dalle pareti, sovrastate da terrazze alberate, pendono piante fiorite, ricadenti fino a toccare il suolo. Nella Greencage non esistono quei contrattempi del passato conosciuti come pioggia,neveoquant’altro.Qui,sempreecomunque,sistaall’asciutto.

Il lungo corridoio si dirama in altri percorsi verdeggianti, sui quali si aprono numerose porte. Comincio a preoccuparmi per come uscirò da questolabirintofiorito.Conchi,soprattutto.

Finalmente sbatto quasi con il naso sulle ormai familiari tasche del Direttore.Sièbloccatodinanziaunadelletanteporte.Siamoarrivati.

L’aula è immersa in una penombra ravvivata dalla presenza di colorati ologrammi. Benedico la grata fitta del soffitto che mi sovrasta, per avermi concesso la grazia di questa semioscurità. Se esiste un gene deputato al rossore, giuro di far bene attenzione a non inserirlo nei miei futuri progetti genetici. Ho le guance che avvampano, e il solo figurarmelenonfachepeggiorarelasituazione.

Continuo a restare incollata alle chiappe del Direttore, devastata dall’imbarazzo. L’uomo, prima di procedere con la presentazione, si gira intorno per vedere dove mi trovo, come quando si perde qualcosa sul pavimento.

Recuperata la studentessa, apre finalmente la bocca: «Buongiorno, ragazzi! Abbiamo un’allieva nuova che vorrebbe frequentare questo corso.»

Raccolgo tutte le mie energie per riuscire ad alzare lo sguardo. Si sono tutti girati verso la nuova venuta, dando le spalle ai grandi schermi olograficisuiqualistavanolavorando.Miguardanoenonfiatano.

«LasignorinaWilsonRyan,pergliamici…»

Amici?Qualiamici?Hodegliamici?

«SignorinaRyan,miperdonimanonricordoilsuonome…»

«Sylvia»rispondoconunsorrisotriste.

«Ilsuodesiderioèdi unirsia voiperseguire quei corsiche la porteranno adiventaregenetistaestetica.»

La decina di ragazzi e ragazze che ho dinanzi non commenta nemmeno conunasmorfiail macabrorituale diquestainiziazione.Illungo silenzio cheseguemismembraapocoapoco.

«Per oggi vorrei che Sylvia restasse un po’ qui, in modo da potersi ambientareprimadell’esamediammissione»sorride,poisirivolgeauna ragazza seduta poco più in là. «Anne, mostra a Sylvia come tu e Fred vi stateoccupandodellecatenedegliaminoacidi.»

Gigante sadico, diglielo tu del Quadrante Dieci, non lasciare che me lo domandino loro,nonlasciare che mi strazinell’imbarazzo ogni volta che saròcostrettaarispondere.

Èandato.

Per educazione, credo, i ragazzi riescono a non sembrare incuriositi dal mioaspetto.Vediamoquandoapriròlabocca.Selaaprirò.

Anne e Fred mi attendonoubbidienti dinanzi alloschermo olografico nel qualesiarrotolaunaspiralediacidodesossiribonucleico.

È una rappresentazione che non mi è affatto nuova, e che cattura la mia attenzione solo per qualche secondo. Ciò che invece continua a crearmi un’agitazione incontenibile, è l’osservare questi due ragazzi, curandomi diognilorosingoloparticolarefisico.

Anne ha una treccia fulva, corposa, da vichinga, e l’incredibile è la sua pelle. Invece di essere tendente al bianco latte con contorno di efelidi come previsto dal suo fenotipo, è scurissima. Una tonalità africana nella quale si accendono due iridi verde chiaro contornate da uno spettacolare filino di nero. Il seno è uno schianto, la vita è sottile e le gambe perfette sono messe in evidenza da calzoncini bianchi attillati. Ai suoi genitori piacevano i contrasti, più o meno come quando ci si trova davanti all’armadioecisisentesudigiri.

E non è l’unico esperimento iperbolico qui dentro: occhi da cinese su pelle candida, capelli albini su volto indiano, bocche africane e capelli biondi. Tutto sommato, la ragazza che ho incontrato sul biposto era di unabellezzaquasiscialba.

«Haicapitoquellochetihodetto?»

La spiegazione di Anne mi è servita da sottofondo. L’ho capito solo adesso.

«VienidalQuadranteDieci?»

Ecco,melosonomeritato.

«Sì…conoscoquestiargomenti»annaspoconlamiavocettasimpatica.

«MagariAnnefacevaamenodispiegarteli»puntualizzaFred.

«Lascia perdere» Anne non infierisce, mi sta difendendo. Anne, bella e buona,chetusiabenedetta!

«Allora, visto che le cose le sai così bene, aiutaci tu con queste reazioni.»

Fred fa motti dietro di me, ma io non sono stupida. Lo capisco dal modo in cui la falsa amica sta guardando, divertita, oltre lemie spalle. Evito di girarmi per non costringerlo a grattarsi un orecchio, e mi avvento sulle reazioni.Lilascioaboccaaperta.Peroggihoavutolamiarivincita.

CAPITOLO3

«…il vastissimo suolo dell’Australia fu devastato da incendi, ai quali i vigilidelfuocononriuscivanoaporrefine.Ildesertocentralesiallargò progressivamente, occupando il suolo fino a quel momento coperto da foreste. Una grandissima parte della flora lussureggiante nella zona orientaleeinquellaoccidentale,inunsecondotempo,vennerodivorate dalle fiamme. Ciò rappresentò una perdita ingente di biodiversità: specie endemiche e assai diffuse come lo wallaby e il kookaburra si estinsero.»

Chissà che bestie sono, non andranno certo a chiedermelo. Ci mancherebbe!

«Perquantoriguardagliinsediamentiumani,furonoevacuatidapprima i piccoli centri abitati. Gli sfollati si rifugiarono nelle città più grandi della costa, poi anche quest’ultime, strette nella morsa degli incendi, furono pian piano abbandonate. Ondate migratorie provenienti dall’Australia si distribuirono in quelle zone della Terra non ancora vessatedaglieffettideicambiamenticlimatici…»

Finqui,nientedinuovo.

«La fine del ventunesimo secolo vide in breve il tracollo delle infrastrutture sociali, impossibilitate a fronteggiare i disastri dovuti all’aumento della temperatura globale, corrispondente a quei quattro gradi paventati da tempo. Pandemie, insetti nocivi, carenza idrica, alluvioni, uragani, desertificazione, innalzamento dei livelli del mare avrebbero recato, in seguito, devastanti cambiamenti alla civiltà umana…»

Lasolitatiritera,c’èdamorirdinoia.

«Comunità di circa diecimila individui sarebbero vissute in Greencage sparse in tutto il mondo. Inizialmente l’idea s’impose per difendere l’umanità dalle pandemie, generate dalla liberazione di virus e batteri letali racchiusi nel ghiaccio in rapido scioglimento. Atale calamitànon fu possibile rispondere con il distanziamento sociale, le sanificazioni e l’uso stabile della mascherina, com’era avvenuto per contenere le blande pandemie della prima metà del secolo. Le pandemie dilaganti avevano ben altra posta in gioco, e pretendevano misure contenitive assaipiùcautelative.»

Masì,nient’altrocheunripasso.

«Non si tardò a comprendere come le Greencage non solo avrebbero messo insalvo la nostra specie, ma anche tutte le altre scongiurando la sesta estinzione di massa che già aveva ridotto la ricca biodiversità presente all’epoca. Vivendo in questi piccoli mondi fatti a misura umana, e tra loro collegati da reti digitali, il Pianeta avrebbe potuto rigenerarsi senza che la nostra presenza rischiasse di compromettere ancoragliequilibriecosistemici.»

Mi viene in mente la signora Plitch e i suoi sforzi per edulcorare ai suoi piccolidiscepoli,sedutisulprato,laveritàsulluogoincuiviviamo. La differenza con il canarino recluso della sua dimostrazione? Noi non possiamo aprire le ali e volare via. Fa niente, basta non pensarci e ci si senteinParadiso.

Prima di affrontare il capitolo sulla nostra Greencage e le sue particolarità, mi prendo un attimo di riposo. Mi farò una spremuta. La portavoapapàfinoall’altrogiorno.

Resto ferma dinanzi alle arance della fruttiera. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e ci rinuncio. Basta un’azione di una simile banalità per riportarmi a quel dolore, che la mia energia di diciannovenne riesce a comprimere egregiamente fino a scoppiare senza preavviso in situazioni inaspettate.Megliounatisana,magarievitandoilfinocchio. Non avevo ancora riflettuto su quanto più serena potrei vivere in una nuovaabitazione,lontanadaogninostalgia.

Qui nella Greencage i boschi verticali sono una verdeggiante corona circolare di dieci piani, e il tetto giunge a lambire la calotta fotovoltaica. Ogni abitazione non varia in quanto a distribuzione delle stanze e arredamento. Una versatilità che permette di non sprecare gli spazi, senza troppi traumi per i frequenti trasferimenti, necessari all’utilizzo intelligentedeglispaziabitativi.

Dovrei aspettarmi anch’io di essere collocata presto in un altro appartamento: una casa per una persona sola è un lusso che qui non ci si può permettere. Abitazioni uguali, eppure tutte diverse, che nel tempo prendono un odore e un sapore tutto proprio. Amaro, nel mio caso, e io non lo sopporto più. Qualsiasi abitazione andrà bene piuttosto che questa.

Qualsiasi? Qualsiasi no! Cinque piani più in alto, nello stesso edificio, c’èl’appartamentodimiozio.Macomehofattoanonpensarciprima?Il suocoinquilino,perdisgrazia,si èsposatoda pocoelascerà nellacasa di mio zio un posto vuoto. Non che il mio più stretto parente mi sia antipatico,mala sua fissa per l’ecologia è untormentone senza fine.Che colpa ne ho se gli unici animali che davvero m’interessano sono quei primatidacapogirochepopolanoventitréQuadrantisuventiquattro?

Riaproilcomputer,caricandomidicoraggio.

Bioetica. Anche questa materia devo affrontare per l’esame di ammissione. Forzo la mia sensibilità, urtata fin dalle prime frasi che mi scorronodinanziagliocchi,comecinicirimandiallamiacondizione. «Gli enormi passi avanti nelle biotecnologie hanno permesso negli ultimi decenni il raggiungimento di risultati impensabili. Malattie incurabili o gestibili attraverso il pesante ricorso ai farmaci o alla chirurgia, sono state debellate intervenendo sui geni responsabili. Il genomaumanoèstatomanipolatofinoaottenereunallungamentodella vita di molte decine di anni, in condizioni ottimali di salute e forma fisica.Ilproblemadelnumerocrescentedianzianinonautosufficienti,si èrisoltorendendolapopolazioneefficientefinoallamorte…»

Basta, è troppo. Mi allontano dallo schermo con un gesto di stizza. Mi sento una specie fossile, la testimonianza di una forma vivente ormai estinta. Giro per tutta la casa, battendo forte i piedi per terra, riprendo fiato e mi rituffo nello studio. Domani passerò quest’esame, a tutti i costi.

CAPITOLO4

È fatta. Ieri ho risposto a tutte le domande in modo corretto, e adesso sono pronta ad affrontare questo corso di studi, antitesi perfetta a quanto mièstatodasempreinculcato.

Il mio aspetto stesso suggerirà a tutti la profonda ribellione che spinge quiunamortaletragliDèi.Magarimiaccetteranno.

Sono la prima ad arrivare al Centro, e con un tale anticipo da risultare di uno zelo commovente persino al giardiniere, impegnato a sovrintendere al taglio dell’erba da parte di un rapidissimo robot circolare che, come ogni mattina, rasa a tappeto i pavimenti verdeggianti. A qualcuno il profumo dell’erba appena tagliata funziona da rilassamento, a me dà sui nervi. Non vedo l’ora di entrare in una delle sale semibuie a respirare profumodischermieologrammi.

«È in anticipo, signorina.» Il giardiniere sorride mentre, il robottino, giunto sui mieipiedi, mi scansacon unmovimento precisopertornareal suolavoro.

«Seaspettaunattimofuori,finiscodipreparareipavimenti.»

Ritornomortificataall’uscita,disponendomiall’attesa. Studenti e professori non tardano ad arrivare. O prima o ultima. Proprio non ce la faccio a infilarmi in mezzo a una simile parata di umano splendore.

L’imbarazzo non conosce le mezze misure. Così li vedo arrivare uno per uno,ferma sulmurettodel terrazzamentoalatodell’entrata,tormentando le margheritine, senza il coraggio di alzare lo sguardo. Sono a dir poco affascinatadailoropiedi,bellissimianchequelli.

Un paio di scarpe femminili sembra abbiano deciso dinon schiodarsi dal punto in cui si sono fermate, poco distanti da me. Immagino sopra alle scarpe due occhi blu puntati sul brutto anatroccolo che sta di sotto. Mi scruta assai bene, la divina curiosona, mi sta misurando l’altezza del corpo o la larghezza del naso? Alzo gli occhi, vinta dalla tensione, e incrocio uno sguardo femminile che mi lascia stordita. È un’espressione tenera come una carezza, affettuosa come un abbraccio, eppure non è il viso di una persona conosciuta. Credo che solo mia madre mia abbia guardatocosì.

«SeituSylviaWilsonRyan?»

Annuiscospaventata.

«Hai passato l’esame d’idoneità, sono contenta. Piacere, Brigitte RobinsonHarris,professoressadibiotecnologia.»

Il suo sguardo mi accoglie, mi coccola, tutto di lei mi fa sentire a mio agio. Ha una chioma folta di capelli biondi, raccolti in uno chignon da cui scappano eleganti boccoli. Ho letto che una volta impiantavano persino capelli nuovi per poter avere questi risultati con l’avanzare degli anni. Ora è una pratica che fa sorridere, non c’è calvizie impostata nell’ordine genetico. Tra gli umili mortali del Quadrante Dieci potrebbe essere sulla cinquantina. Credo invece possa avere un’età compresa tra gliottantaeinovanta.

«Piacere» le stringo la mano, mormorando piano. Non voglio correre il rischiodisconvolgerlasubito.

La splendida signora sembra molto allegra, forse si è resa conto di quanto un giullare simile potrà renderle meno pesanti le giornate di lavoro.«Vieni,entriamoinsieme.»

Davvero non smette di guardarmi, come se fossi una delle sette meraviglie del Mondo Antico. All’improvviso cede a un abbraccio inaspettato. Sono frastornata, mi allontano bruscamente. Cosa vuole da me?

«Congratulazioni,sulserio…»

Labellasignorafaticaadissimularelapropriacommozione.

La guardo senza capire, credo che le mie spesse sopracciglia aggrottate stiano troneggiando nell’esiguo spazio obliquo della mia fronte, dimostrando il mio sbigottimento dinanzi a questi stravaganti comportamenti.

«Vieni»ripete.

La seguo come una bimba dietro alla sua mamma. Non so dove mi porteràmavogliofidarmi.

Percorriamo assieme un lungo corridoio, sulle cui pareti pendono variopinti tendaggi, bougainvillae gialle, rosse e azzurre. La donna lo attraversa con andatura veloce, raccontandomi con entusiasmo la giornatatipodellostudentepressoilCentro.

L’ascolto trotterellandole accanto, bevendo ogni singola parola delle sue descrizioni. Le conclude tutte allo stesso modo: vedrai, vedrai, ti troverai bene. È entusiasmante sentirla parlare di orari, lezioni, gruppi, programmi e progetti. Sono così proiettata nel febbrile lavorio dei miei giorni futuri che mi ritrovo, senza quasi accorgermene, nella penombra multicolorediunavastasalatappezzatadaschermi.

Un uomo è seduto davanti ad alcune immagini olografiche di manufatti preistorici. Nel vederci si alza di scatto e lancia un’occhiata alla sua collega.Dicertolamiafamamiprecede.

«Ciao Edmund, desideravo presentarti la signorina Ryan, Sylvia Wilson Ryan.»

All’inizio non mi accorgo di quale effetto stia facendo a questo monolitico signore con la barba fulva la mia presenza qui. Altrimenti nonmisarebbegiuntotantoinattesoilsuolungoeintensoabbraccio.

«SignorinaSylvia…chegrandissimopiacere.»

Brigitte fa un cenno verso l’uomo. «Ti presento Edmund Thompson Norton,biotecnologiaanchelui.»

«Studieraiqui?»domanda Edmund,senzaperdereil contattooculare con lamiaprotettrice.

«Cominciooggi»rispondo.

«Hai…hai…passatol’idoneità?»

«Sì.»

Perchésembratantostrano?

Usciamo.Adessosonoinduea scortarmi lungoicorridoi, indueafarea gara per farmi sentire a mio agio. Un via vai di professori incrocia me e la mia scorta, alcuni passano avanti, altri mi squadrano, altri si rigirano meravigliati. Un uomo si ferma in fondo al corridoio. È ancora distante ma vedo che mi osserva. Immobile, lascia sfilare tutti gli altri nei due sensi,comeunmassoinmezzoalfiume.

La scorta si agita e io mi sento improvvisamente presa a braccetto. Sembra che la cara signora non riesca più a inanellare due parole consecutive,eancheNortonsifingeimpassibilesenzariuscirci.

In fretta, i due spalancano una porta. Si fiondano dentro, trascinando ancheme.

La pantomima che segue è pessima. Il professor Norton chiude con un sorriso imbarazzato la porta dietro di sé, e la professoressa Harris cerca di farmi accomodare davanti a uno schermo di grandi dimensioni. Norton balbetta che potrei dare un’occhiata alla mappa interattiva per introdurmi alla logistica del Centro. Dal canto mio, non so come ripeterglielo che a casa l’hogià guardata e riguardata e che, in pratica, la conosco già a memoria. Allora la professoressa, come non mi avesse sentita, ricomincia a illustrare gli spazi ma digita male, esce dal programma e si profonde in scuse. Nel tentativo sconclusionato di ritornarvi, approda alle fasi della mitosi, che le giungono a fagiolo per cambiaresubitoargomento.

Che puzza qui dentro! Questi due stanno sudando sette camicie per l’agitazione, e ancora non so perché. Prometto di attivarmi in futuro per unritocchinoaigenideputatiagliodoriforti.

Laportasiapre.

«Ah… ci siete già voi, scusate. Stavo cercando un posto appartato per scrivereduevoti.»

Un’elica tridimensionale di DNA ruota tra me e la persona, al di là dello schermo olografico, della quale percepisco con nitidezza solo la voce. Tra un gigantesco nucleosoma e l’altro, sforzo la vista per intuirne l’aspetto. Alto, spalle larghe, non solo bello, ma affascinante. Esiste un gene del fascino? Mi domando in volata, mentre mi rendo conto che l’intrusoèconogniprobabilitàlapersonachemiosservavadalontano. «Ah, ma c’è un’allieva dietro l’ologramma» esordisce, accorgendosi dellamiapresenza.

«Il professor Robert Milfrey Campbell, docente di bioetica.» La voce della bionda professoressa è salda, e tutto sembra tornato alla normalità. «Volevamointrodurlaallasuaprimalezione»specifica,neutra.

Mi rilasso ed esco allo scoperto oltre il muro di luce olografica, dedicandogli un sorriso. Anzi, faròdi più: se qui al Centro si usano tanto gli abbracci, non lascerò che anche questo sconosciuto mi arrivi addosso di sorpresa. Con uno slancio, giungo a circondargli le spalle con le braccia.

Il professore trasalisce, ritraendosi dall’assalto. Tramortita, concludo la pessima performance con una timida risatina,destinataa stiracchiarsi nel vuoto. Dopo alcuni attimi di silenzio mortale, lo vedo chinarsi morbidamente, cingendomi braccia e torso. Resta più di un momento addossato alla mia massiccia corporatura, per poi concludere a sorpresa: «Accipicchia!Percasoèunasportiva?»

«No,sonosemprestatapigrissima.»

Il professor Milfrey destina uno sguardo eloquente ai suoi colleghi. Cos’ho detto di male? Forse è d’obbligo una precisazione: «Pigrissima conlosport,studiareinvecemipiacetantissimo.»

Ho parlato troppo, e più che al contenuto mi riferisco ai suoni sgradevoli checaratterizzanolamiavoce.

Idueprofessorichemihannoaccoltasembranosullespine,l’unosaltella impercettibilmente, l’altra ha già distrutto un paio dei suoi bei boccoli ai lati del viso. Non devono essere tutti a posto, concludo, e mi concentro sull’affascinante professor Milfrey, sui suoi riccioli neri dalla lunghezza perfetta.

Mi sorge un dubbio professionale: qui li tagliano i capelli o va prevista geneticamenteanchelamisuraideale?

Sarei tentata didomandarglielo, in fondo horicevutoda lui una specie di complimento per il mio fisico. Ed è vero, anche se sono tracagnotta, quantomeno non sono di ciccia flaccida. Sì, lui mi piace più degli altri, strampalati,inafferrabili.Puzzanopure.

«Adesso la nostra nuova allieva deve proprio andare, comincia la sua lezione.»

«Professoressa Robinson Harris, non ricordo bene, ma mi è stata presentataquestaragazza?»domandal’affascinanteprofessore.

«Sylvia, Sylvia Wilson Ryan.» Li precedo, riempiendomi la bocca del mio cognome altisonante. Qui mio zio è molto conosciuto e le sue conferenzesullabiodiversitàsonosempreapprezzate.

«ParentedelprofessorRyanSmith?»

Annuisco,orgogliosaperunavolta.«Nipote.»

La bionda insiste: «Professor Milfrey, ora dobbiamo proprio andare: questa ragazza ha bisogno di guardarsi intorno, o vuole che entri in aula cosìdicorsa?»

«Professoressa, non ho bisogno di guardarmi intorno…» commento, più acidadiquantoavreivoluto.

Milfrey si schiarisce la voce, dissolvendo l’imbarazzo. «Dicevamo… nipote.Unicafigliadisuofratello?»

«Be’,sì…»

«Professor Milfrey, è davvero tardissimo!» ribadisce Norton, al limite dell’educazione.

«Non credo, professor Norton, e se dovesse nutrire qualche dubbio in merito, le consiglio di dare un’occhiata meno affrettata al suo smartwatch.»

Sono così eccitata dalla sua attenzione nei miei confronti, da evitare deliberatamente di volgermi verso gli squilibrati che continuano ad assillarmi.

«Signorina Wilson Ryan, desidererei sapere se l’esame è stato per lei motivodistress.»

«No,affatto»scuotolatesta,mostrandotranquillità.

«Difficoltànelprepararsi?»

«No,no.»

«Magariproblemimnemonici,organizzazionedeidati,comprensionedei ragionamenti…»

«No…»

«Econigraficicomeselacava?»

Ritiro tutto e sono furente. Solo perché appartengo al Quadrante Dieci, devo risultare per forza inferiore a questa gente anche nell’intelligenza?

Mistannotuttitrattandocomeunesemplareraro.

«Ha passato senza alcun problema l’idoneità»specifica mamma Brigitte, gonfiandosid’orgoglio.

«Anche mio zio viene dal Quadrante Dieci, e non è un idiota» replico stizzita,senzacurarminédeltonoenemmenopiùdellamiavoce.

Itresiguardanoinunmodochenonmi piace.Nonmi piacenemmenoil lorosilenziocaricoditensione,illoromutocontrasto.Perfortunaadesso sìchesonoinritardo.

Mi avvio verso l’uscita e mi richiudo la porta alle spalle, lasciandoli dentro a scambiarsi chissàquali commenti sudi me. Con addossoancora i loro bizzarri abbracci, mi reco verso l’aula riservata al corso per genetistaestetica.

CAPITOLO5

Mio zio accoglie il mio rientro dal Centro, aspettandomi davanti al cancello, raggiante. Già mi sento mancare la terra sotto i piedi: le mie nefasteprevisionisisonoavverateconladovutacelerità.

La mia roba è già tutta arrivata a casa sua. Si è occupato lui stesso, nella mattinata, del piccolo trasloco. Vestiti, scarpe e qualche oggetto personale.

L’appartamento in cui ho abitato per diciannove anni con i miei genitori è rimasto cinque piani più in basso. Dalle grandi vetrate sospese sul deserto, ora potrò scrutare un po’ più in là nell’orizzonte. Avrò ereditato appena qualche decina di metri in più di solitudine sabbiosa a fronte di untormentonecostante.

Mio zio, al contrario, non sta nella pelle. Ha perso un fratello ma ha acquistato una nipote, e ciò lo consola non poco. Io invece in un colpo solohopersopapà,casaetranquillità.

«Vedi, è tutto come a casa tua» dice lo zio, entusiasta, mostrandomi l’appartamento.

«Grazie…»hocercatountonoallegro,senzapurtroppotrovarlo.

«Ah… ho spostato il mio piedistallo olografico, l’ho messo più distante da camera tua. Non credo t’interessi ascoltare i naturalisti delle altre Greencage…»

Vorrei rispondergli che non m’interessa nessun naturalista e in primo luogo lui, i suoi bruchi e le sue cimici. Il meglio che posso fare è continuareatacere,sfoderandounsorrisosconsolato.

«La mia piccola Sylvia…» sorride orgoglioso, guardandomi. «Faccio sempreunagranfaticaavedertigiàadulta.»

Quando mio zio s’illanguidisce, lo sopporto meno di prima. E dovrei passarequiimieiprossimiannidigioventù?

«Allora,cometisembraqui?»

«Micamale»annuisco«finalmentepossovedereildeserto.»

Vorrebbe schiodarmi dalla vetrata, portarmi a sedere sul divano a conversare con lui: muore dalla voglia di domandarmi com’è andato il mio primo giorno al Centro. Sento il suo sguardo implorante che mi solletica la schiena, e vorrei grattarlo via come si fa con un prurito fastidioso.

«Vuoiraccontarmicom’èandataoggi?»

«No, zio, adesso no» gli rispondo, dedicandogli qualche secondo di tiepidaattenzione.

«Vabene,alloratilascio.Dilàc’èlatuacamera.»

«Loso.»

Mi affretto a liberarmi della sua presenza, raggiungendo quello che diventeràilmiopiccoloregno.

Nella camera trovo due letti nell’identica posizione di casa mia. Uno per me, uno per il fratello o sorella che non ho mai avuto. Guardo il copriletto, intatto, con la solita tristezza. Vi appoggerò i miei vestiti come al solito. La mamma voleva che li riponessi nell’armadio per rimuovere automaticamente sporco e odori. Io invece mi ostinavo a lasciarli lì sopra, e non tanto per sentirli puzzare, quanto per celare quel vuoto al mio cuore. Ora il vuoto si è allargato ed è diventato un abisso, credevodiessermiliberatadairicordi,mamisbagliavo.

Nella Greencage il numero della popolazione è sempre sotto controllo. Ogni coppiahadirittoaunfiglio,ilsecondogenitoèunlusso.Talvoltasi apre la possibilità di generare un nuovo nato e, a quel punto, si pesca dalle graduatorie:le coppiecon più diritto dianzianitàpotrannoriempire anche il secondo letto. Tutto facile con le provette, molto meno qui, nel Quadrante Dieci, dove il rischio di pesare sull’intera comunità con nascite fuori programma fa di noi dei soggetti eccentrici. Comunque sia andata,permenientefratellino.Pazienza,la solitamontagna dipuzzami aiuteràanchequi.

Davanti alla vetrata c’è l’angolo del fitness. Un altro monumento all’inutilità. Tapis roulant, panca, pesi, molle. Sorrido al ricordo delle parole scambiate con il professor Milfrey. Io, una sportiva? Giuro che quella roba non l’ho mai toccata e mai la toccherò! E me ne guarderei bene, non ci tengo ad assomigliare ancora di più a una specie di minuscolomaschietto.

Il sole del deserto lì fuori continua ad ardere ogni forma di vita, mi sembra di sentirlo addosso. Abbasso la luminosità delle vetrate, ora mi sembradirespiraredipiù.Vorreidell’acquafresca,vediamosemiozioè stato così intelligente da impostare il carrellino portavivande con lo stessonomecheavevailmio.

«Felix!»scandiscoadaltavoce.

Mi attendo di udire la musichetta che avevo impostato per il suo arrivo, pensandoche daunmomentoall’altro,diligente,apriràlaportaechepoi richiuderà digitando la password, lasciando intatta la mia preziosa privacy.Malapasswordioancoranonl’hoimpostata.

«Disturbo?» Un bicchiere d’acqua s’introduce timidamente dalla fessura della porta. Mio zio me lo porge con un sorriso, non lo facevo capace di derubareFelixpervenireacuriosareincameramia.

«Vuoi che impostiamo un colore diverso alle pareti? L’avrei fatto io, ma non ricordavo la tonalità di azzurro che preferisci. Invece ho dato il nomegiustoaltuocarrello,contenta?»

«Guardachelaprossimavoltasiarrabbia.»

«Chi?»

«Felix,temedifiniredisoccupato.»

Lo zio resta un po’ interdetto, poi si scioglie in una timida risata, incredulo al mio inatteso lazzo verbale. Il letto vuoto viene riempito subito dal suo largo posteriore, e già mi pento della mia scanzonata accoglienza.

«Allora,cometisonoparsiiragazzi?»chiede,guardandomialungo. Chiseloschiodaadesso.

«Belli.»

Lo zio è divertente quando mi guarda con espressione interrogativa. Gli siarricciaunpo’ilnasosopraibaffi.

«Anzibellissimi»rincaro.

«Magari…simpatici?»

«Echeneso?»

«Nontiseipresentata?»

«CihapensatoilDirettore.»

«Ah sì, Jack Lee Redford! È lui che gestisce la scuola, adesso. Non lo conoscobene,paresiaunapersonacapace.»

«Sì,credodisì»annuisco,scrollandolespalle.

«Proprio l’altro giorno abbiamo fissato la data per la semestrale conferenzasullabiodiversità.»

«Magarivengoasentirti.»

Mio zio assume una smorfia di scontento. Pensarmi tra gli studenti di genetica,invecechetraisuoiallievinaturalisti,èunapesantesconfitta.

«Eloro,ituoicompagni,cosatihannodetto?»

Inarcolesopracciglia.«Dovevanodirmiqualcosa?»

Riesco a essere più insopportabile di quanto previsto dal mio piano “anti zio”. Se fossi in lui, me ne sarei già andato da un pezzo. Invece resta.

«Chelezionihaiavuto?»

«Lapresentazionedelcorsopergenetistaestetica.»

Alle mie parole fatica a restare impassibile, vorrebbe dirmi troppe cose e invece,conprudenza,tace.

«Èstato…interessante?»chiededopounpo’.

«Ohsì,soprattuttoquandol’insegnantehaparlatodellemode.»

«Mode?»

«Certo,ancheil corpodeveseguire la moda,allostesso mododeivestiti, delle acconciature, dei trucchi. Per comporre il look di un corpo alla moda, devi saperlo prevedere una quindicina di anni prima. Vite alte,

basse, corpi filiformi, muscolosi, seni prosperosi o appena accennati, corpipelosi oglabri,pancette,ventripiatti…le mode vannoevengono e unaspettogeneticonons’improvvisa.Bisognaanalizzareicorsiericorsi del gusto, presupporre una buona preparazione storica nell’ambito dell’esteticaepossedereungrandeintuito.»

Mentre parlo, vedo mio zio sbiancare ingoiando una per una tutte le riflessionichevorrebbecatapultarmiaddosso.

«Hocapito…diciamochenonèesattamentelamiafilosofia…»

«Loso.»

«Comunquesetipareunabuonascelta…»

«Ottima»ammetto,conunabuonadosedisadismo.

«Va bene»conclude sfinito, avviandosi verso la porta.«Sappi comunque chequandoavraivogliadiparlare…»

«Zio…»

«Sì?»

«Misonoinventatatutto.»

Ilpaesaggioinnevatoèquellochepreferisco. Camminonellaneve,affondandoaognipasso.

Il cielo è di un blu intenso, e fa cornice a montagne altissime dalle quali si dipartono gli artigli gelidi dei ghiacciai. Sferzate di neve portata dal vento mi giungono addosso, e io respiro a pieni polmoni l’aria frizzante chelemielarghenariciaccolgonoconpiacere.

L’unicomomentoincuifacciousod’indumenticaldièquesto.

Nella Greencage non sono in molti a scegliere di vivere una realtà aumentata di neve e ghiaccio. Preferiscono rialzare la temperatura e immergersi nella beatitudine virtuale di bianche spiagge tropicali e atolli corallini. Io preferisco, al candore delle spiagge, quello degli altipiani innevati. Incantarmi dinanzi ai preziosi e bianchi ricami sui rami degli alberi, mi piace così tanto che qualche volta mi trovo a cercarne la reale consistenzaaccarezzandolabrinadelcongelatore. Amo la neve e non la vedrò mai. Ma mi è sufficiente immergermi in questosognovirtualeperrilassarmieallontanareilmalumore. La nostra è una gabbia dai larghi orizzonti. Impostando il programma spazio possiamo viaggiare ovunque, conoscere ogni ambiente che, un tempo, i nostri antenati avevano il lusso di visitare davvero. Loro avevano gli aerei, noi le stanze virtuali. Ne abbiamo un bisogno vitale, e funziona alla perfezione. È presente in ogni casa, alla stessa stregua di cucina o bagno. Indispensabile come andare al cesso. Ci aiuta a castrare ilbisognodilibertà,aneutralizzarelasmaniadiuscire.

***

Tutto ciò che ci è rimasto del mondo è quanto il planisfero interattivo ci daràmododisperimentareunavoltaentratiquidentro.

C’è un vantaggio, però: se i nostri antenati avevano a disposizione il mondo intero limitato al presente, noi invece possiamo scorrazzare nel temposoltantoimpostandol’epocaprescelta.

È così che, quando mi trovo dinanzi alla linea dei secoli e dei millenni, amo scegliere l’ambiente innevato retrocedendo molto indietro negli anni.

Oltrepasso senza particolare interesse i tempi nei quali le montagne erano solcate da deprimenti strisce bianche di neve artificiale. In quei tempi in cui tutte le contraddizioni cominciavano a venire al pettine, si stavapianpianodandoaddioalcandidoelemento.

Passo oltre e indietreggio nel tempo fino a raggiungere montagne senza funie piloni.Trovola neve,la neve intattaovunque mi giriintorno,sulla quale lasciare le orme del mio passaggio, circondata da una pioggia magicadicristallibianchievaporosi.

Vadoindietro,sempre di più, nella gelida solitudine fino araggiungereil capolineadellericostruzionivirtualidellastoriaumana.

Godendo dell’ovattato silenzio regalato dalle cuffie che indosso, sbolliscodavveroognitensioneinunambientelontanissimonellospazio e nel tempo, popolato da animali scomparsi, dei quali osservo nitide le tracceimpressenell’immacolatocandore.

Quello che voglio, è che tutta questa gelida magia s’impossessi di me finoalleossa,inquestomiaiuteràilcomando tormenta.

Soffigelatisferzanoipochicentimetridi pellerimastascoperta,aggiusto lemanichedellagiaccasopraiguanti.Eccoloilvento,sembravero. Esco dallo stanzino con una piacevole sensazione di freddo. I bollori della tensione si sono stemperati del tutto. Tolgo cuffie, cappello, guanti e sciarpa. Come mi piace il freddo, come mi rilassa. Se adesso entrasse miozio,forseriuscireianonmaltrattarlo.

Ma i pensieri tornano, e mi si aggrappano di nuovo allo stomaco. Con mio zio hotenutotuttodentro.Nonpotevocertosfogarmi conlui,pronto come uno sciacallo a raccogliere la nipotina ribelle per riportarla sulla rettavia.

Dire male è un eufemismo. L’incontro con i primi tre professori, di sicuroaffettida unacertabipolaritàaffettiva –la logica dei loroabbracci costituisce per me ancora un mistero – quantomeno era stato un po’ incoraggiante. Per il resto, la mia diversità fisica e la mia disgraziata provenienza mi hanno configurata, nella mente di ogni studente, come unaverararitàdallaqualerestareallalarga.

Difficileabituarsiallapresenzadiocchicuriosi,puntatiinmodocostante dietro le spalle, al massimo rivolti alle proprie unghie, se scoperti in flagrante.

Non me la sono cavata male nei laboratori. Peggio ancora: la cosa ha contribuito, in modo paradossale, a creare in me maggior imbarazzo. Tradendo l’aspettativa di ognuno, mi sono caricata di un’aura di crescente perplessità, nemica di ogni contatto sincero e amichevole. Non misonomaisentitatantodiversaeridicola. Madomanisaràunaltrogiorno.

CAPITOLO6

Appena entrata al Centro, comincio a percepire i primi crampi allo stomaco. Come se non bastasse l’ansia per i compagni, ecco trotterellare puntuali i miei stravaganti protettori che mi accolgono con un largo sorriso.

Io, invece, nel vederli avvicinare, mi ritrovo a compiere un autentico salto all’indietro. Il loro cieco entusiasmo non percepisce il mio atteggiamento diffidente. Forse se ne infischiano, non so, fatto sta che inizianoariempirmididomande.

Mentre rispondo a monosillabi, riesco a rivalutare mio zio, persino più pacato esobrionelvolermi proteggere.Leloroattenzionimi opprimono, le trovo stucchevoli e fuori luogo. Mi sembrano due genitori apprensivi mentreaccompagnanolaloropargolettaalsecondogiornodiscuola. Mentre mi avvio verso la sala di estetica genetica, lasciandoli senza troppi salamelecchi, combatto con un nuovo fastidio. Mi sono rimaste, infilatenelcondottouditivo,pocheassurdeparole.Emiraccomandonon andareingirodasolaperlascuola.

Che cosa stupida da dire a una diciannovenne, non ne capisco affatto la motivazione.Forsehocapitomale.

Oggi s’inizia con una lezione di cultura generale. Non credo possa esistere un modo più deprimente per iniziare una giornata di studio che affrontare una lezione di storia moderna. Si tratta di un ciclo di dieci lezioni dedicate alle cause principali che condussero al declino e poi al tracollolasocietàantropocentricachecihapreceduto.

Ascolterò il professor Doy mentre approfondirà, con dovizia di particolari, ognuno degli undici virus che ha decimato in pochi decenni l’umanità, senza che nemmeno si dovessero attendere i catastrofici esiti ipotizzatideicambiamenticlimatici.

Di ognuno di quei virus, in realtà, conosco già vita, morte (la nostra) e miracoli (mai verificati), ma dall’inizio dell’intervento non mollo l’attenzione;soloperchévogliofarebellafigura.

Nonostante la repulsione verso un argomento tanto infelice, mi mostro concentrataepartecipe.Troppo.

«Signorina Ryan, ha voglia di iniziare lei con un breve riepilogo di quantohodetto?»

Forse il professore muore dalla voglia di vedere in azione un esemplare umano generato dai capricci del caso. Sembra che qui tutti fatichino a capacitarsi che, anche senza ricorso ad artifizi genetici, si possa disporre di un cervello funzionante. Così parto sicura, sfoderando un tono saccente–enasale–cheindisponemeperprima.

«Il primo fu un coronavirus, per l’esattezza il Covid19. Il virus era stato forse trasmesso dagli animali all’uomo, presso il mercato cinese di Wuhan, dove abbondavano gli animali selvatici segregati in gabbie. Pipistrelli, zibetti,alcuni diprovenienza illecitacome i pangolini, curiosi mammiferiricopertidascaglie…»

Mi guardano tutti, sembra quasi abbia fatto qualcosa di male. L’unica miacolpa?Nonhosoddisfattoleloroaspettative.

Sono molto seccata, tanto da non riuscire nemmeno ad ascoltare la continuazione del riepilogo da parte degli altri studenti. Ho voglia di uscire, sbollirmi in qualche modo. Ah, potessi essere già a casa, rifugiarminellostanzino,farmiungironellaneve…

Invece il giro me lo farò qui al Centro, impostando spazio e tempo sul quieora.Unbel giretto esplorativodurante ilbreakche inizieràa breve.

Eperduemotivi.

Motivo numero uno: non starò un minuto di più in mezzo a questi ragazzi con cui non riesco a spiccicare mezza parola, additata per la mia bruttezza,piccolezza,antipatiaechissàcos’altro.

Non andare in giro da sola per la scuola è il motivo numero due. Tanto basterà a Sylvia Wilson Ryan per curiosare, fin nei piùreconditi anfratti, ognimetrocubodiquestoCentro.

Unasaetta.Lalezionefinisceesonogiàoltrelaporta. Che sollievo! Già mi sento liberata dall’oppressione. Forse sto sbagliando: fuggo questi momenti preziosi in cui potrei imbastire qualchecontatto,seguendol’impellentebisognodieclissarmi. Altra bella fitta al cuore: torna la voce della mamma. Purtroppo non la farei contentanemmenostavolta.Accelerol’andatura,potreiavere anche un’urgenzacorporea,no?

Percorro quasi di corsa il corridoio verdeggiante, i cui nomi sulle porte mi sono già noti grazie alle performance dei due mezzi pazzi che mi hanno accolto. Avrei una gran voglia di profanare ognuna di queste sale, entrarci senza permesso, così, per puro gusto del proibito, ma procedo oltre,attrattadalfondodelcorridoio.

“Non andare in giro da sola per la scuola”, ripeto tra me come un’allegra filastrocca. Spero che i due non mi vedano. Anzi, spero il contrario. Al diavolo tutta la loro boria, confezionata in provetta pure quella!

Quando mi trovo a girare il primo angolo mi sento al settimo cielo (ne avessimo almeno uno).Miritrovo in uno spazio circolare, grande eppure accogliente, ingentilito da una profusione di fiori piantati su ordinate aiuole. Esse delimitano uno spazio interno, arredato con sedie e graziosi tavoliniabbellitidavolutediferrodipintedibianco,moltovintage. Prendo posto e mi rilasso, godendo di questa curiosa solitudine. Mi guardo attorno in questo ambiente perfetto. Non voglio pensare a niente, solo osservarne ogni particolare. Gli alberelli da frutto crescono tutto attorno,sopraitettidelleaule.Peri,meli,susini,filaridivigne.Abbiamo coltivazioni ovunque, in orizzontale e verticale, la nostra fondamentale fonte di cibo. Poi c’è la carne. Quella sintetica, non conosco il gusto di quella vera e per fortuna. Un tempo gli esseri umani mangiavano anche gli animali, cibo vivente trattato nel più abominevole dei modi, torchiati finoallostremoperchédesseroloroquantoavevanobisogno. Ricordo la signora Walker Plitch, quando mostrava ai ragazzini grandicelli testimonianze filmate di quelle torture. Per fortuna abbiamo risolto con lo spezzatino artificiale. Una vera ghiottoneria, anche se a casa mia non si mangiava spesso. Non fosse mai che quel noioso di mio zio lo venisse a scoprire! Accidenti… ma è proprio vero che abito con lui? Con un po’ d’impegno, cercherò di farmi piacere la mia nuova abitazione. In effetti non ho ancora guardato dal lato opposto al deserto, versol’internodellaGreencage.

A casa mi precipiterò subito nel terrazzino, dove godrò della vista più alta sopra l’interno della Greencage. Speriamo abbia piantato le fragole, quando ero piccola ci andavo volentieri e gliele mangiavo tutte. Chissà quanto potrà spingersi il mio sguardo, magari arriverò a vedere anche i tetti alberati del Centro, quelli che mi stanno circondando in questo momento. La mia vista raggiungerà probabilmente anche il tetto alberato del Presidio ospedaliero, dell’emporio dei vestiti, della polizia… Qualche volta mi viene da pensare che tutto lo spazio lasciato alla Teca sia un po’ sprecato. Potremmo avere molto più cibo, sfamare più persone. Permetterci più fratelli. Ah, se mi sentisse mio zio, per lui la foresta è un tesoro inestimabile da proteggere più di qualsiasi altra cosa. Chissàperchéeperchi.

Il profumo dei gelsomini simischia a un non so che diappetitoso che mi solletica il palato. Dinanzi a me appare un aitante signore dalla folta chiomabruna,spallelarghee…vassoio.

«Possoservirla,signorina?»

«Io?» la mia domanda, o piuttosto la mia voce, sorprende l’arrivato che mipuntaaddossoduesbigottitifanaliverdeacqua.

«Mi riferivo alla tisana» mi giunge in risposta, indicando la tazza fumantesulvassoio.

«Non…nonl’hoordinata.»

«La portiamo a tutti.» Il profumo di bergamotto mi libera subito dall’apprensione che la tisana al finocchio non sia una bevanda tradizionaledelCentro.

«Permangiarepuòscegliereciòchedesidera,questoèilmenu.»

Quello che ormai posso identificare come un cameriere, mi guarda incuriosito. Sta senz’altro osservando nel dettaglio l’aspetto rozzo dei mieilineamenti.

Mentre abbasso gli occhi imbarazzata sullatazza, percepisco il frastuono di un allegro vociare che si avvicina alla velocità della luce. Gli studenti si riversano nello spazio in cui mi trovo come l’acqua di un rubinetto aperto al massimo. In breve tutte le sedie sono occupate, tutta la sala gremita da studenti in piedi ovunque. Ogni centimetro quadro ribolle del frizzanteparlottiodeglistudenti.

Forseleaiuolesonomesselìperpermettereallamassadirespirare. In mezzo alla ressa un buco vistoso. Un’oasi di pace. Isola di solitudine edemarginazione.Ilmiotavolino.

Ben tre posti vuoti, adocchiati e poi scartati da una moltitudine di sguardi. Resto con la mia tisana in mano per alcuni secondi. Il tempo di realizzarelasituazioneemifiondodentrolatazzaconocchi,bocca,naso eumiliazione.

Vorrei alzarmi e uscire. Troppo tardi. Sarebbe insopportabile dover sgomitare per fuggire e, nel frattempo, percepire dietro di me il rapidissimo confluire di quattro fortunati esultanti attorno al tavolino da medisertato.

Spio la situazione oltre l’orlo della tazza. Stanno tutti sorseggiando sorridenti. Chiacchierano amenamente, chi seduto, chi in piedi in capannello ed è triste vedere come le bianche volute vintage dei posti a sederedinanziamesembrinononesistere.

Mi domando se ha senso tanta sofferenza. Darei a tutti il ben servito, se non ci fosse lo spettro di uno zio vincitore a impedirmelo. Rassegnata, li osservo come fossi oltre un vetro, studiandone gli spostamenti da un capannello all’altro, i richiami e le accoglienze affettuose. Baci, bacetti, battuteamichevoli,felici,meravigliosi.

Le fluttuazioni da un gruppo all’altro coinvolgono anche due tipi, belli come quel sole che resterà sempre dietro il nostro finto cielo lassù. Quello biondo con i capelli a spazzola è piuttosto muscoloso, con i bicipiti che forzano il diametro delle maniche della maglietta. L’altro, con i capelli di un nero corvino, è più mingherlino, muscolatura più discreta, forse più affascinante nel muoversi. Mi piacerebbe vederlo in volto,cheinvececontinuaasfuggirmitralafolla.

Si è girato, l’ho visto. Assomiglia molto al professor Milfrey, potrebbe essere addirittura suo figlio. E se, in piena controtendenza, il professore di bioetica avesse voluto dargli i suoi stessi capelli neri e ricci, gli occhi verde mare e quel fascino particolare deputato a chissà quale misterioso gene? Ego smisurato o mancanza di fantasia? Chissà. La mia mente si perde nelle elucubrazioni, mentre mi godo un simile spettacolo della “natura”.

Machefa?Indicalesedievuote.Indicailmiotavolino. Nella confusione, riesco vagamente a udire i commenti dei due amici. Allungo allo spasimo il condotto uditivo: «Restiamo in piedi, ci sgranchiamo» capto dalla risposta dell’energumeno biondo. «Ci sgranchiamo in palestra questo pomeriggio»è la risposta secca del moro dacapogiro.Losposereianchedomani.

È stato bello. Bello ma breve. Non solo perché il palestrato me l’ha ripreso,tempoun secondo,ma soprattuttoperchél’hafattoallungandola suamanosuquelladelcompagno.

Andateeriproducetevi,sidicevainunpassatolontanissimo. Non andate da nessuna parte e riproducetevi secondo percentuale, è la nuova formula della sopravvivenza e delle coppie omosessuali, una mannadalcielo.Perglietero,solonasciteinprovetta. La riproduzione legata al sesso è rischiosa, lo dimostra un seppur esiguo numero di fratellini fuori conteggio che il mio Quadrante deve sobbarcarsi, stringendosi e razionando. Un affronto alla precisione numerica, alla fobia da sovraffollamento, anche per questo ci odiano tutti.

Mi guardo un po’ intorno. In teoria già mi era noto: una persona su tre orienta le sue preferenze verso il proprio sesso. Chi mi aiuta a calcolare la percentuale che resta a me, bassa e bruttina, di trovare qui l’anima gemella?

Ma qualcosa non funziona: il moro da capogiro sta marciando sicuro nella mia direzione, seguito dal colosso recalcitrante. Che sia attratto dal fascinodell’esotico?

«Rick, abbi pazienza, devo sedermi. Te lo ricordi che mi sono stirato un polpaccio?» ascolto dalla sua bocca carnosa e perfetta. Il polpaccio stiratohacolpitonelsegnopiùdell’esotico,e idue sonodavverodinanzi al qui presente obbrobrio, firmato Quadrante Dieci, impegnato a sorseggiareconlagolasigillatalasualiquidaconsolazione.

A occhi bassi, anzi bassissimi, mi concentro sul rumore delle sedie mentresispostanoattornoalmiotavolo.

«Ciao,sonooccupate?»

Sì,trefantasmi.

«No,no…»rispondoconvocetremula,piùnasaledelsolito.

Ho esultato troppo e troppo presto. L’energumeno maledetto sta spostandounasediadal miotavoloperportarlaaltrove,epureil moroda urlo ha una mano sullo schienale della sedia che mi sta di fronte. Sta seguendo l’esempio del suo compagno. Ma, a differenza dell’altro, abbassa lo sguardo verso di me. Gliele vedo bene, finalmente, le sue incantevoli iridi verde acqua, intelligenti, empatiche. Si è reso conto che quantosta facendo non ècarino. Mi guarda con attenzione, mi sorride,si siede.Ilsuocompagno,meravigliato,restaconlasediainmano.

«Sieditianchetu,Rick,facciamoduechiacchiere.»

Misonoafferrataaibracciolidellasedia,sperononsisianotato.

«Seinuova,vero?Cosastudi?»

«Estetica genetica» rispondo, nella certezza di scatenare quantomeno un moto di sorpresa. Lui invece non fa una piega. L’altro si gira con un ghignotroppoovvio.«Piacere,BenMilfreyAnderson.»

«Piacere,SylviaWilsonRyan.»

Ho la mano già sudatissima quando me l’afferra. Parente di un professoreanchelui,abbiamo già unadisgrazia in comune.Unavampata improvvisa,puzzocomeunacapra.

«Wilson Ryan?» ripete, dopo un attimo d’esitazione «non è che c’entri conilprofessore,conilnaturalista?»

«Sì,èmiozio»annuisco.

Glibrillanogliocchi,misentomancare.

«Estudiqui?»

«Capita…»Non mi è uscito niente di meglio per riassumere il cruccio di unavitaintera.Mischiariscolavoce.«Tusei…»

«Sì, il figlio del professor Milfrey. M’interessano molto gli studi di tuo zio.»

«Estu…studiqui?»tartaglio,accorgendomidellacuriosasimmetria. «Capita!»sorride.

Larispostachemeritavo.

Intralice,vedoRickancorainpiediconlasediainmano.

«E tu che cosa studi?» mi affretto, per non rischiare di farmelo portare via.

«Bioetica.»

Segue le orme del padre. Roba seria, altro che combinare naso e orecchie.

«Mipiacequi»commento,tantoperdirequalcosa.

«Ameno.»

Reagiscocomepossoconunarisatinavuota.

«Nonhaifattomolteconoscenze,sbaglio?»

Altrarisatinamapiena,stavolta.Didolore.

«Se ti fapiacere,questo pomeriggio potremmo farci ilgironelmodoche più ti piace: piedi, nuoto, monopattino, bici, pedalò. Ti spiego un po’ comevannolecosequi.»

Mentre annuisco imbambolata, scorgo quel bellimbusto del suo compagnoconlafacciasemprepiùtirata.

«Ben,cimuoviamo?Vuoichearriviamoinritardo?»

CAPITOLO7

Quandomioziotornaacasa,mitrovainterrazzachedivorofragole.

«Vedo che stai apprezzando le mie colture, sono le fragole che ti hanno messodibuonumoreoc’èdell’altro?»

Con la bocca ancora piena, rispondo: «Le fragole, zio, sono squisite. Ma comefai?»

«Amolepiante,quellechecoltivoepiùancoraquellechenoncoltivo.»

Cirisiamo.

«Da quassù gli alberi della Teca si vedono ancora meglio» dice, indicandoilpanoramadifronteanoi.«Haivisto,nipote,comesonoalti?

Ciòcherestadellaforestaprimaria,èuntesoroimmenso.»

Che pesante. «Un tesoro? Non ci possiamo entrare, lo vediamo da un vetro…»

«Nonhodettountesoropernoi,èuntesoropersé.»

«Anch’iosonountesoroperme»commento,canzonatoria.

«Ogni parte di quest’universo è un tesoro per se stesso, ogni volta che creiamo le condizioni perché una specie si estingua, abbiamo fatto un affronto all’inesauribile vitalità della Terra. Le specie vanno e vengono, ma troppe si sono estinte a causa dei nostri predecessori. Il nostro compito qui, nella Greencage, è di preservare ciò che è rimasto della foresta primaria australiana, lì dentro, dentro la Teca. Come un gioiello d’inestimabilevalore.»

Credevo che la Greencage fosse stata creata per salvaguardare la specie umana, che il gioiello fossimo noi. Evidentemente ci sono punti di vista diversi. Mi sto domandando se ho davvero voglia d’imbarcarmi in simili ragionamenti, mentre gusto queste squisitezze con il cervello in pappa perl’incontrodiquestopomeriggio.

«MipiacerebbeparlartidellaTeca.»

Non riesco a trattenermi dallo sbuffare. «E a me non piacerebbe ascoltarti.NellaTecanoncivoglioandare.»

«Seciandassi…»

«Non m’interessaebasta»sbotto,sbrigativa.

Lo sto maltrattando ancora una volta, ma per spiccicarmi di dosso le sue insistenze è l’unico modo. Lascio i serpenti a ingoiare le rane, i ragni ad avvolgere insetti, le piante a soffocarsi l’una con l’altra. Se in quella bolgia si arrangiano, affari loro. Mi piacciono i nostri giardini curati, i

nostri orti, i nostri ordinati frutteti, mi piacciono i ragazzi in provetta. Bramo passeggiarci insieme, con eventuale appetitoso contorno di baci, bacettiequant’altro.Sì,questomipiacesopraognicosa.

Lasciolaterrazzaemieclissoincamera. Aziono il telecomando. Il pannello sul muro si muove lateralmente. Mi appare una grande superficie speculare. È un movimento che ho fatto di rado nella mia vecchia camera, e ho smesso dal momento in cui mi ci sono guardata sul serio. Ora sono pronta per la sfida del secolo: più arduo rendere seducente la sottoscritta o trasformare in etero il Ben dei mieisogni?

Altro problema sarà liberarsi dell’assillante compagno dai bicipiti sproporzionati,maquestofapartedifantascienzafutura.

Il vestito dovrà essere largo o attillato, calzoni o gonna, camicia o maglietta?L’importanteènasconderelespallepocofemminili. Per guadagnare qualche centimetro di altezza, invece, dovrò saper sceglieretrataccoezeppa.

Il trucco sta tornando di moda. Matite, fard, mascara, ombretti, per molti anni sono stati articoli in disuso, non li producevamo nemmeno più. Nessun trucco, nessun inganno. Perché allungare ciglia già lunghe, correggere pelli liscissime, mettere in evidenza labbra già rosse e turgide? La semplicità di una bellezza naturale o splendidamente artificiale,asecondadeipuntidivista.

Corsi e ricorsi, all’umanità piace variare senza motivo. Adesso il trucco serveadareuntoccodioriginalità.Favintage.

Nelmiocaso,invece,sitrattaproprioditruccovero,daprestigiatori.Èil naso grosso che mi preme innanzitutto ridimensionare, con qualche pennellata scura ai lati. Per le narici larghe non c’è proprio nulla da fare, potrei invece far qualcosa per gli zigomi bassi. Un velo di rosa al di sotto, per alzarli un po’, e il gioco è fatto. Il tutorial olografico, materializzatosisullaparete,mièdigrandeaiuto. Mi osservo allo specchio: sono diversa da prima, non c’è dubbio. Forse peggiore, non so capire. Il problema da risolvere sono le sopracciglia: mutandone la forma, potrei alleggerirne la pesantezza, ma mi resterebbe scoperta la pronunciata arcata sopraccigliare. Inizio un lungo lavoro di pinzetta, che non so dove mi porterà. Meglio far scendere la frangetta sopra gli occhi, facendo attenzione a non scoprire troppo i segreti di una frontetroppobassa.

«Mangi?»

Mioziomistachiamandodadietrolaportachiusa. Hopropriodimenticatoilpranzo.Fingodinonudirlo,magarisistufa.

«Mangi?»ripete.

Sbuffospazientita.«No,zio.»

«Nonhaifame?»

«Homangiatolefragole.»

«Lefragole?Sonosolounpo’dizucchero.»

«Vabene,misentosazia.»

«Ti servono carboidrati, altrimenti, per quanto ti conosco, tra un momentoavraifamedinuovo.»

Uffa, mi domando per quanto ancora durerà quest’assurdo battibecco, unoaldiqua,l’altroaldilàdellaporta,aparlarediprincipinutrizionali.

«Non ho fame e sono occupata» rispondo, guardando allo specchio la miafacciadeturpata.Seloziomivedesse,sprofondereidivergogna.

«Studi?»

«Sì,studio.»

Studiocomerimediareaglierrorideimieigenitori.

«Il cervello consuma molta energia» torna alla carica il cocciuto dei cocciuti.«EpoiNellysioffende.»

«Chi?»

«Nelly!»

Sa che mi piace assegnare nomi a tutti robot domestici, e si è inventato un nome simpatico per conquistarmi. Sono sicura che sta parlando della macchinaperconfezionareipasti.Èdiabolico.

«Povera Nelly!» esclamo, aprendo di scatto la porta sull’espressione scaturita del mio più prossimo parente, impegnato in uno sforzo sovrumanopernonbatterecigliodinanzialrisultatodelmiorestauro.

«Dai, mangiamo insieme!» Mi afferra la mano e, senza darmi modo di dire null’altro, mi trascina in cucina. La testardaggine. Credo me ne abbiapassatoilgenespecifico.

Mentre mi siedo, mi appare un messaggio sull’orologio: “Alle tre e mezzapassoaprenderti”.

Solo adesso ho la certezza che sia tutto vero, mio zio mi vede trasalire matace.«Mangioveloce,zio,devouscire.»

Sorride.«Vabene,sonocontento.»

Homangiatoinvelocitàedescodicorsa.

Ben è già davanti al giardino del Quadrante Dieci. Procedo spedita verso di lui, in jeans e scarpe da ginnastica, come sempre del resto. Alla fine, visti i suoi propositi dinamici, ho rinunciato a gonne e tacchi, rassegnandomialmiometroecinquantadialtezza.

«Sei…puntualissimo»tartaglio.

Dopo qualche imbarazzato convenevole, Ben passa subito ai delittuosi propositi:«Nonmihaidettocometipiaceilgiro.»

Non mi piace, punto. Vorrei rispondergli che non m’interessa il percorso circolare attorno alla Teca, nemmeno se dovessi farlo in groppa a un unicorno. M’interessa lui. Quindi, faccia ciò che vuole, sarà perfetto comunque.

«Tistabeneilpercorsovita?»

Lo guardo in silenzio. Odio gli attrezzi, odio sudare. Perché non una bella passeggiata tranquilla, magari mano nella mano? Basterebbe trovareilcoraggiodidirglielo.

«Nonl’haimaifatto?»

Cosa, cosa non ho mai fatto? Credo che le mie guance abbiano preso a lampeggiarelucerossa.Chevergogna.

«Hai un fisico da sportiva, anche a me piace lo sport. Il percorso vita è unottimosistemaperrestareinforma.»

Per il momento il mio ascolto è smozzicato, mi riesce bene solo di guardarlo.Madaoragiurochel’ascolteròconattenzione.

«È un bel posto, l’avrai visto senz’altro, sta di fronte al Quadrante Dodici. Ci vado spesso con Rick.» Forse avrei potuto restare sorda ancora un po’. Una parola mi ha messo di cattivo umore più del temibile termine sport:ilsolo nominareRickmi hafattocontorcere una decinadi metri d’intestino. L’immaginarmeli ad amoreggiare a cavallo di una traveèorripilante,vorreichiuderegli occhiespegnerne la vistadentrola mia mente, ma non trovo il pulsante e loro restano lì a baciarsi tra gli attrezzi,adaccarezzarsilapellesudata…

«Dovremmo andare lungo il percorso ciclopedonale, arrivare nei pressi del ponticello sull’Anellino ma, tutto sommato, è meglio che io eviti gli stiramenti,hogiàunpolpacciochemifamaleperlaginnasticadiieri.»

Amoquelpolpaccio,loamosempredipiù.

«Chenediciseilgirocelofacciamoanuoto?»

Nuoto? Questo ragazzo è pieno di risorse. Pessime. Dimenticavo che nell’Anellino c’è qualche matto che ci fa il bagno. Dodici chilometri di acqua gelata. Nessun problema, non mi dà fastidio il freddo, è che mi secca farmi vedere in costume, con la mia corporatura ingannevole da palestrata. E mi secca che mi vada via il trucco, che il naso sembri più grosso,gli zigomipiùbassi… Misecca piùdi tuttotrascorrere deltempo preziosoaccantoalui,tirandodentroefuorilatestadall’acqua.

«Be’,nontifacciotornaresuperprendereilcostume.»

Si vedechela sequenza delle mieespressionifaccialiha parlatocome un libroaperto.

«Hocapito,prendiamounpedalò»conclude.

«Affarefatto!»ilmiosilenziosispezzainunurlodigioia.

M’immagino mentre, seduta accanto a lui, vedo sfilare i salici sulla riva, talvolta scostandone le lunghe fronde. La debole corrente ci trasporta e

io roteo le gambe per finta, guardandolo negli occhi. Affare fatto mille volte.

Subito fuori dal Quadrante Dieci, imbocchiamo una delle ventiquattro stradine di ghiaia bianca che percorrono in senso radiale la Greencage, fino a congiungersi con il percorso che si snoda circolarmente attorno alla Teca. Passeggiamo a fianco della ciclabile affollata da ciclisti più o meno veloci, fino a raggiungere la zona in corrispondenza del Quadrante Dodici.Parliamodelpiùedelmeno,eluimi fasentiremoltoamioagio. Pian piano sento sciogliere la tensione, tanto da ridurre la quantità smisurata di cioè e nel senso di che affollava ogni mia comunicazione verbale.

Ho dimenticato persino di ascoltare il suono della mia voce, e questo è giàdiperségrandioso.

Ma ecco che, in prossimità del percorso vita, ricomincio ad agitarmi. Accelero mentre mi avvicino alla temuta calamità. Intravedo da lontano la trave dei miei peggiori incubi, ma già scorgo con sollievo il ponticello sull’Anellino, e i pedalò che ci aspettano ormeggiati lungo la riva verdeggiante. Ritorno subito ben disposta e loquace. Invece, stavolta è

Ben chesi perde conlosguardo.Mentreio gliparlodel mio trasloco,sta guardando il bel fisico sudato di un ragazzo che si solleva, senza sforzo, suunasbarra.

Micadonolebraccia,avreipreferitocheisuoiocchipuntasserolatonica femminilità della ragazza poco a lato. Sono certa che non mi abbia ascoltato,eppure continuoa parlare,celandoilmiodisappunto.«Figurati lagioiadimiozioquandoglièarrivataincasasuanipote…»

Bensigiraversodime,concedendomidinuovolasuapienaattenzione. Perunattimoesulto,gliinteressoancora.

«Abiti a casa di tuo zio?» Il suo sguardo si è illuminato come non mai. Hocapitotutto:èmioziochegliinteressa.

«Sì,dall’altrogiornovivoconlui.»

«E…ecometitrovi?»

«Coltiva in terrazza delle fragole che sono la fine del mondo» rispondo, senzaaggiungerealtro.

«E…apartelefragole?»

Non mi va di parlare di mio zio, non mi va di parlaredelle sue fragole, e nemmeno dei problemi che mi affliggono. Devo cominciare a raccontargli l’odio che nutro verso le scelte della mia famiglia? Della repulsione che nutro verso i membri del Quadrante Dieci? Mio zio in cimaallalista,redituttiqueimatti?

«A parte le fragole, non so cosa dirti, in pratica non lo conosco»tento di tagliarcorto.

«Deveesseremoltointeressante…»

«Cosa?»

«Viveresottolostessotettodiunapersonaditalecalibro.»

Se il calibro si riferisce alla pesantezza della sua presenza fisica e spirituale,siamod’accordo,quindivorreichiuderel’argomento.

«Guarda, c’è parecchia gente che aspetta i pedalò» esplodo, allungando l’indice. «Non andavo in pedalò da quando ero piccola, mi ricordo che guardavole piante acquatiche chesistiracchiavanosulfondale.Lasciavo a lungo un dito nell’acqua, mi piaceva sentirla così fresca e farmi accarezzarelamanodallapressionedellacorrente.»

«Allorastavatefacendoilgiroalcontrario,anchequellavolta.»

Noncapiscomanonchiedospiegazionipernonfiguraretroppotonta.«E tucivaispesso?»riprendo.

«Abbastanza,quandovuoleRick.»

Basta Rick, basta sport, basta zio. Comincio a pensare che il bilancio di questoprimoincontrosiaunnettofallimento.

«Pedalòrossi,chenedici?»

Vadaperilrosso,nonèilmiocolorepreferitomapazienza.

Giunti dinanzi alla fila ormeggiata dei pedalò lungo la riva, la scelta del coloresirivelanelsuoaspettopiùsconsiderato.

Una rapida osservazione al canale e comprendo. Gli ultimi pedalò gialli sono stati occupati proprio adesso, e si stanno allontanando tra le braccia dellacorrente.Sonorimastiquellirossi,quellidelgirocontrocorrente.

Benmifauncennoconlatesta.«Dai,saliamo.»

Mentre mi accomodo sul sedile accanto a lui, mi viene da piangere. Ci stiamo accingendo a percorrere dodici chilometri di Anellino in direzionecontraria.

L’Anellino ha una bella corrente, azionata in maniera artificiale, per mantenerel’acquaossigenata.

Mi ritrovo a pedalare con l’impressione di essere sempre ferma. Navigheremo in direzione opposta a quella dei fortunati in giallo, a spolmonarci traglisportivi.Altrochechiacchierare diamenità,le uniche parolecheriusciròadirglinonsarannopiùdidue:quantomanca?

«Sai che hai una muscolatura invidiabile?» mi consola Ben, nel vedermi contrita. Sono contenta che apprezzi il mio fisico, ma la prospettiva di andare avanti con simile dispendio di energia, non riesce a consolarmi granché.

Dopo il primo quarto d’ora di sforzi disumani, sento la barca sempre più pesante. La corrente impietosa ne approfitta subito, e io vedo la riva scorrerealcontrario.LosguardodiBensiposasudime.

«Sylvia… non ce la faccio» confessa, arrotolando i calzoni della gamba destra sotto il ginocchio. Il polpaccio. Mi viene in soccorso per la terza

volta. Me l’ha mandato un angelo, perché ora saremo costretti a rinunciare.

«Celafaiaspingeredasola?»

L’angelo si chiamava Lucifero. Il pedalò rosso dietro di noi è costretto ad aggirarci, per non farsi investire dalla nostra improvvisa retromarcia. Premo forte sui pedali, non saprei cos’altro fare. In breve recupero la posizione, li supero. E sto facendo tutto da sola. La soddisfazione mi ripaga,piùancoralasuameraviglia.

«Seiunapotenza,Sylvia!»esulta.

Fregataconlemiestessegambe.

Anellino. Un piccolo anello, insomma. Non avevo mai riflettuto sul nome dato a questo canale circolare. Sono quei nomi che hai sempre sentito fin da piccola, e che per questo restano nomi e basta. Fin quando decidonofinalmentediconfessartiillorosignificato. Mi viene da sorridere al diminutivo, Anellone sarebbe stato più appropriato.

Mentre io sgobbo, lui inizia a parlare di scuola e io l’ascolto con mezzo cervello. L’altra parte è impegnata nello sforzo, le domande che vorrei farglimisiformulanonellamente,sbiadiscono,scompaionotuttesudate.

«Vedilì?»Bens’interrompe,indicandoduepersonesedutesullarivacon album e colori mentre guardano all’immenso vetro circolare della Teca. Dedico un secondo a osservarle, per non perdere concentrazione nello sforzo.

«Ancheamepiacedisegnareequicivenivospesso.»

«Eadesso?»domando,economizzandoparoleefiato. «Stoaspettandolacarta.»

Lo guardo malinconica. A me non piace disegnare, ma so che nella Greencageè moltoduraperchisidilettaconcartae colori. Ogni materia prima è un bene di lusso, la carta pure, dove non ci sono alberi destinati allo scopo. Pare se ne sprecasse tanta una volta. Adesso, per ottenere un nuovoblocco,bisognamandareiproprioriginalialmacero.

«Èverocheituoidisegnifiniscono…»

«Sì,per forza.Ma lihofotografati, naturalmente,e acasamiariempiono i led di tutte le pareti dal pavimento al soffitto. Guarda Sylvia, guarda quell’alberocontorto!Guardaquanteorchidee!»

Perdo un solo istante di concentrazione nel tentativo d’individuare quanto Ben mi sta indicando. Facile guardarsi attorno quando sono gli altriasfacchinare.

«Bello»commento,senzaavervistoniente.

«Rallentaunattimo.»

Volentieri,magarivedoqualcosaanch’io.

«Vedi quel grande albero? Ho ritratto proprio quello, con tutte le sue epifite.»

«Epi…che?»chiedo,temositrattidiunterminenaturalistico.

«Epifite, epi sopra, phitos pianta, epifite o arboricole significa piante che nonradicanonelterreno.»

Chedisgrazia.AncheBenfapartedelladannatacongrega.

«Se vuoi ti faccio vedere come sta bene quell’albero sulle pareti della miacamera.»

Questosìcheèinteressante!

«D’accordo,quandovuoi.»

«Domani,tiva?»

Fineanteprima. Continua…

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.