Il clochard

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Nicola Amato

Il clochard

Edizioni SHALIBOO

www.shaliboo.it


Edizioni SHALIBOO

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IL CLOCHARD Copyright Š 2010 Nicola Amato ISBN 978-88-6578-008-4 In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Novembre 2010 da Logo srl Borgoricco - Padova


Introduzione

“Clochard. Basta la parola per far affiorare una miriade di ricordi letterari, d’arte, di cultura. Emerge così una ricchezza straordinaria di impressioni, di sentimenti mescolati a sotterranea ammirazione, ansie, pene e timori per il mondo sconosciuto, irraggiungibile e composito di questi funamboli della vita, in bilico tra l’essere e il non essere, tra l’esistere e l’essere invisibili.” Secondo l’articolo 270 del Codice penale francese, "I vagabondi, coloro che non hanno un domicilio, né mezzi di sussistenza e non esercitano un mestiere", sono dei clochard ovvero coloro che, secondo l’etimologia, camminano "à cloche-pied". La condizione di senzatetto dunque, comunemente definita come barbone, è una situazione nella quale una persona per lungo tempo non ha un luogo di residenza. Questo lo distingue dalle persone appartenenti ad una cultura nomade, come il popolo Rom (noti come zingari o tzigani) per le quali questa condizione, assieme alla vita in una comunità chiusa e al collettivismo sociale, è un fatto normale e con un’antica storia alle spalle. Spesso viene utilizzato il termine vagabondo, ma non è corretto in quanto in tale categoria ricadono persone che fanno del vagabondaggio il loro stile di vita, come gli hobo e gli schnorrer o i punkabbestia. E’ inevitabile allora interrogarsi su quali sono le motivazioni di fondo che portano un individuo a condurre un’esistenza da clochard. Vi sono molte possibili cause che possono portare alla perdita della casa. Alcuni deliberatamente scelgono di non avere una residenza permanente, includendo viandanti a piedi e quelli che hanno forti convincimenti spirituali personali antimaterialistici. Ma molte altre cause di perdita del domicilio possono essere addotte alla fuga dall'abuso domestico, includendo ogni tipo di violenza sessuale, fisica e mentale: le vittime che scappano da queste tipologie di cause spesso si ritrovano senza una casa. I bambini che hanno subito abusi hanno spesso una maggiore probabilità di cadere nell'addizione a droghe, cosa che contribuisce a rendere loro difficile lo stabilirsi in una residenza. Nel 1990, uno studio accertò che la metà delle donne senza casa e con dei bambini fuggivano dalle violenze. Altro motivo di fondo è l’abbandono delle cure ospedaliere o di lungo-


degenza, sia per problemi di natura fisica che di salute mentale. Ma anche problemi derivati da tossicodipendenza, alcol, sfratti e disabilità varie. Infine, un grosso problema sociale è rappresentato dai classici ex detenuti: molto spesso le persone appena uscite dal carcere non trovano lavoro, hanno pochi soldi e nessun luogo dove andare. Ed è su quest’ultimo dramma sociale che il romanzo vuole soffermarsi: una moltitudine di individui che abbracciano una vita da clochard. Le difficoltà della vita spesso ci portano a fare delle scelte drastiche. Decisioni che mai avremmo preso in una situazione normale di vita quotidiana. Sono quegli eventi che pensiamo possano capitare solo agli altri e mai a noi stessi, come se noi ne fossimo immuni. Eventi che, al di là della loro essenza di precarietà fisica e mentale, fanno proprio delle difficoltà di vita un’esaltazione dei valori umani. Ma la vita è fatta di sconfitte e rivincite in un loop continuo: si cade e ci si rialza e così via. Questo romanzo vuole essere una metafora della vita, dal quale si spera possano essere tratti utili insegnamenti. E’ strutturato in quattro parti: la caduta, vita da barbone, il riscatto, la riabilitazione sociale. Proprio come le vicende della vita: capita a chiunque di cadere, magari per delle scelte sbagliate, oppure commettere in errori o incappare in disavventure di cui si è costretti poi a pagarne le conseguenze. Ma arriva poi il momento in cui, una volta ritrovato se stessi e metabolizzato i propri sbagli, avviene il riscatto umano e ci si riappropria di quei valori che sembravano perduti, perché gli occhi dell’anima erano bendati da falsi miti. E’ la storia di un manager di successo che, accecato dal potere e dal dio denaro, pone in ultimo piano il risvolto umano. Commette degli errori fatali e la vita gli si rivolta contro. Forse un po’ troppo. Affronta perciò un’esistenza da barbone, fatta di lotta per la sopravvivenza e di stenti, ma molto importante dal punto di vista umano e edificante per la sua crescita interiore. Un incontro importante e alcuni colpi di scena, lo conducono sulla via del riscatto sociale e della redenzione. Questo romanzo dunque, avendo la dichiarata pretesa di voler essere una metafora della vita, narra eventi che possono davvero capitare a chiunque, ovunque ed in qualsiasi momento. Non identifica i personaggi se non col nome di battesimo; non sono inoltre citate date e località specifiche, a parte un solo caso. Si è voluto quindi di proposito svincolarlo da riferimenti spazio-temporali, questo per condurre il lettore a concentrarsi


sul significato intrinseco degli eventi narrati, che prescindono dall’identificazione inequivocabile di persone, luoghi e tempi. Questo libro in definitiva, vuole essere un’occasione per evidenziare un dramma sociale rappresentato dal mondo dei diseredati, disadattati ed emarginati da una realtà sempre più insensibile. Bisognerebbe invece fare di più per la loro salvaguardia ed integrazione sociale. Essi sono parte di noi, della nostra società. Sono nostri fratelli che sono caduti in disgrazia e hanno bisogno del nostro aiuto per rialzarsi e continuare a camminare il sentiero della vita. Quante volte percorrendo una stazione ferroviaria abbiamo incontrato dei barboni ed abbiamo consapevolmente evitato il loro sguardo? Quante volte ci siamo ben guardati dall’avvicinarci a loro pensando che fossero degli esseri repellenti, puzzolenti e insani di mente? Quante volte abbiamo pensato che dietro la loro poco velata malinconia si potesse forse celare qualcosa di pericoloso? Forse tante. Ogni volta che l’abbiamo fatto abbiamo ignorato che il problema esiste e soprattutto non ci riguarda: è capitato ad altri. Auspico che la lettura di questo romanzo costituisca un utile stimolo per favorire un approccio positivo nei confronti dei barboni. Se vi capita, avvicinatevi pure. Parlate loro, offrite supporto, soprattutto morale, e date loro tanto calore umano: ne hanno davvero bisogno. Vi accorgerete di quali e quanti valori profondi siano imprigionati all’interno di quei corpi malridotti. Sarà un’esperienza che sicuramente vi arricchirà spiritualmente e vi farà apprezzare maggiormente le piccolezze della vita quotidiana, di cui abbiamo perso il senso perché le riteniamo scontate e ovvie. Buona lettura.

Nicola Amato



Parte Prima LA CADUTA



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Le vicende giudiziarie

L’atmosfera natalizia che si respirava un po’ ovunque in tutta la città si percepiva anche in carcere. La finestra della cella che ospitava Giovanni e i suoi tre compagni di sventura era prospiciente la strada principale che costeggiava per lungo, le mura di cinta esterne del carcere. Dalla parte opposta, esattamente di fronte alle mura circondariali, c’era una zona residenziale di edilizia popolare, conosciuta come “Il matitone” per via del tipo di architettura utilizzato, che faceva assomigliare i palazzi a delle grosse matite allungate e protese verso il cielo. Quasi tutte le finestre e i balconi splendevano di luci colorate delle decorazioni natalizie e degli alberi di Natale abbondantemente presenti. Dalla finestra della cella non si poteva fare a meno di ammirare l’abbaglio di tali luci alternate, anche perchè attraversavano il fitto buio della strada che divideva i palazzi dal carcere, fino a penetrare nelle tristi celle. Al di là dell’inevitabile disagio a cui erano sottoposti i detenuti, sia per via della restrizione della libertà individuale che per la conduzione di un tipo di vita, per così dire spartano, sicuramente trascorrere in carcere le festività molto sentite e tradizionali, come quelle natalizie, non faceva altro che aggravare ulteriormente il loro triste umore. Sebbene la casa circondariale fosse avvezza a organizzare ogni anno il classico pranzo natalizio e concedere dei pacchi regalo ai detenuti, frutto di donazioni benefiche, tuttavia l’ambiente che si creava, nonostante la buona volontà e l’ottima organizzazione che c’era a monte, non era lo stesso che si poteva vivere nel trascorrere quelle stesse festività a casa propria circondati dagli affetti familiari. Un velo di malinconia scese sul volto di Giovanni, come un sipario teatrale che viene calato per chiudere una scena e passare a quella successiva. Inevitabili i ricordi più cari delle tante feste natalizie trascorse serenamente. Con i gomiti appoggiati sul davanzale interno della finestra ed il mento che si adagiava su entrambi i palmi delle mani, si lasciò andare ai ricordi della sua infanzia. Tanti i momenti felici e sereni. Un Natale in particolare però lo rendeva maggiormente nostalgico: l’ultimo trascorso con i propri genitori prima che morissero in un incidente automobilistico. A quell’epoca Giovanni aveva poco più di dieci anni, e gli era sempre rimasto indelebile nella mente l’entusiasmo e l’emozione con cui


10 aveva scartato ad uno ad uno i tantissimi regali che aveva trovato sotto l’albero di Natale. Quell’anno, infatti, erano venuti a trovarli per la prima e ultima volta dei lontani zii, i cui nonni erano emigrati in America negli anni Trenta per cercare fortuna e, da allora in poi, si erano stabilizzate le generazioni a venire. Dopo svariate ricerche presso l’ambasciata italiana e le varie associazioni americane di emigrati, erano riusciti a rintracciare i parenti italiani e si erano presentati a casa loro, portando una marea di regali per tutti. Giovanni aveva ascoltato in religioso silenzio le vicende di quei parenti lontani che, con uno stentato italiano, gli avevano narrato le difficoltà iniziali dell’integrazione americana, i vari sacrifici fatti per garantirsi da mangiare tutti i giorni, e di come pian piano erano riusciti ad acquisire posizioni importanti sia a livello sociale sia economico. Giovanni si era sempre emozionato nel sapere che qualcuno, dopo innumerevoli difficoltà, era riuscito nell’intento di avere successo nel proprio campo. Per cui ricordava sempre con piacere e con una certa nostalgia i racconti narrati dai lontani parenti. Ed è proprio quello che era successo a lui. Giovanissimo, Giovanni era riuscito a laurearsi in Economia con ottimi voti, raggiungendo successivamente anche il traguardo prestigioso del Master in management aziendale. Per acquisire questi obiettivi aveva dovuto affrontare notevoli difficoltà, soprattutto di tipo economico. Sin dai tempi delle scuole superiori, mentre i suoi coetanei più fortunati si dedicavano alla vita spensierata e frequentavano pub e discoteche nei fine settimana, lui faceva il lavapiatti prima, e poi, a seguito di una “promozione sul campo”, il cameriere. Con il ricavato di questo e di altri lavori precari e saltuari era riuscito a mantenersi negli studi e ciò lo rendeva orgoglioso e fiero di se stesso. Erano stati anni di duri sacrifici. Subito dopo la morte dei suoi genitori, Giovanni era stato ospitato inizialmente dagli anziani nonni i quali, dato le loro precarie condizioni di salute, non si dimostrarono in grado di accudire un ragazzino di dieci anni. L’assistente sociale che aveva avuto l’incarico di interessarsi al suo caso, allora, fece in modo che il giudice tutelare dei minori firmasse un provvedimento atto a far transitare la patria potestà di Giovanni ad una struttura sociale per minori in difficoltà, una sorta di orfanotrofio. E fu lì che venne subito trasferito malgrado il suo forte disappunto, in quanto vedeva venire a mancare l’ultimo appiglio familiare che gli era rimasto. Com’è ovvio immaginare, l’ambientamento di un bambino che vive felice in un contesto familiare sereno dove non gli manca nulla, specie dal punto di vista affettivo, deve essere stato davvero difficoltoso, soprattut-


11 to per via del cambiamento radicale dello stile di vita. Giovanni dovette imparare a convivere con gli altri bambini, applicare rigorosamente le regole di convivenza civile, rispettare gli orari, adeguarsi al nuovo ambiente che lo circondava e soprattutto, riuscire a sopravvivere al razionamento di coccole e tenere effusioni affettive a cui era abituato. Anzi, nel corso della sua permanenza in quell’istituto aveva dovuto sopportare talvolta dei soprusi, delle violenze e dei maltrattamenti. In ogni modo, dopo il primo difficile impatto, e a parte qualche episodio spiacevole, tutto sommato le giornate trascorsero tranquillamente, sebbene con alti e bassi. Giovanni ricordava sempre con tristezza i primi anni trascorsi lì, soprattutto durante le festività, quando la maggior parte dei suoi coetanei, ospiti dell’istituto, trascorreva con i familiari le giornate di festa. Giovanni invece se ne stava dentro, gonfio di lacrime e colmo di rabbia. Il primo Natale trascorso in istituto, in particolare, gli rimase impresso per sempre nella mente. Era la sera della vigilia e tutti i bambini presenti vennero radunati nel seminterrato dell’edificio che li ospitava, di solito utilizzato come palestra scolastica. Erano in frenetica attesa di ricevere i doni di Natale da un gruppo di anziane facoltose benefattrici che, solitamente tutti gli anni, regalavano pacchi dono agli orfani che trascorrevano le feste natalizie in istituto. Per Giovanni fu un momento di gioia e serenità, visto la situazione poco felice in cui viveva tutto l’anno. Fu come rivivere per un attimo le stesse emozioni che aveva provato gli anni precedenti quando era nella sua famiglia, un timido raggio di sole che intiepidì una giornata grigia e fredda, ma che subito dopo scomparve lasciando il posto alle nuvole. Un giorno arrivò persino a fuggire dalla struttura che l’ospitava. Dopo una giornata però trascorsa a camminare in giro per la città, stanco e affamato, in serata rientrò convinto ormai del fatto che, per il momento, non era in grado di badare a se stesso e che l’istituto rappresentava l’unico suo appiglio per sopravvivere. Ben presto si rese conto che doveva stringere i denti e aspettare di diventare maggiorenne per andar via, con la speranza di riuscire a crearsi un futuro dignitoso. Quando raggiunse l’età delle scuole superiori, potette godere finalmente di maggiore libertà, in quanto gli fu concesso di uscire nelle ore serali per effettuare qualche lavoretto presso pizzerie e ristoranti. Una volta fuori definitivamente venne ospitato per un po’ di tempo da dei lontani cugini dei suoi defunti genitori, i quali lo aiutarono anche a trovare qualche lavoro saltuario per consentirgli di mantenersi negli studi


12 universitari, verso i quali Giovanni sembrava ostinatamente deciso di puntare. La svolta dal punto di vista lavorativo venne però quando, a seguito di uno stage previsto a completamento del Master, fu inviato dall’Università stessa, insieme ad altri studenti del suo corso, presso una grande azienda di beni e servizi per effettuare il tirocinio previsto di otto settimane. Giovanni si distinse subito per le sue doti organizzative e le notevoli capacità logiche che possedeva, ma soprattutto per un incredibile fiuto per gli affari che un manager di successo deve necessariamente possedere. Il suo nome venne segnalato dal tutor aziendale agli alti vertici dell’azienda come un potenziale dirigente di successo dalle eccezionali peculiarità. La frase più ricorrente nelle stanze del potere aziendale era: “Quel ragazzo avrà sicuramente una brillante carriera. Si vede che ha la stoffa del manager di razza.” Mai previsione si rivelò più azzeccata di quella. Una settimana dopo aver acquisito il Master e sostenuto la relativa tesi, venne contattato dall’azienda che lo assunse, inizialmente con un contratto a tempo determinato, conferendogli la prestigiosa carica di dirigente responsabile del settore commerciale. Mai era successo che un giovane appena laureato avesse assunto una carica così importante. Infatti, la maggior parte dei dirigenti di quell’azienda aveva impiegato anni per arrivare a ricoprire incarichi simili. Per questo motivo, se da una parte godeva della fiducia e la stima dei suoi superiori, dall’altra aveva suscitato le invidie e le ire degli altri dirigenti del sottosistema aziendale. Giovanni comunque imparò bene a nuotare in quel mare di dirigenti che sgomitavano pesantemente e che sarebbero passati addirittura sul cadavere della propria madre pur di far carriera e aver successo in fretta. Ben presto, infatti, la stoffa del manager diligente, coscienzioso, onesto e dal sano fiuto per gli affari, lasciò il posto ad un tessuto meno pregiato, ma più resistente alle intemperie della vita sociale ed economica che Giovanni si apprestava ad affrontare. Uniformandosi e adeguandosi dunque al sistema vigente del “mors tua vita mea”, nel giro di pochissimi anni arrivò all’apice della carriera aziendale ricoprendo la carica di Direttore Commerciale. Praticamente un solo gradino più in basso del Direttore Generale, che di solito era ricoperto da uno degli azionisti di maggioranza, ed aveva compiti di tipo istituzionale, rappresentativo e supervisione globale. Le decisioni importanti dell’azienda, quelle che concernevano le politiche commerciali e patrimoniali, le prendeva Giovanni; anche se le sue scelte commerciali dovevano passare attraverso l’approvazione del Consiglio e soprattutto con il beneplacito del Direttore Generale, il quale


13 aveva fama di essere molto pignolo ed eccessivamente zelante. Una serie di colpi, leciti e non, avevano fatto sì che Giovanni, oltre che ad aver accumulato un’ingente fortuna personale fatta di patrimoni immobiliari, titoli ed obbligazioni, aveva condotto l’azienda ad essere una delle leader nel proprio settore. Appunto, una delle aziende, non l’unica. Il suo cruccio, infatti, era sempre stato l’altra azienda concorrente con la quale si dividevano una grossa fetta del mercato mondiale. Acquisirla avrebbe voluto dire creare un impero ed essere leader in assoluto del proprio settore. Si, ma come fare? In forma privata, senza informare il consiglio d’amministrazione, inviò un paio di fidati scagnozzi alla ricerca di informazioni sullo stato finanziario dell’azienda concorrente. Voleva sapere tutto: entrate, uscite e soprattutto lo stato di salute. I risultati sperati non si fecero attendere molto: contenevano infatti delle sorprese. Ancora una volta Giovanni aveva fatto centro. L’azienda concorrente, infatti, stava attraversando un bruttissimo momento economico, dovuto a esosi investimenti mal riusciti, e il suo consiglio d’amministrazione stava seriamente valutando l’opportunità di cedere l’attività a terzi, prima che le proprie azioni avessero perso di valore con la tragica conseguenza della caduta dell’azienda dal piedistallo. Giovanni ormai non era più il manager serio e scrupoloso di una volta, con il senso degli affari che gli proveniva da un’attenta analisi delle problematiche e la razionalità nell’affrontarle. Era purtroppo diventato cinico ed arrivista, e preferiva sempre più spesso risolvere i problemi in maniera illecita. «Si fa prima e si guadagna di più. E’ il sistema. Fanno tutti così… » ripeteva a sé stesso giustificandosi «…..e poi, dopo tanti anni a fare profitti per l’azienda è arrivato il momento di pensare a me stesso.» Accecato ormai dalla bramosia di potere e continua sete di soldi, si adoperò allora, attraverso il pagamento di forti tangenti a consulenti ed amministratori compiacenti, per fare in modo che l’azienda concorrente venisse dichiarata fallita, anziché ceduta regolarmente a terzi dietro giusto compenso. Col pagamento poi di ulteriori tangenti al curatore fallimentare che simulò un’asta regolare, riuscì ad acquistare per pochi soldi l’azienda concorrente facendo confluire le sue azioni nel patrimonio societario dell’azienda per cui lavorava. In questo modo Giovanni diventava uno dei maggiori azionisti dell’ormai unificata azienda. Ora aveva tutti i titoli per tentare la scalata della carica di direttore generale ed essere il padrone indiscusso di un impero economico. Non andò esattamente come aveva preventivato: quest’ultimo passo azzardato gli fu fatale.


14 Giovanni era ormai inserito all’interno di un circolo vizioso di natura instabile, fatto di tanti amici solo per interesse e innumerevoli inimicizie dichiarate. A seguito di un’ispezione della Guardia di Finanza ai registri contabili della società notarile che aveva curato le pratiche amministrative del fallimento societario in cui Giovanni era coinvolto, vennero riscontrate diverse irregolarità che diedero vita a procedimenti penali ed avvisi di garanzia a tutti i soggetti coinvolti, Giovanni incluso. Iniziò così una stagione di veleni, accuse, ritrattazioni, investigazioni ed interrogatori, che portarono sotto processo tutti gli elementi coinvolti. Il curatore fallimentare si suicidò poco prima dell’arresto per la vergogna. Giovanni, invece, venne condannato a quattro anni di reclusione ed al sequestro di tutti i beni immobili, esclusa l’abitazione principale in quanto ci abitavano la moglie ed il figlio, ed al congelamento di tutti i fondi. Ad un passo dall’essere l’uomo più potente a capo di un impero economico, Giovanni si ritrovò senza il becco di un quattrino ed a varcare le soglie del carcere circondariale. Tanto in fretta era salito su tutti i gradini della scala ed altrettanto velocemente ne era disceso. *** Una forte e prolungata serie di colpi di tosse da parte di Antonio, uno dei suoi compagni di cella con cui aveva instaurato un sincero rapporto d’amicizia, anche per il supporto che da lui aveva ottenuto nel primo periodo molto difficile della carcerazione, fece tornare Giovanni nel presente. Si sentì per un attimo come se fosse stato appena svegliato mentre era protagonista di un sogno nel suo pieno svolgimento. Ripresosi, si avvide che ormai, visto anche l’ora tarda, la stanchezza si stava impossessando di lui ed era prossimo a cadere, questa volta sul serio, tra le braccia di Morfeo. Si spostò quindi dal davanzale su cui era poggiato e si adagiò sulla sua branda, che era situata nella parte superiore di un letto a castello dislocato accanto alla finestra. Il letto sottostante ospitava Antonio, sofferente di una grave forma di bronchite cronica che negli ultimi tempi era peggiorata anche a causa delle pessime condizioni carcerarie. «Anche tu sei ancora sveglio, Antonio?» chiese Giovanni. «Purtroppo questa maledetta tosse mi perseguita tutte le notti.» «Ma stai prendendo qualche medicina?» «Si, tante. Però sembra che non facciano più effetto. Ormai il mio corpo si è assuefatto ai farmaci e sto peggiorando di giorno in giorno……anche grazie a questo carcere di merda che è pieno di umidità e


15 spifferi che provengono da tutte le parti. E poi sono anziano….ho una certa età. Beato te Giovanni che tra qualche giorno te ne vai da qui.» Il modo sconsolato in cui Antonio si rivolse a lui lo fece rammaricare. Anche perché per Giovanni l’incubo carcerario era quasi terminato, mentre per Antonio la fine del tunnel era ancora lontana e la sua permanenza sarebbe sembrata molto più lunga, visto anche le condizioni di salute in cui versava. Si affacciò verso la branda sottostante e cercò in qualche maniera di rincuorare quel suo grande amico con un tono di voce piuttosto tenero e fraterno. «Suvvia, non fare così. Vedrai che i due anni che ti mancano a finire passeranno in fretta.» «Se non crepo prima» concluse Antonio, mettendo a segno nuovamente una serie interminabile di colpi di tosse fino a togliergli il respiro. Antonio si trovava in carcere da una decina d’anni per aver partecipato ad una rapina a mano armata a un furgone portavalori, finita tragicamente con la morte dell’autista dell’automezzo blindato. Antonio patteggiò la pena e venne condannato a dodici anni di reclusione. Nel corso però della sua detenzione, era stato spesso premiato per buona condotta con la concessione di alcune ore di permesso che gli consentivano di uscire dal carcere durante il giorno. Fuori l’aspettava con ansia la figlia, madre di una bellissima ragazzina di quasi dodici anni, teneramente affezionata a quel nonno in carcere sin dalla sua nascita. Intanto Giovanni, che non riusciva a staccarsi dai suoi pensieri, rimase per un po’ di tempo con lo sguardo immobile verso il soffitto. Nonostante fuori fosse ormai buio pesto, la cella era comunque illuminata dalla luce riflessa che proveniva dal corridoio, che di notte veniva lasciata sempre accesa dai secondini. Sovente, gli occupanti della cella avevano tentato invano di porre una copertura in cartone davanti alla grata della porta metallica della cella, onde evitare che di notte la luce penetrasse e disturbasse il loro sonno. Il direttore del carcere però si era sempre opposto perché, per motivi di sicurezza, voleva che ci fosse in ogni momento piena visibilità delle celle da parte del personale di sorveglianza. Ma il loro sonno era anche disturbato dal continuo ed incessante russare di Abdul, un marocchino detenuto per spaccio di sostanze stupefacenti, che occupava la branda superiore dell’altro letto a castello che era situato, in maniera parallela, accanto al muro opposto di quello del letto di Giovanni. Il letto inferiore invece era occupato da Giuseppe, un uomo di poche parole e che scontava una pena per reati connessi all’abuso sessuale e la


16 pedofilia. A Giovanni, Giuseppe, non era mai piaciuto, in virtù anche del fatto che non aveva mai sopportato chi commetteva soprusi nei confronti dei bambini. Figuriamoci dunque nel caso di Giuseppe, che addirittura aveva abusato sessualmente di alcuni minori. Lo odiava a morte, e si auspicava che lo lasciassero marcire in carcere dopo aver buttato la chiave in fondo ad un pozzo. Era notte fonda e finalmente il sonno ebbe il sopravvento su Giovanni. La mattina seguente i neon del corridoio lasciarono il posto alla luce dell’alba che, con i suoi fitti raggi, filtrava attraverso la piccola finestra della cella. Ma questo non era il motivo principale per cui i detenuti si erano svegliati di buonora. Un diffuso vociare proveniente da tutta l’ala del carcere, unito ai classici rumori di chi si stava alzando dal letto e stava andando in bagno a lavarsi munito di un pizzico di buonumore, ricordavano a Giovanni, ormai anch’esso sveglio, che nell’aria c’era frenesia perché era giornata di “colloqui”. Purtroppo questo evento lo riguardava poco, o meglio dire, per niente: le uniche visite che aveva ricevuto erano quelle del suo avvocato durante i primi periodi della carcerazione. Nient’altro. D’improvviso: «Giovanni…….Giovanniiii», urlò il secondino dal corridoio. «Si, eccomi.» «Ah….sei qui.» «E dove credevi che fossi, in sala colloqui?» «Appunto» sottolineò il secondino con l’aria di chi era stato interrotto bruscamente dalla “pratica” dell’ozio per un compito tanto importante quanto inatteso. «C’è una visita per te.» «Per me? Ma sei sicuro?» «Si. Per te, per te. Muoviti.» Giovanni attonito, fu sorpreso da quella chiamata. Pensò che si dovesse trattare di un errore o di uno scambio di persona. Perplesso, in ogni modo, si affrettò a prepararsi per uscire dalla cella. La sala adibita alle visite dei familiari ai propri congiunti carcerati era dislocata nel piano inferiore dell’ala del carcere dove Giovanni era detenuto. Sebbene non fosse molto distante, a Giovanni sembrò lontanissimo. Per poter raggiungere la sala bisognava percorrere un piccolo corridoio, poi due rampe di scale, ed infine infilarsi all’interno di un percorso labirintico. Durante tutto il tragitto Giovanni non aveva fatto altro che


17 chiedere a se stesso chi poteva essere venuto a visitarlo. Gli sembrava impossibile, forse un errore. Con voce fievole e titubante si rivolse alla guardia carceraria che lo stava accompagnando. «Ma….ma…..chi è?» «Non lo so chi è in visita. Mi è stato solo detto di accompagnarti giù perché c’è qualcuno che è venuto per parlare con te. Questo è tutto quello che so» biascicò seccato il secondino. Giovanni venne condotto in una stanza disposta quasi frontalmente alla sala visite, dove c’erano altri detenuti nell’attesa che la loro visita fosse approvata e quindi chiamati ad andare a colloquio. «Come sono i tempi di attesa prima di andare a colloquio?» chiese a dei presenti. «Se è la visita delle solite persone, solo qualche minuto; altrimenti anche un paio d’ore» rispose un anziano e barbuto carcerato. «Prima che il giudice tutelare si decida a dare l’autorizzazione...c’è solo che da aspettare ed armarsi di tanta pazienza» aggiunse prontamente un altro. Intanto nella sala visite si alternavano i detenuti che andavano a colloquio con i propri familiari. La sedia su cui Giovanni era seduto era posta in un angolo vicino alla porta e gli consentiva una visione diagonale delle varie persone venute per avere colloqui con i carcerati. Anziane donne che non riuscivano a trattenere le lacrime, giovani che cercavano di mantenere un certo contegno mostrando un senso di disagio, era la triste visuale che si prospettava davanti agli occhi di Giovanni. Ed ancora più mesta era la presenza dei bambini. Davvero tanti e molto rumorosi. Tra questi spiccava, per compostezza e per il volto particolarmente luminoso, una bambina, dall’apparente età di dodici anni, che vestiva compostamente un cappottino viola su cui erano adagiati dei lunghi capelli biondi, accompagnata da una giovane donna, probabilmente la mamma, che attendeva il proprio turno per parlare con l’addetto alla ricezione. Tra il diffuso vociare della gente in attesa, l’attenzione di Giovanni, e non capiva perché, era rivolta verso di loro. Si scorse leggermente fuori della propria stanza e non potette fare a meno di ascoltare il dialogo tra l’impiegato e la donna. «Mi spiace signora, ma oggi non può vedere suo padre.» «Ma come…..perchè? Cos’è successo?» La donna sembrava molto preoccupata. Si guardò intorno con l’aria di chi cerca di guadagnare consenso da parte delle persone presenti. Pose infine una mano sulla spalla della bambina per confortarla, ma sembrava


18 quasi avesse l'intenzione di reggersi nel caso in cui avesse dovuto ricevere una notizia tragica. Volse infine il suo sguardo verso l’impiegato, il quale si apprestava a dare scarne spiegazioni circa il diniego. «Non so di preciso. E’ un provvedimento di natura disciplinare del giudice tutelare che ha vietato, sino a nuovo ordine, ogni colloquio esterno di suo padre.» Dopo ulteriori ma vane rimostranze da parte della donna, una lacrima scese lentamente dalla gota sinistra della bambina che l’accompagnava. Era in evidente imbarazzo per quanto stava succedendo, e l’impressione che dava è che se avesse potuto sarebbe scomparsa all’istante. Si accorse intanto di essere oggetto dello sguardo di Giovanni e, fissandolo negli occhi, fece una smorfia scrollando le spalle come per dire: « Pazienza. Succede. Sarà per la prossima volta.» Giovanni, commosso per la dignità con cui la bambina aveva affrontato quella situazione, rispose allargando le braccia e con disappunto sembrò volesse dire: «Mi spiace davvero. Non so cosa fare.» Mentre le due donne si recavano verso l’uscita, scure in volto e col capo chino di chi ha subito un’ennesima sconfitta dalla vita, la bambina, pochi centimetri prima di varcare la porta, si girò verso Giovanni. I loro sguardi s’incontrarono nuovamente. Lei gli sorrise e si dileguò come un fantasma. Quel volto e quel sorriso gli rimasero impressi per molto tempo. Intanto il tempo trascorreva inutilmente. Era ormai già un’oretta che Giovanni era in trepidante attesa di conoscere il suo interlocutore, e più il tempo passava e maggiore era il logorio interno che provava nel cercare una risposta al suo enigma: «Chi diavolo sarà. Chi è venuto a trovarmi?» La risposta non tardò ad arrivare, inesorabile. Venne fatto entrare dentro una stanzetta attigua a quella dove si tenevano i colloqui dei detenuti. Un tavolo circolare con tante sedie intorno e un proiettore collegato ad un computer posto in un angolo, la facevano assomigliare ad una sorta di sala riunioni. Ad aspettarlo c’era un signore minuto, vestito di tutto punto, con degli occhialini posti sul naso e che frugava alcuni documenti contenuti dentro una cartellina di plastica, come se stesse cercando il foglio “giusto”. «Si accomodi» gli disse in tono formale. Giovanni non ebbe un buon presentimento. Qualcosa gli diceva che a breve un’altra tegola sarebbe caduta sulla sua testa. Guardò perciò quello strano interlocutore con fare circospetto, prima di iniziare a chiedere lumi circa le motivazioni di quell’inaspettata visita.


19 «Buongiorno. Posso sapere chi è lei e cosa vuole da me?» «Ma la prego, si sieda. Sono un funzionario dell’ufficio del giudice tutelare e, purtroppo, devo darle un notizia che non le farà tanto piacere.» «Ancora cattive notizie? Pensavo di aver ormai saldato il conto con la vita. In questi ultimi anni non ho fatto altro che pagare debiti sociali. Cosa c’è stavolta?» disse Giovanni con tono irritato. «Si ricorderà sicuramente del curatore fallimentare dell’azienda che lei voleva impropriamente acquisire, vero?» chiese il funzionario con tono alquanto sarcastico. «Si, certo. Quel poveretto si era tolto la vita per il rimorso» rispose Giovanni con lo sguardo basso. «Ebbene. Qualche tempo dopo il suicidio, la famiglia si costituì parte civile, anche se avrebbe dovuto farlo ai tempi del processo, quando c’erano ancora tutti i suoi beni in ballo, e non dopo che “quasi” tutto le era stato confiscato. Il giudice in ogni modo ha ritenuto di dover accettare il ricorso ed ha intimato di procedere al loro risarcimento.» «Quindi?» Il tono di Giovanni questa volta era piuttosto preoccupato, come se quel “quasi”, pronunciato dal funzionario in maniera chiara e scandita, lasciasse presagire nulla di buono e che il peggio dovesse ancora venire. Perplesso, aggiunse «ma … a me non è rimasto più nulla. Mi avete congelato tutti i fondi e requisito tutti i beni immobiliari.» «Non esattamente, signor Giovanni. L’appartamento in centro che l’era stato lasciato, era solo ed esclusivamente perché lei aveva una famiglia ed era la vostra abitazione principale», rispose il funzionario in maniera cauta, nel tentativo di voler placare un’ipotetica e probabile reazione di disappunto da parte di un Giovanni ormai esterrefatto. Il funzionario fece un profondo respiro, e con lo sguardo di colui a cui è stato affidato un compito ingrato, assunse un tono ufficiale. «Non sussistendo più le condizioni di salvaguardia sociale della famiglia, in quanto venuta disgraziatamente a mancare, il giudice ha stabilito che il suo unico bene immobile venga requisito, venduto all’asta al miglior offerente ed il ricavato donato alla famiglia del suicida, a parziale risarcimento per danni morali e materiali da lei causati al loro congiunto.» Lo sgomento e l’ira presero il sopravvento su Giovanni. «Cosaaaa? Ma voi siete pazzi. Non mi è rimasto più nulla. Dove andrò a dormire tra qualche giorno, quando esco da questo posto? Sotto i ponti? Eh? Me lo dica lei» urlò Giovanni battendo i pugni sul tavolo. Le vene del collo gli si erano ingrossate ed il viso era diventato


20 paonazzo dalla rabbia. Dovettero intervenire le guardie carcerarie per bloccarlo nei movimenti ed evitare gesti inconsulti. Il funzionario, dal canto suo, cercò in qualche modo di persuadere Giovanni a rassegnarsi e a non avvilirsi più di tanto per quanto era stato deciso, anche perché sarebbe stato inutile sebbene comprendesse benissimo che non avrebbe sortito effetti positivi immediati. «Cerchi di calmarsi ora. La capisco e mi dispiace per quanto le sia successo, soprattutto per la disgrazia che ha colpito la sua famiglia, ma non posso farci niente. E’ un’inappellabile decisione del giudice.» Invece qualche effetto l’ottenne, se non altro quello di gettare Giovanni nello sconforto più totale. Questi lo fissò per qualche secondo, inspirò profondamente e chinò la testa sino a toccare il petto col mento. Dopo un po’, come la quiete dopo la tempesta, ormai consapevole dell’irrimediabile ulteriore sconfitta, i toni di Giovanni divennero di estremo abbattimento morale. Non riusciva più a controllare le sue emozioni. Con gli occhi gonfi di lacrime continuava a ripetere come una nenia: «Che ne sarà di me? Perché la vita è stata così cattiva con me? Io ho pagato il mio conto sia con la giustizia sia con la vita stessa. Cos’altro vuole da me?» Distrutto psicologicamente ed incapace fisicamente di reggersi in piedi, venne accompagnato da due secondini nella sua cella. Col volto basso della sconfitta si trascinava sui piedi che sembravano diventati improvvisamente pesanti e rigidi al movimento. Non era più sicuro di essere così tanto felice per la scarcerazione, visto il tipo di esistenza che gli si prospettava davanti una volta uscito dal carcere. Le vicissitudini negative della vita sembravano davvero essersi scagliate contro di lui in maniera irrefrenabile. Cos’altro gli sarebbe dovuto capitare ancora? Più che incertezza per il futuro, quello che provava Giovanni era terrore.


21

Il dramma familiare

Passò ore ed ore sul suo letto con la faccia rivolta verso il soffitto e con lo sguardo fisso nel nulla. Il silente alone surreale che lo circondava era interrotto, di tanto in tanto, dai vari tentativi dell’amico Antonio di dire qualche parola di conforto. Cercava di tirarlo su moralmente, pur consapevole che ben poco avrebbe potuto fare vista la drammatica situazione in cui Giovanni versava. Ma soprattutto questo vuol dire amicizia: essere presenti nel momento del bisogno, anche se si è impotenti di fronte a qualcosa di più grande. Giovanni era fortemente demoralizzato per quanto gli stava succedendo. Facendo un bilancio provvisorio della sua vita, non poteva fare a meno di constatare come uno dei due piatti della bilancia era molto più appesantito dell’altro: gli eventi negativi avevano superato di gran lunga i momenti felici della sua vita. Si sentiva come in un baratro senza via di salvezza, come l’essere caduto vertiginosamente in un barile senza sapere quanto ancora avrebbe dovuto precipitare ulteriormente prima di toccare il fondo per iniziare a grattarlo. La sua mente era sull’orlo del precipizio, e Antonio, consapevole di questa sua situazione, cercava in tutti i modi di non farlo piombare giù. «Non puoi continuare così, Giovanni. Finirai per autodistruggerti.» «Ci sta già pensando il destino.» «Si, ma tu devi fare qualcosa per non lasciarti travolgere dagli eventi. Altrimenti è la fine.» «Cosa dovrei fare, per esempio? Far finta che nulla sia accaduto, forse?» «Non dico quello, ma almeno cerca di metabolizzare in fretta il colpo ricevuto. E per favore, torna a sorridere.» «Ci proverò, Antonio. Ma qui non faccio in tempo ad alzare la testa che devo di nuovo abbassarla.» «Vedrai, è solo un ciclo negativo. Prima o poi terminerà il suo corso ed allora tutte queste esperienze drammatiche che stai vivendo ora non saranno altro che un brutto ricordo che ti sarai lasciato alle spalle.» «Speriamo.» «Te lo auguro di cuore, Giovanni, perché ci credo che sarà così. Me lo sento. La fortuna ti sorriderà presto, te lo meriti.»


22 Sapeva benissimo, Antonio, che una volta entrati nel vortice degli eventi negativi era difficile uscirne, e non era solo una questione di attesa del termine del suo corso naturale, ma era indispensabile possedere una forte volontà ed un pizzico di fortuna, che a Giovanni, sinceramente, in quel periodo mancava. Ma quello era l’unico mezzo a disposizione di Antonio per non far cadere Giovanni in depressione e cercare di rincuorarlo. E poi, la volontà e la determinazione necessarie per rialzarsi dopo una brutta cadut,a sono sicuramente figlie di un animo sereno ed una mente lucida e razionale, cose che in quel momento a Giovanni servivano urgentemente. Alla fine Giovanni, stremato e provato, si addormentò. Ma non fu un sonno sereno. Anzi, tutt’altro. Ebbe tremendi incubi. Sudato fradicio, si girava e rigirava nel letto urlando frasi insensate che alternava a pianti a singhiozzo. La sua mente era sconvolta. La notizia che gli era stata recapitata dal funzionario del giudice tutelare l’aveva segnato profondamente. Anche perché era stata un’occasione per fargli rivivere le disgrazie occorse al figlio ed alla moglie in due circostanze diverse, seppure diabolicamente concomitanti. Suo figlio, un vispo bambino di soli quattro anni, era stato investito da un’auto pirata mentre, eludendo la sorveglianza della mamma, andava a recuperare la palla in strada che gli era sfuggita mentre giocava nel cortile di casa sua. Il bambino, tramortito dal forte colpo, morì subito dopo a causa delle laceranti ferite provocategli dall’essere stato agganciato dal paraurti e trascinato per diversi metri dalla macchina che lo aveva investito. Mai più nulla si seppe dell’identità dell’investitore. Giovanni in quel periodo era stato appena arrestato, ed essendo ancora in carcerazione preventiva in attesa del giudizio definitivo, gli venne negata la partecipazione al suo funerale perché, a detta del giudice, l’uscita seppure momentanea dal carcere avrebbe potuto dare adito a diverse forme di inquinamento delle prove. Il fatto di non aver potuto partecipare ai funerali del figlio e dargli così l’estremo saluto lo logorava dentro. Avrebbe voluto essergli accanto almeno in punto di morte, visto che nei primi quattro anni di vita era stato un padre assente per via della forte dedizione al lavoro e, soprattutto, agli affari. Il rimorso di non essere stato un padre premuroso ed affettuoso lo lacerava. In fondo, quel bimbo lo amava alla follia. Ma la vita, è risaputo, è fatta di scelte ed ognuno si assume le responsabilità delle proprie. Giovanni aveva scelto di dedicare maggior tempo ai profitti piuttosto che alla propria famiglia, ed ora se ne rammaricava. Ma come si sa, il mondo è pieno di coloro che si trovano a dover affron-


23 tare la filosofia del “senno del poi”. E Giovanni, ultimamente, era socio onorario di quel club. Quella settimana lasciò a Giovanni delle profonde ferite che mai fecero in tempo a rimarginarsi. Infatti, qualche giorno dopo la morte del figlio, una nuova disgrazia si abbatté sulla sua testa. La moglie, trafitta dal profondo dolore per la morte del figlio e l’arresto del marito, non resistette e si tolse la vita ingerendo una quantità smisurata di sonniferi. Nonostante i vari tentativi di salvarla perpetrandole diverse lavande gastriche, dopo pochi giorni di coma il suo cuore cessò di battere. Giovanni aveva conosciuto sua moglie ad una festa universitaria, uno di quegli eventi che vedono gli studenti riunirsi nei fine settimana in qualche locale e fare baldoria assieme. Fu un colpo di fulmine ad unirli. La dolcezza e l’affabilità di lei colpirono la determinazione e la razionalità di Giovanni. Decisero così di frequentarsi per un po’ di tempo e poi, entrambi pazzamente innamorati l’uno dell’altra, decisero di sposarsi non appena avessero terminato gli studi universitari. Sebbene lui rimanesse assente praticamente tutto il giorno per motivi di lavoro, trascorsero assieme degli anni felici, facendo diversi programmi per il futuro. Dialogavano molto, anche se lei non era mai entrata nello specifico delle attività lavorative di Giovanni delle quali sapeva poco o nulla, soprattutto di quelle di malaffare. Lui apprezzava molto questa sua discrezione: riteneva fosse una straordinaria dote che ogni moglie di uomo d’affari dovesse possedere. Ma ora l’aveva persa per sempre. Giovanni era rimasto solo e senza più una casa. Ma ciò che lo faceva torcere dalla rabbia, ormai sveglio e seduto sul letto ad asciugarsi il sudore, era la mancanza di una giustizia divina. Lui riteneva che, sommando gli anni di carcere, la morte dei suoi cari e la perdita di tutti i suoi beni, aveva pagato più di quanto avrebbe dovuto. Era come se la vita gli si fosse rivoltata contro in maniera più feroce rispetto alla gravità degli errori commessi. Era come espiare una pena per omicidio volontario per il solo fatto di aver commesso un semplice furto. Giovanni tentò in ogni modo di darsi una parvenza di normalità, cercando di convincere se stesso che la vita in ogni caso andava avanti e bisognava viverla. Tutto sommato aveva sempre avuto un carattere forte e deciso, ed era giunto il momento di tirarlo fuori. La posta in gioco era alta: la sua sopravvivenza fisica e soprattutto la salvaguardia mentale una volta fuori del carcere.


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Un illusorio spiraglio di luce

Il giorno seguente Giovanni sembrava molto più rilassato. Era come se avesse già smaltito la sbornia di ricordi cattivi ed era pronto per affrontare una nuova avventura. In effetti era su di giri perché quello era un giorno speciale per lui: era l’ultimo in carcere e di lì a poche ore sarebbe stato un uomo libero, sebbene con mille difficoltà da affrontare, ma libero. Doveva quindi pensare al presente e liberare la mente dai mostri del passato. Una nuova vita l’attendeva. Avrebbe dovuto nuovamente affrontare la società civile, quella stessa con cui anni prima si era scontrato e che aveva deciso di emarginarlo per quattro anni relegandolo in carcere. Questa volta, però, il suo approccio con la vita era totalmente differente da allora. Molte cose erano cambiate, non solo la sua condizione economica, ma anche il suo status, il suo “modus vivendi”. Nei quattro anni trascorsi in carcere, Giovanni aveva riflettuto a lungo su tutta la sua vicenda, aveva compreso gli errori commessi e si riprometteva di non caderci più. Tuttavia, il suo forte desiderio era quello di ritornare ad essere un uomo d’affari, questa volta leciti, e con un animo votato maggiormente al fattore umano delle cose. Sotto quest’aspetto, indubbiamente, la vita carceraria l’aveva forgiato e reso più sensibile. Era dunque sulla buona strada. Prendendo in prestito un termine dalla religione cattolica, potremmo dire che Giovanni era sulla via della “redenzione”. Ma era solo all’inizio di questo lungo e tortuoso cammino. Nel vortice dei pensieri che l’avvolgeva, ci fu nuovamente spazio per la malinconia, la quale prese nuovamente il sopravvento su di lui. Non potette fare a meno di pensare a quanto importante fosse stato durante la sua vita carceraria Antonio. Era però giunto il triste momento di lasciarlo, forse per sempre, vista l’incertezza del suo futuro e la precarietà della salute di Antonio. Giovanni ripercorse nella mente i suoi anni trascorsi in carcere. Ricordò come Antonio l’avesse protetto sin dall’inizio, proprio come avrebbe fatto una chioccia con i suoi piccoli. Gli vennero in mente i momenti più difficili, soprattutto quelli relativi alle difficili interazioni tra detenuti ed i casi, pochi in realtà, in cui lui stesso era rimasto coinvolto, e come Antonio, dal piedistallo dell’autorevolezza che godeva tra i detenuti, era riuscito a farlo uscire indenne una volta da un feroce diverbio che aveva avuto con un energumeno. Non poteva inoltre dimenticare come Antonio si era prodigato nel dissuaderlo dal tentare una fuga dal


25 carcere, agli inizi della sua detenzione. Le parole di Antonio gli rimbombavano ancora nelle orecchie che, in maniera insistente, cercava di convincerlo che era meglio soffrire qualche anno con la privazione della libertà, piuttosto che trascorrere tutta la vita a nascondersi. Se fosse fuggito, infatti, tutta la sua vita sarebbe stata senza libertà in quanto costretto a fuggire e a nascondersi. Giovanni doveva molto ad Antonio e la loro amicizia era motivo di riflessione da parte sua, così abituato com’era fuori dal carcere ad avere a che fare con amicizie “interessate”. «Cos’hai intenzione di fare una volta fuori?» chiese Antonio, interrompendo il turbinio di pensieri in cui Giovanni sembrava essere avvolto. «Non so ancora di preciso.» «Mi raccomando: goditi la libertà e tutti i piaceri che essa può dare. Sai cosa intendo vero?» «Veramente, dovrei prima assicurarmi di avere vitto e alloggio» rispose Giovanni ed incalzò: «Dimentichi che sono senza soldi e sono rimasto anche senza un tetto sulla testa. Devo pensare alla sopravvivenza prima di tutto.» «Hai ragione» affermò Antonio con aria perplessa, ed aggiunse «come intendi risolvere questo problema?» «Fuori non mi è rimasto nessun familiare. Ci sono però ancora alcuni vecchi amici. Proverò a contattarli per farmi dare almeno un aiuto iniziale.» «Lo spero per te Giovanni.» «Devono. Anzi, sono sicuro che lo faranno. A suo tempo ho fatti tanti favori, leciti e non, a molti colleghi dirigenti. Non possono dunque negarmi un minimo di supporto di cui ho bisogno.» E con uno slancio d’entusiasmo, che ad Antonio sembrò un’eccessiva dose di fiducia, Giovanni aggiunse «anzi, saranno felicissimi di rivedermi.» «Mah» borbottò Antonio. L’espressione del suo volto la diceva lunga sulla fiducia che versava in genere su amici corrotti ed arrivisti come quelli che aveva avuto Giovanni. Lui ne aveva conosciuti tanti, e a meno che non fossero veri amici come Giovanni, diffidava sempre delle loro promesse o, quantomeno, le prendeva con beneficio d’inventario. Antonio era dunque certo che i manager amici di Giovanni non lo avrebbero aiutato, ma non osava dirglielo, gli voleva troppo bene per fare il guastafeste in quei momenti felici che il suo amico stava vivendo. Giovanni s’illudeva di vedere uno spiraglio di luce nel tunnel buio in cui


26 era vissuto per anni. Purtroppo i suoi guai maggiori dovevano ancora venire. La sfida più difficile della sua vita l’attendeva fuori del carcere. Il suo incubo non era ancora finito. Un forte e stridulo altoparlante, posto negli angoli del corridoio, annunciava l’imminente uscita di alcuni carcerati ed elencava ad uno ad uno i nomi di coloro che dovevano iniziare a preparare i propri effetti personali. Giovanni era incluso nella lista. Un forte boato di gioia ed applausi diffusi ruppero il silenzio che sino ad allora aveva governato l’ala del carcere. Giovanni lanciò uno sguardo ad Antonio. Entrambi i volti si fecero scuri e tristi. Era il momento dell’addio. Antonio non riusciva a trattenere le lacrime che scendevano lungo i solchi del viso scavato dall’età e dalla malattia. Con una voce fievole ruppe l’intensità degli sguardi reciproci: «Me lo faresti un favore Giovanni quando esci?» «Ma che domande mi fai. Certo. Dimmi pure.» «E’ quasi Natale e vorrei che tu consegnassi questa letterina d’auguri a mia nipote. Sai, con mia figlia non vado tanto d’accordo. Lei viene saltuariamente a trovarmi solo per farmi vedere mia nipote che ci tiene tanto. Purtroppo sono rientrato in ritardo dall’ultimo permesso che mi è stato concesso e sono stato punito. Sino a nuove disposizioni non posso andare a colloquio e neppure spedire la posta. Lo faresti tu per me?» «Ma certo Antonio.» «Grazie di cuore, Giovanni. Ecco l’indirizzo, e questa è la sua foto. Dille che le voglio un mondo di bene.» Un brivido corse lungo la schiena di Giovanni. Ma certo, era lei. Quella era proprio la bambina che alcuni giorni prima gli aveva sorriso in sala colloqui. Finalmente era giunto il momento tanto atteso di conoscerla. Purtroppo non gli fu concesso ulteriore tempo per continuare a parlare con Antonio in quanto un secondino l’attendeva fuori dalla cella, con evidente ed alquanto scortese impazienza. Era giunto dunque il triste momento di dire addio al suo caro amico Antonio. Fu un forte ed emozionante abbraccio quello che suggellò la divisione tra i due amici. Frastornato ed ancora gonfio di lacrime, Giovanni si districò, per l’ultima volta, attraverso il labirinto che conduceva a due passi dalla libertà.


Parte Seconda VITA DA BARBONE



29

Una nuova vita

Nonostante fossero trascorsi quattro lunghi anni, durante i quali Giovanni aveva cercato di dimenticare le vicende giudiziarie che avevano sostanzialmente modificato il corso della sua vita, i media continuavano ancora a parlare della vasta eco che aveva suscitato l’ondata di arresti e le inchieste che avevano preceduto il suo arresto. Avevano dato soprattutto risalto alla figura di Giovanni, giovane rampante e manager di successo, che aveva costruito un castello di tangenti e concussioni per arrivare ai vertici del potere economico. Il suo arresto aveva suscitato molto clamore. La stampa in particolare, come molto spesso accade, all’inizio si era dimostrata piuttosto aggressiva nei suoi confronti condannandolo alla gogna più nera, per poi metterlo nel dimenticatoio. Nonostante ciò, a distanza di tempo, la scarcerazione di Giovanni aveva suscitato nuovamente vivo interesse nei giornalisti. Soprattutto per quello che concerne eventuali rivelazioni che avrebbe potuto fare e che non fece a suo tempo. D’altronde, c’erano ancora molti interrogativi aperti sui personaggi coinvolti negli affari illeciti per cui Giovanni ed altri erano stati arrestati. Il sospetto dei media era che alcuni di loro avessero, per qualche recondito motivo, coperto delle persone non tirandole mai in ballo nell’inchiesta giudiziaria. Al di fuori del portone del carcere, quindi, c’erano assiepati una marea di giornalisti, armati di tutto punto di microfoni e blocchetti per gli appunti, pronti ad intervistare Giovanni non appena fosse uscito. Dall’altra parte della strada, invece, trovavano posto dei fotografi che, nell’attesa di vederlo uscire, sistemavano i loro teleobiettivi affinché fossero stati in grado di catturare qualsiasi movimento o gesto che sarebbe potuto essere di interesse per la testata giornalistica e per i lettori. Nel frattempo, il portone si era già aperto ed ad uno ad uno gli, ormai ex, carcerati varcavano la soglia, con le loro borse malconce ed alquanto “datate”, pronti ad abbracciare i loro cari. Dal momento che ad aspettare Giovanni non ci sarebbe stato nessuno, quello che più di tutto gli premeva in quel momento era poter uscire da una porta secondaria onde evitare il clamore di giornalisti e fotografi. Giovanni non se la sentiva proprio di varcare la soglia del carcere con quelle condizioni ambientali che si erano create.


30 Mentre sostava nell’atrio interno antistante il portone principale, con l’aria di chi non sa che pesci prendere, gli venne incontro un secondino, che conosceva bene, che in quel momento era di guardia alla porta carraia. «Capisco cosa provi. Se vuoi, tra dieci minuti finisco il mio turno e posso darti un passaggio fuori dal carcere. La mia macchina è parcheggiata all’interno del comprensorio. Proprio vicino all’uscita di servizio.» «Grazie. Sei gentile. Ti aspetto lì.» Giovanni s’incamminò dunque verso il cortile interno del carcere, nelle cui prossimità c’era il parcheggio delle auto private del personale di servizio carcerario. Non aveva con sé alcun bagaglio. Le uniche cose che gli erano rimaste dall’epoca in cui fu arrestato erano un paio di jeans, che ormai gli stavano abbondantemente larghi vista la dieta forzata del carcere, una camicia bianca a maniche lunghe ed un paio di scarpe da tennis. Il giubbotto in piuma d’oca che indossava, un po’ logoro ma molto caldo, era frutto di un gesto di bontà da parte di un benefattore che solitamente donava al carcere capi di vestiario. Come d’accordo, varcarono in macchina l’uscita secondaria. Ad aspettarli non c’era la folta schiera di fotoreporter che presidiava invece l’ingresso principale, bensì un piccolo viale alberato, popolato di tanto in tanto da qualche amante delle passeggiate in bicicletta che osava sfidare il freddo pungente di quella mattinata. Al termine di quella stradina, ed appena svoltato l’angolo, improvvisamente un fotografo, che aveva scaltramente fiutato che Giovanni, con buona probabilità, non sarebbe uscito dal portone principale, ma avrebbe optato per un’uscita secondaria al fine di evitare il clamore, riuscì a rubare qualche scatto prima che l’autovettura abbandonasse la zona del carcere a velocità sostenuta. Giunti in prossimità del centro città, Giovanni chiese di poter scendere, ringraziando la guardia carceraria per quanto avesse fatto. Uscito dalla macchina ebbe un’incredibile sensazione di leggerezza che non provava da quattro anni. Finalmente era un uomo libero. Vagò per le vie del centro per ore senza una meta precisa. L’atmosfera gioiosa dei negozi, con le loro luci colorate che si alternavano con quelle degli addobbi natalizi, lo facevano sembrare in Paradiso. Non trascorse però molto tempo prima che Giovanni fu costretto a tornare, suo malgrado, con i piedi per terra. Purtroppo l’essere liberi non è mai sufficiente a rendere un uomo felice. E se ne avvide subito. A lui serviva indubbiamente anche una qualche forma di sostentamento ed un tetto sopra la testa. Anche perchè il suo stomaco cominciava a brontolare per la fame, e mancavano solo


31 poche ore prima che l’oscurità scendesse sulla città per lasciare il posto alle luminarie delle decorazioni natalizie. E poi faceva un freddo niente male. Giovanni decise quindi che fosse giunto il momento di incontrare qualche vecchio amico, bere qualcosa assieme, ridere e scherzare come ai bei tempi, andare a cena in qualche locale di lusso e poi essere ospitato, ma solo qualche giorno, solo il tempo di riorganizzarsi la vita dal punto di vista sociale ed economico. Due amici in particolare risiedevano in città e quindi potevano essere raggiunti in breve tempo. «Visto che siamo in periodo di ferie natalizie, dovrebbero essere sicuramente a casa. Se ricordo bene Walter abita qui in centro e Alessandro dovrebbe essere un po’ distante…mi sembra verso il quartiere residenziale» pensò Giovanni. Dal momento dunque che uno dei suoi amici abitava in centro, non distante da dove si trovava lui in quel momento, e non ricordava esattamente dove fosse l’altro, optò per la prima alternativa e s’incamminò verso la sua abitazione. Era un mini appartamento di lusso dislocato al secondo piano di uno stabile antico e ristrutturato di recente. Approfittando dell’apertura momentanea del portoncino d’ingresso del palazzo, per via di una signora che stava uscendo proprio nell’istante in cui lui sopraggiungeva, Giovanni s’infilò dentro, e preso l’ascensore, giunse al secondo piano. Suonò due volte consecutive il campanello della porta. Walter era sempre stato un manager che aveva raggiunto il successo soprattutto grazie alla sua proverbiale astuzia. Ai tempi d’oro fece molti affari con Giovanni, molti dei quali ebbero ben poco di lecito. Walter era comunque riuscito a rimanere fuori dall’ondata di perquisizioni ed arresti solo perché l’imputato maggiore di quel filone, e tra l’altro l’unico ad aver fatto affari sporchi con lui, a parte Giovanni, morì poco prima di essere interrogato e nulla saltò fuori circa gli illeciti di Walter. Questo fu anche grazie anche al fatto che Giovanni non lo tirò mai in ballo. Si aspettava dunque, quantomeno, un segno tangibile di riconoscenza ora che era lui ad avere bisogno di Walter. Fu lui stesso ad aprire la porta di casa. Se avesse visto un fantasma forse si sarebbe spaventato e sorpreso di meno. Giovanni gli si buttò al collo avvinghiandolo in un caloroso e fraterno abbraccio. Walter, invece, con le braccia penzoloni e protendendo il corpo all’indietro quasi a voler evitare le amichevoli effusioni di Giovanni, riuscì a balbettare solo qualche parola. «Ma…ma…ciao. Non mi aspettavo di vederti.»


32 Lo fece entrare. Seppure piccolo, l’appartamento era finemente arredato. C’era della tappezzeria pregiata ovunque e molti quadri di valore che riempivano le pareti. A Giovanni bastò qualche scambio di convenevoli e la vista degli sguardi imbarazzati di Walter per percepire che non avrebbe ricevuto alcun supporto da lui. La conferma gli venne subito dopo, con le perentorie parole di Walter. «Vedi, Giovanni. Mi trovo in una situazione imbarazzante. Mi spiace dovertelo dire ma…» e quasi a voler prendere fiato, aggiunse «non posso davvero aiutarti.» «Io ne ho davvero bisogno. Sono col sedere per terra.» «Capisco, ma credimi… » Giovanni non gli fece neanche finire la frase che irruppe apostrofandolo. «Dov’è finito il Walter di una volta, eh? Dov’è l’amico di sempre? Credevo di poter contare su di te.» Walter fece una pausa di qualche secondo quasi a voler cercare le parole adatte per liquidare quell’ospite tanto ingombrante quanto inatteso. «Scusa Giovanni, ma io mi sono creato una posizione di prestigio. Ho guadagnato la piena ed incondizionata fiducia di tutti gli operatori economici. Tu invece sei bruciato ormai. Se si venisse a sapere che me la faccio di nuovo con te, a finire col fondoschiena per terra ci sarei anch’io e non solo tu. E poi, non vorrei che a qualche giudice troppo zelante saltasse in mente di andare a frugare nelle carte delle tangenti di allora e scoprisse quello che non fu scoperto a suo tempo. Una volta si può essere fortunati, due no.» Giovanni aveva ascoltato tutto in religioso silenzio e con sconfortante rassegnazione. Pensò a quanto fosse stato stupido ed ingenuo a ritenere che proprio Walter lo avrebbe aiutato. L’unica sua speranza a questo punto era Alessandro. A testa bassa guadagnò l’uscita. Prima che la varcasse Walter gli disse: «Mi spiace davvero. Cosa farai ora?» Aprendo la porta, Giovanni ruotò la testa di novanta gradi e rispose: «Vado da Alessandro. Spero che almeno lui non abbia remore ad aiutarmi» e si dileguò. Chiusa la porta di casa, Walter si avvicinò alla finestra che dava sulla facciata anteriore del palazzo, scorse leggermente le tendine e rimase in attesa. Non appena vide Giovanni chiudersi il portone alle spalle ed allontanarsi, estrasse il telefonino dalla tasca dei pantaloni e compose un numero.


33 «Pronto…Alessandro?» «Si, ciao Walter. Come va?» «Senti questa: è una bomba.» «Una delle solite tue?» «No Alessandro. Questo non è uno scherzo.» «Vai avanti allora.» «Indovina chi è venuto a trovarmi chiedendomi aiuto per entrare nuovamente nel giro.» «Non saprei. Chi?» «Pensaci bene Alessandro. Chi è rimasto lontano dagli affari per quattro anni... per causa di forza maggiore?» «Uhm….vediamo. Se ricordo bene Giovanni dovrebbe essere uscito dalla galera da poco. Le foto che gli hanno scattato all’uscita del carcere hanno già invaso le news su Internet. Non dirmi che si tratta proprio di lui!» «Esatto. Hai fatto centro.» «E dov’è ora?» «E’ appena uscito dicendomi che si sarebbe recato a casa tua. Io l’ho mandato via. Ora tocca a te agire.» «Ci penso io. Non possiamo permetterci di mettere a repentaglio quanto abbiamo costruito con tanti sacrifici. Averlo tra i piedi, e magari reintegrarlo nel mondo degli affari, vorrebbe dire creare un clima di sospetti intorno a noi. Ciò ci danneggerebbe molto, comportando un’inevitabile consistente perdita del volume d’affari. Deve starne fuori quello lì.» «E’ quello che ho pensato anch’io ed ho cercato di farglielo capire. Se n’è andato con la coda in mezzo alle gambe. Ciò mi fa supporre che abbia compreso la situazione e se ne sia fatta una ragione.» «Grazie Walter per aver chiamato. E’ stato di vitale importanza ciò che hai fatto. Grazie ancora. A presto.» Terminata la conversazione telefonica, Alessandro rimase a lungo assorto nei pensieri alla ricerca di una qualche soluzione efficace al problema che gli era stato prospettato. Non aveva molto tempo a disposizione, doveva affrettarsi, Giovanni sarebbe piombato in casa sua da un momento all’altro. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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