Carlo Barbieri
Pilipintò Racconti da bagno per Siciliani e non
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com
PILIPINTÒ Racconti da bagno per Siciliani e non Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Carlo Barbieri ISBN: 978-88-6307-339-3 In copertina: immagine Shutterstock.com Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
A mia moglie e a mio figlio ho giĂ dedicato la vita. Mi pare che basti. Questo libro lo dedico allora a quelli che amo di piĂš dopo di loro: i miei Amici.
Non mi piacciono le etichette né le definizioni, soprattutto se applicate alle libere elaborazioni della mente. Ma se proprio si deve dire qualcosa (…e Carlo me lo ha chiesto espressamente) direi che questo è un libro di Esperienza (ndr: conoscenza delle cose umane acquisita per prova diretta; l’insieme dei fenomeni conosciuti con le sensazioni e verificati dall’esperimento), dove la radice “per” (par) sta per: muoversi dentro – effettuare un tragitto. L’esperienza è qualcosa che matura dentro pian piano, si deposita e si trasferisce, attraverso noi, in mondi e situazioni differenti, si elabora e si diversifica secondo le condizioni che la vita ci pone dinanzi. Nell’animo di un Siciliano l’Esperienza è una cultura stratificata, un modo di essere che non muterà mai perché fatta di sole (caldo), di luce, di aria; è fatta di regole non scritte, tramandate apposta perché vengano disattese o recuperate nel momento giusto, come segno imperscrutabile di dirittura morale, anche quando sembrano inopportune. Nei racconti di Carlo Barbieri c’è la sicilianità vera, genuina, “furba”, intrigante, inaspettata, giocosa, crudele, mai effimera… coniugata alle consapevolezze acquisite con una vita piena, con la conoscenza del mondo e delle sue sfaccettature, con la sua passione alchemica per le Cose, i Luoghi, le Storie e l’Umanità. Ma c’è anche la modernità vissuta in prima persona, il ritmo incalzante della quotidianità, l’esuberanza ed il fare brioso di chi accompagna la vita con un sorriso, qualunque essa sia. Sembra troppo per dei piccoli racconti “da bagno”? Non credo; chi conosce i luoghi e le situazioni descritte, spesso al limite del paradosso, sa che leggendo i Racconti, troverà molto più di quanto sia logico aspettarsi come conseguenza dei casi. Al di là delle premesse dell’autore e delle “istruzioni per l’uso”, di grande efficacia come il tempo necessario alla lettura di ogni singolo racconto, nell’approcciarsi a questo libro sono necessarie delle AVVERTENZE: attenzione lettore! I racconti inducono al riso; nuocciono
fortemente all’ignavia e possono indurre il cervello a elaborare pensieri propri. In ogni racconto troverai un piccolo romanzo, una piccola storia, ricca di personaggi, ben delineati come da un tocco di pittore consapevole e maturo. Sarai sorpreso da come la trama scorra piacevolmente; da come il rincorrersi delle parole, facili e a volte fin troppo… comuni (sic!), ti trascini velocemente fino alla fine; da come quest’ultima arrivi a volte inaspettata e sorprendente. Ma i racconti non sono solo dei divertenti ritratti di situazioni grottesche o il frutto di una fervida fantasia. Affatto. Sono piccole schegge di vita, pensieri, meteore, forse, che lasciano il segno per un tempo che va ben oltre quello assegnato a ciascuno, perché ti troverai a meditarli ancora per molto. Non fatevi ingannare dall’Autore, che tenta di dissimulare il suo lavoro considerando solo il lato narrativo o ironico. C’è dentro un mondo che può sembrare beffardo, di persone, di cose, di luoghi e sapori. Ciò che trasmette è empatia, è groviglio ordinato di sensazioni ed emozioni che non lasciano mai indifferenti. PS. Come architetto sono un’agguerrita sostenitrice della libreria in bagno poiché questo luogo, più di ogni altro, è luogo dello spirito e dell’introspezione. È lì che si trova una porzione di tempo, forse unica, solo per se stessi. Quindi, ben vengano i “libri da bagno” anche se sono convinta che i racconti di Carlo Barbieri possano alloggiare egregiamente in tutti gli ambienti della casa e fuori da questa: nella mente e… dentro il cuore. Adriana Chirco
Adriana Chirco è Architetto. Ha scritto dieci libri su Palermo, i suoi luoghi e la sua storia ed è attivamente coinvolta nella vita culturale della città.
Ma come si fa a leggere un libro intero in bagno? Appena qualche pagina ed è già tempo di smettere. Il giorno dopo si cerca di riprendere la lettura dove la si è lasciata ma non ci si raccapezza più. Allora si torna indietro, si riprende faticosamente il filo, si va avanti di poche pagine… e di nuovo non c’è più tempo. Una tortura. E allora ecco “Pilipintò, racconti da bagno per Siciliani e non”, una serie di racconti brevi ambientati in Sicilia, intriganti, divertenti, con un finale che sorprende quasi sempre il lettore. E sotto ogni titolo c’è pure il tempo di lettura: così uno si regola. Anche se è Padano. Buon divertimento. Carlo Barbieri
9
Pilipintò (28 min.)
«Di ferie quest’anno neanche a parlarne…». Quando il commissario Mancuso parlava da solo era segno che le ferie ci volevano, eccome. Il commissario allungò la mano verso la tazzina sotto gli occhi preoccupati dell’agente Cavicchia che quella mattina gliene aveva già portati quattro. Cavicchia quel film l’aveva visto già mille volte: al suo capo la stanchezza gli smuoveva il mal di testa, il mal di testa gli faceva consumare quantità smisurate di caffè a scopo terapeutico, il caffè lo faceva diventare nervoso, e quando era nervoso se la pigliava con lui. «Ma che schifo di caffè mi porti, Cavicchia? Hai cambiato marca, aah? Sto’ caffè non mi piace e non funziona…». «Sempre lo stesso è, dottore… sempre lo stesso è...». «Mah. A me mi pare… vabbè grazie, vah. Chiudi la porta e blocca le telefonate che debbo pensare». L’agente uscì chiudendo la porta delicatamente, e il commissario ricominciò a parlare. Pareva un interrogatorio a se stesso. «Dunque Mancuso. Ricapitoliamo. Tre mesi fa sei andato all’Ospedale Civico per vedere uno scippatore di mezza tacca, un poco per interrogarlo e un poco perché avevi sulla coscienza quei due timpoloni di troppo che gli avevi dato quando l’avevi arrestato. Giusto? Giusto. E mentre eri lì è scoppiato il putiferio. Totò Reggina, che era ricoverato da una settimana in gran segreto, tanto che non lo sapevi neanche tu, perché dava sempre più spesso di testa e di stomaco, se ne stava andando a raggiungere tutti quelli che aveva
10 ammazzato. E tu, stronzo, sei andato a trovarlo sperando in chissà quale rivelazione dell’ultimo momento. Giusto? Giusto. Giusto una minchia. Quello ti vede vicino al lettino, ti riconosce, ti fa abbassare e ti soffia nelle orecchie “M’abbilinaru”. “E chi ti ha avvelenato?” E lì, porca di una porca, con l’ultimo fiato ti sputacchia quella cosa nell’orecchio “Pili…pin…to…”. E arrivederci e sono. E ti lassa in mezzo ai guai. Perché ora le indagini sono tue, caro commissario Mancuso…». Il “Vincerò” dell’Aida gli scoppiò nel cervello dolorante. Maledetto il giorno che aveva messo quella suoneria per sbaglio, non l’aveva saputa togliere più. «Pronto, Mancuso… sì signor vicequestore… ma quale disturbo… no gliel’ho detto io ma certamente non valeva per lei, le chiedo scusa… stiamo facendo il possibile… certo, certo, anche l’impossibile… no ancora non hanno capito di che veleno si… non dubiti… ci sentiamo…». Adesso in testa aveva un martello pneumatico perfettamente accordato con il battito cardiaco. «Allora dove eravamo… ah, sì. Commissario, tu lo sai benissimo perché Totò Reggina è stato ucciso. Totò Reggina era invecchiato. Per tutti Totò Reggina era rimasto sempre quello delle foto del giorno dell’arresto, con quella faccia anonima da uomo qualsiasi. Ma di anni ne erano passati tanti. E quando gli anni passano, a risentirne non è solo l’aspetto: pure il cervello. E Reggina non invecchiava bene, correva voce che stava cambiando carattere, certe volte era depresso e parlava poco, altre volte era nervoso e parlava troppo… mai di cose delicate, ma parlava troppo. E quando un boss dei boss comincia a parlare troppo, magari dopo vent’anni di carcere, può fare ancora danni…». Finì il caffè nella tazzina e riprese il filo, stavolta mentalmente. Non gli importava sapere chi era il mandante dell’assassinio. O forse sapeva già che non l’avrebbe mai scoperto. Ma come avevano fatto? Con quale veleno e come erano riusciti a fotterlo fin dentro il carcere, Totò Reggina? Questo sì che lo voleva sapere. Almeno quello.
11 I suoi si erano messi subito al lavoro per collegare quel “Pili…pin…to” a una traccia. Neanche mezz’ora dopo che aveva distribuito i compiti l’agente Calò gli era entrato di corsa in ufficio tutto contento. Aveva trovato su internet che Pilipinto era una località del Perù: del Perù, secondo produttore di coca al mondo. Ecco la pista, un poco strana in verità, lui si sarebbe aspettato casomai la Colombia… ma aveva subito messo di mezzo l’Interpol. Quando gli avevano detto che Pilipinto era una specie di oasi di bravi ragazzi che non avevano niente a che fare con la droga, lui era andato a controllare di persona, dieci giorni di cui si ricordava tutto con terrore: i vuoti d’aria dell’interminabile volo attraverso l’Atlantico e poi le corriere stipate di gente con animali al seguito, i battelli, le strade tutte buche, il mangiare terribile e soprattutto il volo di ritorno con l’intestino sottosopra. Era tornato distrutto e convinto: quel Pilipinto non c’entrava. A Calò per la vergogna era venuta la febbre e aveva girato per una settimana per il commissariato con la faccia rossa e gli occhi lucidi che sembrava volesse piangere. E così la caccia al “Pili…pin…to” era ripartita. Ma non si faceva neanche un passetto avanti… prese la tazzina e la portò alle labbra rovesciando indietro la testa sempre di più finché si trovò a guardare il soffitto. Neanche una goccia. Aprì la bocca per chiamare Cavicchia, poi la richiuse. Avrebbe provato con il caffè del bar. Anzi avrebbe fatto una passeggiata. La verità era che aveva le smanie. Si alzò e uscì dalla stanza. «Ragazzi, io vado a prendere una boccata d’aria. Debbo pensare. Forse ci vediamo domani direttamente. Mi raccomando, se ci sono novità…». Gli era venuto un desiderio improvviso di staccare, di dimenticarsi Reggina e tutto il resto per un po’. Sì, una bella passeggiata era quello che ci voleva. Ma la passeggiata durò fino al bar all’angolo della piazza. Entrò, ma invece del caffè si fece l’aperitivo con le patatine. E poi un’arancina, maledicendo come sempre chi aveva convinto mezzo mondo che si chiamavano arancini. Il mal di testa gli passò all’istante e si ricordò che la sera prima non aveva praticamente
12 mangiato. Ecco che cos’era: aveva fame. Si sedette e si fece portare di tutto: una ravazzata con carne, uno spitino, uno sfincionello… mangiava come un lupo e a un certo punto Franco, il proprietariobarista-cassiere, dovette soccorrerlo d’urgenza con un boccale di birra ghiacciata in funzione antistrozzamento. Ora si sentiva molto meglio… pagò e uscì nel sole di giugno. La testa gli diceva di tornare in ufficio ma i piedi lo portavano verso casa. Decise di assecondarli, e mezz’ora dopo era a letto vestito di tutto punto, scarpe comprese. Fece appena in tempo a ricordarsi che in effetti negli ultimi giorni non aveva quasi dormito che era già sprofondato in un sonno senza sogni. Si svegliò che erano le quattro del pomeriggio, senza mal di testa e stupito che nessuno l’avesse ancora chiamato al cellulare. Già, il cellulare. Dov’era andato a finire il cellulare? Improvvisamente gli venne in mente la scena: la telefonata del vicequestore… l’aveva lasciato sul tavolo. Maledizione. Chissà quante chiamate… prese il telefono di casa e scoprì che dava occupato. L’aveva lasciato fuori posto. Minchia era rimasto irraggiungibile per quattro ore. Chiamò subito il commissariato. Rispose Tranchina che manco lo lasciò finire di dire “pronto”: «Dottore, Tranchina sono! L’abbiamo cercato per mare e per terra! Si scurdò ‘u telefoninu ‘ccà! Era ‘a casa, vero? Il telefono dava occupato… ci sono novità grosse! Attruvamu Pilipintò!». «Come? Cheddici?». «Dottore Pilipintò attruvamu! Uno senza fissa dimora, ora ci spiego…». «No, non mi spiegare niente, arrivo». Si sciacquò la faccia, uscì e si rese conto che la macchina l’aveva lasciata al commissariato. Si mise a correre mentre Giovannino, decenne figlio di buttana ad honorem della onestissima vicina, gli gridava dietro «Commissario, la sirena si scordò!». Arrivò in cinque minuti. Si fermò un attimo all’angolo per recuperare un poco di fiato e di dignità, si aggiustò la camicia dentro i panta-
13 loni ed entrò. Nessuno in vista. Dalla stanza di Calò e Tranchina arrivava una strana, incessante cantilena: Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a tric e trac nesci unu e trasi n’autru Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a tric e trac nesci unu e trasi n’autru Pilipintò… Mancuso entrò e rimase sbalordito. Nella stanza c’era mezzo commissariato in piedi attorno a Calò che stava seduto alla sua scrivania di fronte a un uomo mai visto. Tenevano tutti e due la mano sul tavolo e lo sconosciuto mostrava tre dita, Calò solo uno. Lo sconosciuto faceva la conta toccando le dita sul tavolo al ritmo della filastrocca. Al “...n’autru” si fermava, e il proprietario della mano tirava fuori un altro dito. A un certo punto l’ospite tirò fuori il quinto dito mentre Calò era ancora a due, e urlò «Vincivu!!!». Ci fu un applauso, e solo in quel momento qualcuno si accorse della presenza del capo. «’U dutturi c’è!». Il gruppo si scompigliò ma la porta della stanza era presidiata dal commissario che impediva la fuga. «Ma che minchia state facendo, aah?». Calò, che era scattato in piedi, sparò tutto d’un fiato «Niente Dottore il signor Pilipintò qui ci faceva vedere il Pilipintò a scopo dimostrativo del fatto che lui si chiama Pilipintò anzi veramente Celafai Giuseppe noto come Pilip…». «Fermati lì. Poi ne parliamo. Tranchina, nel mio ufficio subito! Tu e il signor… il signor…»
14 «Celafai Giuseppe detto Pilipintò…». «Ecco, con lui. Subito, aah?». Un minuto dopo il signor Celafai Giuseppe, detto Pilipintò, era seduto di fronte al commissario Mancuso che lo guardava in silenzio con occhi che sembravano punte di trapano. Occhi che mettevano a disagio i delinquenti e pure quelli che delinquenti, almeno per la legge, non erano. Celafai Giuseppe era piccolo e magro, occhi chiari in una faccia cotta dal sole, i capelli brizzolati sforbiciati da qualche mano tanto caritatevole quanto inesperta. Non pareva affatto a disagio e guardava il commissario in faccia, con un sorriso da bambino sulle labbra. Fu lui a parlare per primo. «Non sono mai stato davanti a un vero commissario… in commissariato sì, ma davanti a un commissario no… c’è qualche cosa da mangiare?». Mancuso rimase spiazzato dalla richiesta e dal buon italiano quasi senza accento. Si rivolse a Tranchina che stava in piedi vicino alla porta. «Tranchina fai portare dal bar un cappuccino e un cornetto». «Si può avere pure un’arancina?». «… e un’arancina». Tranchina uscì e rimasero soli. «Dunque signor…» «…Celafai Giuseppe detto Pilipintò». «…sì, detto Pilipintò. Mi parli di lei. Dove abita e come campa?». «Signor commissario io abito dove mi capita. Casa non ne ho. Qualche volta dormo alla Caritas, mangio e mi vesto con quello che mi danno loro e con l’aiuto di qualche persona buona… campo così». «E com’è che la chiamano Pilipintò?». «Commissario mi dovrebbe pure chiedere com’è che mi chiamo Celafai… non le pare un cognome strano?». «E vabbene, mi racconti. Sono qua». «Ce l’ha una sigaretta?». Mancuso cominciava ad incazzarsi. «Qui non si può fumare».
15 «Ma io me la fumo dopo…». Qualcosa in quegli occhi… Mancuso prese il telefono. «Calò..? Telefona al bar, digli che insieme al cappuccino, al cornetto e all’arancina voglio un pacchetto di sigarette… sigarette, sigarette, quelle che si fumano… e che ne so io…». Celafai si sporse in avanti: «Marlboro per favore». «… ecco, Marlboro». «Light». «Light!» urlò il commissario sbattendo giù il telefono. «E allora?». Celafai Giuseppe detto Pilipintò avvicinò la sedia e appoggiò le mani sul tavolo. «Signor commissario, io sono un figlio di puttana». «Chi lei? In che senso?». «E in che senso vuole? Nel senso che mia madre era una prostituta. Un giorno rimase incinta e decise, Dio solo sa perché, di non abortire. Però l’amore per me si fermò lì. Mi abbandonò davanti a una salumeria vicino all’ingresso di un istituto per trovatelli gestito da suore. Non ho mai capito perché proprio davanti a una salumeria. Comunque le suore mi presero e invece di chiamarmi Esposito, Trovato o D’Ignoti, decisero che Celafai era più originale e magari di augurio… mi feci le elementari con le suore, poi le medie e le superiori con i salesiani. Mi sono preso un diploma… ho pure vinto un concorso nelle ferrovie… poi ho avuto problemi con la testa». Il sorriso da bambino non c’era più. «Mi dicono che un giorno mi sono licenziato, ma non me lo ricordo. Comunque è stato tanto tempo fa». Passò un minuto. Il commissario chiese sottovoce: «E perché l’hanno chiamata Pilipintò?». «Ah, quello… quello è successo alle medie. Un giorno è venuto uno tutto elegante a prendere un nostro compagno. Ci dissero che era suo padre, che si era rifatto vivo dopo dodici anni. Tutti cominciammo a sperare che prima o poi sarebbe successo anche a noi. Io questa cosa me lo sognavo in continuazione, sempre alla stessa maniera: si fer-
16 mava davanti alla scuola una macchina lunga lunga e bianca bianca e scendeva un uomo alto, bello, con i baffi e il cappello a cilindro, vestito come per un matrimonio… si presentava davanti al cancello e gridava “Giuseppe!”. Il cancello si apriva solo solo e io uscivo… certe volte di corsa, certe volte volando con le braccia aperte come un aeroplano… e lui mi abbracciava. Mi ricordo pure il profumo che aveva nel sogno. Un profumo bellissimo…». «E poi?». «E poi feci l’errore di confidarmi con il mio compagno di banco. E lui si mise a ridere e mi disse “Giusè, pì tia spiranza ‘un ci nn’è… altro che machina bianca, un pullman ci vorrebbe… un pullman chinu di patri...”». Mi arrabbiai e gli domandai che minchia voleva dire. E lui mi rispose «Giuseppe, l’hai presente il Pilipintò? Come fa? “nesci unu e trasi n’autru”. To’ matri se la faceva cu un masculu appressu all’autru, e perciò tu non lo potrai sapere mai chi è tuo padre”. Dottore io credo che la parola “padre” non l’arrivò manco a dire perché gli diedi un timpolone così forte che andò a finire a terra e gli uscì pure sangue dal naso. Lui si vendicò sputtanandomi con tutti, e da quel giorno diventai Pilipintò. E Pilipintò sono rimasto. Celafai Giuseppe, detto Pilipintò. Diplomato e pazzo senza fissa dimora». Il commissario Mancuso aveva un bel po’ di pelo sullo stomaco ma da qualche parte doveva essersi aperta una falla, perché avvertì uno strano groppo alla gola che mandò giù con un colpo di tosse. Per fortuna in quel momento bussarono ed entrò il ragazzo del bar preceduto da Tranchina. «Tranchina per favore fai accomodare il signor Celafai nel primo tavolo vuoto che trovi. Signor Celafai, grazie, può andare». Celafai Giuseppe detto Pilipintò si alzò. Gli occhi e il sorriso erano di nuovo quelli di prima. «Grazie signor commissario». Mancuso gli diede la mano. Mentre Celafai era già sulla porta, lo chiamò: «Celafai!».
17 «Signor commissario». «Lei ne sa niente della morte di Salvatore Reggina?». «Chi… io?». «Niente niente. Mi scusi. Arrivederla». La porta si richiuse. E lui era di nuovo al punto di partenza. *** Il commissario Mancuso quella sera cenò a pistacchi e whisky e dormì malissimo. Sognò una macchina lunghissima che faceva le curve snodandosi come un serpente e da cui scendeva un Salvatore Reggina tutto vestito di nero che entrava in chiesa per assistere al proprio funerale. La chiesa era affollata di uomini baffuti in cilindro vestiti di bianco che, quando il sacerdote allargava le braccia e diceva “preghiamo”, mettevano la mano sinistra sul banco e facevano la conta in coro: Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a tric e trac nesci unu e trasi n’autru Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a tric e trac nesci unu e trasi n’autru Pilipintò… Si svegliò presto e arrivò in ufficio prima del solito. Da una stanza veniva quella cantilena che ormai gli aveva proprio rotto le palle, stavano rimbecillendo tutti dietro quel gioco cretino. Chiamò Tranchina. «Tranchina, ma chi è che si diverte con questa minchia di Pilipintò?». «Al momento sono Calò e Miccichè, dottore».
18 «Ma che ci trovano di speciale? Anzi che ci trovate tutti? Mi sembrate davvero pazzi…». «Dottore vero è, il gioco forse è un poco stupido, però c’è un trucco ed è quello che stiamo cercando di capire». «Un trucco? Ma come, un gioco così fesso ha pure il trucco?». «Sì dottore... come lei sa, vince chi… come dire, chi mette fuori il quinto dito per primo, quindi quello che vince la conta più volte… mi spiego?». «E allora?». «E allora, secondo da quale dito si parte, si sa dove si fermerà la conta…». «”E allora”, per fare le cose giuste basta partire da un dito a caso… o no?». «Eh sì dottore, era quello che faceva apparentemente Celafai Giuseppe. Apparentemente però. Lui sembrava che partiva ogni volta da un dito qualunque, certe volte ci faceva pure scegliere a noi… e qualche volta veramente la conta cadeva sul dito dell’avversario, ma alla fine il quinto dito lo metteva sempre fuori lui. Non ha perso mai». «Insomma sapeva in anticipo dove sarebbe caduta la conta e manovrava il gioco senza che sembrasse?». «Esatto. Le faccio vedere. Mi posso sedere?». «E siediti». «Chiuda la mano a pugno dottore. Da dove vuole cominciare la conta?». «Cominciamo da me». Misero tutti e due il pugno chiuso sul tavolo uno di fronte all’altro. Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a tric e trac nesci unu e trasi n’autru Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai l’ha fatta la bella doti,
19 ti l’hai fatta a tric e trac… Non sentirono bussare. La porta si aprì ed entrò il vicequestore Mangano scortato da Calò che si fermò sulla soglia tutto rosso e agitato. «Spero di non disturbare…». Tranchina si alzò di scatto, Mancuso si alzò pure, più sciolto ma dimenticando di riaprire il pugno. «Mancuso ma che stava facendo con il suo collaboratore?». «Verificavamo ipotesi connesse a indagini, dottore Mangano». «Quella filastrocca e il saluto comunista servono a “verificare ipotesi connesse a indagini”?». Mancuso glissò: «Dottore si accomodi prego…». «Grazie, ma sto solo un minuto. Allora? A che punto siamo con Reggina?». Tranchina sparì attraverso la porta con la fluida circospezione di un polpo che si ritira nella tana. Nell’uscire si risucchiò dietro Calò che ora sembrava pietrificato e richiuse piano la porta. «Dottore Mangano se…». «Mancuso, la fermo subito, andiamo ai fatti. Va bene?». «E andiamoci, dottore…». «Reggina aveva ottant’anni. Ha passato la maggior parte degli ultimi trent’anni in isolamento. Dopo che ha cominciato a dare qualche segno di demenza senile lo abbiamo messo in una cella a due, ma abbiamo avuto sempre cura di mettergli vicino delinquenti di piccolo cabotaggio senza l’ombra di rapporti con la mafia. Gente insospettabile, che non aveva nessun motivo per fargli la pelle, e che abbiamo cambiato molto spesso. Eppure Reggina è stato ammazzato. E’ stato ammazzato tre mesi fa e da tre mesi, come dicono i giornalisti, “la polizia brancola nel buio”. Che mi dice?». «E che le debbo dire dottore? Non sappiamo neanche con che cosa è stato avvelenato…». «E io per questo sono qua. Ora lo sappiamo, mi hanno appena chiamato».
20 «E con che cosa è stato avvelenato?». «Mercurio». «Mercurio?». «Più esattamente un composto organico del mercurio. Una sostanza che procura una morte abbastanza rapida se la dose è sufficientemente elevata, ma capace di uccidere lentamente, per accumulo, se viene somministrata in diverse micro dosi distanziate nel tempo… e in questo caso dà sintomi neurologici che si possono confondere con la demenza progressiva. Nel caso di Reggina è sicuro che il veleno è stato assorbito in più dosi piccolissime distribuite probabilmente negli ultimi sei mesi. In questo tempo il nostro ex boss ha avuto ben cinque compagni di cella, ripeto tutti piccoli delinquenti, e l’idea che siano tutti e cinque coinvolti nell’omicidio mi pare francamente assurda. Secondo me l’assassino è una guardia carceraria, o qualcuno dell’infermeria… insomma Mancuso il commissario è lei. Ha voluto carta bianca e gliel’ho data. Ora che ha anche questa informazione, che facciamo, ce la vogliamo scrivere qualche cosa sopra questa maledetta carta bianca? Io le dico solo che il governo si sta vantando da un pezzo dei successi che ha messo a segno contro la mafia e questa storia gli sta rovinando la festa. Quindi siamo nel mirino. Lei e io. Allora Mancuso? Che mi dice?». Il commissario Mancuso sollevò le mani con le palme in su: «E che le posso dire dottore? Le dico che ci stiamo lavorando sopra, le dico che è la nostra assoluta priorità…». Il vicequestore si alzò. «Mancuso, non mi basta. Lei ha una buona reputazione. Non la butti via. Non le dico altro. Buon lavoro e arrivederci». Al commissario Mancuso ricominciò il mal di testa, e stavolta non era la fame. Cercò di concentrarsi sulla normale amministrazione. Leggeva e firmava, firmava e leggeva. Intanto la filastrocca lo ossessionava. “Pilipintò, Pilipintò…”. Si era fatta ora di pranzo. Sbattè la penna sul tavolo, ruggì un “Pilipintòstaminchia!” e uscì dal commissariato
21 sbattendo tutte le porte che incontrava. L’aperitivo lo lasciò a metà, la passeggiata lo annoiò, il panino gli andò di traverso e il caffè sapeva di cesso. Si comprò una rivista, entrò ai giardini pubblici e si sedette su una panchina a leggere. Si alzò dopo dieci minuti, buttò la rivista in un cestino ed entrò in un bar. Chiese un espresso, che risultò il gemello di quello di prima, se lo fece rifare e lasciò pure quello. Finalmente se ne tornò in commissariato più incazzato di quando ne era uscito. Fu bloccato davanti alla porta del suo ufficio da un eccitatissimo Cavicchia. «Dottore, un sequestro-rapina alla gioielleria Lucchese ci fu!». «Alla gioielleria Lucchese? Quella qua vicino? Ma quando?». «Due ore fa. Hanno sequestrato la figlia di Lucchese all’uscita della scuola e lo stesso Lucchese ha dovuto accompagnare il rapinatore alla gioielleria durante l’orario di chiusura, aprire la cassaforte e consegnargli tutto. Duecentomila euro di oro, gioielli e orologi. La ragazzina l’hanno liberata.» Mancuso non aveva figli ma aveva nipoti che amava più della luce degli occhi e si era chiesto più di una volta cosa avrebbe fatto lui in una situazione del genere. «E come sta?». «Sta bene, non le hanno fatto niente». «E lui dov’è?». «Qua, l’abbiamo fatto accomodare nel suo ufficio». Lucchese era seduto nella sedia degli ospiti vicino alla sua scrivania e accennò subito ad alzarsi. «Commissario…». «Signor Lucchese! Stia comodo la prego». Si conoscevano di vista. Il gioielliere aveva meno di cinquant’anni, e lo ricordava sempre elegante. Adesso era uno straccio, con i radi capelli per aria e la cravatta allentata. Mancuso girò attorno alla scrivania e gli si sedette di fronte in silenzio. Lui la storia non aveva bisogno di sentirla, la sapeva già. Succedeva sempre più spesso. Ti pigliano di mira, sequestrano una persona che ti sta a cuore e tu sei co-
22 stretto a scambiarla con tutti i soldi e gli oggetti di valore che riesci a mettere insieme in poche ore di terrore. Il sequestro è quasi sempre su commissione e se ne occupano criminali in trasferta, magari dall’estero, che arrivano, fanno il colpo e il giorno dopo si comportano da turisti o sono già di nuovo nel paese da dove sono venuti. Valli a rintracciare. «So che sua figlia sta bene». «Sì grazie a Dio». «È assicurato?». «Non lo so commissario. Cioè sì, una polizza contro furti e rapine ce l’ho, ma i termini del contratto non li ho a mente. Qui non c’è stato furto con scasso perché le chiavi le ho tirate fuori io… non c’è stata violenza sulla mia persona, né testimoni… certo, io dico che è una rapina ma lo sa come sono le assicurazioni… comunque commissario queste sono preoccupazioni di domani. Oggi sono solo contento che la mia bambina è di nuovo a casa». «E a casa deve andare pure lei, signor Lucchese. I miei l’hanno già interrogata?». «Gli ho detto tutto il poco che potevo. È stata una cosa così… così…». «Lo capisco. Va bene, se serve ci vediamo domani. Vada a casa». Il signor Lucchese si alzò con fatica, non ce la faceva più. «Grazie commissario. Sono a sua disposizione». Mentre il gioielliere usciva, Tranchina mise la testa dentro. «Posso?». «Entra Tranchina. Che c’è?». «Primo venerdì del mese. Penitenza». «Ma come, di già?». Lui due cose odiava: la pratichetta del rimborso spese periodico e il rapporto sull’attività mensile. Il rimborso spese poteva farlo quando voleva, al massimo poi si trovava a dover buttare via scontrini e ricevute di cui non ricordava più niente; ma il rapporto sull’attività doveva essere sul tavolo del vicequestore entro il 7 di ogni mese, non poteva scappare, perché il vicequestore doveva fare a sua volta
23 il suo al questore entro il 9. E così Tranchina aveva l’ordine di camurriarlo ogni primo venerdì del mese e si dedicava al compito con entusiasmo. Entrò con una bracciata di faldoni colorati, li depositò sul tavolo del commissario e si sedette. «Dottore guardi che c’è qua… queste nella cartella verde sono tutte pratiche nuove… il nostro commissariato è come quel film, se lo ricorda, “Gente che va, gente che viene…”». Mancuso prese la cartella e sorrise: «Grand Hotel, con Greta Garbo… un film degli anni trenta. Ma tu come lo conosci? Sei appassionato?». «No dottore, me l’ha detto Celafai Giuseppe. Ha detto che se quel film ha preso l’Oscar, pure il Pilipintò dovrebbe prendere un premio. Perché se da un lato è un gioco, dall’altro è la storia di una che per farsi la dote faceva “tric e trac” con tanti uomini… “nesci unu e trasi n’autru”… gente che va e gente che viene come il film, eh dottore? Eh dottore? Do…». Tranchina ammutolì. Mancuso aveva chiuso gli occhi a fessura e abbassava lentamente il capo, intanto che una ruga cominciava a spaccargli la fronte da una tempia all’altra. In testa gli era scoppiata una tempesta di mezze idee e mezze intuizioni che si azzuffavano senza che lui potesse afferrarne una saldamente. Tranchina aveva imparato che quando il suo capo faceva così, si aveva solo il permesso di respirare, e solo con moderazione. «Calma Mancuso. Calmacalma». Parlava da solo. Era il segnale di massima allerta, e Tranchina mise in atto la consueta manovra polpesca. Si alzò lentissimamente e cominciò a spostarsi verso la porta. Ci mise un minuto buono, ma adesso il commissario, che ormai andava a ruota libera, era solo. «Ricapitoliamo Mancuso. Reggina in punto di morte ti dice “m’abbilinaru” e “Pili… pin… to”, giusto? Giusto. I fatti sono due: con sta minchia di “Pili… pin… to” voleva dirti una cosa importante o ti voleva prendere per il culo. Giusto? Giusto. Commissario Mancuso, a te in punto di morte, e avendo capito che ti hanno avvelena-
24 to, ti verrebbe l’idea di prendere per il culo un commissario di polizia, pure se ti sta sulle palle? Io dico di no. Siamo d’accordo. Allora diciamo che voleva denunciare l’assassino. Giusto? Giusto. Quindi lo conosceva, giusto? Giusto. Ma perché allora non ti ha detto il nome? Risposta: perché non lo sapeva, o non lo ricordava. Però gli agenti di custodia con cui aveva avuto a che fare erano solo tre, sempre gli stessi, e i loro nomi lui li sapeva benissimo. In infermeria, dove era di casa, tre persone in tutto e sempre quelle, stessa storia. Chi rimane? Rimangono i compagni di cella. Vatteli a ricordare i nomi di cinque compagni di cella cambiati in sei mesi. Per di più Reggina ormai con la testa non ci stava più tanto. Però i compagni di cella erano piccoli criminali, certamente né mafiosi né assassini… e allora commissario? E allora? Eh…? E sì… E certo… Pilipintòoo!!!!». *** «…E così, dottore Mangano, la chiave di tutto stava in quel “trasi uno e nesci n’autru”. Il Reggina mi voleva dire “Hanno fatto come nel gioco del Pilipintò: ogni mese un compagno di cella usciva e ne entrava uno nuovo, e tutti avevano l’incarico di somministrarmi un po’ di veleno. Mi hanno ammazzato un poco ciascuno”». Il vicequestore non chiedeva di meglio che credere a Mancuso, ma sempre sbirro era, e voleva capire bene. «Ma i compagni di cella di Reggina erano piccoli malfattori comuni, niente a che fare con la mafia… gente che non aveva mai fatto veramente male a nessuno… come li convincevano?». «Dottore, questo me lo ha fatto capire il signor Lucchese, quello della gioielleria. Anche lui è stato convinto senza difficoltà ad accompagnare il rapinatore in gioielleria e ad aprirgli la cassaforte». «Un sequestro lampo?».
25 «Cinque. Cinque sequestri lampo, tutti a danno di figli o comunque di parenti stretti dei compagni di cella di Reggina. I sequestri avvenivano possibilmente poche ore prima delle visite ai carcerati, al massimo la sera prima, e duravano il tempo necessario per costringere la mamma o la moglie del sequestrato a portare il veleno al congiunto compagno di cella di Reggina e spiegargli quello che doveva fare. La cosa si risolveva rapidamente e tenerla segreta, con i mezzi di convincimento a disposizione dei mandanti, era facilissimo. Poi, a cose fatte, la famiglia del sequestrato e il recluso coinvolto avevano tutto l’interesse a tenere la bocca chiusa per non rischiare accuse di complicità in omicidio, oltre naturalmente alle ritorsioni da parte dei mandanti». «E il veleno come passava?». «Si trattava ogni volta di quantità piccolissime. Potevano essere nascoste dappertutto: nel refill di una penna, nelle stanghette degli occhiali…». «Ma maneggiarlo non era pericoloso anche per i detenuti complici?». «Certo. Pericolosissimo. Quella è roba che passa pure attraverso la pelle, qualche ricercatore che ci lavorava c’è pure morto. Però le singole dosi non erano in grado di uccidere e comunque i parenti che consegnavano il veleno durante i colloqui spiegavano anche le precauzioni da prendere». «E perché hanno scelto questo veleno? E perché non l’hanno ucciso subito, con una dose più forte?». «Belle domande dottore. Qui si gioca di fino. Comincio dalla seconda. Certo, avrebbero potuto ucciderlo a prima botta con una dose unica. Però con il sistema delle micro dosi, nessuna di per sé mortale, era molto più facile convincere a collaborare i familiari del sequestrato e il detenuto complice: nessuno di loro in realtà avrebbe ucciso Reggina, avrebbero dato solo, come dire, “una spinta” ciascuno. Vai a sapere quale era la dose mortale fra tutte quelle che gli avevano dato… nessuno si sarebbe sentito un vero assassino. Ma ci sono altri due motivi. Uno è che se avessero introdotto in carcere una dose
26 letale, il rischio che il complice ci lasciasse la pelle per un incidente sarebbe stato alto. Sarebbe stata la fine del piano… ma non solo: a quel punto Reggina avrebbe probabilmente capito che stavano cercando di farlo fuori e avrebbe vuotato il sacco per vendetta. Ma se pure fossero riusciti a somministrare all’ex boss un’unica dose mortale, l’avvelenamento sarebbe stato evidente e, dal momento che con il mercurio organico non si muore sul colpo, c’era il grosso rischio che la vittima facesse in tempo a capire e a parlare. Ed eccoci al “perché hanno scelto proprio questo veleno”: il mercurio organico somministrato a piccole dosi avrebbe attaccato lentamente il cervello senza causare sospetti, tutti avrebbero pensato ad una accelerazione dei problemi di demenza senile di cui si vedevano già i primi segni. Geniale. E stava andando veramente così dottore, solo che Reggina ha intuito proprio alla fine che cosa gli stavano facendo e ha cercato di comunicarmelo». Cadde il silenzio. Finalmente il vicequestore Mangano si aprì in un sorriso e parlò. «Mancuso, ha fatto veramente un bel lavoro. Mi rimane solo una curiosità piccola piccola. Posso?». «Dica dottore…». «Ma alla fine che cos’è questo Pilipintò?». Mancuso sorrise: «Dipende dottore. Il Pilipintò è un gioco povero, apparentemente innocente ma con il trucco, un vecchio gioco da osteria con cui si decidevano le bevute e che ha sicuramente provocato un bel po’ di coltellate fra alcolizzati… ma è anche la storia di una prostituta che voleva sposarsi e accumulava la dote andando con quanti più uomini possibile… ed è pure un povero trovatello diplomato e pazzo… e oggi è diventato pure la chiave per risolvere un assassinio. Lei a quale Pilipintò si riferisce?». «Al gioco, Mancuso, al gioco. Come funziona?». «Dottore Mangano, metta la mano chiusa a pugno sul tavolo, come faccio io. Pronto?». «Pronto». «Ci giochiamo una birra?».
27 «Va bene». Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a tric e trac nesci unu e trasi n’autru Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a tric e trac nesci unu e trasi n’autru Pilipintò… FINE ANTEPRIMA CONTINUA...