DAVIDE GORGI
ADAM CLAYTON, UN GATTO, UN TOPO E L’ELEFANTE
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/
ADAM CLAYTON, UN GATTO, UN TOPO E L’ELEFANTE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-514-4 Copertina: immagine di Olivier “Psycho” Catenacci
Prima edizione Aprile 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale
Ai Miei Genitori
How many times must a man look up Before he can see the sky? (Blowing in the wind – Bob Dylan)
5
Prologo
Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso, punto. Eh già, avete capito bene, per caso, che non vuol dire per caso in via Gluck, o per caso in via Manzoni o piazza Garibaldi; vuol dire proprio per caso. Sì, perché quando mia mamma si è ritrovata, in una splendente e assolata mattina di aprile, su un letto di ospedale col volto deformato dal dolore e con la pancia piena di me, è proprio quello che ha pensato. “Cosa cavolo ci faccio io qui? Sono troppo giovane per tutto questo, sono stata a letto con un solo uomo una sola volta, non è stato neanche questo granché, e tra poco mi ritroverò mamma di un mostriciattolo orrendo che nessuno ha voluto.” Eh mostriciattolo, stiamo calmi con le parole eh! Le tue sono solo supposizioni e anche piuttosto azzardate direi, ancora non mi hai visto, non ti sbilanciare con affermazioni sconsiderate, aspetta, vedrai e giudicherai. E che dire di mio papà, giovane e promettente tecnico dell’Agip, eternamente in viaggio tra un pozzo petrolifero e una piattaforma in mezzo all’oceano, in giro da un capo all’altro del mondo. Mai fermo, mai a casa per più di qualche giorno. E poteva essere diverso quel giorno? Poteva il giorno dell’arrivo del suo primogenito maschio essere presente? No, infatti non c’era neanche quella volta, trasferta di lavoro in Mozambico o in Argentina o sa la Madonna dove. Nessun nonno ad attendermi fuori della sala parto, ma non perché fossero morti o chissà che: in effetti erano a casa, la loro, e
6 sanissimi. E poi nessun amico di famiglia, di una famiglia in divenire che stava per sbocciare proprio in quei momenti concitati. Soli, mia mamma e io, ad affrontare una vita troppo grande e difficile per le nostre gracili spalle. Ma facciamo qualche passo indietro per spiegare come siamo arrivati a questo punto, ovvero noi due sdraiati su questo letto, mia madre completamente dilatata: lo so che non è una bella immagine che ispiri poesia, ma è il miracolo della vita e va affrontato con gioia e consapevolezza, anche se a giudicare dalle sue grida di dolore mi sa che di questo miracolo lei avrebbe fatto volentieri a meno. Insieme a noi c’è l’ostetrica, camice bianco e mascherina che, con fare risoluto, le grida in faccia “spinga spinga”, e infine io, attore protagonista di questo concitato spettacolo, che me ne sto un po’ teso e intimorito per tutto il trambusto in atto. Ma dicevo dei miei: si erano conosciuti per caso a Loano, ameno paese della riviera del rinomato ponente ligure, in quel lontano mese di Luglio alla metà degli splendidi anni ’80, gli anni degli hiuppies, dei selvaggi Duran Duran, dei film trash, ma soprattutto delle docce della Fenech. Comunque, il caso volle che fosse proprio Loano il luogo dell’incontro magico. Questa casualità che ricorre così spesso nella mia vita ha giocato un ruolo importante in tutta la mia finora breve esistenza, ma forse è così per tutti, è il caso che determina le vite di tutti noi, altro che la premeditazione e la programmazione, quelle vanno bene per gli omicidi o i palinsesti televisivi: la vita, signori miei, è un’altra cosa, lasciatevelo dire da chi ha meno di un’ora di vita. Lei, giovane e carina bellezza in fiore, non riusciva a piantare il suo ombrellone nella sabbia, quella tipica sabbia che sotto un sottilissimo e infingardo strato di terra scura nasconde un nucleo duro come il cemento.
7 Quella stessa sabbia che, la mattina, i pensionati che portano al mare i nipotini spaccano e bucano armati di pazienza, di candelotti di dinamite e martelli pneumatici. Lei, graziosa donzella, con la sua piccola palettina di plastica cercava di scavare una misera buchetta nella quale infilare quel prezioso cerchio d’ombra, sudando e imprecando come un camionista bulgaro al valico del Brennero davanti a una strada ingombra con un metro di neve. Il che non era proprio adeguato al suo aspetto così fine. Lui, mio padre, giovane e aitante, era lì in vacanza con i suoi amici e rimase folgorato dalla bellezza ancora un po’ acerba, ma già così evidente, di mia madre. Allontanandosi dagli amici con passo sicuro, stile Gary Cooper in Mezzogiorno di Fuoco, si diresse verso la disgraziata. «Ciao, posso esserti utile? Ti ho vista un po’ in difficoltà. Sai, lavoro alle trivellazioni nei pozzi petroliferi, me ne intendo di queste cose, i colleghi mi chiamano l’uomo dal trapano d’oro.» Beh, come presentazione niente male, magari non proprio da lord inglese ma sicuramente d’effetto. Il suo sorriso e il tono della sua voce aprirono un varco nella giovane mente e nel tenero cuore di mia mamma. «Grazie, non riesco proprio a bloccarlo sto coso.» E così nacque l’amore tra i due, e dall’amore arrivai io, concepito per caso in una tiepida serata su un lettino del bagno Marisa. No, questa volta non fu un caso, nel senso che il bagno Marisa fu scelto con cognizione di causa. E’ l’unico senza quella fastidiosa quanto invadente illuminazione notturna sulla spiaggia, l’unico che concede quel pizzico di intimità necessaria per poter compiere serenamente i propri comodi insomma. Farlo negli altri bagni sarebbe stato tipo una partita in notturna in mondovisione, con applausi e ola dei tifosi inclusi. Mi sembra superfluo dire che i miei nonni materni e paterni non presero molto bene la notizia del loro amore e soprattutto del mio arrivo, lei diciassette anni e tanti sogni, lui ventiquattro e nessuna fissa dimora; i presupposti riguardo la nascita di una bella favola
8 di amore e felicità lasciavano qualche dubbio circa il loro avverarsi, una favola che non sarebbe finita con il classico “E vissero per sempre felici e contenti”. Ecco perché adesso, che mi trovo con il corpo dentro al corpo di mia madre e la testa fuori, inizio a guardarmi intorno con fare circospetto, sento solo che delle mani enormi mi stanno tirando, stringendomi il collo come a una gallina vecchia che ha vinto il premio per diventare un buon brodo. Questi tirano, tirano: piano oh, non sono mica l’uomo allungabile. SLUP! Sono fuori, dopo essere quasi morto soffocato cerco di riprendermi ansimando e sbuffando come una locomotiva a vapore, neanche il tempo di capire dove sono che mi arrivano due vigorose badilate sulle chiappe. E dove cazzo sono finito penso, stavo molto meglio prima, dov’è mia mamma, dov’è il caldo tepore del liquido amniotico che mi avvolgeva, dov’è il silenzio ovattato e quel dolce dondolio che mi rendeva sereno come un bimbo... Oddio, a voler ben guardare io sono un bimbo. Mi volto appena, giusto per vedere chi si è permesso di menarmi e quello che vedo mi lascia un po’ perplesso: un tizio grande e grosso con cappellino e mascherina verde mi sta guardando divertito. Ho capito, sono nato nel bel mezzo di una festa di carnevale. Mamma dove sei? Le mani che prima me le hanno date senza preavviso ora mi stanno conducendo verso una donna sdraiata, tutta sudata e ansimante, imbrattata di sangue e placenta viscida, ma sorridente come una Madonna di Raffaello, su un letto sfatto. Com’è bella, ha dei lunghi capelli biondi e splendidi occhi azzurri, anche se è coperta da un lenzuolo sono sicuro che sotto nasconde un fisico niente male, secondo me è pure una bella gnocca. Gnocca? Dove avrò imparato questa parola e soprattutto cosa vorrà dire?
9 Magari sono anche poliglotta. Mah, certo che la vita ne riserva di sorprese! Adesso non mi resta che vedere la faccia di mio padre, speriamo bene, fosse bello anche lui la cosa mi farebbe gioco, due genitori belli mica possono avere fatto un figlio brutto, no?
Ho un ricordo ancora molto vivo di quando sono entrato per la prima volta in casa mia, il profumo di pulito, la cucina coi mobili gialli perfettamente in ordine e tirata a lucido, la sala piccola e accogliente con il divano blu, il tavolo rotondo con al centro un vaso di fiori finti, le sedie di legno con i cuscini azzurri. Il bagnetto con gli asciugamani perfettamente allineati, l’accappatoio bianco appeso al gancio, il tubetto di dentifricio strizzato diligentemente dal fondo, i tappetini verde acqua. La camera di mia madre e di mio padre, dipinta di un azzurro tenue, un armadio bianco avorio, il letto in ferro battuto con gli scendiletto in bella mostra ai lati. I comodini lucidi con le lampade rosse sopra dei tappetini color arancio. E poi tanti bei quadri alle pareti, distribuiti in tutta la casa. Mi ricordo un tramonto sul mare, un vaso un po’ storto con dei girasoli spennacchiati, un paesaggio di montagna con tanta neve e il fumo che esce dai comignoli delle case, una specie di festa in costume vicino a un fiume, con tanta gente con cappelli strani seduta a una tavola riccamente imbandita. La mia cameretta, adesso voglio proprio vedere la mia cameretta: sento le mani che mi sudano per l’emozione, il cuore che batte all’impazzata, sto per entrare nella mia stanza. Il luogo dove passerò intere giornate a giocare e fare i compiti, spero più a giocare che a studiare. Vuota, incredibilmente vuota. Non si è mai vista una stanza più vuota di questa, sembra la stanza di un condannato a morte, non
10 c’è neanche il pagliericcio... anche allo Spielberg avevano il pagliericcio. Le pareti bianche tipo ospedale, alla finestra una tendina triste nasconde il pallido sole che si affaccia timoroso stamattina. Non c’è niente dentro, non ci posso credere, e il mio lettino? E tutti i giochi che ogni bambino dovrebbe avere? E il mio armadio con i miei vestitini? Cazzo, non ho neanche uno straccio di carillon! Cosa sta succedendo? Cos’è, uno scherzo? Sono su Scherzi a parte? Beh, ricordatevi che il gioco è bello finché dura poco: forza, tirate fuori mobili, letto, giochi e riempitemi la camera. Dai, lo scherzo è riuscito, per un attimo ci ho creduto, adesso però basta. Non vorrete mica farmi piangere, no? Devo mettermi a strillare il primo giorno della mia nuova vita? Sento che le lacrime stanno salendomi come un’onda inarrestabile, tra un attimo esploderò, la mia cameretta è ancora vuota; chiudo gli occhi per un attimo, prego che quando li riaprirò tutto sarà comparso come per magia. Niente, nessun folletto, nessuno gnomo, nessun omino dei traslochi è arrivato per metterci dentro le mie cose, le mie cose semplicemente non esistono. Non possiedo nulla. Ueh, ueh, ueh! «E adesso che cos’hai da piangere? Hai sonno? Hai fame? Ti devo cambiare? Cosa vuoi da me?» La voce di mia madre è sensibilmente irritata e questo non è un buon segno. Possibile che mia mamma non mi capisca, non riesca comprendere il dramma che sto vivendo? Se non mi capisce lei chi altri potrà mai farlo? Mi porta in camera sua, si siede sul lettone, e in meno di un minuto mi ritrovo con il suo capezzolo in bocca e le mie manine, già piuttosto esperte a dir la verità, beatamente appoggiate sulla sua tetta rotonda. Ecco, adesso sto decisamente meglio, mi sento proprio rilassato.
11 Certo, la cosa della mia cameretta non mi va giù, però devo cercare anche degli aspetti positivi sennò va a finire che mi butto dalla finestra. Vediamo, sarei potuto nascere in Africa, in mezzo al deserto, con una casa di paglia, senza acqua e viveri, con un’aspettativa di vita di pochi anni se fossi sopravvissuto ai primi mesi, i più difficili. Oppure sarei potuto nascere in Lapponia, ghiaccio tutto intorno, un freddo cane, da mangiare solo ghiaccioli, ma non ai gusti limone, menta o arancia, quelli al naturale, al gusto acqua, che schifo! E se fossi stato abbandonato davanti a una chiesa? Mi avrebbero raccolto dei buoni frati e mi avrebbero tenuto con loro, sarei stato un bravo bambino, sarei stato come Marcellino pane e vino, sarei finito con la chierica in testa e il saio sbrindellato, a dire messa in una freddissima chiesetta in mezzo alla campagna, davanti a quattro vecchine con i loro foulard neri sulle teste bianche. E soprattutto non avrei mai fatto sesso… Che al momento non so bene cosa sia ma sono sicuro che col tempo lo scoprirò e mi darà molte soddisfazioni. Mi sento molto più rilassato adesso, devo ammettere che questa posizione non mi dispiace affatto, latte caldo, tetta morbida; tengo gli occhi chiusi e mi sembra di essere ancora nella pancia di mia madre, stacco lievemente la bocca, ancora un po’ impastata di latte, per prendere un respiro e subito si scatena una specie di terremoto. Oddio, cosa succede adesso, cosa mi sta facendo questa pazza, mi tira delle mazzate tremende sulla schiena dicendo «Dai Raimondo, adesso hai mangiato, fai sto benedetto ruttino e dormi, io ho da fare, non posso stare tutto il giorno con te in braccio.» Ma se mi sono disteso proprio adesso? Veleggiavo indisturbato nel mio effimero Nirvana tra angioletti e conigliette di Play boy, del resto cosa vuoi che faccia? Ho solo pochi giorni di vita! Provo con un pianto lento, quasi soffiato, spero sia abbastanza commovente.
12 Un secondo dopo mi ritrovo nella mia culla immensa, con dei ranocchi che mi girano allegri sopra la testa. Ho capito, afferrato il concetto, devo cambiare tipo di pianto, questo non funziona. Va beh, ci penserò dopo, adesso effettivamente sento che mi si chiudono gli occhietti. Grande giornata oggi, una di quelle che rappresentano una svolta epocale, un evento da diretta televisiva in prima serata: finalmente ho visto il papà. E devo dire che non è affatto male, un bel tipo, alto, magro con un bel sorriso. Bene, mamma bella più papà bello uguale figlio bello, la matematica non è un opinione signori miei. È tornato dopo un altro dei suoi lunghi viaggi in giro per il mondo, questa volta era in Brasile. Ho sentito che diceva alla mamma che starà con noi per almeno un mese. Non è molto, ma ce lo faremo bastare per conoscerci. Quando mi ha visto mi ha preso in braccio, tenendomi come fossi una bambola di porcellana preziosa e si è messo a piangere: io non sapevo cosa fare e allora mi sono messo a piangere anche io. La mamma mi ha ripreso subito con sé dicendogli che piangevo perché non lo conoscevo, ma non era per quello, ci sarei rimasto volentieri tra le sue braccia forti, è solo che ho il cuore tenero e vedere piangere un uomo mi commuove fino alle lacrime. Non vedo l’ora di imparare a parlare, mi serve per comunicare con loro, questi grandi usano solo le parole per farsi capire e secondo me spesso hanno difficoltà anche con quelle. Certo che se ci penso la cosa mi fa davvero imbestialire: da piccoli o piccolissimi, come me per capirci, sai un mucchio di cose, capisci già come gira il mondo e poi, per qualche oscuro e beffardo motivo, dimentichi tutto. Subisci come un reset globale, come se la natura corresse ai ripari, prima dà e poi toglie. Per questo da grandi, che vuol dire per esempio da adolescenti, a volte ci si sente dire, che quando eri piccolo eri un genio, che
13 sembravi destinato a grandi cose, e adesso guardati, sembri un ebete. So già che sarà così anche per me, già mi vedo, sballottolato dalla vita come una zattera in un mare in tempesta. Ah, se solo sapessi come conservare memoria di questi primi mesi di vita, allora sì che sarei veramente un bambino felice e soprattutto più in gamba degli altri miei coetanei. E chi mi ammazza, me ne sto bello comodo in braccio al papà, fuori è quasi buio, è scesa la sera, mi sono fatto la mia bella poppata e sono sazio. Il pannolino è asciutto e non troppo stretto, la musica in sottofondo mi regala un senso di pace e tranquillità, il lento dondolio di papà che cammina con me in braccio mi sta facendo addormentare. In effetti devo dire che passo gran parte della mia giornata dormendo, del resto non cammino, non parlo, non guardo la televisione, non ho rapporti sociali con altri bambini. Insomma, mi annoio da morire e quindi dormo. Ancora qualche attimo e buonanotte ai suonatori, ci si sente tra qualche oretta per la poppata notturna, quella alle tre di notte, la preferita della mamma, che mi allatta senza neanche avere la forza di aprire gli occhi. Ahia, cos’è sta roba adesso? Ho sentito come una fitta nella pancia, è stato un attimo ma mi ha svegliato di botto. Mi guardo intorno con fare circospetto e un lieve sentore che stia per capitare qualcosa di poco piacevole. Forse mi ha pizzicato qualcuno, devo stare in guardia, in campana piccolo. Ancora, ancora, ancora, fa un male cane, ah, mi stanno ammazzando! Cosa mi succede, cosa ho nella pancia, oddio che male. «Mettilo a pancia in giù, vedi che tira le gambe, sono le coliche. Mi avevano detto che sarebbero arrivate prima o poi, aspettiamo di vedere se gli passano sennò gli diamo le gocce che mi ha prescritto la pediatra.»
14 Mia mamma sembra avere in pugno la situazione, mio papà mi rigira come un calzino e adesso me ne sto alquanto preoccupato a pancia in giù. Ma non serve a niente, che male, fate qualcosa, sono il vostro primo e unico figlio e sto morendo, non abbandonatemi a me stesso, aiutatemi. «Aspettiamo ancora qualche minuto, magari gli passa da sola, non riempiamolo subito di medicine appena frigna un po’.» Mamma, ti prego, ho gli occhi annegati nelle lacrime amare della mia colica, dammi la medicina. «Guarda come si tira, è paonazzo, ha le vene del collo tirate come Tom Jones in un assolo ed è rigido come una tavola da surf.» La voce di mio padre sembra addirittura divertita. Papà, se sei tornato solo per prendermi per il culo te ne potevi stare pure al carnevale di Rio a caccia di travestiti; non so chi sia Tom Jones, non so cosa sia sta tavola da surf, so solo che ho una morsa nella pancia. Se mi voleste davvero bene mi dareste qualcosa. Poco dopo, quando sono ormai stremato dal pianto, finalmente mi danno delle gocce biancastre che ingoio avidamente in un lampo. Oh, che sballo, non so cosa mi abbiano dato, cosa contenessero quelle goccine, ma adesso va decisamente meglio, cori di Serafini e Cherubini mi stanno cullando in uno stato di semi incoscienza. Sono ufficialmente entrato nel tunnel della droga e ci sto da Dio. Adesso posso finalmente dormire in pace, è stata dura, la vita è veramente un’odissea, ma alla fine ce l’ho fatta, come Ulisse anche io sono infine giunto nella mia isola della felicità. Stamattina ci siamo alzati di buon’ora, la mamma mi ha dato da mangiare e il papà mi ha vestito ben bene per uscire. Mi hanno caricato in macchina, delicatamente mi hanno legato stretto stretto a un seggiolino come fossi Hannibal Lecter e siamo partiti verso a me ignote destinazioni.
15 Durante il viaggio mi parlavano, ridevano, facevano versi strani tipo “abubu, ciccibu, bidibi bodibi bu”. Io quando fanno così mica li capisco: ma non possono parlare come tutte le persone normali? Mi hanno preso per un idiota? Come pretendono che possa rispondere qualcosa o interagire con loro, si aspettano che mi metta al loro livello? “Ambebeh, cibucibu, patata”. Piuttosto me ne sto zitto e osservo, guardingo come una marmotta nel parco del Gran Paradiso di fronte a visitatori troppo audaci. Dopo pochi minuti di viaggio arriviamo in questo posto, una bella struttura anche se non proprio nuova, linoleum grigio in terra, pareti colorate di verde, odore di medicinali tutto intorno, tipo ospedale per intenderci. Loro, i miei vecchi, sempre simpatici, coccole, buffetti e tante, troppe attenzioni: insomma, c’è evidentemente qualcosa di losco sotto. Va bene l’affetto per il vostro primogenito ma qui si sta esagerando, ho un’immagine da duro da difendere io. A un certo punto veniamo chiamati da una signorina, bruttina ma gentile, e ci fanno accomodare in una stanza. Dietro la scrivania c’è una signora in camice bianco, bruttina e non molto gentile, che sta scrivendo qualcosa su un foglio di carta. Un’altra signorina, questa piuttosto carina, anche lei in camice bianco, ma aperto, su una camicia generosamente aperta, su un seno generosamente prosperoso, dice a mia mamma di spogliarmi e di distendermi sul lettino, posto proprio di fianco alla scrivania. Inizio a diventare sospettoso: perché mi devo spogliare e mettere a letto? E questa col camice chi è? Mi avranno mica portato da una professionista del sesso? Non sono troppo giovane per essere svezzato? Bevo ancora il latte materno! E poi c’è troppa gente intorno, non mi sento a mio agio, non c’è privacy, mi sembra di essere sul set di un film porno, e se mi viene un blocco che mi porterò dietro fino all’adolescenza?
16 Così me ne sto sdraiato su un fianco, con tutti i sensi all’erta, vittima sacrificale degli eventi, con mia mamma che mi sussurra delle paroline all’orecchio e mio padre che guarda timoroso dall’altra parte, quando all’improvviso sento prima una sensazione di freddo e poi una fitta lancinante sulla gamba. Cosa mi hanno fatto, perché questo dolore, ma cosa sono venuto al mondo a fare? Per soffrire? Mi metto a piangere, tanto per cambiare direte voi. La signora di prima, quella col camice aperto, si allontana tenendo in mano qualcosa che non avevo notato prima: ho sentito i grandi che la chiamano siringa, uno strumento di tortura. Sento la signorina formosa che dice a mia mamma che ha finito e che possono rivestirmi. Già finito, e io che pensavo che la prima volta fosse indimenticabile. Invece sento solo un gran male alla gamba e vedo i miei che mi stanno addosso preoccupati. Tranquilli ragazzi, mi sento già meglio, ma per oggi basta emozioni eh! Prima di tornare a casa ci fermiamo in un altro posto, scendiamo dalla macchina ed entriamo in un locale dal quale esce un buon profumo. Ma che succede, anche qui ci sono due signore, anche qui indossano dei camici bianchi, questa volta però sono due vecchie. Eh no cari, io con queste non voglio avere niente a che fare, riportatemi a casa, cosa volete da me, il bis? Non sono mica una macchina. E mi metto piangere, sì, ancora una volta! Come dicevano i latini? Repetita iuvant? Non vorrei fare sfoggio, all’apparenza gratuito, delle mie doti linguistiche, ma quando ci vuole... Sono un poppante, cosa pretendete, è normale per noi piccoli piangere, non è che siamo dei piagnoni, è l’unico modo che
17 abbiamo per comunicare, e che diamine, un po’ di psicologia infantile di base dovreste conoscerla. «Ma stai calmo Raimondo, cosa ti succede adesso, prendiamo il pane, questi due sfilatini e torniamo a casa. Su, fai il bravo, non piangere.» Sì, il pane, e chissà dove mi brucerà stavolta, sta storia del pane non mi piace per niente, se una siringa piccolina mi ha fatto quel male, non oso immaginare sta roba enorme cosa mi farà. Comunque, finalmente, dopo qualche litro di lacrime mi riportano a casa. Nel posto di prima non mi hanno fatto niente, meno male, adesso mi sento stanco, spossato da una mattinata veramente intensa, disidratato per il tanto piangere. Sento una pesantezza delle palpebre che mi assale all’improvviso, mi sto addorm…
18
Sono Raimondo, ‘Mondo’ per gli amici
«Dai Raimondo tirati su, fai tardi a scuola, il caffellatte è pronto in tavola. Sbrigati che mi fai fare tardi al lavoro.» No, tranquilli, non è definitivamente impazzita o ubriaca fradicia alle sette e mezza della mattina, anche se a prima vista uno potrebbe pensarlo perché sta cercando di convincere un poppante ad alzarsi dal letto per fare la colazione; il fatto è che sono diventato grande, sono passati gli anni, tredici per essere precisi. È proprio così, il tempo passa in un lampo, ti addormenti che hai tre mesi e ti risvegli che di mesi ne hai centocinquantotto, e ti domandi, senza trovare una risposta sensata o per lo meno soddisfacente, come ci sei arrivato a essere quello che sei oggi. Innanzitutto non bevo più il latte materno direttamente dalla tetta della mamma, bei tempi quelli, adesso bevo il latte delle mucche col Nesquik, in una banale tazza. La mamma è sempre la stessa, e ci mancherebbe che avessi cambiato madre! No, voglio dire, è ancora molto bella e giovane. Considerato che all’inizio non mi voleva proprio, direi che col tempo abbiamo imparato a conoscerci e ad amarci. È stato un cammino a volte difficile, ma annusandoci, accarezzandoci, spiando i nostri movimenti, a poco a poco siamo diventati amici per la pelle, tra noi si è creata un’alchimia magica. Abbiamo passato notti in bianco per un mal di pancia e abbiamo pianto insieme ogni volta che mi veniva la febbre o la tosse grassa, ma anche con quella secca si stava svegli. Abbiamo riso di fronte alle mie prime, incomprensibili parole e ci siamo commossi ai miei primi passi, insomma siamo stati bene.
19 Oddio, bene, diciamo che siamo sopravvissuti, tra alti e bassi. Siamo molti uniti adesso, anche se uniti forse è una parola grossa, mezz’ora la mattina prima della scuola e qualche ora la sera, prima di andare a letto. La mamma lavora molto, anche se il papà guadagna bene lei dice che preferisce avere un’occupazione che la renda economicamente autonoma e la faccia sentire realizzata come donna. Comunque il legame tra genitore e figlio dovrebbe andare al di là del tempo che si passa insieme. no? È il sangue che ci tiene uniti, non il cronometro, credo. Il papà invece, ahimè, rimane una nota dolente, una presenza assenza. I periodi in cui non è con noi sono lunghi e frequenti, dice sempre che prima o poi si deciderà a rimanere chiuso in un ufficio, vicino a casa, ma per ora preferisce girare, lo fa sentire libero e giovane. Peccato che non sia libero e neanche tanto giovane, speriamo che un giorno lo capisca da solo, visto che quando glielo dice la mamma non lo capisce. Viviamo nella stessa casa da quando sono nato, gli stessi quadri appesi, le pareti dipinte con quei tenui colori pastello che piacciono alla mamma, lo stesso ordine quasi maniacale in giro, col tempo sono cambiati i fiori finti sul tavolo e i tappetini del bagno. La mia cameretta grazie al cielo ha preso forma, ha ricevuto il soffio di vita che le mancava. Di fronte alla finestra c’è la mia scrivania, ricoperta di ogni genere di cose, libri di scuola, fogli pasticciati, scritti e lasciati a metà, penne masticate, qualche macchinina, due foto, una della gita che con la classe abbiamo fatto a Mantova l’anno scorso e l’altra della mia prima comunione con mio padre e mia madre elegantemente agghindati e sorridenti. Per finire ci sono i poveri resti, ormai mummificati, di una Kinder Brioche.
20 Il mio letto è sempre perfettamente fatto, mia mamma ci tiene molto, dice che un letto sfatto rende automaticamente in disordine tutta la stanza. Appese sopra il letto ho due mensole di legno gialle sulle quali ho qualche libro di una collana per ragazzi, due robot di metallo, Mazinga a cui manca un pugno atomico e Goldrake, un vecchio Barbabarba un po’ scolorito dal tempo, e neanche un granello di polvere. Il mio armadio, di fianco alla porta, sulla parete di destra, con tutte le mie magliette, i miei pantaloni, le mie giacche, i miei maglioni, insomma tutta la mia roba, diligentemente impilata sugli scaffali o appesa ordinatamente sulle grucce. Due poster in bella mostra, uno, sopra al mio cuscino, è quello di Luke Skywalker che impugna fieramente la sua spada laser, col tempo si è un po’ piegato su un lato, forse ha perso un po’ di Forza. L’altro, sulla parete opposta, vicino alla libreria, è la locandina di “90125”, l’album degli Yes con quella canzone che mi piace tanto, “Owner of a lonely heart”, che mi hanno spiegato vuol dire proprietario di un cuore solitario o qualcosa di simile. La mia vita è andata avanti pacifica e tranquilla, un po’ monotona forse, del resto non è che faccia granché in fondo; vado a scuola, sono in seconda media e me la cavo, senza, tra l’altro, essere particolarmente portato per lo studio. Ho qualche amico, pochi a dir la verità; anche se sarebbe più corretto dire che di amici amici non ne ho proprio. C’è Sarah, che poi non è proprio un’amica, è più una specie noiosissima di maestra di vita: ha solo tredici anni, come me, ma è un pozzo di sapienza e spesso si comporta da vecchia saggia, il che non sempre lo trovo positivo. Vive dall’altra parte del pianerottolo, la sua porta è esattamente di fronte alla nostra, se esci dall’ascensore e vai a sinistra sei da lei, se vai a destra trovi casa mia. Al terzo piano della palazzina in clinker verde di via Luigi Einaudi 12.
21
Ed ecco Sarah
Stamattina a scuola avevo il compito in classe di matematica, spero sia andato bene, ma ho molti dubbi, che piano piano mi fanno scivolare decisamente verso una pietosa certezza, è andato male, come al solito. La matematica non è proprio la mia materia, è che la capisco poco. Pitagora, chi era costui? I numeri primi, parentesi tonde, più per meno meno, minimo comune multiplo, frazioni, numeri reali, insiemi, insomma troppa roba tutta insieme. Adesso me ne sto seduto a studiare geografia, questa sì che è la mia materia preferita, mi piace guardare sull’atlante i posti dove va il papà nei suoi viaggi, capire cosa si troverà a dover affrontare, il clima, la moneta, la lingua. La geografia è reale, la tocchi, la vivi, nei posti che studi ci vai in vacanza, ci vai per lavoro, per studio. La matematica è solo sui libri e nei supermercati quando vai a fare la spesa, le signorine fanno la somma da cui avremo il totale, la mamma paga con un pezzo grosso, si prende il resto in monetine e pezzi più piccoli, grazie e arrivederci. Non serve la prova del nove. Oggi sono in Venezuela, come mio papà, io sulla carta, lui invece è proprio lì fisicamente. La capitale è Caracas, la lingua ufficiale lo spagnolo, la forma di governo repubblica federale presidenziale. Situato al nord dell’America latina, il clima è tipicamente tropicale, il petrolio è la loro risorsa principale. C’è una foto a colori in bella mostra sulla pagina lucida, il mare è di un azzurro così accecante che sembra finto, la spiaggia bianca e le palme verdi e slanciate verso l’alto, in lontananza si vedono
22 un uomo e una donna in costume da bagno ridere felici. Penso che sarei felice pure io se fossi al posto loro, poi sento il campanello suonare e mi sveglio dal mio sogno a occhi aperti. E adesso chi è? Mi alzo dalla sedia e cammino strusciando i piedi fino all’ingresso per andare ad aprire. È Sarah, non saluta, non chiede permesso, entra semplicemente passando tra me e la porta aperta e va diretta verso la mia camera. Fa sempre così, fino a quando non entra in camera mia non dice una parola, dice che è solo tra le mura amiche della mia stanza che sente di poter parlare liberamente. Mi chiedo, nel resto della casa chi potrebbe non esserle amico? La seguo a qualche passo di distanza, entriamo nella mia camera, lei si sdraia nel mio letto, lo sguardo fisso verso il soffitto, pensierosa. Indossa un paio di pantaloni blu, una polo bianca tutta spiegazzata e delle scarpe da tennis piuttosto malconce. È una bella ragazza, almeno questo è quello che si dice di lei a scuola, è un po' più alta di me, ha i capelli di un nero corvino, legati quasi sempre in una coda di cavallo, e gli occhi verdi, è magra e ha un bel sorriso, le poche volte che se lo lascia scappare dal volto spesso imbronciato. Inoltre inizia a spuntarle il seno, cosa che suscita molti commenti idioti tra i miei compagni di classe quando la vedono. Sembrerebbe una ragazza perfetta, ma non lasciatevi ingannare dalle apparenze, è indiscutibilmente una rompipalle. Non è che sia proprio antipatica, è che sa tutto lei, sempre, su qualsiasi argomento, non so come faccia, ha sempre un’opinione pronta all’uso riguardo agli argomenti più disparati. Come fa? Penso che molto dipenda dalle conversazioni che fanno in famiglia; la mamma è una professoressa di lettere in un rinomato liceo classico e il papà è un chirurgo affermato di non so quale ospedale, probabilmente la sera a cena le loro discussioni vertono sui massimi sistemi. O forse spara congetture e spiegazioni a caso
23 convinta che tanto nessuno potrà mai smascherarla perché non si sa mai di cosa stia parlando. «Sai cosa? Mi piacerebbe assistere al mio funerale, vedere la faccia delle persone presenti. Secondo me, mia mamma e mio papà non verserebbero una lacrima. Mia madre la vedo assorta, lo sguardo una volta tanto smarrito, ma non tanto per la lo strazio lacerante della mia mancanza, quanto per il ritardo che questa brutta tegola caduta sulla sua vita, perfettamente regolare e cadenzata, determinerà sul proseguimento del suo programma scolastico. Il ritardo di un giorno sulla correzione di un compito in classe sarebbe una macchia indelebile sul suo candido curriculum. Veramente una seccatura. Mio padre invece starà pensando che per colpa di questo maledetto funerale non è riuscito ad andare a quel simposio a cui teneva tanto dal titolo: il varicocele pelvico, come sconfiggerlo scopandosi tutte le infermiere del proprio piano. Ci sarebbe qualche compagno di classe, venuto solo per saltare un giorno di scuola e per vedere quello sfigato di Luigi Manetti in giacca e cravatta, certamente inginocchiato in una panca della prima fila. I miei nonni, loro sì dispiaciuti, ma solo per non essere riusciti a convertirmi alla vera fede finché ero in vita, preda sicura delle fiamme eterne dell’inferno, con tutte le sue sofferenze più atroci, a causa del mio credo religioso fondamentalmente epicureo. L’enfasi con cui il cardinale, perché un misero parroco non lo considero neanche, direbbe belle parole sulla mia breve ma intensa esistenza scatenerebbero riflessioni contrastanti nei presenti, qualcuno annuirebbe imbambolato, i più tornerebbero, dopo questa brevissima quanto fastidiosa interruzione, a pensare a come passare la prossima domenica. E poi ci saresti tu; piangeresti per me, per essere uscita per sempre dalla tua vita così presto?»
24 Sarah sposta lo sguardo dal soffitto verso di me, cerca i miei occhi e li trova mentre, un po’ impacciato, cerco di spostare lo sguardo verso la punta delle mie pantofole rosa a forma di porcellino. Non so cosa dire, come spesso accade, mi sento ipnotizzato dal fiume di parole che riesce a far uscire dalla sua bocca, sono sempre qualche passo dietro a quello che dice, come se parlasse un’altra lingua, la mia traduzione simultanea arranca faticosamente dietro i suoi contorti meccanismi cerebrali. «Non ti sforzare di rispondere, sei solo un piccolo misogino bastardo, me lo aspettavo.» Cosa sono io? Un miso cosa? «Va be’, lascia perdere, andiamo al cinema domenica? Visto che non ci sono funerali in vista.» Bastardo l’ho capito, però non credo di essere un miso qualcosa bastardo. «Allora? Ti lascio scegliere anche il film, sarà sicuramente il solito film noioso e banale che fa ridere solo i decerebrati come te.» «Non lo so, te lo faccio sapere domani, forse ho da fare.» «Se, hai da fare, devi laccarti le unghie? O forse devi discutere delle fasi lunari con le formiche del tuo balcone, o cercare di capire perché i delfini siano tanto attirati dalle prue delle navi che solcano il mare. Va be’, fa come vuoi, fammi sapere così mi organizzo anche io. Adesso ti saluto, devo andare.» La vedo alzarsi dal letto lentamente, forse si aspetta che le dica qualcosa, che la richiami, ma non mi viene in mente niente di intelligente da dire, e neanche di stupido, e allora taccio e aspetto che esca. Mi rilasso solo dopo aver sentito la porta di casa richiudersi con lo scatto della serratura. Me ne sto ancora un po’ imbambolato chiedendomi se le donne sono tutte così complicate o lo sono solo quelle che conosco io, che poi si riducono a mia mamma e Sarah, appunto.
25 È sera adesso, siamo a tavola per la cena, ho apparecchiato la tavola come faccio tutte le sere, la mamma sta finendo di preparare il pollo arrosto. «Mamma, secondo te sono un miso qualcosa?» Mia madre abbandona per un attimo il suo pollo e mi guarda con un’ aria interrogativa. «Un miso cosa? Non ho capito, anzi sì, è stata qui Sarah oggi?» «Sì.» «Allora è tutto chiaro, lo sai che la metà delle parole che usa non le conosco neanche io, cerca sul vocabolario cosa vuol dire, io non lo so, a volte mi chiedo dove vada a scovare certi termini.» Dopo qualche secondo di silenzio e dopo aver girato le cosce di pollo della nostra cena per farle ben rosolare, la voce di mia mamma interrompe il mio pensiero ancora tenacemente incastrato sulle parole che trovi solo sui vocabolari e che Sarah usa abitualmente. «Raimondo, tu non sei un miso qualcosa, qualunque cosa sia. Stai tranquillo.» «Grazie mamma.» Grazie, ma non hai risolto il problema, dopo cena devo assolutamente scoprire in qualche modo cosa mi avrà voluto dire Sarah. Quando fa così non la sopporto, quando dice e non dice allo stesso tempo. La mamma mi ha spiegato che è un modo tipicamente femminile di comunicare, secondo me però in questa maniera non è che si comunichi poi molto. Certo che un po’ mi piacerebbe andare al cinema con lei, soprattutto se una volta tanto posso scegliere il film da vedere, non riuscirei a sorbirmi l’ennesimo mattone cinematografico che, chissà in base a quale criterio, mi costringe a vedere quando andiamo insieme al cinema. Mmm, ci penserò con calma domani, la notte porterà consiglio. E le dimostrerò che sono uno simpatico, altro che un miso qualcosa… certo che anche la storia dei delfini mi piacerebbe capirla.
26
Il palazzo
La casa dove vivo è una elegante palazzina di quattro piani, ci sono due appartamenti per piano, gli abitanti del condominio fanno parte di una fauna delle più eterogenee, ognuno ha una sua storia, una dimensione spazio temporale che lo contraddistingue e lo rende unico, unico come lo è ciascun essere umano d’altronde. Ma andiamo a fare la loro conoscenza con ordine. Al primo piano ci sono la famiglia Campana e la signora Anna. La famiglia Campana è composta da due anziani coniugi, sempre eleganti sia negli atteggiamenti che nel vestire, che sono sposati da quasi quarant’anni e non hanno avuto figli per scelta. La particolarità della coppia è che sono sordo muti, non che questo sia un male anzi, è che dal momento che non vanno sempre d’amore e d’accordo spesso danno in escandescenze con dei litigi di portata epica. Il fatto è che un vero litigio, una baruffa tra coniugi, per essere tale deve essere fatto con i sacri crismi, cioè richiede alcuni gesti e comportamenti ben definiti. Il manuale del perfetto bisticcio coniugale prevede che, oltre a spaccare i piatti del servizio “buono”, i vasi della zia Luigina defunta e i gingilli vari sparsi per casa, si devono anche gridare a squarciagola insulti e minacce da brivido, sennò che baruffa è? Ecco che nasce il problema: vederli litigare è uno spasso, si lanciano in un mucchio di gesti indefinibili e suoni disarticolati, loro però si capiscono benissimo e quindi un gesto tira l’altro e un ululato tira un bicchiere di cristallo via l’altro.
27 Non fosse per i rumori della cristalleria in frantumi sarebbero le discussioni più silenziose del mondo, come vedere un film col volume azzerato e senza i sottotitoli. La signora Anna invece è una graziosa quanto baffuta vedova dell’età di almeno novant’anni. La leggenda vuole che una delle sue spese maggiori siano proprio le lamette e la schiuma da barba. I suoi due bei baffetti grigi le danno un tocco lievemente austero, da nobiluomo dell’ottocento. Chi ha conosciuto il marito dice che li abbia tali e quali a lui. Il marito, ex maresciallo dei carabinieri, è morto in servizio per la sua patria anni or sono. O, per meglio dire, stroncato da un infarto nei bagni della caserma mentre, seduto sul water, sfogliava un Play Boy. Se questo è essere in servizio... La cara signora Anna indossa sempre delle splendide, quanto vetuste, vestaglie colorate e troppo spesso dimentica di portare la dentiera, lasciando la lingua vagare indisturbata fuori dalla bocca, facendola assomigliare a un serpente a sonagli dai baffi grigi, una tra le creature più velenose, se non della terra, quanto meno dello stabile. Trascorre l’estate in balcone a guardare chi passa e a lanciare qualche commento, di solito malevolo sullo scellerato modo moderno di vestire o di camminare o semplicemente di masticare la cicca o pettinarsi. Dal momento però che il terrazzino del suo appartamento dà sul cortile interno, pochissimo frequentato, non è che abbia molti momenti di svago e quindi, e questa è la vera prerogativa della signora Anna, canta, canta per passare il tempo. Canta tutto il giorno le canzoni della sua infanzia: le puoi sentire quelle canzoni, le puoi vedere, sono canzoni in bianco e nero, parole d’amore che non si usano più, antiche come lei, fuori moda, fuori corso come una vecchia moneta napoleonica. Al secondo piano vive la famiglia Benetti, giornalista lui, giornalista lei. Sono una bella coppia vivace, molto gentili con tutti, i fili grigi tra i capelli di entrambi suggeriscono un’età non più giovanissima, il resto dell’aspetto invece dà l’idea di persone
28 giovanili e attive; si mantengono in forma con lo yoga e una sana vita all’aria aperta ogni volta che il lavoro lo consente. Nel palazzo ci stanno ben poco, o sono al lavoro o nella loro casa di montagna a Courmayeur. La signorina De Feudis è la loro vicina, giovane ereditiera di antica e nobile famiglia. Professionista indefessa con laurea ad honorem e master nelle seguenti attività: shopping spregiudicato, lezioni di tennis preferibilmente in doppio misto, sedute di massaggi e qualche storiella veloce giusto per rompere quella noiosa monotonia che si insinua minacciosa tra un happy hour con le amiche, un brunch e una vacanza in barca a vela nei mari del sud. Salendo di un piano troviamo la famiglia Salvini, cioè quella di Sarah e l’appartamento dove abito io con la mia famiglia: i Dotti. Della famiglia di Sarah vi ho già raccontato un po’ di cose: i genitori, eleganti quanto distaccati abitanti del palazzo, salutano la plebe che li circonda con un senso malcelato di distacco, atteggiamento che riservano a tutti i condomini. La piccola Sarah sta crescendo un po’ come loro, anche se non lo ammetterà mai: talvolta è una piccola snob presuntuosa, a volte solo una ragazzina troppo adulta per quei suoi tredici anni. La mia invece è una famiglia piuttosto normale. Mia mamma, Chiara, è una giovane e bella donna, sempre di corsa, sempre immersa in mille impegni improrogabili. Mio padre, Massimo, non c’è quasi mai, sempre impegnato in interminabili trasferte di lavoro. Per questi motivi ho imparato a vivere bene anche da solo, mi sono dovuto adattare per non morire di solitudine, forse anche per questo sono uno che non lega facilmente con gli altri. Non che i miei non mi vogliano bene o non mi facciano sentire il loro affetto, anzi, mi adorano e cercano di passare insieme ogni attimo disponibile, è che gli attimi sono veramente tali e per un ragazzo come me, che avrebbe bisogno di ore, giorni, mesi, anni di compagnia genitoriale, quei pochi momenti non possono bastare.
29 Al piano di sopra, l’ultimo, vivono la famiglia Pernotti e Dante. I Pernotti sono una giovanissima coppia, sono novelli sposini, si sono trasferiti nel palazzo da pochi mesi e hanno questa peculiare abitudine di fare tutto insieme, sempre. La mattina escono insieme, la sera rientrano insieme, due sere alla settimana vanno a correre, insieme. Il sabato mattina vanno a fare la spesa insieme. Quando camminano si tengono per mano e spesso si scambiano occhiate sorridendosi, sono come due colombi, anzi, come quei pappagallini che chiamano gli inseparabili. Dante ha stimato che per i primi due, forse tre anni di matrimonio, conserveranno questo stato mentale tipico di una infatuazione adolescenziale da elettroencefalogramma piatto, poi si riprenderanno dallo stato catatonico e inizierà il vero matrimonio, ovvero si ritroveranno, ancora insieme, questa volta però dall’avvocato per stabilire a chi andrà il servizio da the e il tavolino dell’Ikea da undicimila lire dopo il divorzio. E arriviamo così a Dante, cinico, opportunista e giovane, di bell’aspetto e godereccio come pochi. Lavora nel mondo patinato delle pubbliche relazioni, il che lo porta a frequentare molta gente e tra questa moltitudine le donne ne rappresentano una gran fetta, la sua fetta preferita tra l’altro. Dante applica la legge dei grandi numeri che recita : se ci provi con tutte per forza prima o poi raccatti qualcosa, vanno bene anche le seconde scelte, bisogna essere di bocca buona in questo mondo difficile. Butti la rete a strascico e poi tiri su. Anche se le cosiddette sventole che si porta a casa Dante lasciano supporre che la sua pesca sia sempre di prim’ordine. Il vecchio Santiago sarebbe ammirato e forse anche un po’ invidioso di un pescatore simile. Fine anteprima. Continua...