In uscita il 30/11/2016 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2017 ( ,99 euro)
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CARLO MAGNI
AETERNUM
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AETERNUM Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-056-6 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Novembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Elisa, Claudio e Patrizia
PRELUDIO
7
967 A.D.
L’anziana donna era in piedi, immobile di fronte alla soglia. Indossava solo una tunica rossa che la copriva fino alle caviglie, come si conveniva al suo rango di sacerdotessa. Aveva ancora un portamento fiero malgrado gli anni, e il volto mostrava un’espressione risoluta. I lunghi capelli grigi, sciolti, le arrivavano fin quasi alla vita. Attorno a lei, attorno alla soglia, vi erano altre persone: uomini e donne vestiti di bianco, tutti rispettosamente in silenzio e con lo sguardo basso, come in attesa. Erano in una profonda grotta, illuminata da molte candele, e l’aria si stava impregnando del loro fumo, ma nessuno pareva accorgersene. Dietro di loro, lungo le pareti della grotta, vi erano diversi pali piantati nel terreno e sopra ognuno di questi troneggiava un teschio umano: un doveroso omaggio agli Dei, offerto da antiche generazioni ormai perdute nella polvere. Il tempo scorreva lentamente senza che nulla si muovesse, senza che nessuno proferisse verbo. Infine fu la donna a parlare: «Giungeranno oggi, e porteranno sventura. Sappiamo tutti che non possiamo far nulla: saremo scacciati e perseguitati. Ci considerano nemici della fede, ma sappiamo bene che non è così: la vera fede siamo noi. Dobbiamo essere forti in questo giorno infausto, e non lasciare che le sofferenze e le umiliazioni facciano vacillare le nostre certezze. Noi rimarremo sempre in questa terra e segretamente saremo ancora i guardiani della soglia, in aeternum».
8 Gli altri alzarono la testa e all’unisono intonarono uno strano canto, fatto di una sola nota, bassa e cupa. Di rimando dalla soglia sorse una nota uguale, ma più forte. Passò ancora del tempo, e le candele iniziarono ad affievolire la loro luce. A quel punto la sacerdotessa si mosse e, seguita dagli altri, abbandonò quel luogo per sempre. Anche la nota cupa si affievolì fino a sfociare in un silenzio spettrale.
9
970 A.D.
L’Abate Adamo si svegliò di buon’ora come sempre. Avrebbe voluto rimanere ancora un po’ sul giaciglio, confortato dal braciere che smorzava il gelo della notte, ma sapeva di avere troppi impegni per potersi permettere il lusso e il peccato della pigrizia. La luce del giorno si era timidamente affacciata all’orizzonte, ma già nel convento i monaci erano all’opera. C’erano ancora diversi lavori in sospeso: l’abbazia di San Clemente, a Casauria, era stata faticosamente ricostruita dopo le incursioni saracene di cinquant’anni prima e dopo tutte le lotte di potere avvenute negli anni successivi. Fortuna che l’imperatore Ottone I in persona si era imposto per farlo nominare abate, giudicandolo uomo di polso e assolutamente adatto a ricoprire una carica così delicata e importante. Adamo aveva anche chiesto a tre legati imperiali, Pietro, vescovo di Penne, Enrico e Aldone, i giudici imperiali, di intercedere presso l’Imperatore per far riacquistare all’abbazia i beni sottratti nel tempo. Da lì Adamo aveva continuato con ogni mezzo nella sua impresa di riportare il convento all’antico splendore. Era stato un periodo difficile per tutti, e le ristrettezze non erano mancate: i vari abati che si erano succeduti nel tempo, a iniziare da Alparo, erano stati costretti a vendere buona parte delle terre di proprietà, mentre altri beni e terreni erano stati alienati da prelati e nobili più potenti. La lotta per riavere le proprietà che storicamente erano appartenute al convento era stata dura, ma ne era valsa la pena: oramai i lavori erano ultimati, Adamo aveva riconquistato molti dei territori sottratti, ma soprattutto era consapevole di aver consolidato il suo potere in tutto quel lembo d’Italia che
10 andava dal territorio dei Marsi fin quasi a Roma. Sebbene ci fosse ancora molto da fare, le casse del cenobio, un tempo vuote, iniziavano a riacquistare spessore e l’Abate era divenuto negli anni un personaggio di spicco anche tra gli stretti consiglieri del Santo Padre. Ma ciò che preoccupava Adamo in quel mattino era la notizia che aveva appreso poche ore prima. Un piccolo drappello di messi papali era giunto la sera precedente dopo i vespri; fin qui nulla di nuovo, non erano rare le visite di alti prelati provenienti dalla Santa Sede, solo che uno dei prelati era niente meno che Papa Giovanni XIII, giunto in incognito fino a lì. Recava con sé una cassa lignea rinforzata con listelli di ferro, quasi un forziere, ben sigillata. Aveva chiesto di vedere immediatamente l’Abate, e senza preamboli gli aveva detto che sarebbero dovuti partire quanto prima e raggiungere l’abbazia sul Colle Petroso. C’era, infatti, in costruzione, già da qualche anno, un monastero distante alcune decine di chilometri su un colle di pietra ai piedi delle montagne più a nord. Era un’abbazia nata per ordine del Santo Padre e controllata direttamente da lui. «Ricorda, diletto figliuolo» gli aveva detto il Papa, «che tutto ciò è di vitale importanza per il futuro stesso della cristianità. Voglio vedere con i miei occhi l’andamento dei lavori della nuova abbazia, vi auspico al più presto l’insediamento dei monaci. Andremo lassù e insieme vi collocheremo all’interno questa cassa». Cosa avesse spinto il pontefice a impegnarsi in un’opera così costosa e complessa, Adamo lo ignorava: voci incontrollate parlavano di una presenza maligna su quelle montagne, qualcosa che doveva essere tenuta separata dal mondo cristiano. Ovviamente era molto curioso in proposito, ma tutto sommato in quel momento aveva ben altri problemi da risolvere. In ogni caso ancora poche ore e sarebbero partiti alla volta del Colle Petroso, dove forse il Santo Padre gli avrebbe rivelato qualche altro particolare. Fatto questo, se Dio voleva ognuno sarebbe tornato
11 alle proprie attività: aveva una vasta proprietà da curare, e questo era già abbastanza. Senza ulteriori indugi raccolse dunque il mantello e le poche masserizie che gli sarebbero servite per il breve viaggio e si diresse verso le stalle, dove già gli uomini del Papa stavano preparando i cavalli. Poco prima del mezzodì il gruppo aveva raggiunto la meta. Il nuovo monastero era già a buon punto nella costruzione: la chiesa e il chiostro erano già ultimati e si stava lavorando alla copertura dell’ultima ala, quella destinata agli alloggi. Dopo un breve scambio di idee con il capo mastro e l’architetto (uomini fidati del papa, scoprì Adamo), il Santo Padre volle con sé solo l’abate di Casauria e si diresse all’interno della costruzione. Adamo si stupì quando il Papa gli chiese di aiutarlo a portare la cassa misteriosa che recava con sé. Nessun altro ebbe modo di vedere dove i due nascosero la cassa, né Adamo ebbe modo di soddisfare la curiosità di sapere cosa si celasse nel suo interno: appena usciti dal cenobio il Papa diede disposizione di riprendere immediatamente la via del ritorno. Lontano, sulle montagne, altri occhi avevano osservato tutta la scena, occhi di chi da molto tempo viveva fra quelle cime, prima ancora che gli uomini di chiesa portassero fin lassù la parola del nuovo dio, insieme alle armi dei soldati che, in anni e anni di efferatezze, avevano sterminato i popoli della montagna. Tutto questo non sarebbe servito a nulla: ciò che era prima del tempo, lì sarebbe rimasto. La figura protese le braccia verso il monastero in costruzione, e un invisibile manto di tenebra si posò per sempre su quelle pietre.
12
1348 A.D.
La luce era poca, prodotta da sparute candele ormai consumate, fissate su spogli candelabri in ferro. Il silenzio quasi assoluto era interrotto a malapena dai sospiri che si udivano nella cripta. Ma si udiva anche altro: una nota profonda, minacciosa che sembrava nascere dal nulla, un suono basso e indistinto che aveva invaso tutto l’ambiente risuonando sulla volta a crociera, come una densa gelatina che impedisse anche il respiro. I monaci sedevano sugli scranni, i cappucci alzati, gli sguardi fissi verso punti indefiniti, lontani. Passò ancora molto tempo senza che nulla accadesse, quasi una spasmodica attesa di qualcosa, o qualcuno, che mai sarebbe giunto. Poi, l’Abate si alzò. Era un uomo imponente malgrado l’età, e aveva ancora un portamento fiero. I lineamenti si distinguevano appena sotto il cappuccio, ma mettevano in evidenza una mascella squadrata e un’espressione severa nelle labbra serrate. Si guardò intorno senza parlare, come a scrutare lo stato d’animo degli altri. Si spostò poi al centro della cripta, dove su un basso tavolo ottagonale troneggiava un calice dorato, tempestato di gemme, un calice usato per la messa, per bere il sangue di Cristo… Quella notte avrebbe dispensato ben altro. L’anziano frate prese il calice e se lo portò alle labbra, bevendo un breve sorso del liquido che vi era depositato. Poi si avvicinò al primo monaco seduto alla sua sinistra e gli passò l’oggetto. Il monaco a sua volta bevve e lo passò al compagno accanto. In breve tutti i monaci avevano bevuto dal calice. L’Abate allora, dopo essersi guardato un’ultima volta intorno, si sedette di nuovo al suo posto facendo un cenno al padre
13 Guardiano. Questi si alzò, e a passi decisi si diresse verso l’ingresso della cripta. Raccolse dalla corda del saio una grossa chiave un po’ arrugginita, e con essa chiuse la porta, tirando poi anche un pesante catenaccio. Fatto ciò tornò sui suoi passi e si sedette di nuovo, abbassando la testa. Rimase a lungo così, meditabondo, tenendo lo sguardo abbassato sulle proprie mani, come a pensare, incredulo, come quelle stesse mani avessero tante volte potuto dispensare la santa comunione ai confratelli e ai fedeli. «Questa sarà la nostra tomba» disse poi. «Dall’altra parte stanno già sigillando l’accesso a questo luogo per sempre e l’abominio sarà sepolto con noi. Il veleno inizierà presto a far effetto: non sarà doloroso… avvertiremo un torpore simile al sonno, poi più nulla. Attenderemo la morte in preghiera: noi siamo gli ultimi guardiani della soglia, i più esposti al maligno; saremo lo scudo a difesa del nostro mondo, spero che il nostro sacrificio possa salvarlo. Che il Signore abbia pietà delle nostre anime». Detto ciò tutti abbassarono il capo, in attesa. Solo il silenzio regnò sovrano su quel luogo, e una nota bassa e cupa che invadeva tutto lo spazio intorno.
ADESSO
17
PRIMO GIORNO
Il vento gelido si incuneò per i vicoli, spazzò gli antichi tetti facendo udire il suo sibilo attraverso le imposte chiuse e infondendo una sensazione di inquietudine in quella fredda alba invernale. Era un vento che sapeva di fumo e di neve e portava il gelo delle montagne, ma non solo. Sembrava recare con sé un messaggio di allerta, quasi volesse svegliare dal sonno i dormienti nelle case di pietra, per metterli al corrente di un pericolo venturo. La donna si alzò presto, come sempre. Aprì la finestra assaporando con piacere la gelida aria mattutina; osservò i tetti del borgo ancora assopito, poi chiuse gli occhi, concentrandosi sui suoni del mondo esterno. Rimase così, immota per lunghi attimi, lasciandosi scorrere addosso pensieri ed emozioni, quindi si scosse da quella staticità chiudendo la finestra e iniziando le solite faccende quotidiane. Ma un pensiero nuovo non voleva abbandonarla: la consapevolezza che qualcosa sarebbe cambiata per sempre. Verranno oggi, porteranno sventura, e non possiamo farci nulla. Il piccolo borgo, arrampicato e abbarbicato attorno all’abbazia, percorso da stradine strette e tortuose con passaggi coperti, interrotte da improvvise e ripide scalinate, sorgeva sulla sommità di un alto colle che chiudeva una stretta valle brulla; più lontano, le montagne del Gran Sasso apparivano già innevate. L’abbazia dominava l’abitato con la sua austerità: si ergeva solenne e minacciosa all’apice del colle con le sue antiche mura di pietra, tetti a coppi di un colore che ricordava esso
18 stesso la pietra. E la pietra, la roccia erano tutto attorno. Il nome, Abbazia di Collepetroso, non era stato dato a caso. Il borgo era immerso nel silenzio: non un rumore di auto o di qualunque cosa potesse ricordare il tempo attuale. Tutto sembrava cristallizzato in uno spazio-tempo indefinito, fermato come in una foto in bianco e nero. E forse il tempo lì si era fermato davvero: niente a indicare i giorni del presente, non un’antenna televisiva, un’insegna al neon, un qualsiasi feticcio tecnologico dell’era moderna che riportasse il borgo al tempo attuale. Una strada saliva serpeggiando dalla valle e continuando in una sorta di larga spirale, attraversava l’arco di una porta fortificata, diramandosi in stretti vicoli fra le antiche costruzioni e allargandosi in una piccola piazza di fronte all’ingresso dell’abbazia, per poi ritornare a essere strada e uscirne da un altro arco dalla parte diametralmente opposta e tornare indietro a ricongiungersi alla strada per la valle, formando un semicerchio attorno all’abitato. Un furgone Transit, dall’aspetto datato, percorse l’ultimo tratto lastricato della stradina che portava allo spiazzo di fronte all’abbazia, e lì si fermò. Ne scesero quattro persone, due uomini e due donne, scaricando nel contempo capienti borsoni di vario tipo. Una delle due donne, giovane, capelli neri lisci, occhi chiari, si rivolse all’uomo più anziano: «Professor Tanzi, vado a chiamare Marco». «Va bene, Alessia» rispose l’uomo. «È strano che non sia già qui». La ragazza si incamminò per uno degli stretti vicoli prospicienti la piazzetta e quasi si scontrò con Marco che stava arrivando. Lei sorrise a quel tipo dall’aspetto assonnato, alto, con lunghi capelli castani raccolti in una coda e con lo sguardo profondo.
19 «Ciao, Marco!» gli sorrise e gli diede un bacio sulla guancia. «Ciao Cara» rispose lui. «Stamattina non avevo voglia: si stava troppo bene sotto il piumone!». «Da solo?» Alessia gli strizzò l’occhio «Tu non vuoi venire da me!» le sorrise. «Guarda che l’offerta è sempre valida!». Lei alzò le spalle: «Mah, ci penserò, devo valutare altre proposte». «Oh, quali proposte?». Lei gli diede una spintarella, sorridendo: «Ma smettila, scemo! Chi vuoi che altro ci sia?». Fu allora che incontrarono una ragazza che stava andando dalla parte opposta alla loro: aveva capelli biondi, occhi grigi, un volto espressivo con zigomi alti e un bel portamento, quasi da top model. «Ciao Marco» disse la ragazza. «Ti sei alzato presto, vedo». «Ciao Cate, be’ anche tu. Vai al lavoro?». «Come sempre!». Marco fece le presentazioni con Alessia. L’altra si congedò in fretta. «Carina…» disse Alessia con una punta di ironia. «Mica sarai gelosa?!» ribatté Marco. «Siamo come fratello e sorella: ci conosciamo da una vita!». «See, dicono tutti così!» Alessia sorrideva. Intanto, mano nella mano erano giunti nella piazzetta e si erano uniti agli altri. «Buongiorno a tutti» disse Marco. Gli altri ricambiarono il saluto. Il gruppo, oltre ad Alessia e al professor Tanzi, era composto da Anna, una ragazza alta e magra, dai capelli rossi e i lineamenti sottili, e Massimo, un omone di oltre un metro e novanta, ma dall’aspetto bonario. Facevano tutti parte di un gruppo dell’Università La Sapienza di Roma, inviati in quel sito sperduto fra le montagne per una ricerca archeologica. Era stato Marco, studente al secondo anno della laurea magistrale
20 in scienze storico-religiose e residente nel borgo, a proporre questo studio: si trattava di un intervento volto al recupero parziale dell’antica Abbazia, che formava il nucleo centrale del paese. Si narrava, infatti, che nel XIV secolo fosse accaduto un fatto misterioso all’interno di quelle mura: da uno studio su documenti del periodo, ritrovati in monasteri e paesi vicini, sembrava che i monaci fossero scomparsi nel giro di una notte, senza lasciare traccia. Le notizie risalivano agli anni della peste nera, intorno al 1348, anno nel quale peraltro il monastero subì alcuni danni a causa di un terribile terremoto; le dicerie si erano tramandate di generazione in generazione attraverso i secoli. Si presumeva che ciò che accadde fra quelle mura fosse da mettere in relazione alla peste, che nella zona mieté migliaia di vittime, ma c’era chi diceva da sempre che il motivo fosse ben più oscuro, legato alle forze del male. Da allora l’Abbazia era stata prima abbandonata e poi restaurata, passando di mano in mano per secoli. Durante il corso degli anni, a parte i monaci residenti, ben pochi avevano osato avventurarsi fra quelle stanze. Le dicerie e le leggende avevano proliferato: si diceva che chi avesse profanato il luogo sarebbe stato colpito da grandi sventure, fino alla pazzia e alla morte. Ai giorni nostri si era sviluppato nuovo interesse riguardo al sito, alimentato in buona parte dalla Regione Abruzzo e da alcune università. Marco aveva fatto pressione sull’Università La Sapienza per effettuare uno studio preliminare sul posto. Dall’ateneo si erano messi in moto, incuriositi dalla strana vicenda, e qualcuno era pure riuscito ad avere un aiuto dal Ministero dei beni culturali per finanziare in parte l’intervento. Erano state cercate tracce delle vicende del cenobio in documenti del tempo per capire se si trattava di una leggenda popolare o se invece c’erano concrete fonti storiche sull’avvenimento. Finalmente nel Chronicon Casauriense, una raccolta di scritti originaria dell’Abbazia di San Clemente a Casauria, qualche decina di chilometri più a sud, era stato trovato un documento
21 che parlava della costruzione di una nuova abbazia, in un luogo chiamato Collis Petrosus e del fatto che la cosa era stata voluta dall’allora Pontefice, Papa Giovanni XIII: l’abbazia avrebbe dovuto custodire qualcosa di importante, non meglio specificato. Il documento risaliva all’anno mille, ma parlava di qualcosa accaduto almeno una trentina di anni prima. Un’altra fonte, posteriore di quattro secoli, parlava della “aliena ablatione monachos Collis Petroso” e di una parte dei monaci di San Clemente che vi si sarebbero trasferiti in seguito al terremoto del 1348 che aveva praticamente distrutto la loro abbazia. Fu deciso che ce n’era abbastanza per organizzare una spedizione di studio; dunque eccoli là, pronti a iniziare il lavoro. Il capo della “spedizione” era il professor Tanzi, vecchio luminare di storia medievale, archeologo con alle spalle quasi mezzo secolo di esperienza fra le mura di antichi manieri, monasteri, borghi e persino cimiteri. Anna era ricercatrice di storia medievale e storia dell’arte medievale, esperta anche di lingue antiche; da anni assisteva il professor Tanzi nelle sue ricerche. Puntigliosa e seria sul lavoro, si era rivelata una piacevole conversatrice quando il gruppo si era riunito per decidere il da farsi, in una trattoria di Trastevere, e non aveva lesinato su qualche bicchiere di vino rosso. Massimo era il tecnico del gruppo: laureato in chimica e in biologia, si occupava di tutte le attrezzature, riflettori, rilevatori, prodotti chimici e tutto ciò che serviva per la buona riuscita della spedizione. Anche lui lavorava da anni assieme al professore ed era considerato uno dei massimi esperti a livello tecnico nel campo dell’archeometria, disciplina che si occupa di datare con esattezza i beni di interesse storico. Diversi anni prima, per esempio, da brillante neolaureato, aveva fatto parte dell’equipe di analisi e studio con il carbonio 14 della Sacra Sindone di Torino. Infine Marco: era cresciuto fra le pietre di
22 quelle montagne, nell’antico borgo abitato da poche persone. Si racconta fosse stato trovato avvolto in fasce davanti all’ingresso di un’abbazia vicina e che fosse stato raccolto dai monaci, che lo avevano affidato alle cure di un’anziana levatrice. Poi una donna del paese, la signora Matilde Giuliani, insieme al marito lo aveva chiesto in adozione, non avendo la coppia mai avuto figli. Marco quindi si era ritrovato un nome, ma soprattutto due genitori che gli volevano bene. Fin da piccolo si era dimostrato un bambino taciturno, ma pieno di interessi e attento a ciò che lo circondava. Aveva vissuto fra il piccolo borgo dell’abbazia e il paese vicino, spesso ospite dei monaci che lo avevano raccolto; con uno di questi monaci, padre Antonio, era sempre rimasto in confidenza, e il religioso era divenuto col tempo una sorta di confessore per il ragazzo. Era cresciuto con pochi amici, fra cui Caterina, sua coetanea e compagna di giochi fin dall’infanzia, e aveva sempre mostrato un carattere mite e disponibile. Dopo aver frequentato il liceo classico a L’Aquila, seguendo la sua passione per la storia medievale, era stato ammesso al corso di laurea presso l’Università La Sapienza, dove aveva conosciuto gli altri del gruppo. Fin da piccolo aveva assimilato le strane storie che gravitavano attorno a Collepetroso, e in età adolescenziale aveva iniziato seriamente a interessarsene a livello di studi. Per lui quel seminario era un’occasione unica, quasi un miracolo. Sarebbe riuscito finalmente a realizzare il sogno di poter fare una ricerca scientifica, approfondita, sulla storia dell’antico sito. «Bene» disse il professor Tanzi. «Ci siamo tutti. Marco, il custode è stato avvertito?». «Dovrebbe attenderci già all’interno. Proviamo a bussare…». Si avvicinò al massiccio portone di legno scuro che interrompeva la parete di pietra del muro perimetrale del convento, ma in quel momento si udì uno sferragliare all’interno della porta, che si aprì mostrando un uomo anziano
23 con la barba grigia di un paio di giorni, un cappellino mimetico da cacciatore, giacca a vento verde e pantaloni militari; sguardo attento e profondo. Marco sorrise: «Mario, buongiorno. Eri già dentro?». «E chi dorme più?» rispose il vecchio rispondendo al sorriso. «Alla mia età ogni ora rubata al sonno è guadagnata alla vita. Buongiorno a tutti». Marco fece le presentazioni. Poi il custode invitò il gruppo a seguirlo attraverso un corridoio che portava al chiostro dell’Abbazia. Tutti notarono che il vecchio zoppicava vistosamente, ma che non faceva uso di bastoni o altro. «Un vecchio incidente di caccia» sussurrò Marco ad Alessia, che annuì. Mario si voltò verso di lui: «Ragazzo, puoi anche dirlo ad alta voce, mica mi vergogno! E non fu un incidente di caccia. Mai cacciato in vita mia, anche se sono appassionato di armi». Marco arrossì. «È accaduto molto tempo fa» continuò Mario. «Allora facevo la guardia forestale nel Parco Nazionale. Avevo trovato un cucciolo di orso che aveva perduto la madre, o così almeno credevo. Lo presi per portarlo al sicuro, ma mi trovai improvvisamente al cospetto di mamma orsa che non gradì il gesto. Me la cavai per un pelo, per fortuna un mio compagno non era distante e sparò un colpo in aria per spaventare l’animale. Però ci rimisi metà della gamba sinistra, che adesso è di legno. Ero ancora giovane e inesperto: i miei colleghi più anziani mi spiegarono che occorre molta prudenza con i cuccioli d’orso. Spesso la madre si allontana per procurarsi il cibo, ma non perde mai il contatto con loro. Fatto sta che dovetti congedarmi dal corpo forestale, e da allora sono divenuto il custode di queste pietre». Alessia cercò di rispondere a quella dissertazione: «È una storia interessante, penso sia bello aver a che fare con gli animali selvatici».
24 Mario la guardò, inespressivo: «Signorina, le auguro di non dover mai incontrare un branco di lupi affamati!». Alessia abbassò gli occhi, imbarazzata. Ma ci pensò Marco, conoscendo il soggetto, a sdrammatizzare la situazione: «Via Mario, sembra tu abbia vissuto nel medioevo! Quando mai hai incontrato un branco di lupi?». «Eh, Marco, Marcuzzo mio, ci sono un sacco di cose che non conosci!». Poi, decidendo che era giunto il momento di cambiare discorso: «Cosa volete vedere per primo?». Si era rivolto per rispetto all’anziano del gruppo, il professor Tanzi. «Beh, non mi dispiacerebbe dare un’occhiata a tutto il complesso, per iniziare: dobbiamo conoscere il luogo per poterlo studiare. Se lei può darci anche qualche indicazione, gliene sarei grato». «Molto bene. Allora, dato che siamo arrivati nel chiostro, inizieremo da qui… al momento potete lasciare i bagagli in un angolo». Mario si rivelò agli ospiti una guida preparata e competente. L’Abbazia, non grandissima, si sviluppava attorno al chiostro centrale, sostenuto da semplici colonne in pietra locale e con un cortile interno lastricato anch’esso con pietre di un colore chiaro. Il perimetro dell’abbazia aveva costituito il primo nucleo abitato del Colle Petroso e per più di cento anni era rimasto tale, poi, con l’espansione demografica dopo l’anno mille e l’aumento di personale sia religioso sia laico, era stata costruita la seconda cinta muraria, quella che tutt’ora circondava il borgo, ed erano sorte nuove abitazioni. Il nucleo centrale tuttavia era rimasto intatto così come venne costruito. Era sempre stato un luogo un po’ defilato rispetto ad altri siti religiosi della zona. Poco menzionata nelle cronache del tempo, era da secoli circondata da un alone di mistero. Durante tutto il
25 periodo del medioevo, dalla sua costruzione intorno all’anno 970 fino all’anno della scomparsa dei monaci, il 1348, spiegò Mario agli astanti, era stata oggetto di ben poche visite e i monaci che vi risiedevano - una ventina al massimo - erano considerati degli asceti, sconosciuti a buona parte degli altri ordini ma venerati quasi come santi dagli abitanti dei villaggi vicini. Ben pochi pellegrini si erano fermati a cercare rifugio per la notte fra quelle mura, e chi lo aveva fatto parlava di un luogo solitario, inquietante per certi aspetti, silenzioso e abitato da monaci silenziosi e schivi. Sul chiostro si affacciavano su due lati stanze adibite a usi disparati, dal refettorio alla cucina, dallo studio dell’abate alla sala capitolare. Il lato rivolto a sud confinava con la parete laterale della chiesa, privo di aperture, a parte una porticina che permetteva ai monaci di accedere all’edificio sacro senza passare dall’esterno. Quello rivolto a ovest confinava con l’ingresso e la biblioteca; circa a metà della parete una scala conduceva al piano superiore, dove si trovavano gli alloggi dei monaci. Alcune stanze, spiegò il custode, presentavano crepe dovute ai vari terremoti che si erano succeduti nella zona nel corso dei secoli, ultimo quello del 2009, tuttavia il complesso, contrariamente ad altri luoghi religiosi e non della zona, sembrava aver retto molto bene alle calamità naturali. La chiesa romanica era composta da tre navate con il soffitto a capriate, divise da colonne a sezione quadrata intagliate nella pietra locale di fattura molto semplice, e terminava con un semplicissimo abside semicircolare in nuda pietra, con di fronte un altare anch’esso in pietra, costituito da un sarcofago paleocristiano scolpito con scene raffiguranti vicende bibliche. A metà della navata centrale un ambone in pietra, poggiato su quattro colonne, interrompeva la prospettiva. L’ambiente era completamente spoglio, fatta eccezione per un grande crocifisso ligneo dietro l’altare e alcuni candelabri arrugginiti attorno a esso. Uniche decorazioni, due dipinti ai lati
26 dell’abside: uno era una tavola che rappresentava un Cristo crocifisso; l’altro, conservato piuttosto male, era un trittico: rappresentava al centro la Vergine col bambino, lateralmente due figure di santi non identificabili a causa del deterioramento dei colori. «I monaci non ci sono più?» chiese Anna. «No signorina. Per decine e decine di anni questo luogo è rimasto disabitato» rispose Mario. «Penso anche che pochi visitatori occasionali vi abbiano messo piede nel corso di quei secoli. Subito dopo la scomparsa vi si trasferirono una parte dei monaci dell’Abbazia di San Clemente a Casauria... quelli superstiti, per la precisione. Deve sapere che lo stesso anno un terremoto molto forte distrusse San Clemente. Alcuni dei monaci decisero di insediarsi fra queste mura…». «E questo convento non subì danni?». «Pochissimi in confronto al resto… Anche questa cosa suonò strana, al tempo. Ma i terremoti sono sempre strani! Quello del 2009 per esempio ha lasciato intatti paesi vicinissimi a L’Aquila e ne ha invece devastato il centro e altri borghi più lontani. Tornando a noi, i monaci decisero di stabilirsi qui, ma qualcosa evidentemente fece loro cambiare idea, almeno ad alcuni di loro: pochi anni dopo una buona metà se ne era di nuovo andata, forse perché richiamati alla casa madre dove stava iniziando la ricostruzione. Fatto sta che le voci si susseguivano, e parlavano di oscure presenze, apparizioni. Correva anche una voce secondo la quale i monaci non sarebbero mai usciti da quelle mura, e che vi fossero stati sepolti vivi, e i loro spiriti avrebbero vagato nelle notti, in cerca di pace… ma molte di queste dicerie nascono ovviamente dalla superstizione popolare. Per alcuni anni l’abbazia venne addirittura sigillata, le porte murate per ordine del vescovo dell’Aquila. Penso che in realtà volessero tener lontani i curiosi e cercare di scoprire cosa fosse davvero accaduto. Anche gli abitanti del borgo se ne andarono
27 in gran numero: non si sentivano più protetti senza la presenza dei religiosi. Si andò avanti così per secoli, ma un piccolo gruppo di monaci fu sempre presente, anche solo per operare interventi di manutenzione. Ma non solo: c’è chi dice che chi viveva tra queste mura si sentisse investito come da una missione divina, una sorta di custode di un segreto innominabile. Tuttavia nessuno è mai riuscito a svelare o capire qualcosa in più di questo segreto. Intorno al 1600, per concessione della diocesi, vi si stanziarono di nuovo diversi monaci cistercensi, una ventina, credo. La presenza dei monaci si è protratta fino quasi ai giorni nostri, e neppure la legge napoleonica del 1806 è riuscita a far chiudere il monastero. Pare anzi che, nelle varie ordinanze di chiusura stilate dalle autorità civili, Collepetroso non sia mai stato nominato. Poi, verso gli anni cinquanta del ventesimo secolo l’abbazia è stata di nuovo chiusa, ma questa volta per mancanza di vocazioni. Chiusa, ma non più abbandonata: adesso ci sono io che faccio il custode e mi occupo della manutenzione. Saltuariamente viene qualcuno del genio civile a controllare la stabilità, ma sembra non ci siano problemi». «Anche la chiesa è in disuso?» aveva parlato il professor Tanzi. «No… nel senso che ufficialmente non è mai stata sconsacrata. Tuttavia penso che nessuno vi abbia più celebrato cerimonie religiose. La gente ha sempre avuto paura di questo luogo. Bah!» Mario scosse la testa prima di continuare. «In ogni caso queste paure sono state la salvezza dell’Abbazia, perché nessuno ha osato portarsi via nulla o quasi. Come potrete vedere vi sono ancora diverse suppellettili, documenti, e altro. Tutto rimasto sigillato qui dentro per secoli. Adesso tutto lo stabile è sotto la giurisdizione del Ministero dei Beni Culturali. Anch’io dipendo da loro. Sono già stati fatti alcuni lavori di manutenzione al tetto e alla struttura. Il sito è integro e piuttosto bello: vediamo se è la volta buona che riusciamo a richiamare un po’ di gente quassù!».
28 «Noi dove alloggeremo?» chiese ancora il professore. «Venite, andiamo al piano superiore. Un’ala dell’Abbazia è attrezzata a foresteria. Ci sono un paio di stanze sistemate con reti e materassi. E c’è anche un bagno. Dovrete un po’ arrangiarvi, ma almeno sarete al coperto». «Beh, siamo abituati ai disagi, vero Anna?» Tanzi si voltò verso la ragazza, che alzò le spalle in segno di assenso. «Non so come vorrete fare per mangiare». «A quello ci ho pensato io» disse Marco. «Verranno da me, mia madre si è detta disponibile per cucinare. In fondo sono poche decine di metri da qui». «Purtroppo quassù non siamo proprio attrezzati a ospitare gruppi» riprese Mario quasi a giustificarsi, «anche se finora, a essere onesto, di visitatori ne sono venuti ben pochi, soprattutto in questa stagione! Bene, potete portare su il vostro bagaglio adesso». Fece loro strada su per la scala in pietra; giunsero al piano superiore, che ricalcava nella forma il chiostro sottostante, ma solo su due lati. Era percorso da piccole colonne, più basse rispetto al piano inferiore; su entrambe le pareti vi erano alcune porte chiuse. «Questi erano gli antichi dormitori dei monaci». Mario si diresse verso una porta e l’aprì, poi si fece da parte per far passare gli ospiti. La stanza era grande e luminosa, con quattro letti in metallo dai materassi nuovi di zecca. Un piccolo armadio di legno scuro e un paio di sedie completavano lo spartano arredamento. «Vi sono due camere uguali; Potrete dividervi fra uomini e donne, o come volete. Il bagno è la terza porta. Le camere e il bagno per ora sono le uniche stanze dove c’è la luce, e l’acqua corrente». Gli ospiti sistemarono le loro cose nelle due camere. Massimo indugiò sulle sue attrezzature, poi decise di lasciare tutto nelle borse.
29 «Bene signori» disse il professor Tanzi, «da dove vogliamo iniziare?». «Controllo documenti?» chiese Anna. «Direi di sì. Cominciamo a prendere visione in loco dei documenti disponibili. Anna e Alessia, questo è compito vostro». Le ragazze annuirono. «Cerchiamo di capire dove possiamo trovare qualcosa di scritto che riguardi l’Abbazia e soprattutto il periodo che interessa a noi» disse ancora Tanzi. «Marco, tu conosci bene questo sito. Se ti viene in mente qualcosa, un particolare, un’anomalia, qualsiasi cosa, è il momento di parlarne». Marco rimase per qualche istante in silenzio, pensieroso. Poi disse: «Se dobbiamo basarci sulle storie che circolano qui, e c’è qualcosa di nascosto, di occultato, al novanta per cento sarà nel sottosuolo. Potremmo iniziare a perlustrare tutte le stanze interrate. Non molte, in verità. Però…». «Però sì, è una buona idea per iniziare. Vediamo un po’ cosa possiamo fare». Mario si congedò dal gruppo, dicendo loro che in caso di bisogno, sapevano dove trovarlo. *** Le due ragazze si avventurarono nella biblioteca: Mario aveva provveduto ad aprir loro la porta, ungendone un po’ i vecchi cardini. Era un ambiente vasto, una sala rettangolare dal soffitto a travi, con le pareti quasi totalmente coperte di scaffali semivuoti. Solo su alcuni di essi si trovavano volumi dall’aspetto consunto e documenti di vario tipo, pergamene e altri oggetti dall’uso sconosciuto. Perpendicolari ai lati più lunghi si trovavano due tavoli rettangolari di legno massiccio, per poggiarvi i documenti. Due grandi leggii sempre in legno
30 erano appoggiati alla parete sulla quale si aprivano due finestre piuttosto ampie, che si affacciavano sul panorama della valle e le montagne innevate. Alcune sedie disposte lungo i tavoli completavano l’arredamento. Tutto aveva un aspetto trasandato e polveroso. «Non mi aspettavo di trovarvi dei documenti» disse Alessia. «Ci sarà da divertirsi!» ribatté Anna guardandosi intorno. «È incredibile che qualcosa sia ancora conservato qui. In genere durante i secoli, monasteri abbandonati come questo sono stati oggetto di saccheggio da parte di eserciti, briganti, soldati di ventura, disperati… questa cosa suona oltremodo strana». «Neppure Napoleone Bonaparte volle fermarsi qui. E sì che di conventi ne ha depredati! Mi sono un po’ documentata prima di arrivare qui, e la cosa strana è che tutti sembrano aver evitato questo luogo nel corso dei secoli» le rispose Alessia. «Ma questo certamente lo sapevi già». «Non sopravvalutarmi» Anna sorrise. «Non conosco tutto lo scibile umano. Se una cosa ho imparato in questi anni di università è l’umiltà e la pazienza. Forse su questo luogo ne sai più te di me. Sai, ogni volta che affronto un nuovo studio sono consapevole che sarà un’esperienza completamente diversa dalle altre: non ci sono regole in questo lavoro. Comunque da qualche parte dovremo iniziare. Vediamo se esiste qualche annuario, una lista dei documenti o qualcosa di simile». Si misero all’opera: prima di tutto dovettero cercare di ripulire il possibile dalla polvere, poi prepararono un tavolo su cui appoggiare pergamene e oggetti. Entrambe indossarono guanti di lattice. Anna installò un pc portatile con i suoi database, per confrontare eventuali fonti conosciute. Alessia iniziò a scartabellare fra i fogli che, malgrado l’età e l’abbandono, sembravano integri. «Certo» disse quest’ultima, «se il professor Tanzi ci avesse lasciato anche Marco, che è esperto del luogo, forse avrebbe potuto darci una mano!».
31 «Non so che idee abbia il professore. Ama molto far di testa sua. Ma tu…» mostrò un sorriso malizioso, «Non è che vorresti Marco per altri motivi?». Alessia arrossì e si limitò ad alzare le spalle. Tutti nel gruppo conoscevano la loro relazione. Si erano conosciuti un paio di anni prima all’Università, e ben presto avevano fatto coppia fissa. Alessia era rimasta affascinata dall’espressione malinconica di quel ragazzo, che pure sapeva essere brillante all’occorrenza. Avevano iniziato a frequentarsi e da più di un anno stavano insieme. Tuttavia Alessia era stata pochissime volte a casa di Marco nel borgo, peraltro senza riuscire a dare una spiegazione plausibile al suo rifiuto. Marco dal canto suo non aveva mai insistito molto con lei: era comunque abituato a vivere quasi in solitudine e sapeva che molti si sentivano a disagio fra quelle pietre. Passò del tempo senza che nessuna delle due proferisse parola, intente entrambe a visionare con la massima cura possibile quegli antichi reperti. Poi, a un tratto, Alessia con tono trionfante disse: «Forse ho trovato qualcosa! Guarda». L’altra si alzò e si avvicinò alla compagna per guardare. Alessia stava sfogliando un grosso volume, dall’aria consunta con una spessa copertina in cuoio scuro. «Ha l’idea di essere un cartularium, un resoconto dei fatti e delle proprietà dell’Abbazia… Non so però a che periodo risalga». Anna guardò con interesse quelle pagine scritte a mano in diverse calligrafie: era una rilegatura grossolana di documenti di varie epoche, su pergamena e fogli di vario tipo. «È vero, sembra un cartularium; vediamo un po'». Sfogliarono a lungo l’antico volume; alcune pagine erano assolutamente illeggibili, altre meglio conservate, parlavano di acquisti e vendite delle proprietà, peraltro piuttosto limitate, dell’abbazia.
32 «Guarda, qui si parla della costruzione di alcune abitazioni del borgo: è una concessione dell’Abate nell’anno… 1.025» stava dicendo Anna, emozionata. «Chissà per quante mani sono passate queste pagine!». Andando avanti lessero di cessioni di bestiame, altre concessioni per abitazioni, acquisizione o vendita di terreni. E poi gestione di grano, orzo, vino, le decime dei contadini, i commerci… Infine arrivarono all’anno 1348. «Qui tutti si ferma!» disse Anna, perplessa. «L’anno 1348 è l’ultimo del volume». «Che cosa dicono i resoconti di quell’anno?» chiese Alessia. Anna si mise a leggere con attenzione. «Boh… non molto in realtà. Qui parla di una fornitura di grano, uova e pollame. La morte del monaco addetto alla riscossione delle decime». Scartabellò un poco avanti e indietro. «È strano» disse poi, «negli ultimi anni si parla di famiglie o persone che se ne vanno dall’abbazia, e non ne arrivano più». «Qualcosa non andava più come avrebbe dovuto, probabilmente» rispose Alessia. «Forse una carestia, o un morbo…». «Non saprei, a parte la peste qui leggo che le decime arrivavano regolarmente. Nel suo piccolo era un’abbazia ricca, guarda qui: nella penultima pagina: si parla di un acquisto piuttosto importante di pietre e di calce per erigere… cosa? Castrum. Castello, fortezza. Eppure non mi risulta che nei dintorni vi sia nulla del genere…». Alessia si fece ancor più attenta: «Cosa dice, esattamente?». «Emit octo sata calce et (...) lapides aedificare castrum (...) ut limen occludere. Come se dovessero edificare una fortezza…per chiudere una soglia?! Poi vediamo cosa dice, qui si legge male: in cæmentariis et lignorum oportet operari cito.
33 Tempus est brevi. I muratori e i carpentieri devono lavorare in fretta. Il tempo è poco. Ma cosa significa?». Anna voltò pagina, arrivando all’ultima. Sull’ultimo foglio di carta antica vi erano poche parole leggibili, il tempo era stato impietoso con l’inchiostro dei monaci: Non confecto redire gradu. Aeterna damnatione (…) nunc periit. Anna, perplessa, tradusse: «Non possiamo tornare indietro, La dannazione eterna (…) ormai perso. O qualcosa del genere. Poi dice: Stagnum ignis haec mors secunda est. Lo stagno di fuoco è la morte seconda». Le due ragazze si guardarono sgomente. Anna continuò a leggere: «Legio nomen est, quia multa sunt. Il suo nome è Legione, perché sono in molti». «Per l’amor del cielo, Anna, cosa significa?» chiese Alessia, «cosa c’è scritto ancora?». Anna fissava inespressiva le ultime due parole del foglio, semplici, definitive: Hic Est. «È qui… Non dice altro. Di qualunque cosa stessero parlando, queste sono le ultime parole scritte sul foglio. Se almeno fosse stato in condizioni migliori!». «Cosa può significare?». «Chissà? Qualcosa che era giunta all’Abbazia, oppure… qualcosa che era stata evocata, risvegliata?». «E quella cosa aveva forse segnato la fine dei monaci?». Anna alzò le spalle: «Non so. So solo che è il caso di avvertire subito il professore!». )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
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