Alex, mia figlia e un calcio di rara bellezza

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In uscita il 30/9/2016 (15,70 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2016 (4,99 euro)

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MARCO DODDIS

ALEX, MIA FIGLIA E UN CALCIO DI RARA BELLEZZA

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ALEX, MIA FIGLIA E UN CALCIO DI RARA BELLEZZA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-029-0 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Settembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


a Bergi, Ciccio, Colo, Ema, Mostro, Tane, Tia e VolontĂ Pizzi senza speranza



"Alcune persone pensano che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono assolutamente d’accordo. Vi assicuro che è molto, molto di più." Bill Shankly


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1. IL GRILLO

«Si può sapere che cazzo stai facendo?» Il richiamo del mio Grillo Parlante mi tolse il fiato. Mi trovavo seduto sul muretto del lungomare, circondato da una mezza dozzina di Coronas quasi vuote. Il campanile della chiesa alle mie spalle scandiva il tempo di quella pazza serata. Quando il Grillo si materializzò, avevo appena sentito dodici donnnn e un dinnn: mezzanotte e mezza. Pochi attimi prima, la biondina olandese aveva rotto gli indugi e si era messa a cavalcioni sul sottoscritto. “E vai!” avevo pensato, mentre le mie mani si trasformavano in poderosi tentacoli. Finalmente, la vacanza in Spagna regalava qualche soddisfazione anche a me, oltre che ai miei compagni di viaggio. «What’s your name?» Repressi a fatica un’esplosione di ilarità. “Ma come? Ma questa è messa proprio male! Saranno quattro ore che parliamo… Sì, insomma, lei parla, io le guardo le tette e mi limito a qualche of course… Le avrò detto due volte il mio nome e ancora mi chiede come mi chiamo?” «Angelo. I told you!» feci lo sforzo di risponderle. «Oh… Wow… Angiooolo» si strinse in un gemito. «Angelo… no Angiòlo… Vabbè, fai come ti pare.» Tagliai corto. Non è che avesse molta importanza. Tanto, il giorno dopo, se lo sarebbe dimenticato. «C’mon, Angiòllo!» mi sussurrò un paio di volte nell’orecchio, invitandomi ad alzarmi. Si era accorta che la mia eccitazione aveva raggiunto il livello di guardia e voleva che ci avviassimo verso l’albergo. «Sì, yes, let’s go!» dissi, noncurante del mio buffo mix anglo-italiano. «Andiamo! Ora te lo faccio vedere io il calcio totale, bella olandesina!» Fu proprio allora che apparve lui, il Grillo. «Dunque… non mi hai risposto! Che cazzo stai facendo, Angelo?»


8 Lui sì che lo sapeva bene il mio nome. E com’era incazzato nel pronunciarlo! Vedermi davanti la sua faccia rugosa al posto di quella liscia e un po’ paffutella dell’olandese mi traumatizzò. All’improvviso, mi passò la voglia di scherzare. Altro che Olanda, altro che calcio totale. C’era da fronteggiare l’avversario più pericoloso che mi potesse capitare in quel periodo: la mia coscienza. Il Grillo era un cliente scomodissimo, innanzitutto per la sua imprevedibilità. Chi poteva immaginare che anche lui sarebbe venuto in Spagna? Di sicuro si era imbarcato sul mio stesso aereo, a Torino. E in incognito, senza farsi notare, mi aveva seguito per le strade della Catalogna. Pazzesco. Iniziai a fischiettare, mentre l’olandesina mi squadrava con un punto interrogativo appeso sulla fronte. “Magari il Grillo capisce che non gli rispondo e se ne va” pensai. Fii fiuu fii fiuu fii fiuu. “E dai! Per favore, vattene via! Lasciami in pace!” Fii fiuu fii fiuu fii fiuu. Niente. Fiato sprecato. In quel periodo, quando il Grillo compariva, non mi abbandonava tanto facilmente. «No!» si stizzì. «Non ti lascio in pace, caro mio! Stavolta non me ne vado nemmeno se mi dici che quella cosa sotto i pantaloni è uno spray antitarme.» L’antifona era chiarissima. Con gli occhi carichi di avvilimento, congedai la tulipanina, invitandola a incamminarsi verso il suo hotel. Lei sembrava non capire. E come avrebbe potuto? Cercai di spiegarle che mi aveva assalito un improvviso mal di testa e che volevo restare solo. «Sì, brava! Vai, vai! Poi ti raggiungo» dissi, senza nemmeno più provare a tradurre i miei pensieri in qualcosa che le risultasse comprensibile. E così fece. Se ne andò. Meno male che Berny non era presente: il mio amico mi avrebbe frustato se avesse assistito a quella scena. «Beh» si inserì il Grillo con tono canzonatorio «se è questa la tua preoccupazione, non credere di farla franca. Appena vi incontrerete in albergo ti prenderà per il culo a sufficienza.» Mi sfotteva anche il mio inatteso ospite: sapeva benissimo che, di lì a


9 breve, Berny mi avrebbe fatto pesare tutta la mia incapacità di segnare un rigore a porta vuota e si sarebbe disperato per la nostra reputazione a livello internazionale. «Invece…» continuò senza darmi tregua «io pensavo che ti interessasse di più il giudizio di qualcun altro. E non quello di Berny…» Bravo. Bene. Bis. Quel momento rimane nella storia dell’estate 2012, l’estate a cui si riferiscono questi fatti, l’estate in cui nulla fu normale e in cui tutto cambiò per sempre. Non posso scordarmelo. Mezzanotte e mezza, Ferragosto 2012, località Lloret de Mar, Catalogna, Spagna: si può dire che tutto ebbe inizio con queste coordinate. Tutto cosa? Tutta l’incredibile storia che state per leggere, naturalmente. E che, senza troppi complimenti, ficcò la mia vita in un frullatore. Trita, sminuzza, mischia, sbatti. Non sono sensazioni piacevoli, ma rimangono comunque assai migliori di quella che provai in quegli istanti. Era la sensazione del mancamento interiore, della consapevolezza che le tue azioni sono inutili o tutt’altro che ammirevoli. Insomma, sintetizzando: la sensazione di essere una merda. Tenete a mente anche questa: diventerà protagonista assoluta nelle pagine seguenti. Cominciai a sentirmi una merda proprio quella sera. E la cosa mi avrebbe accompagnato spesso nei giorni e nelle settimane successive. «Pensa, come sarebbe bello stare con lei in una notte come questa, la notte di Ferragosto! Come sarebbe bello… invece di stare qui! E come sarebbe giusto, soprattutto!» Il Grillaccio non aveva intenzione di mollare la presa e di smettere di colpevolizzarmi. D’altra parte, l’avevo combinata grossa con l’olandese. Anzi, la stavo per combinare grossa, visto che, a causa del suo tempestivo intervento, non ero riuscito a combinare proprio nulla. Anche senza i suoi sermoni, sapevo che sarebbe stato bello e giusto stare con lei, in quel momento. Ma lei, Gaia, era lontana, distante un migliaio di chilometri e con gli occhi rivolti su un altro mare. «Sei ridicolo!» proseguì. «Ma che cavolo ci fai qua?»


10 Senza la minima esitazione, presi una delle bottiglie che mi stavano intorno e la fracassai contro il muretto su cui ero seduto. “Basta!” La voce del Grillo non c’era più. Controllai se, per caso, fosse rimasto vittima del mio raptus improvviso. No. Sotto di me, c’era solo la spiaggia con un discreto laghetto di schegge. Lui si era proprio volatilizzato. Era arrivato il momento di alzare i tacchi: i titoli di coda calavano sulla mia serata e, forse, sull’intera vacanza. Oggi so bene che quei giorni catalani, passati a Barcellona e dintorni, furono importanti. Ma allora, soprattutto al termine del faccia a faccia con il Grillo, non riuscivo a togliermi dalla testa la fatidica domanda: “ma che ci faccio qua?” Mi ero fatto trascinare da Berny, era chiaro. Però, nella prima parte della settimana, grazie anche alla sua energia e alla compagnia degli altri due matti che componevano la truppa – Giulio e Damiano – il tempo era trascorso senza tendermi subdoli agguati. Avevamo affittato una bella Matiz rossa a Barcellona, avevamo girato per i borghi più famosi della Costa Brava, avevamo cazzeggiato a go-go: insomma, era stato abbastanza gradevole. Mi ero un po’ tolto dalla mente ciò che avevo lasciato alle spalle, a Torino. Poi, negli ultimi tre giorni, quelli in cui ci eravamo fermati a Lloret, qualcosa era cambiato. Saranno stati i neon accattivanti, il perenne fracasso, la puzza di ormoni post-adolescenziali; sarà che iniziavo a non sopportare più Giulietto o che, inconsciamente, avevo percepito di essere pedinato dal Grillo: fatto sta che il mio umore aveva imboccato la strada di Grigiolandia. E chi lo andava a riprendere, soprattutto dopo l’episodio con l’olandesina? Mentre continuavo a cercare dove si fosse nascosto il Grillo, fui colto da un altro raptus. Non più crash, ma un più innocuo splash. Prima di tornare solo e sconsolato al mio hotel, partorii la malsana idea di farmi un bagno. Così, saltai dal muretto sulla spiaggia, evitai per miracolo il puzzle di vetro e iniziai a correre verso la placida distesa nera. Fui costretto a un paio di dribbling niente male, alla Messi, tra due coppiette che se la stavano spassando; gente che non doveva aver avuto nessun grillo tra i piedi, quella notte… E poi, via le scarpe, i pantaloni, la camicia. Splash. Un tuffo deciso.


11 Mi esibii in una breve serie di scomposte bracciate verso il largo; poi, non appena mi resi conto che mancava la terra sotto i piedi, tornai subito a riva. Sentii un freddo assurdo e pensai che, in mancanza di un asciugamano, l’unico modo per riscaldarmi era quello di fare un’altra corsa, in direzione opposta a quella precedente. Raccolsi i miei stracci e via: zigzag, doppio passo tra le coppiette, salto del muretto e rapida vestizione, con la pelle ancora ricoperta di goccioline salmastre. Credo che la scena sia stata vista da qualche decina di passanti. Se mi vergognai? No, in quel momento la vergogna era rimasta in acqua, spuntino notturno di qualche acciuga di passaggio. Comunque, chi di voi ha frequentato posti del genere sa che a quell’ora, di notte, la gente è in media già abbastanza fatta da evitare di giudicare le bizzarrie altrui. Mi sentivo ristorato. Quel gesto non era nato da una ferrea logica aristotelica, ma, almeno, mi aveva distratto, raffreddando pure l’anticiclone proveniente dai Paesi Bassi. Intesi come Olanda… Molto bene. A quel punto, potevo decisamente andarmene a dormire.


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2. LLORET, DIECI ANNI DOPO

L’idea di mettermi a cercare gli altri tre non mi sfiorò nemmeno: chissà in quale carnaio potevano essere sepolti. Ci saremmo rivisti certamente il giorno dopo. Nonostante mi facessero male i piedi, decisi di camminare un po’ di più del necessario: non avevo voglia di passare per le vie più trafficate, in particolare per la dantesca Avinguda Just Marlès, dove si concentravano i locali più frequentati; così, scelsi alcune viuzze un po’ meno battute, in mezzo a cui rischiai anche di perdermi. La cosa buffa è che, in quei minuti, mi stavo perdendo anche nei miei pensieri, cosicché non badai al tragitto che si allungava. Mi era venuta in mente una cosa curiosa: prima di quella volta, l’unico bagno notturno della mia vita era andato in scena esattamente dieci anni prima ed esattamente nello stesso posto. La strana coincidenza mi costrinse al confronto mentale: 2012 vs 2002. Quante cose erano cambiate da allora, dalla mia prima vacanza all’estero! All’epoca, avevo ventun anni. Ah, che tempi! Tutti i maniaci di calcio come me, specie quelli un po’ Gobbi, ricorderanno che il 2002 era stato l’anno del famoso Cinque Maggio e di uno scudetto vinto all’ultima giornata in modo rocambolesco. Nemmeno la successiva “Corea” e l’arbitro Moreno avevano scalfito in me un entusiasmo che mi ero portato fino in Spagna. Volavo a un metro da terra. Volavo, però, solo metaforicamente, visto che l’aereo era stato scartato come mezzo di trasporto. Proprio così: ricordo in modo distinto che eravamo un po’ diffidenti verso Ryanair e affini. «Cinquanta euro andata e ritorno? Ci saranno le ali di cartone!» Così, non potendoci permettere qualcosa che non fosse low cost, si era scelto di raggiungere la nostra meta in treno. Scelta sbagliata. Appena partiti, un guasto sulla linea ferroviaria ci aveva costretti a una deviazione verso la Liguria, a una notte insonne alla stazione di Nizza e a una serie di cambi forzati nel sud della Francia.


13 Un’odissea sfiancante: ventisei ore di viaggio, sette treni, due autobus e tanto sonno accumulato ancora prima di arrivare. A differenza dell’itinerante settimana catalana del 2012, nel 2002 si era fatta una scelta precisa: niente chiese e castelli, solo ballo e sballo. Quindi, solo Lloret de Mar. Dieci giorni di Lloret de Mar. La vacanza era stata meravigliosa, nonostante la stanchezza continua, i timpani corrosi dai decibel delle discoteche, il sangue impregnato di alcol. Il sonno si era rivelato come il compagno più fedele. I pochi risparmi racimolati in tutto l’anno non ci avevano concesso più di un paio di tende e di un campeggio. Ora, visto che la notte si passava regolarmente in bianco e, di giorno, le tende parevano dei forni crematori, il riposo era una vera chimera. Negli ultimi tre giorni avevamo patito anche la fame, visto che a ciascuno di noi erano rimasti poco più di cinquanta euro, a cui andavano tolti i soldi per l’ingresso nei locali – non si poteva rinunciare ai locali – e quelli per sangrie e calimochos. Restava un budget di cinque euro al giorno, con cui ci si poteva permettere un paio di baguettes a testa, qualche scatoletta di tonno e un pacchetto di sottilette mezze sciolte dal sole. Stop. Ero tornato a Torino a pezzi, ma soddisfatto. L’ultima sera, ero riuscito anche ad assistere a una vittoria in Supercoppa. Quelli del campeggio sapevano che una partita di calcio, per di più con squadre italiane, avrebbe riscosso un enorme successo. Così, l’avevano trasmessa nel bar. Che ricordo fantastico: la partita, vista insieme a gente di tutte le nazionalità! … 25 agosto 2002. In diretta dallo stadio di Tripoli. Juventus Parma 2-1. Doppietta di Alex, ovviamente. Quel giorno, entrambi segniamo due gol sulla sabbia. Lui, in un campo che è stato ritagliato nel deserto libico; io, nel bel mezzo della Platja de Lloret, nel corso della tradizionale partitella del pomeriggio … Rispetto al viaggio del 2002, la composizione della truppa era piuttosto differente. Nel 2012, gli unici superstiti, eravamo io e Berny. Lui sembrava non essersi stancato della – parole sue – vacanza tamarra e ignorante. Anzi, come allora, ne era stato il più acceso promotore. Quanto a me, invece, mi trovavo un po’ spiazzato, vittima di una strana


14 sensazione che riuscii a battezzare proprio mentre tornavo all’hotel, la notte del Grillo e del bagno: mi apparve chiaro, cioè, di essermi imbarcato in una specie di viaggio nel tempo, imprevisto e forzato. Dopo quel lontano 2002, la nascita di Gaia e tutti i casini successivi con Sonia mi avevano costretto a rinunciare a quel tipo di vacanza con gli amici. Credevo per sempre. Credevo che quell’estate sarebbe rimasta là, come l’ultimo gradino di una scala troppo corta di nome Giovinezza. Invece, dieci anni più tardi, ecco l’inatteso bis. Chi non faceva più parte della squadra erano Fra, Michi e Paolo. I primi due, dopo l’università, erano andati a vivere a Parigi e non li avevamo più visti. Il loro lavoro ci aveva fatto separare. Il terzo, Paolone, abitava ancora a Torino, ma aveva rifiutato di partecipare al revival. «No, ragazzi. E come faccio? Col matrimonio e tutti i preparativi. Mi devo organizzare. E poi, no… i soldi…» Cazzate. La verità è che la futura mogliettina non lo avrebbe mai lasciato andare. E, poi, la vacanza tamarra e ignorante non gli era mai andata a genio, nemmeno a vent’anni. Figurarsi a trentadue. Il frizzante quintetto del 2002 aveva dunque lasciato spazio a un quartetto assai meno spumeggiante: insieme a me e Berny, erano partiti Giulio – il pessimo Giulio – e Damiano – il Dottor Volontè –. Con loro due era difficile giocare a calcio sulla spiaggia e molto più facile drogarsi o finire in qualche sottospecie di bordello. Ecco, quella notte di Ferragosto, proprio il pensiero dei miei compagni di viaggio mi diede una bella spinta verso la ritirata solitaria in albergo. Visto l’accaduto, mi era venuta voglia di starmene da solo con i miei pensieri. E, poi, due tuffi erano più che sufficienti: dopo quello nel mare e quello nel passato, non mi sembrò proprio il caso di buttarmi nell’inferno di Lloret alla ricerca dei compari. A testa bassa, feci così il mio ingresso all’Hotel Fenals Garden. La signorina della reception – una prorompente mora, di origine andalusa – mi allungò la chiave della 108, non nascondendo la sua mirada interrogativa. Normale: mi vedeva tornare a un orario da convento – era l’una e mezza, un orario da convento da quelle parti – da solo, senza i miei compagni di merende… È normale che qualche cosa non le quadrasse.


15 Io replicai con un’esibizione di mutismo e mi incamminai verso la camera. “Beh, le potrei chiedere a che ora smonta!” pensai, salendo le scale. “Magari, la invito a bere qualcosa.” Non feci nemmeno in tempo a mettere le virgole e i punti sulla mia riflessione, che quella voce argentina tornò a infestarmi i timpani. «Ma dove vuoi andare? Dai… da bravo… Entri in questa stanza, ti fai una bella doccia calda e te ne vai a nanna!» Questa volta, il Grillo mi parlò con tono quasi compassionevole, come se fossi un cagnolino incapace di intendere e di volere. Ovviamente, seguii il suo consiglio. Feci la doccia, chiusi porta e finestre per evitare che mi potesse continuare a disturbare e me ne andai a nanna. Ma la nanna, purtroppo, non fu affatto tranquilla.


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3. BERNY, IL BOMBER

Sogni. Turbolenti sogni. Quella notte, il mio cervello partorì un pastrocchio onirico che mi impedì il riposo. Quando, intorno a mezzogiorno, fui in piedi, le mie condizioni si potevano schematizzare in pochi punti: - senso di appiccicaticcio, prodotto dal lago di sudore che era diventato il mio letto; - gola in fiamme, a causa della bella idea del tuffo notturno nel Mediterraneo; - nausea episodica con sporadici capogiri, conseguenza di quanto bevuto la sera prima; - inquietudine generalizzata, per i sogni che mi avevano fatto compagnia senza essere stati richiesti. Insomma, mi sentivo una merda: si trattava, come detto, di una sensazione ricorrente in quel periodo. Dopo una breve sosta in bagno, acciuffai il mio telo da mare, rubai una Benagol dalla valigia di Giulio e uscii dalla camera: non avevo affatto voglia di contemplare il ronfare degli altri tre. Mi accomodai in uno dei tavolini del Cafè di fronte al Fenals Garden. La colazione, anzi il pranzo-colazione – ordinai una spremuta, due cornetti, un caffelatte e un delizioso pan tumaca – innaffiò con un po’ di benzina il mio ammaccato motore. Una volta spazzolato tutto quanto, rimasi per un paio d’ore seduto sulla stessa sedia a fissare il vuoto, cercando di mettere ordine nel marasma di immagini che il mio cervello aveva creato durante la notte. Mi erano rimaste delle istantanee, apparentemente sconnesse tra loro. Prima c’era un ospedale, dove io ero ricoverato. Ero io, ma non ero io. Nel senso che credo fossi io, ma invecchiato di una cinquantina d’anni. Poi, dopo uno stacco cinematografico di quelli che sarebbero piaciuti al Dottor Volontè, mi ritrovavo in uno stadio. Dell’ospedale penso non fosse rimasto nulla, a eccezione del lettino su cui il mio alter ego vecchio continuava a essere sdraiato. Lo stadio era vuoto; poi, si riempiva di gente e di un frastuono


17 assordante. Una delle cose più strane che potessi ricordare era il tabellone dello stadio: non scorrevano le formazioni delle squadre o la solita pubblicità, ma degli annunci di lavoro: cerchiamo questo, selezioniamo quello, persona motivata e flessibile, tempo determinato, contratto a progetto. Mah… Il mio stato d’animo inquieto – mi sembra che mi mancasse anche l’aria, nel sogno – mutava d’improvviso quando scoprivo di non essere più il vecchio del lettino, ma un altro me stesso, ben più giovane e in salute, mescolato alla folla dei silenziofobi della curva. A un certo punto, compariva anche Gaia, che mi stringeva forte la mano e mi invitava a concentrarmi sul campo. «Guarda papà!» mi ripeteva ossessivamente. «Guarda chi c’è!» Dalla nostra curva, Alex si vedeva benissimo in viso, mentre un portiere olandese ci offriva le spalle. Gol. In un lampo, Alex riceveva la palla e calciava. Un tiro troppo bello per essere vero: era un miracolo dei suoi. La Roma piangeva, perché veniva eliminata da una Coppa; credo che fosse la Coppa Italia. Gaia, invece, rideva e mi abbracciava. Poi, un flash sparato negli occhi mi catapultava in un altro scenario, che non riuscivo a mettere a fuoco. “Che cacchio di posto era? Che cacchio di posto era? Che cacchio…” Pat pat. Fui ridestato da una pacca sulla spalla. Ero talmente concentrato nel mio tentativo di recupero del sogno che il brusco ritorno alla realtà quasi mi spaventò. «Ehi… Ciao Berny!» «E allora?» mi chiese, tutto pimpante. «Come va? Ma che fai qua impalato? Guardi gli uccellini?» Eccolo qua, il mio migliore amico che entra in scena in questa storia. Berny sta per Bernardo. Ci siamo conosciuti alle medie, vicini di banco in classe. Nella vita fa il barista; un barista per successione ereditaria visto che il bar, il leggendario Caffè Picchi, è del padre. In quei giorni spagnoli, la sua costante euforia mi commuoveva. Sembrava quello della vacanza di dieci anni prima. Non lo era, ma fingeva di esserlo, si sforzava. E riusciva perfettamente a mentirsi in


18 faccia. Ecco, Berny pareva la realizzazione pratica di uno di quei motti sulla vita da vivere al massimo; quelle stronzate da Bacio Perugina o da evangelisti di Steve Jobs, tipo “vivi ogni tuo giorno come se dovessi morire domani” o qualcosa del genere. «No» gli risposi con un mezzo sorriso. «È che ho fatto un sogno strano stanotte. E stavo cercando di ricordarmelo. Vabbè, comunque… E tu come stai, bomber? Già sveglio?» «Beh, sono quasi le tre di pomeriggio.» «L’alba!» ironizzai. «Guarda che gli altri stanno ancora dormendo.» «Ma che ora avete fatto ieri?» «Mah… saranno state le cinque! Io e Volontè siamo tornati per quell’ora; Giulio, una mezz’ora dopo… Deve sempre distinguersi, ‘sto qua!» «Eh… è fatto così! Inizia a starmi profondamente sul cazzo, sai?» Berny non commentò, limitandosi a un cenno di assenso, mentre addentava il panino appena ordinato. «Comunque» ripresi con un sorrisino ammiccante «come è andata?» «Niente di che!» disse lui. «Giulio si è fatto una minorenne e…» «Mmmm!» lo interruppi. «Che storia affascinante! A parte che qua sono tutte minorenni… Vabbè… E tu?» «Io, male! Ieri sera non ho combinato nulla! Mi è andata male.» Era chiaro che non voleva darlo troppo a vedere, ma pareva sorpreso della sua performance. Anzi, della sua mancata performance. Per capire il significato dei miei occhi sbalorditi, bisogna tenere presente le qualità del soggetto in questione. Berny è sempre stato il classico tipo che ci sa fare. In quella vacanza, poi, pareva davvero scatenato: almeno fino a quel momento si era occupato, quasi da solo, della nostra reputazione a livello internazionale. Si trattava, dunque, di una notiziona. Mentre camminavamo in direzione della spiaggia, dopo aver lasciato il bar, tornai più volte su quanto era accaduto la notte prima. «Ma davvero non hai fatto niente ieri?» gli domandai a più riprese, tra il serio e il faceto. «Ma allora sei umano anche tu?» Lui rideva, mentre io gli ricordavo qualcuno degli episodi di cui era stato protagonista nella settimana catalana. «E vabbè, Angy! Non può andarmi sempre bene!» «Ma dai…» continuavo a sfotterlo. «Dopo i capolavori che hai fatto in ‘sta vacanza, non puoi fermarti proprio qua, dove le tipe te la tirano


19 dietro… Dai, Berny! Ma che bomber sei? E la reputazione internazionale? Sinceramente, da te mi aspettavo l’en plein, soprattutto dopo quello che ci hai fatto vedere il primo giorno.» Mi riferivo a un numero di alta scuola con cui ci aveva deliziati appena sbarcati in Spagna, a Barcellona. Dopo una giornata da turisti, con il Barrio Gotico, la Sagrada Familia, l’immancabile visita al Camp Nou e le tapas, si era deciso di passare la prima serata nella zona della Playa de la Barceloneta, forse il locale notturno a cielo aperto più bello d’Europa. Mentre io, Giulio e Volontè avevamo attaccato bottone, inutilmente, con tre tedesche avvinazzate, Berny era sparito dalla circolazione, per poi ricomparire alle prime luci dell’alba davanti ai nostri sguardi preoccupati. Che cosa era accaduto? In sostanza, mentre noi perdevamo tempo con quelle crucche, abbastanza indifferenti verso i “provoloni” italiani, lui aveva individuato una ragazza francese in lacrime, sconvolta per una lite con un ragazzo. Subito, si era fiondato sulla preda, l’aveva consolata, sciogliendo le sue pene in un paio di copas, e poi l’aveva accompagnata nella sua camera d’albergo. Il primo gol dell’estate era stato il suo. E ne erano seguiti altri, nelle successive tappe del nostro pellegrinaggio iberico. Ora, con un compagno di viaggio del genere, il compagno di viaggio ideale che tutti i “provoloni” vorrebbero avere, era quantomeno lecito meravigliarsi per un passaggio a vuoto, per una notte in bianco. O, come gli ripetevo io, per una partita a secco, senza gol. «E dai, però… proprio qua a Lloret… Non me l’aspettavo da te! Inizi a perdere colpi! Non sei più quello di dieci anni fa!» Il mio umorismo scemo, ovviamente, mascherava cascate di ammirazione verso Berny. Magari fossi riuscito io a realizzare un decimo, anche solo un decimo, delle sue imprese! Purtroppo, continuando a prenderlo in giro richiamai su di me il più perfido dei contrappassi. «Senti un po’, simpaticone…» mi spiazzò «tu, piuttosto, dimmi come è finita ieri sera con quella bionda?» Ahia! Non se n’era dimenticato! Era presente anche lui quando avevo beccato l’olandesina e voleva conoscere l’esito dell’Operazione Tulipano. «Ah quella?» cercai di temporeggiare, mentre stendevo l’asciugamano da mare sulla finissima sabbia della Plaja de Lloret. «Sì, quella…» Gli sintetizzai quanto accaduto da quando lui, Giulio e Volontè avevano


20 tolto il disturbo: le birre, la passeggiata, la sosta sulla panchina, il mio inglese imbarazzante, il contatto fisico e… «E niente… Poi, sul più bello, questa cambia idea e se ne va.» Berny aveva seguito con grande interesse il mio racconto. E non riusciva proprio a spiegarsi un finale tanto incoerente. «Mah!» disse, dubbioso. «Eppure io l’avevo vista: sembrava che ci stesse.» «Infatti!» incalzai, con la mia espressione più allucinata. «Sembrava… Poi, boh, avrà cambiato idea. Si sarà spaventata. Che ne so…» Perfetto. La verità era stata mistificata. Non ne andavo particolarmente fiero, ma almeno mi ero tolto dall’imbarazzo di spiegargli la storia del Grillo. Sarebbe stato… complicato. «Non importa» chiosò. «Vedrai che stasera ti rifai. È l’ultima sera: non si fanno prigionieri.» Lo ringraziai. Il suo era un sincero incoraggiamento, del tutto privo di quell’ironia che aveva pervaso la chiacchierata fino a quel momento. «Mi faccio un bagno! Vieni?» mi chiese. «No, non ho voglia adesso! Vai tu! Dopo, magari, ti raggiungo.» E si tuffò. Splash. Come avevo fatto io, alcune ore prima. La superficie dell’acqua era invasa da un esercito di materassini, nelle cui file Berny si arruolò subito. Io cercai di seguirlo con lo sguardo, ma presto lo persi. “Sarà là in mezzo che ci prova con qualche fanciulla” pensai, mentre i miei occhi si socchiudevano per proteggersi dal sole. Per passare il tempo iniziai a guardarmi intorno, cercando qualche spunto di interesse nella variegata fauna accampata nei paraggi: il surfista muscoloso, un po’ di topless qua e là, il gruppo di italiani caciaroni con gli zaini dell’Invicta, i venditori di materassini, le sirenette anoressiche sul bagnasciuga, la famigliola inglese con litri di crema solare sulla faccia, corpo albino e avambracci ustionati… Ce n’era per tutti i gusti. La panoramica, tuttavia, era interessante fino a un certo punto: dopo qualche minuto di osservazione, sentii che un’onda anomala di stanchezza voleva imporsi a tutti i costi alla mia attenzione. E io, senza schermirmi troppo, la assecondai, spaparanzandomi sul mio telo Original Marines annata doc 2003. Fu una questione di attimi e la cacofonica babele intorno a me si fece ovattata, lontana, sempre più lontana. Fino a spegnersi del tutto.


21 Piombai in un sonno profondo, molto piĂš intenso di quello della notte prima. Credo di non aver sognato nulla in quelle due, tre ore. Credo, ma non ne posso essere certo.


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4. GIULIO E VOLONTÈ

La mia attività cerebrale riprese quando qualche provvidenziale refolo di vento innescò dei brividini che riuscirono ad abbassarmi la temperatura corporea. Fortuna che ero già abbastanza abbronzato da non farmi bruciare dal sole di metà pomeriggio; un sole che, quando ripresi conoscenza, non era più accecante, ma spargeva gli ultimi raggi della sua giornata in modo gentile su tutta la spiaggia. Mi resi conto di aver lottato con l’asciugamano che tenevo sotto la schiena. Senza accorgermene, lo avevo massacrato a tal punto da ridurlo a un povero cencio agonizzante. Spettatori della lotta erano stati alcuni milioni di granelli di sabbia bruna, impazziti e scalmanati invasori del ring. Nonostante il match si fosse risolto senza vincitori né vinti, pareva che l’incontro ravvicinato con il telo Original Marines avesse lasciato qualche postumo, almeno su di me. Sentivo che le vertebre non stavano tutte incastrate al loro posto, mentre la testa mi pesava come una palla da bowling. «Sei tu che perdi colpi! Non hai più il fisico!» La voce di Berny mi sorprese mentre la mia faccia si lasciava deformare da uno sbadiglio scomposto. Non risposi. Preferii issarmi sui gomiti e scrutare l’orizzonte. La superficie del mare si era fatta liscia, quasi del tutto sgombra dall’esercito di materassini che, forse, aveva battuto in ritirata. Ombrelloni e topless erano scomparsi, lasciando spazio a sciami multietnici di ventenni e ai loro palloni volanti. «La pelota!» Una sfera rosa mi carambolò tra le gambe. Prima che potessi sfiorarla, un tipo pelle e ossa con un costume a fiori mi stava sollecitando a restituirgliela. «Por favor» proseguì lo scheletro, impaziente. Lo fissai per qualche secondo con sguardo indispettito. Poi, sistemai il piede sinistro sotto la palla e, con una scucchiaiata decisa, la feci ruzzolare tra le braccia del giovanotto spagnolo.


23 «È inutile che mi guardi così! Non ho voglia» disse Berny. «E poi, te l’ho detto: non hai più il fisico.» «Pensa per te» bofonchiai. «Ma dai… vorresti davvero giocare con questi? Io, comunque, sto alla grande. Insomma, abbastanza. Anzi, tieni! Ne vuoi un po’?» Se l’idea di prendere a calci quella palla, e magari anche lo spagnolo supponente, mi aveva iniettato un po’ di energia, l’immagine della bottiglia di birra sventolata da Berny mi tolse di nuovo le forze, per la gioia dei miei succhi gastrici. «Madonna… che mal di testa! Sarà stato il sole» mi lamentai. «No, coglione. Si chiama sangria» sorrise Berny. Non era vero. Non si chiamava sangria: la sera prima avevo bevuto solo birra. E qualche chupito. Però, obiettivamente, avevo un po’ esagerato. E, anche se in quei giorni il territorio dell’esagerazione era marcato da confini piuttosto incerti, non c’erano dubbi sul fatto che li avessi attraversati in lungo e in largo. «Ma dove cazzo sono gli altri?» domandai, guardandomi attorno. «Gli altri… non ce la fanno più. Come te!» esclamò Berny. «Sono in albergo?» «Volontè sicuramente sì. È venuto qui, è rimasto un po’ e poi è tornato. Mi ha detto che doveva riprendersi. Se no, stasera muore.» «Sul serio? Non l’ho mica sentito! E Giulio?» «Era qua anche lui, fino a dieci minuti fa. Voleva farsi un aperitivo. Sarà con qualche troia.» «Ma va’!» ammiccai. «Solo massaggi.» Ci stringemmo in una risata ebete. «Comunque» ripresi io «mi sa che stasera me ne rimango in albergo.» Berny si fece serio, d’improvviso. Aveva l’espressione di uno che riceve una notizia brutta, inaspettata, da nodo in gola. Mi fissò sconsolato. «Ma come? Ma no. Ma è l’ultima sera. Ma dai. Ma no.» Per schivare tutti quei ma ad altezza uomo, decisi di alzarmi in piedi e di mettermi a studiare il panorama. Era un peccato non poter vedere la scena del tramonto: il sole scappava alle nostre spalle, nascondendosi dietro ai palazzi e alle loro insegne già illuminate. Sarebbe stata la metafora adatta per il mio stato di forma e per il mio entusiasmo. Damiano, il Dottor Volontà, o Volontè, mi avrebbe indottrinato: «Perché, cioè, vedi» avrebbe detto «in un’inquadratura del genere, con te che scruti il sole che sparisce, il paesaggio non è un mero addobbo


24 scenografico, ma assume una sua valenza drammaturgica. Cioè, capisci? Il paesaggio avrebbe una funzione… espressiva. Cioè, esprimerebbe fedelmente il tuo animo, i tuoi… travagli interiori.» Io lo avrei mandato a fare in culo. Damiano, però, non era con noi. Di certo, era spiaggiato sul letto, a vagare tra l’aldiquà e il mondo dei sogni, immerso nel fumo della sua amica Mary Jane. Si riprendeva così, lui. E io, in quel momento, un po’ lo invidiavo. «Scusami, ma ieri sera mi sono ammazzato. Oggi ho anche mal di gola.» «Cazzo, Angy!» disse Berny, piantando nella sabbia la sua bottiglia di birra. «Stasera devi venire. Domani partiamo, cazzo! Chissà quando ci torniamo in un posto così.» Mai. La risposta era quella, ma non mi uscì. Quelle tre lettere rimasero imprigionate tra i miei denti, mentre esibivo una smorfia di incertezza. Il mai era la verità e pure Berny lo sapeva. In effetti, non avevo motivo di credere che ci sarebbe stato un ulteriore ritorno. E anche oggi, a maggior ragione, non penso proprio che ci sarà. O forse sì, chissà: magari a ottant’anni, con la gita primaverile organizzata da quelli dell’ospizio. «Ma scusa» continuò «non dovevamo venire qui come dieci anni fa, divertirci come dei pazzi, castigarle tutte?» «Sì, forse tu. Quello valeva per te!» Mi aveva convinto più o meno così ad accettare quel remake. «Dai, cazzo! Andiamo!» mi aveva esortato a Torino, sputandomi in faccia la sua adrenalina. «Dai! Come ai vecchi tempi! Catalogna, Barcellona, Costa Brava… Ci facciamo un giretto! Le castighiamo tutte, dai! Un giretto, eh? Un giretto.» E mi aveva persuaso, con la storia del giretto. Nonostante non avessi i fottuti soldi per pagarmelo. Nonostante Sonia. Nonostante i miei. Nonostante tutto, avevo deciso di buttarmi. Ero stanco di giocare con il tempo, chiedendogli di essere più buono con me e di riservarmi qualche ora lieta. Lui non aveva voluto darmela? Bene, me l’ero presa da solo. Una botta di vita: desideravo solo quella, per risentire un po’ dell’elettricità dei tempi andati. «Dai!» rideva. «È l’ultima sera! Dai, che stasera facciamo un massacro! Dai!» Lo spartito di Berny, anche quel pomeriggio sulla spiaggia, era sempre lo


25 stesso. E mi pareva uno spartito troppo monotono per essere naturale. «Dai, bello! Dai, che adesso ti tiri su! Dai, che è l’ultima sera!» Un mantra. Lo sapevo che era l’ultima sera: non avevo bisogno che la sua verve compulsiva continuasse a ricordarmelo. Quanto al massacro, non riuscivo ovviamente a credergli, visti i miei bollettini di guerra delle notti precedenti e il Grillo alle calcagna. Mi martellò per un’ora, mentre mi riappacificavo con l’asciugamano, mentre tornavamo all’albergo, mentre svegliavamo Damiano con un secchio d’acqua gelida in faccia. Lui, Volontè, invece di incazzarsi per il risveglio nella cascata di ghiaccio, si fece una risata e ci offrì una delle sue sigarette magiche. E bravo Damiano! Bravo Dottor Volontà, o Volontè! Credo che anche lui si meriti una presentazione dignitosa, anche perché, in questa storia, ha lasciato un segno bello grosso. Damiano lo conosco da una vita, anche se non ci siamo mai frequentati troppo. È detto Volontà, per deriderne l’atavica pigrizia, il menefreghismo e la leggendaria propensione alla non-azione; poi storpiato in Volontè da quanti, come me, sono sempre stati affascinati dalla sua enciclopedica conoscenza del cinema e dalla sua predilezione per il western. Che il vecchio Gian Maria, suo idolo indiscusso, ci perdoni! Sinceramente, non ho mai capito perché venne con noi in vacanza. Lo sballo gli piace, ma è più un tipo da sballo introspettivo, sofisticato; non da sballo catalano. Comunque, nei suoi momenti di solitario svago lisergico, non ha mai fatto male a nessuno. Come un bravo papà, Volontè accompagnò me e Berny sul balcone della nostra 108. Ci trovammo tutti e tre allineati, scrutando il profilo delle strade che portavano al lungomare e, da là, al castello di Sant Joan. Studiavamo con cura ogni singolo volto che transitasse nella via del nostro albergo, come dei piccioni in attesa di qualche briciola su cui lanciarsi. Lentamente, le facce cominciarono a sembrarmi tutte uguali, mascherate dalla spessa coltre di fumo che usciva dalla mia bocca. Un capogiro passeggero mi costrinse a serrare gli occhi, ma li riaprii subito. Fu in quel momento che un’immagine mi piombò addosso come il pugno


26 di un pugile: era l’immagine di Gaia che sorrideva. Bam. L’impatto, violentissimo, ebbe l’effetto di ridestare in me tutte le sensazioni seppellite dall’amica Mary Jane. Ed ecco che, dal fondo dello stomaco, sentii risalire improvvisamente un conato. Era un conato presente da giorni, ignorato e poi addirittura represso. E conteneva di tutto e di più: c’era la soddisfazione per l’energia riscoperta durante la vacanza; c’era la voglia di vivere al massimo quell’ultima notte; c’era la voglia di non vivere al massimo quell’ultima notte e di lanciarmi al più presto su un comodo cuscino; e poi c’erano la nostalgia, la colpa, il rimpianto, il sogno e la realtà. Tutto confuso, ma tutto chiaramente distinguibile. Bam. Ci fu un secondo impatto, più distante: quello di una porta che si richiudeva alle nostre spalle. “Oddio, il Grillo!” pensai, provocandomi un timido sorriso. E invece no: non era il Grillo. Era quasi peggio. Spuntarono la camicia rosa sbottonata e un costumino attillato color panna, preceduti da un paio di enormi occhiali da sole quadrati. «Ehi cucadores!» si manifestò Giulio. «Basta drogarsi! È ora di andare!» Anche se con un po’ di fastidio, mi vedo costretto a presentare pure lui, Giulietto, l’ultimo asso dello squinternato poker. Sette anni più grande di me e Berny, figlio di una ex collega di mia madre, Giulio è un ginecologo per professione e per… passione. Ricorre spesso anche ad aiuti chimici. Lo frequentavo molto ai tempi in cui entravo nell’ostico mondo adolescenziale. Lui, che già viaggiava verso patente e diploma, mi pareva un punto di riferimento. Poi, il lento distacco. Altri giri, altra gente. I suoi gilet pre-camicebianco avrebbero stonato vicino al mio eskimo e alle mie Union Jack. Qualche anno fa, ci siamo ritrovati: potenza di Facebook, il socializzatore. Non mi è mai andato a genio, ma devo ammettere che, se non ci fosse stato lui, forse, il viaggio me lo sarei scordato. E mi sarei scordato anche tutto ciò che accadde dopo.


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5. 1-1-2, IL MODULO OFFENSIVO

Calcisticamente, anzi calcettisticamente, sarebbe stata una formazione spregiudicata: una sorta di 1-1-2 senza portiere; un modulo ultraoffensivo, di quelli che le terre catalane apprezzano parecchio. Certo, noi non avevamo Messi e Neymar, ma Berny e Giulio sapevano il fatto loro. In più, la storia ci aveva insegnato che una squadra collaudata non si può cambiare. Io, nello scacchiere tattico, ero il baluardo più arretrato, l’ultimo e unico difensore. Un ruolo perfetto per me, soprattutto in quell’ultima notte di vacanza: con la gola in disordine e l’umore bipolare, non avrei potuto garantire un apporto di qualità alla squadra. Meglio starsene dietro, a rifiatare e a guardare le spalle agli altri. In mezzo, stava Damiano. Il buon Volontà, o Volontè, fungeva da collante tra difesa e attacco. Diceva che gli piaceva inventare, creare occasioni per gli attaccanti. La verità è che il ruolo del fantasista gli riusciva alla stessa identica maniera sia con le donne che con il pallone: male. Davanti, c’erano le bocche da fuoco, i nostri Messi e Neymar. Segnavano sempre loro, anche se non si poteva dire che giocassero in modo simile. Infatti, mentre Giulio aveva spesso bisogno degli aiutini, Berny era il prototipo del bomber capace di risolvere da solo una partita. Vederlo in azione era uno spettacolo. La sua eccitazione alle porte dell’ultima notte pareva persino cresciuta rispetto a poche ore prima. Scaldò i motori quando ancora eravamo al Fenals, visto che rimase per quasi mezz’ora a parlare con l’andalusa della reception. Io, Giulio e Volontè lo aspettavamo in strada e, da fuori, scorgevamo solo il gesticolare di lui e gli occhi dolci di lei. «Ma si può sapere che le hai detto in tutto ‘sto tempo?» gli chiesi quando, finalmente, si decise a uscire. «Da quand’è che sai lo spagnolo così bene?» «Infatti non lo so!» strizzò l’occhio. «Però, guarda: mi ha dato il suo numero! Ha detto che finisce il turno a mezzanotte e che, dopo, posso


28 chiamarla se voglio.» Incredibile: anche con quella della reception! Era chiaro che voleva rifarsi della serata precedente, ma a me sembrava un po’ troppo su di giri. Non che l’andalusa fosse brutta, anzi! Ma lui ci provava con tutto ciò che respirava. Ebbi lo stesso sospetto che mi aveva colto durante la sua evangelizzazione pomeridiana in spiaggia. Lo conoscevo da una vita, ma non ricordavo di averlo mai visto così esageratamente assatanato: come se quell’impulso a spingere sempre al massimo sull’acceleratore non fosse del tutto spontaneo; come se il suo Grillo personale, che doveva essere un satiro, portatore sano di priapismo, gli sussurrasse di continuo: «Senzapietà, senzapietà, senzapietà, senzapietà, senzapietà… A Torino ti aspetta il solito trantran e le solite facce… Qui hai di nuovo vent’anni e non ti conosce nessuno e forse non ti ricapita più… È il paradiso della botta e via, non ti puoi far scappare nemmeno un’opportunità, ché poi a Torino ci sono le solite rompicoglioni, con la relazione stabile e le paranoie… Senzapietà, senzapietà, senzapietà, senzapietà, senzapietà.» Che Grillo simpatico, mica come il mio! L’unica spiegazione che potevo dare a questo comportamento era quella più facile, quella più razionale: lui e Vale si erano lasciati da poco e questo gli garantiva una carica in più. Il grande classico del mio amico: dopo la fine di una relazione con una delle sue tante fidanzate, Berny si trasformava in un dongiovanni. «Che devo fare?» si giustificava. «Devo piangermi addosso?» Non aveva il tempo di versare nemmeno una lacrimuccia finta. La sua idea, d’altra parte, era molto semplice. «Ci siamo mollati, giusto? Bene, io sono libero di fare quello che voglio.» Senza aggiungere altro, indossava la sua maglietta numero 9 e si trasformava nel più spietato dei bomber. Così, passavano gli anni, ma i gol e gli applausi rimanevano. Se solo avesse saputo che cosa aveva in serbo per lui il destino… Fino a quel momento, c’era stata solo una persona che aveva saputo rubare qualche fibra del cuore di Berny, l’unica che lo aveva costretto a riflettere sul finale di carriera e sulla possibilità di appendere le scarpette al chiodo: si chiamava Silvia, ma le sue origini milanesi l’avevano resa nota tra di noi come la Silvia. Si erano conosciuti alla mia festa di laurea. Lei frequentava con me il seminario di Relazioni Internazionali e mi


29 aveva aiutato in quella impresa titanica che era stata la scrittura della tesi. Era intelligente, brillante e carica di entusiasmo. Forse, si era impietosita di fronte a me, ragazzo padre, tristemente e abbondantemente fuori corso, che non riusciva a togliersi lo Jansport da studente. E mi aveva concesso la sua generosa assistenza. Assistenza psicologica, oltre che didattica. Per queste ragioni, l’avevo ritenuta degna di candidarla a un ruolo delicatissimo: fidanzata a tempo indeterminato del mio migliore amico. Mi sembrava che lei sarebbe potuta riuscire dove tante altre avevano fallito. E gliela presentai. Certo, non andai da Berny a dirgli: “guarda che questa ti fa mettere la testa a posto!” Sarebbe scappato via, impaurito dalla minaccia. Invece, mi limitai ad avvertirlo: «Ti dico solo che non è come le altre. Trattala bene!» Berny e Silvia erano piuttosto diversi, ma questo non impedì loro di vivere momenti felici. Si presero, si lasciarono, si ripresero, si rilasciarono. Dopo tre anni di tira e molla, finirono per stancarsi. Lei: «Non ce la faccio più. Ho bisogno di una persona più matura.» Lui: «Non ce la faccio più. Sto perdendo i miei anni migliori con ‘sta pazza isterica.» Io, per quanto mi riguarda, non sono mai stato tagliato per il ruolo dell’amico ascoltaeconsiglia. Dunque, non sapendo come consolarli, mi limitavo a suggerire a entrambi la stessa cazzata di circostanza. «Fai quello che ti fa stare meglio.» Lei decise di traslocare fuori città per allontanare la tentazione di un incontro. Berny, reduce dal lunghissimo periodo di monogamia – l’impresa è riuscita solo alla Silvia: segno che ci avevo visto giusto in quella candidatura – tornò in campo. E, lentamente, riacquistò la forma dei tempi migliori. In pochi mesi, fece gol con Monica, con Luisa, con Jolanda e con Vale, la mia ex vicina di casa. A quest’ultima si concesse per ben cinque settimane, tanto da farmi sospettare di aver trovato l’erede della Silvia. Anzi, di averla sempre avuta sotto il naso e di non essermene mai accorto. “Ecco Valeria, futura moglie di Berny e madre dei suoi figli.” Macché. Non appena si concretizzò l’idea del viaggio catalano, il bomber si affrettò a troncare con la mia incolpevole vicina. E dichiarò che avremmo fatto una strage. Era in forma e voleva dimostrarlo a tutti, soprattutto al quarantenne


30 puttaniere, suo compagno d’attacco e unico possibile antagonista per la conquista dello scettro di capocannoniere. Quella sera, camminando per l’Avinguda de la Vila de Blanes e poi per la caotica Just Marlès, notai come Berny stesse sempre una decina di metri davanti a tutti, affiancato di tanto in tanto dai mocassini felpati di Giulio. Mordeva il freno. Più indietro, non appaiati, pascolavamo io e Volontè: eccolo, il famoso 11-2. Giunti sul lungomare, ci buttammo nel bar dei calimochos e, sotto lo sguardo indisposto di Giulio, che non apprezzava i localetti da quattro soldi, ci abbeverammo a dovere. Berny volle concedersi un bicchiere supplementare, tanto per non rischiare di rimanere sobrio. Io gli offrii con piacere anche le ultime gocce del mio calimocho: le spine nella gola si stavano appuntendo e mi era passata la voglia di bere. Fu allora che Berny e Giulio partirono all’attacco, spalleggiati da Volontè. Damiano dispone di un’arma eccezionale: parla tre lingue straniere. Inglese, francese e tedesco non hanno segreti per lui. Il suo problema è che, con le ragazze, proprio non ci sa fare. O, magari, non ci vuole fare. Non so perché, ma, dopo un primo approccio soddisfacente, si tira indietro e non conclude nulla. Anche durante quell’ultima notte, il suo atteggiamento fu contraddittorio: per la strada, prima, e in discoteca, poi, sembrava vivace e intraprendente; poi, si spense di scatto, servendo su un piatto d’argento le sue potenziali conquiste a Giulio e a Berny. Niente da fare. Volontè è il tipico esempio di come, nel calcio come con le donne, non ci sia cosa peggiore del talento sprecato. Pare uno di quei giocatori, tutto genio e sregolatezza, che si perdono per strada. Colpa di alcol e droghe? Forse. Ricordo di averlo visto ancora brillante all’ingresso del Colossos. Poi, dentro la discoteca, dopo essermi ritrovato solo con la mia stanchezza, lo sorpresi appoggiato a un muro, con lo sguardo rubato dal vuoto. Rivederlo non fu un gran sollievo: il suo silenzio catalettico, infatti, amplificò il mio malessere. Le fiamme in gola mi stavano sicuramente disegnando qualche linea di febbre. “Non avevo più il fisico”: parole sante, quelle di Berny!


31 Beato lui, che si divertiva. Ero rimasto a ballare insieme al bomber per circa mezz’ora, spostandomi da una parte all’altra del Colossos come una pallina in un flipper psichedelico. Non eravamo impazziti: seguivamo il profumo dell’occasione propizia. O meglio: lui seguiva il profumo dell’occasione propizia, trascinando quasi per mano il difensore svogliato. Berny si tuffava sui fianchi di una, le faceva in pochi secondi uno scanning fisico e comportamentale – ha sempre sostenuto che, in discoteca, prima dei culi bisogna studiare gli atteggiamenti e le movenze – e, in caso di responso negativo, si buttava su un’altra. Quando finì per rubare dei baci a un paio di napoletane che giocavano a fare le lesbiche, io mi decisi a dare forfait: senza dirgli una parola, mi defilai. In quella situazione, in effetti, potevo essere solo un peso per lui. Mi trovai in compagnia del mio umore sempre meno bipolare e sempre più indirizzato verso l’estremo dell’apatia. Non ho mai amato le discoteche, soprattutto quei giganteschi macelli dove la musica, oltre a non contare niente, è pure brutta. Certo, a vent’anni le sopportavo di più. Poi, col passare del tempo, il mio livello di resistenza è andato assottigliandosi. Per questo, rimasi deluso quando mi resi conto che il ritrovamento di Volonté non mi avrebbe procurato alcun beneficio. Anzi… Mi feci versare una birra da un barista sordo e affiancai il mio amico sul muro dei disperati. Ne assunsi l’espressione ebete, ma, al contrario di lui, cercai di non staccare la spina dalla presa del cervello. Da quella posizione, scorgevo uno squarcio di luce proveniente dal vicino ingresso. Oltre al viavai di chi entrava e di chi se ne andava, sotto i miei occhi capitavano in continuazione i provvisori fuoriusciti dalla bolgia: venivano là, nell’anticamera dell’inferno, per prendere un po’ d’aria, per fumare una sigaretta o perché era l’unico posto in cui si potesse parlare senza sputarsi nei timpani. Poi, si rituffavano nella buia tempesta di decibel. Davanti a quella processione, mi sentii strano. Mi sentii un po’… vecchio. Era la prima volta in tutta la vacanza. Era la prima volta in tutta la vita. Per rendersi conto che l’età media degli abitanti estivi di Lloret fosse piuttosto bassa, non era necessario verificarlo sul campo. Lo sapevo già prima di arrivare in città.


32 Eppure, fino a quel momento, avevo evitato di fronteggiare l’argomento. Non giravo per le strade bendato. Semplicemente, avevo provato a non pensarci. “D’altra parte, mica ci sono trent’anni di differenza.” Vero. Con un po’ di buona volontà, si poteva vivere benissimo in quell’universo post-adolescenziale: Berny pareva riuscirci alla grande e, come lui, ne avevo visti tanti. Anche Giulio, che non amava certo i drink low-cost, i fast-food e la puzza di vomito nei locali, si era ambientato senza tanti problemi. Dopo Barcellona, Cadaqués e Tossa de Mar, credevo che la quarta tappa catalana, quella per ragazzini, gli avrebbe creato qualche disagio. Invece, no: in quei tre giorni, aveva messo da parte un po’ della sua spocchia e si era goduto ogni momento. A Lloret, dopo alcune ore da pesce fuor d’acqua, si era rimboccato le maniche e aveva portato a termine tranquillamente la propria opera di ringiovanimento. Tra le altre cose, laggiù, un quasi quarantenne si trova a muoversi in un mondo pieno addirittura di potenziali figlioletti. Molti sarebbero scappati; lui ci aveva scherzato sopra, con uno dei suoi grugniti. «Tranquilli. Mi piace la carne giovane!» Mah… Fu proprio il suo fantasma a ridestare me e Volontè, mentre stavamo per addormentarci sul muro dei disperati. Dopo un lungo mutismo, ci guardammo, interrogandoci l’un l’altro. «A proposito… ma dov’è Giulio? Tu l’hai visto?»


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6. I VIZI DI GIULIO: SESSO, BUGIE E...

In commissariato: là era finita l’ultima notte di Giulio. Quando ce lo disse, la mattina dopo, pensai a uno scherzo. Lo mandai distrattamente a fare in culo e mi lasciai sommergere dal fiume di parole di Berny, che doveva aggiornarmi sulla doppietta messa a segno con le finte lesbiche napoletane, capaci di fargli dimenticare anche il possibile appuntamento con l’andalusa dell’albergo. Io e Volontè avevamo lasciato il Colossos come due bambini senza giocattoli la notte di Natale. Tristi e assonnati, ci eravamo trascinati nella nostra 108 e avevamo perso conoscenza fino al ritorno del bomber, intorno a mezzogiorno. Il racconto di Berny mi intrattenne fino a sera. Quando uscii dalla colorata galleria delle sue imprese, mi accorsi di essere sulla scaletta dell’aereo per Torino. Ero stanco, ma stavo bene. Il mal di gola mi concedeva una tregua. Sopra di me, il cielo striato d’arancione esibiva una luna tonda e ammaliante. La nota di tristezza nelle orecchie fu subito zittita dalla voce gracchiante del pilota, che ci accoglieva a bordo in una lingua tutta sua. Come sempre, mi accomodai in un posto accanto al finestrino. Non c’è scelta, per me: sarei capace di scendere se qualcuno mi impedisse di occupare il posto accanto al finestrino. Al momento della prenotazione, se la compagnia aerea me lo permette, scelgo sempre di stare vicino alle nuvole e lontano dalle hostess. Non so bene perché, ma quello deve essere il mio sedile. Credo che sia una specie di rito o, più probabilmente, mi tranquillizza l’idea di poter controllare, in ogni istante del viaggio, ciò che sfila sotto di me. È come se sentissi di avere la situazione sotto controllo, più delle hostess, più dei piloti, più di Dio. Così, se dovesse accadere una disgrazia, o solo qualcosa di pre-catastrofico, sarei il primo ad accorgermene. Niente posto vicino all’oblò? Bene, io scendo. Oppure vi sorbite tutta la mia crisi isterica, con possibile sconfinamento nell’attacco di panico. Non lo nego: può sembrare un atteggiamento ridicolo, a metà tra lo


34 stupido e il capriccioso; tuttavia, è l’unico modo che ho trovato per non prendere più i sonniferi dei miei primi voli. Quella volta, mi sistemai in prossimità dell’ala. Mentre ne studiavo il profilo, mi sentii assalito da tutta la stanchezza accumulata. Stavo per sprofondare su me stesso, quando una manata investì la mia spalla sinistra. «Ehi! La prossima volta prendiamo la business!» Addio sonno! Molte grazie, caro Giulio! Provai a sbadigliargli sul naso, ma lui non capì. E continuò con le sue considerazioni sulla scomodità del nostro aereo. Decollo. Il mio torpore fu definitivamente sconfitto da quel pizzico di adrenalina iniettata dal distacco da terra. Ne approfittai per dare un’occhiata alla Gazzetta dello Sport, che Berny aveva comprato in aeroporto. Niente. Non c’era nulla da fare: Giulio si era messo in testa di tormentarmi, impedendomi anche di leggere. «Hai pippato?» gli chiesi, infastidito dalla sua sincopata logorrea. «No, oggi no!» ghignò in modo infantile. «Per ora, no. Ieri notte mi è bastata.» «Perché?» «Ma sì. Mi sono fatto un paio di strisce, sulla spiaggia. Per fortuna che i poliziotti non se ne sono accorti.» I poliziotti? La storia del commissariato mi era passata di mente. Ero così sicuro che fosse una delle sue tante palle, che non gli avevo dato nessun peso. Decisi di farmela raccontare nei dettagli: se non mi faceva né leggere né dormire, almeno mi avrebbe allietato il viaggio con una bella favoletta. «Perché, capisci, io non ci sono manco entrato al Colossos. Troppa puzza… Ti dico la verità: ero proprio stanco ieri sera. Capisci?» «Capisco.» «Niente… Mi ferma questa. Avrà avuto sì e no vent’anni. Era tedesca e… molto ubriaca. Capisci? Io un po’ me la cavo con il tedesco. Mi ricordo ancora quel bordello a Dusseldorf. Mamma mia! Vabbè, non divaghiamo.» «Non divaghiamo.» «Niente… È stata lei a chiedermi di andare a bere qualcosa. Io me la tiro un po’… ma poi accetto e finiamo sulla spiaggia. C’è un tipo che sta armeggiando con una barca a remi. Un pescatore, forse. Allora penso a


35 un bel giro in barca.» «Un giro in barca?» «Sì, sì. Mi piaceva l’idea del mare di notte. Questo fa un po’ di storie in una lingua strana… sarà stato catalano. Alla fine, gli allungo cento euro e lui accetta di farci fare un giretto breve. Neanche mezz’ora è durato. Poi, torniamo in spiaggia. Lei mi ringrazia per la bella idea e… niente, ci appartiamo. Beh, io mi rendo conto che inizio a essere un po’ stanco. E allora, bam! Giù con l’aiutino!» «L’aiutino…» «Sì, insomma, il cialis. Non so se ce l’avrei fatta a fare… capisci? E questa, poi, non era proprio una dea. Cioè, sì, di corpo niente da dire. Però, la faccia… da rivedere! Poi, niente… Mi fa effetto abbastanza in fretta. Mentre parliamo, mi accorgo che c’ho ‘sto coso di marmo… vabbè, forse ho esagerato con la dose. E allora, via! Le salto addosso e la apro in due. Tipo una laparoscopia! Boh… te la faccio breve.» «Fammela breve.» «Quando finiamo, questa si accorge che… le hanno fregato la borsa. Capisci? Lei aveva messo la borsa vicino a noi. Si alza e non la trova più. Meno male che io non mi sono levato i pantaloni. Per il portafoglio, dico. Niente… Lei ovviamente si è presa malissimo. Io l’ho tranquillizzata un po’. E abbiamo deciso di andare subito dalla Guardia Civil a fare denuncia. Non ti dico, che palle! E poi io… ce l’avevo ancora duro, di marmo. Ti immagini, che figura di merda? Il poliziotto mi guardava e rideva.» «Ehi, Giulio!» intervenne Volontè dalla fila dietro la nostra. «Ma gli sbirri non ti hanno arrestato per pedofilia?» Lui, la storiella, l’aveva già sentita, ma non smetteva di ridere. «Guarda che non era minorenne, te l’ho già detto.» Giulio fu contagiato dall’ilarità. «Niente» riprese a raccontarmi «ti dicevo… Ottocento domande in spagnolo. E questa non capiva un cazzo. Ahahah! Le ho fatto un po’ da traduttore. E poi era disperata perché nella borsa aveva un I-Phone nuovo nuovo. Ahahah! Che sfiga! Diceva che se la chiamava il ragazzo e non rispondeva nessuno, quello si suicidava. Ahahaha! Faceva bene! Con una fidanzata così troia…» I viscidi muggiti di Giulio mi infastidivano sempre di più. Il raccontino divertiva soltanto lui. «Pensa un po’» chiosai, cercando di dare a quelle parole un falso tono di stupore.


36 In realtà, c’era poco da stupirsi. La storia di Giulio mi sembrava il frutto della sua fervida immaginazione e, anche se ben confezionata, non era riuscita affatto a consolarmi per la Gazzetta accantonata e per il sonno perduto. Secondo lui, me la sarei dovuta bere così, come il più innocuo dei chupitos. Figurarsi. Nel suo romanzetto solo il capitolo del cialis e del coso di marmo erano verosimili. Con qualche sforzo potevo anche arrivare a credere all’interessantissimo passaggio della tedeschina ubriaca che attacca bottone e all’intrigantissimo momento del furto sulla spiaggia. Poi, basta. La mia fantasia, per quanto caritatevole, non era in grado di andare oltre. Lui che se la tira di fronte a una femmina? Il poliziotto spagnolo che si fa grasse risate della sua erezione chimica? Ma non scherziamo! Il giro in barca? Non sapevo che Giulio fosse anche romantico. La povera ragazza accompagnata alla Guardia Civil, con tanto di sostegno psicologico e linguistico? Un impeto di generosità davvero insolito. In più, a me risultava che di spagnolo lui sapesse le classiche quattro parole in croce. Suvvia! Non lo conoscevo più bene come un tempo, ma una cosa che Giulio non aveva perso era il vizio di raccontare palle; delle colossali, monumentali palle. Ancora ricordo la più clamorosa, quando mi rotolò addosso un giorno di tanti anni fa. Mi sembra ieri. Io e Berny, all’uscita della scuola – eravamo in terza media – ce lo trovammo di fronte a bordo dell’Alfa Spider del padre, contento come una Pasqua perché andava a recitare in un film. … inizio di dicembre del ‘94; è un lunedì. Fa un freddo cane. Appena fuori da scuola, Berny mi chiede di lanciargli la pallina di carta che abbiamo confezionato nell’ultima ora di lezione. Una, due, tre, quattro volte. Io dico che mi sto rompendo e che voglio andare a mangiare. Lui insiste. Dice che vuole provare a colpire la palla come ha fatto quel giocatore, il giorno prima: al volo, in corsa, di esterno destro, facendole scavalcare il bidone della spazzatura. Dopo qualche tentativo, ce la fa.


37 Io mi complimento e, prendendolo per il culo, gli dico che anche lui, da grande, segnerà in quel modo al portiere della Fiorentina, all’ultimo minuto, portando a una vittoria insperata la sua squadra; che ha già recuperato due gol di svantaggio. Quando ho finito con Berny, spunta il rombante Giulio. Vorrei sfotterlo un po’ perché il suo Toro ha solo pareggiato, ma lui mi anticipa con degli strani saluti … «Passavo di qua… Domani parto!» aveva gongolato. «Vado a Lione.» Raccontò che, durante il solito weekend in montagna, era stato avvicinato da un regista francese piuttosto famoso e che costui se n’era uscito con la fulminante proposta. «Mi ha detto che la mia faccia è quella che cerca. Che sono perfetto per la parte del rapitore. E mi ha chiesto se sono disponibile a passare un paio di settimane a Lione. Per le riprese, sai…» Naturalmente, aveva accettato. Non so come fosse riuscito a convincere i suoi, ma quelli gli avevano anche sganciato tutti i soldi necessari per la trasferta cinematografica: treno, albergo, vitto, spese varie ed eventuali. «Ci vediamo! Saluta la mamma!» Tutto bene, tutto perfetto. Era tornato a Torino quindici giorni dopo. Il film? «Ah non lo so quando sarà finito. Però uscirà solo in Francia.» L’esperienza da attore? «Niente di che… Pensavo di fare una parte più importante. Però è stato figo. Bella, Lione! Ecco, guarda ‘sta foto: qui sono in albergo con i ragazzi della troupe.» La vicenda era piombata nel dimenticatoio. Poi, tempo dopo, lui stesso mi rivelò qualche particolare in più. Seppi così che il celebre cineasta francese si chiamava in realtà Marine, che studiava al Lycée du Parc di Lione e che c’era stata una tresca nel corso del fine settimana in montagna. Seppi anche che lei aveva una casa grandissima, che l’aveva ospitato, che se l’erano spassata, che avevano organizzato un paio di feste, che il suo gatto si chiamava Yaya, che i genitori di Marine mangiavano un sacco di Camembert, che non l’aveva più rivista e che aveva risparmiato i soldi per l’albergo, spacciandoli per il suo salario da attore. Erano tempi in cui la mia faccia al Topexan si riempiva di meraviglia dinanzi a imprese così esotiche. Tuttavia, appena fatto il mio ingresso nell’età da tresca, quella strana ammirazione verso Giulio si convertì in invidia: io, tresche del genere, non le vedevo neanche con il binocolo.


38 Fu da lì che cominciò il distacco. Io e le mie perturbazioni adolescenziali imboccammo la strada del Liceo e dei nuovi amici alternativi grungepunk; lui e le sue cazzate trovarono dimora alla Facoltà di Medicina, dove furono contagiati dal cinismo di colleghi fighetti, pronti ad accomodarsi sulla poltrona di papà. Non so quanto le storielle siano state importanti per il suo successo professionale. Di sicuro, sono state decisive nel suo insuccesso sentimentale. Delle tante donne che dice di aver avuto, non ce n’è una che non lo abbia mollato. E, almeno in questo, non ho mai fatto fatica a credergli: se aveva infinocchiato papà e mamma, poteva fare lo stesso con le sue fidanzate. Certo, se magari a diciotto anni qualche bugia ti viene perdonata, a trentasette capita che la gente si stanchi. A me, per esempio, stava succedendo questo. L’ammirazione preadolescenziale verso l’ometto fatto e finito, sicuro di sé e del suo dopobarba Hugo Boss era rimasta fuori dalla scuola; vent’anni dopo, sull’aereo che mi riportava in Italia, il quarantenne puttaniere riusciva solo a fare il tiro alla fune con i miei nervi: da una parte, gli strattoni della sua menzognera supponenza; dall’altra, quella specie di riconoscenza stupida che mi portavo appresso da una settimana. Quando sembrava che la prima stesse per avere la meglio, aprendo così la diga dei vaffanculo, ecco che la seconda tirava quel tanto che bastava per riequilibrare le cose. Insomma, mi infastidiva parecchio il ginecologo ben pettinato. E non l’avrei immaginato. In effetti, da quando un paio di anni prima le nostre strade si erano di nuovo incrociate, l’avevo frequentato solo per le partite a calcetto e per qualche serata con quei coglioni dei suoi amici. Il peggioramento del personaggio mi era sembrato sensibile, ma tollerabile. Invece, dovendo conviverci ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, capii che mi ero sbagliato: se a Barcellona la mia sopportazione era stata in codice bianco, già a Cadaqués aveva virato sul verde, finendo per passare a un irreversibile codice rosso nei giorni di Lloret. Qualche volta, durante quella settimana, avrei voluto insultarlo o almeno dirgli che il suo atteggiamento non mi piaceva affatto. Ma non c’era verso di farmi uscire le parole. Il massimo della cattiveria che potevo manifestare? Un sorrisino stizzito


39 senza denti o un “ti sei drogato?�. E tutto per quel prestito di merda. Fine anteprima. Continua...


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