STEFANIA TRAPANI
ALLA FINE DEI SOGNI
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ALLA FINE DEI SOGNI Copyright Š 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-576-2 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Luglio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
A Michela, mia dolce metĂ del cielo.
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Ad agosto, come sempre, Milano è una città invivibile. In quei giorni poi, la situazione appariva ancora più drammatica; le temperature erano arrivate a sfiorare punte tanto elevate che neanche le brevi escursioni notturne riuscivano a riportarle a livelli accettabili, e l’afa era così soffocante da rendere i supermercati l’unica fonte di ristoro plausibile. Così anche quel pomeriggio, subito dopo il lavoro, Silvia si recò in una di quelle piccole oasi sotto casa con la scusa di dover prendere le ultime due cose per cena, dilungandosi tra scompartimenti inutili, privilegiando quelli dei surgelati. Proprio mentre temporeggiava al banco delle verdure, fingendo di dover scegliere l’insalata più fresca, incrociò uno sguardo assai familiare; quello di Anna, la madre di Michela. Si sentì così fortunata per quell’incontro! Da qualche ora, infatti, non aveva in mente altri che lei. Da alcuni giorni non riusciva a contattare sua figlia e iniziava ad avvertire una lieve inquietudine; non era da lei tenere il telefono spento così a lungo. Da un lato sentiva di doverla capire; dopo tutto ciò che le era capitato quell’anno, era forse normale volersi staccare completamente dalla quotidianità. Aveva terminato le terapie da poco più di una settimana e finalmente le avevano permesso di andare al mare con la sua bambina. «Anna!» esultò Silvia, incredula. «Anna, tutto bene?» tornò a ripeterle, non avendo ricevuto alcuna
6 risposta da parte della donna che, a guardarla bene, pareva in un mondo tutto suo. Dovette toccarle un braccio per farsi notare. Solo a quel punto la donna parve riprendersi, ed ebbe un sussulto. «Cosa succede?» le chiese Silvia, preoccupata. «Ti prego, parla…» la implorò. «La mia bambina…» sospirò la donna sciogliendosi in un pianto. Silvia non l’aveva mai vista in quello stato, nemmeno quando, nove mesi prima, avevano diagnosticato a Michela il tumore al seno; anzi, quella volta aveva reagito come una leonessa. “Sono cose che accadono!” aveva tuonato, incoraggiando le ragazze ma soprattutto se stessa. “É successo a diverse mie conoscenti e se la sono cavata tutte. Basta andare nei posti giusti. Sarebbe stato meglio che non capitasse, certo… ma sappiamo bene che noi, quanto a sfortune, non ci facciamo mancare mai niente!” Anna aveva reagito benissimo quella volta. Per questo quelle lacrime gettarono Silvia nel panico. «Ha avuto una ricaduta» continuò la donna con un filo di voce. «Una ricaduta?» chiese Silvia «come sarebbe a dire, una ricaduta?!» Quella parola iniziò a rimbombarle nella testa. «Ma non è possibile! Ha appena finito le terapie! Non è possibile!» cominciò a ripetere ossessivamente la ragazza alzando sempre più il tono della voce. Ma appena si accorse che con quel fare concitato stava attirando l’attenzione dei passanti, provò a ricomporsi e continuò sottovoce. «Dimmi tutto!» supplicò, fingendo di sorridere ai curiosi che iniziavano ad avvicinarsi un po’ troppo, intimando loro con uno sguardo non proprio amichevole di mantenere una certa distanza. Anna inspirò profondamente.
7 «Da qualche giorno aveva dei forti mal di testa.» «Prima di partire me ne aveva parlato ma, insomma, mi sembravano abbastanza normali. Chi non soffre di emicranie oggi giorno? Ma cosa c’entra questo?» la incalzò Silvia, impaziente di andare al dunque. «Così mia sorella Giulia, per scrupolo, l’ha convinta ad andare a fare un controllo. A lei quei mal di testa non sembravano affatto normali; gettavano Michela in uno stato di torpore. Sembrava che non udisse più le nostre voci, a parte quella di Gaia, che sentiva forse fin troppo bene. Diceva di non sopportarla… non sopportava gli strilli di sua figlia, capisci? Diceva che quegli acuti le trapanavano il cervello. Così zia Giulia, con la sua dolcezza e i suoi modi persuasivi, l’ha convinta a farsi vedere. Sono andate nell’ospedale in cui è in cura, le hanno fatto una tac d’urgenza e… hanno trovato qualcosa… alla testa.» «Qualcosa cosa? Ma poi alla testa? Ma come alla testa?» chiese Silvia, sentendosi improvvisamente assalire dalla nausea. «Questo è ciò che ci hanno detto i medici, non sappiamo nient’altro…» disse Anna, tentando di trattenere l’imbarazzante tremito del mento. «Non può essere» sospirò Silvia scuotendo la testa. «L’hanno ricoverata due giorni fa. Le stanno facendo tutti gli accertamenti del caso… speriamo non sia di nuovo lui» aggiunse Anna sconsolata. A Silvia iniziarono a fischiare le orecchie. «Ma se l’hanno imbottita di chemioterapia! Il tumore non può essersi ripresentato, insomma, non così presto!» continuò la ragazza, cercando di controllare il volume della voce per non attirare nuovamente l’attenzione dei curiosi; in quel momento non avrebbe tollerato l’intromissione di nessuno, nemmeno della più rimbambita delle vecchiette.
8 «Spero tu abbia ragione, Silvia» riprese Anna, vagamente rincuorata da quelle parole. Il ragionamento della ragazza, in effetti, non faceva una piega. «Silvia?» tornò a chiamarla. Ma alla ragazza, oltre alla nausea e al fischio alle orecchie, iniziò a girare sempre più velocemente la testa; ebbe freddo alle mani. «Devo sedermi» biascicò, prima di accasciarsi sul banco dell’insalata. Quando riaprì gli occhi si ritrovò sdraiata sul pavimento, attorniata dai curiosi che aveva evitato qualche istante prima, con una cassiera che a fatica le teneva sollevate le gambe. «Non è nulla» disse imbarazzata. Odiava svenire in mezzo alla gente. Provò a mettersi seduta, ma non ci riuscì. Qualche istante dopo arrivarono i soccorritori con le loro vistose divise arancioni. «Stia tranquilla, adesso ci siamo noi.» «Non ho bisogno di nessuno!» disse stizzita «sto bene, davvero. É stato solo uno stupido giramento di testa.» Le provarono la pressione ed era veramente bassa. «Non possiamo lasciarla qui. Per favore, venga con noi…» e glielo chiesero con una tale gentilezza che non poté dire di no. «Anna, ti prego, non dire nulla a mia madre» la scongiurò Silvia. «Non ti preoccupare» la rassicurò la donna, strizzandole l’occhio. «Vuoi che ti accompagni in ospedale?» «Ti ringrazio ma non ce n’è bisogno. Davvero, è una stupidata. Mi capita spesso di svenire, d’estate. Tua figlia lo sa benissimo!» Sorrise ripensando a quante volte le era capitato di sentirsi male in sua presenza. Per questo Michela girava sempre con delle liquirizie in borsa. Ogni volta che la vedeva impallidire, in qualunque luogo si trovassero, la costringeva a sedersi, se non
9 addirittura a sdraiarsi; le infilava in bocca una manciata di quelle caramelline nere e le proibiva di muoversi finché non le avesse deglutite interamente. In effetti, nella maggior parte dei casi quella sua tecnica si era rivelata efficace; le aveva evitato di svenire infinite volte. «Ti chiamo stasera, Anna.» «Ciao Silvia. Non farmi preoccupare anche tu.» La baciò sulla fronte e lasciò che i soccorritori la portassero via.
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In pochi minuti Silvia si ritrovò all’interno di un’ambulanza. Era la prima volta che ne vedeva una da tanto vicino. «Speriamo sia l’ultima» bofonchiò. Non era molto preoccupata per lo svenimento, tra il caldo e quella notizia sarebbe svenuto chiunque. «Maledizione! É troppo presto per una ricaduta. E poi che significa una ricaduta? Alla testa! Come può dal seno spostarsi alla testa? Ci sono altri organi prima! No, non può essere… hanno sbagliato di certo. Maledetti medici, appena hanno un dubbio già prevedono il peggio. Tanto cosa vuoi che gliene importi di noi? Se sbagliano ti chiedono scusa e per loro finisce lì. Non si rendono conto che intanto noi, in quel frangente, abbiamo perso dieci anni di vita. Per loro non siamo altro che numeri. Medici! Maledetti medici!» borbottava tra sé e sé. «Ha detto qualcosa?» chiese il soccorritore. «Sì. Dove mi portate?» «Andiamo al San Raffaele.» «Non potreste accompagnarmi all’Humanitas?» chiese addolcendo un po’ il tono della voce, sperando in quel modo di persuaderli ad accompagnarla nell’ospedale in cui era ricoverata Michela. Almeno sarebbe andata a trovarla, e tutta quella situazione avrebbe avuto un senso. «Purtroppo abbiamo disposizioni di portarla nell’ospedale libero più vicino. Guardi, siamo già arrivati.» Infatti qualche istante dopo l’ambulanza si fermò e aprirono il
11 portellone. Silvia volle scendere sulle proprie gambe, per evidenziare il fatto che l’avessero portata lì per niente. La fecero accomodare in una sala d’attesa e poco dopo venne visitata. «Cosa le è successo?» chiese gentilmente il medico di turno al pronto soccorso. «Sono svenuta al supermercato.» «Le è già capitato prima d’ora?» «Mi succede quasi sempre, d’estate.» Le stavano solo facendo perdere tempo. «Ha mai fatto degli accertamenti a seguito dei suoi svenimenti?» «Certo che no!» rispose la ragazza «cosa vuole che sia…» «Non è proprio normale, né salutare, svenire di tanto in tanto, sa? Ad esempio a me non è mai accaduto. Comunque per il momento le faremo un prelievo del sangue, per verificare che i valori siano nei limiti; le misureremo la pressione e poi, se lo riterremo opportuno, le faremo un elettrocardiogramma.» Così Silvia si rassegnò a trascorrere in quell’orribile pronto soccorso la restante parte di quella giornata torrida. «Ma sì, almeno sto al fresco…» provò a consolarsi. «La pressione va abbastanza bene. Tra un’oretta le daremo gli esiti del prelievo e decideremo il da farsi. Intanto può accomodarsi in sala d’attesa; la chiameremo noi.» Pochi istanti dopo le squillò il telefono. Era Diamante. «Signorina, siamo in un ospedale se non se n’è accorta! Il telefono va tenuto spento!» la ammonì un’infermiera, dall’altro lato della sala. «Sì, mi scusi» disse ad alta voce, mandandola mentalmente al diavolo. Poi si appartò e rispose.
12 «Ciao mamma. Sì, tutto bene.» «Perché parli a bassa voce?» chiese sospettosa Diamante. «Ehm… sono in gelateria con Paola.» «Fa caldo?» «Secondo te?» «Qui si sta così bene! Ma perché non vieni a trascorrere le vacanze in montagna?» «Piuttosto che passare le mie ferie con voi mi sparo!» rispose seccamente la ragazza. «Sei più simpatica del solito…» disse sua madre indispettita. «Ma ti pare che una, a ventinove anni, va in vacanza coi genitori? Ma poi in quel paesino di anziani! Dai mamma, come puoi non capire?» ribatté Silvia. «Non sai cosa ti perdi!» tuonò sua madre, offesa dalla risposta scortese della figlia. «Comunque se hai voglia di sentirmi chiamami tu. Io non ti chiamo più» e mise giù la cornetta. «Ci mancava solo lei» sospirò Silvia. Le cose in quel periodo non le andavano affatto bene. A parte la tragedia del cancro che aveva travolto la sua più cara nonché unica amica, che già da sola sarebbe bastata a rendere quell’anno il più atroce della sua intera esistenza. Ma era stata anche mollata, da poco più di un mese, dall’uomo con cui avrebbe voluto trascorrere il resto dei suoi giorni. Aveva conosciuto Giorgio esattamente un anno prima, e quell’incontro era coinciso con un momento molto particolare per lei. Da qualche tempo, infatti, Silvia iniziava ad avere dei pensieri strani. Cominciò ad avvertire il bisogno di fermarsi. Si sentì improvvisamente stanca di dover uscire tutte le sere, di trascorrere le sue notti in locali popolati da gente così diversa da
13 lei… fino a qualche tempo prima trovava perfino divertenti certe persone, il cui pensiero principale era quello di vestirsi alla moda o frequentare i locali più in voga della città. Riuscivano a indebitarsi pur di avere un certo oggetto griffato! Ma a un certo punto iniziò a non sopportarle più. Quell’incontro perpetuo con gente sempre nuova iniziò, d’un tratto, a pesarle. Anziché arricchirla, quegli incontri la svuotavano. Forse perché a livello molto superficiale le davano come l’impressione di conoscere molta gente, ma poi in realtà non conosceva veramente nessuno. Ragazze allegre, incredibilmente spensierate, o bei ragazzi con cui capitava di passarci la notte e la sera dopo non salutare neppure. Si era decisamente stancata di quella vita. Iniziò così ad avvertire il desiderio di condividere la sua quotidianità con una persona seria, di mettere su famiglia. Quando le capitava di incontrare una donna incinta, ad esempio, non provava più l’abituale brivido di terrore che normalmente le rimaneva dentro per giorni, ma iniziava a provare un’imbarazzante sensazione sempre più simile all’invidia. Iniziò cioè a sentire il desiderio di trovarsi in quegli strani panni, con la consapevolezza che non sarebbe stata una cosa semplice, né scontata. Non era ancora arrivata al punto di sciogliersi al cospetto di un neonato, ma sentiva che quel momento non era più così lontano. Non aveva mai conosciuto, prima di allora, quel bisogno di stabilità, quel desiderio di focolare domestico, e il fatto che un tale cambiamento di prospettive fosse coinciso con quell’incontro le era parso un palese segno del destino. Era sempre stata convinta, infatti, che la vita le indicasse la strada, che nulla accadesse per caso, e anche in quell’occasione ne ebbe una conferma.
14 Giorgio, poi, era la perfetta incarnazione del suo uomo ideale. Innanzitutto aveva l’età giusta. Non era più piccolo, cosa che lei non avrebbe mai potuto accettare (sebbene non conoscesse il motivo di quel limite) e non era nemmeno troppo grande. Era senza dubbio un bell’uomo, anche se la sua era una bellezza discreta, di quelle che si svelano piano piano. Non aveva nulla a che vedere con quei bellocci appariscenti che le capitava sempre più spesso di incontrare, vanitosi peggio delle donne, così poco sensuali! Giorgio era quel tipo d’uomo che noti solo se ti ci fermi a parlare; alto, coi capelli scuri e una pelle chiara, mai stata baciata dal sole o da una lampada abbronzante, con un profilo importante e la fronte spaziosa. Un uomo la cui sola presenza riusciva a infonderle quella serenità che le era sempre mancata, con quel suo fare pacato e allo stesso tempo deciso, con l’infinita intelligenza che permeava ogni suo gesto. Infatti Giorgio era l’uomo più intelligente che Silvia avesse mai incontrato. Gli si poteva parlare di tutto senza metterlo mai a disagio o trovarlo impreparato. Silvia adorava sentirlo parlare, anche perché lui tendenzialmente preferiva ascoltare, e quando parlava diceva solo cose sensate. Aveva un’enorme cultura, Giorgio, che non ostentava in alcun modo, ma che anzi cercava di mascherare, per non mettere a disagio i suoi interlocutori. Era un uomo umile e questo lo rendeva davvero eccezionale agli occhi di Silvia, secondo cui era proprio quella la caratteristica delle persone veramente grandi: i geni. Era così diverso dai suoi coetanei… un uomo saggio nonostante i suoi trentadue anni, un essere in pace con se stesso e col mondo; l’esatto opposto di Silvia, che mai come in quel periodo era in preda a dei conflitti interiori devastanti. La gentilezza, ovviamente, era una dote che non poteva mancargli.
15 Chiunque volesse avvicinarsi a Silvia doveva necessariamente essere una persona gentile, infatti ogni persona che aveva intorno, amici, parenti, conoscenti, erano senza dubbio persone gentili. Le altre le evitava come la peste. Ma anche in quel caso Giorgio si distingueva. La sua era una gentilezza del tutto eccezionale, che non si limitava semplicemente ai modi, come nella maggior parte dei casi, ma si estendeva a tutto il suo modo di essere. Ogni sua parola, ogni suo pensiero era completamente intriso di gentilezza. Tutto ciò poneva Giorgio in cima alla montagna dei suoi sogni, luogo in cui aveva vissuto fino ad allora, e che, nel momento esatto in cui Silvia aveva iniziato ad avvertirne il bisogno, si era materializzato in quell’uomo. Un miracolo! Per questo le crollò il mondo addosso quando lui, con tutta la dolcezza che aveva, le aveva detto di non essere più sicuro dei suoi sentimenti. Le voleva un bene immenso, ma iniziava a temere che quel suo sentimento, che era di certo una purissima forma d’amore, non potesse legarlo a lei per tutta la vita. Non si sentì pronto per il grande salto, e quando Silvia gli chiese di andare a vivere insieme, ritenendolo un passaggio del tutto naturale, soprattutto alla loro età, Giorgio preferì interrompere quella relazione. Fu un’enorme prova della sua correttezza e sensibilità, poiché Giorgio con Silvia ci stava bene e quella separazione provocò molta sofferenza anche in lui. Per questo motivo lei non riuscì nemmeno a odiarlo. Come avrebbe potuto sentirsi ferita o offesa, da tanta onestà? Ciò nonostante, la fine di quella storia l’aveva gettata in un profondo sconforto. Era davvero unico, Giorgio. Non avrebbe mai più incontrato un uomo così, ne era certa.
16 Non poté nemmeno sfogare quella disperazione con la sua Michela, che era già tanto disperata di suo. Quella fu la vera tragedia. Squillò nuovamente il telefono, e come ogni volta che sentiva quel suono, la speranza che fosse lui a chiamarla le regalava un pizzico di felicità, che poi sfumava puntualmente l’istante dopo. «Ah, sei tu» disse demoralizzata. «Chi credevi che fossi?» rispose Andrea dall’altro lato del telefono. «Speravi di sentire i violini?» continuò indispettito, alludendo alla passione di Giorgio per quello strumento. «Taglia corto, che vuoi?» ma si pentì subito di aver usato quel tono gelido anche con lui. «Scusami Andrea, è che ho avuto una giornata difficile» provò a ritrattare. «Che novità…» la interruppe lui ironicamente. «Sono in ospedale. Ho avuto uno svenimento al supermercato sotto casa.» «Oh, mi dispiace. In che ospedale sei?» chiese preoccupato. «Non provare a venire!» «Ma chi ti dice che io voglia farlo?» rispose il ragazzo, stizzito. Silvia si sentì una stupida. Era ancora convinta di essere al centro della vita di quell’uomo, solo perché era sempre molto premuroso con lei. «Sono al San Raffaele.» L’infermiera intanto la invitò a entrare in ambulatorio, guardandola di sbieco. «Le avevo chiesto di tenere il telefono spento» ringhiò, indicandole la sedia. «Devo salutarti, mi hanno chiamata. Ti chiamo appena esco.»
17 Dopo qualche istante entrò il medico, con un referto in mano e uno strano sorriso sul volto. «Dunque?» chiese Silvia, incuriosita da quel fare allegro. «Congratulazioni!» le disse l’uomo, sfoderando il suo miglior sorriso. «Congratula-che?» chiese Silvia, non capendo a cosa alludesse. «Quindi non lo sa?» «Cosa-dovrei-sapere?» chiese la ragazza iniziandosi a innervosire. «Signora cara, lei è incinta!» La testa le girò nuovamente; se questa volta non svenne fu solo perché era seduta. «Non poteva darmi una notizia peggiore.» Il medico si incupì. «Non posso tenerlo, non so nemmeno come sia potuto accadere! Ma ne è certo? Rifatemi gli esami del sangue, vi prego! Dev’esserci un errore!» «I risultati parlano chiaro, e le assicuro che il sangue analizzato è il suo» disse mostrandole i referti. «Non so nemmeno di chi sia questo bambino!» si lasciò sfuggire Silvia, disperata. «Si calmi» provò a confortarla il medico. «Si calmi un corno!» rispose Silvia, alzandosi di scatto dalla sedia. «Senta, io devo abortire, e devo farlo subito!» «Mi dispiace ma in questo ospedale siamo obiettori di coscienza.» «Ecco, ci mancavano i moralisti! É un incubo, un incubo! La prego, mi faccia andare via, non ho tempo da perdere.» Firmò i documenti per le dimissioni, prese un taxi fuori dal pronto soccorso e si fece portare nell’ospedale più vicino. «Che non inizi per “San”!» ordinò all’autista.
18 «Le va bene il Macedonio Melloni?» «Perfetto» rispose. Arrivò al pronto soccorso di quel secondo ospedale e si precipitò all’accettazione. «Ho appena saputo di essere incinta. Devo abortire. Subito.» «Signora si calmi» le disse l’infermiera «purtroppo questo non è il reparto giusto. Deve andare all’accettazione centrale e prenotare una visita con un ginecologo non obiettore di coscienza. Ovviamente per l’appuntamento dovrà pazientare qualche giorno.» Silvia seguì le indicazioni dell’infermiera, con la speranza di ottenere un appuntamento per il giorno seguente. Purtroppo riuscì a prenotare una visita soltanto per l’undici agosto. «Addio vacanze» brontolò. Si sarebbe sbarazzata di quel corpo estraneo il giorno stesso se solo avesse potuto! Avrebbe avuto nei giorni seguenti tutto il tempo per abbandonarsi agli inutili sensi di colpa che ne sarebbero conseguiti, magari bevendo una bibita ghiacciata sotto un bell’ombrellone, in riva al mare. Non voleva quel bambino, questa era l’unica certezza che aveva, e avrebbe fatto di tutto pur di liberarsene al più presto.
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Silvia tornò a casa sotto shock. Troppe notizie assurde in unico, lunghissimo giorno. Michela con la sua sospetta ricaduta, l’alieno nella pancia, Giorgio e il suo addio, che non era certo una novità, ma riusciva a sconvolgerla ogni giorno. C’era da impazzire! Non fece in tempo a sedersi sul divano che suonò il citofono; era Andrea. Silvia lo accolse in casa seduta di spalle, accovacciata sul divano, col telefono in mano. «Non risponde» disse sconsolata. «Chi non risponde?» la baciò sulla fronte. «Michela… Michela non risponde! Ha il telefono spento da giorni.» «Fa bene, finalmente è in vacanze! Figurati se vuole sprecare il suo prezioso tempo con te» sorrise «non sono mica tutti stupidi come me…» le sussurrò in un orecchio, avvinghiandosi a lei. «Non è al mare» disse Silvia, scostandosi da lui «l’hanno ricoverata.» «Ricoverata?» chiese il ragazzo, impietrito. «Ho incontrato sua madre al supermercato. Ero con lei oggi, quando mi sono sentita male. Mi ha detto che le hanno trovato qualcosa… alla testa.» «Oh Dio…» disse Andrea chiudendo gli occhi. Poi le accarezzò i capelli: «Per questo sei svenuta.»
20 Silvia annuì, ricordando in quel preciso istante che il motivo di quello svenimento poteva benissimo essere un altro, e che non avrebbe assolutamente dovuto parlargliene! Non ricordava esattamente quando fosse accaduto, con lui, ma le pareva di recente; sicuramente in concomitanza con la fine della sua storia con Giorgio. Era un classico; ogni volta che il mondo le crollava addosso, lei andava a piangere da Andrea, che con le sue dolcissime attenzioni riusciva sempre a consolarla. Non ci aveva ancora pensato, ma poteva benissimo essere anche lui il padre di quel bambino! Non avrebbe dovuto saperlo mai. Riprovò a chiamare Michela, per togliersi quell’imbarazzante pensiero dalla mente, ma come sempre nelle ultime ore il suo telefono risultò spento. «Devo andare da lei.» «Sono le nove di sera. Non ti faranno mai entrare a quest’ora.» Silvia annuì; dovette accontentarsi di scriverle un sms. Pina! Che mi combini? E io che ti immaginavo al mare… ho saputo oggi da tua madre che ti hanno ricoverata. Sono certa che si sono sbagliati. Domani sono da te. Dormi serena tesoro mio. La chiamava Pina, la sua Michela. Le aveva dato quel soprannome da ragazzina, quando videro per la prima volta Fantozzi. Quel film le divertì a tal punto che presero a chiamarsi una Pina, l’altra Ughino o Ughina, in base agli stati d’animo. Michela la chiamava Ughina, infatti, quando era allegra e aveva voglia di scherzare, mentre la chiamava Ughino quando era giù di tono e aveva bisogno di farsi consolare. “Che guaio” pensò Silvia. «Che guaio…» sospirò.
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Il mattino dopo Silvia si svegliò col profumo di caffè caldo, come ogni volta in cui Andrea si fermava a dormire da lei. Lo trovò piacevole, nonostante la nausea gravidica; quell’aroma riusciva sempre a consolarla. Michela invece venne svegliata da quell’odiosissima frase, che la riportò sulla terra con la stessa violenza di un atterraggio senza paracadute: «Caffè-latte o tè?» Era in ospedale. Aprì gli occhi e avrebbe dato qualunque cosa per poter tornare nei suoi sogni, avrebbe venduto l’anima pur di uscire da quell’incubo. Non ne poteva più di stare in ospedale, di vivere con quell’odore di morte accanto. Aveva trascorso più o meno gli ultimi nove mesi della sua vita così. Si era illusa che tutto fosse finito… l’avevano torturata, ma aveva ingenuamente creduto che fosse servito a qualcosa! Un battito di ciglia e si era trovata nuovamente immersa in quell’incubo orrendo, che in questa seconda versione si era addirittura potenziato; erano tutti troppo gentili con lei e questo non prometteva niente di buono. «Prendo un tè, grazie» disse all’infermiere sforzandosi di essere gentile. Dopo un’ora entrò l’oncologo con in mano una cartelletta piena di documenti che la riguardavano, e a lei, come sempre, girò la testa. Ogni volta si aspettava che le comunicassero i mesi che le
22 restavano da vivere. Ci mise qualche istante per trovare il coraggio di guardarlo in volto, ma quando lo fece vi trovò inaspettatamente un sorriso. «Gli esami del sangue vanno abbastanza bene… e anche la scintigrafia è andata meglio del previsto. É vero, c’è qualcosa alla testa. Durante l’operazione al seno deve esserci sfuggita qualche cellula» iniziò a dire l’oncologo, che venne subito interrotto dalla ragazza. «Ma tutta la chemiotearapia che mi avete fatto dopo l’intervento? E quella che mi avete fatto prima? Mi avete massacrata! Mi avevate assicurato che con tutto quel veleno mi avreste messa al sicuro. Mi avete iniettato dei dosaggi da cavallo! Per non parlare del trapianto delle staminali… l’esperienza più devastante della mia vita… facevate prima a uccidermi! E ora mi sta dicendo che non è servito a nulla?! Che ho sofferto come un cane per ritrovarmi, adesso, con delle cellule maligne in giro per il corpo?» A quelle parole le si spezzò la voce. Il medico si sedette accanto a lei e le accarezzò la testa, sulla quale da un mesetto avevano ripreso a crescere i suoi bellissimi capelli neri. «Non è ancora il tuo momento, Michela.» Lei si asciugò le lacrime intrappolate negli occhi, col dorso della mano; poi lo guardò attentamente e sorrise. Quando un medico ti dice certe cose non puoi non credergli. «Sono solo dei piccolissimi noduli. Non ti tortureremo più, hai la mia parola. Dimentica pure la chemioterapia o altre cure invasive, per queste stupidate non ce ne sarà bisogno. Sono solo tre celluline invisibili. Venti giorni di radioterapia e così come sono arrivate se ne andranno.» A Michela parve di sognare. «Mi sta dicendo che… non morirò?»
23 «Prima o poi toccherà a tutti!» sorrise l’oncologo «ma non è ancora arrivato il tuo momento» continuò, guardandola ancora di più negli occhi. «Posso tornare dalla mia bambina?» chiese, liberando le lacrime e il suo stupendo sorriso. L’oncologo diede un’occhiata veloce alla caposala. «Ma certo. Torna pure a casa. Ti aspettiamo qui mezz’ora al giorno per venti giorni. Questo è tutto ciò che dovrai fare. Mi dispiace solo rovinarti le ferie.» Michela si sentì rinascere. Avrebbe voluto saltare sul letto, gridare, abbracciare il medico con tutta la forza che d’improvviso le era tornata, e baciarlo perfino sulla bocca! Adorava quell’oncologo, con Silvia l’avevano ribattezzato “Onco-gnocco” per quant’era bello. Si sentì così felice che avrebbe voluto rivelarglielo, gli avrebbe chiesto di sposarla se solo lui non avesse portato quella fede luccicante al dito! Si limitò a ringraziarlo, stringendogli la mano. La giornata aveva preso un’imprevista svolta positiva, l’avrebbero dimessa quel giorno stesso, non riusciva ancora a crederci! Finalmente il mattino seguente si sarebbe svegliata con le urla della sua Gaia e non con la voce nasale di quell’odiosissimo infermiere. «Caffè-latte o tè, caffè-latte o tè» iniziò a dire, appena uscì il medico, facendo ridere la compagna di sventura che occupava il letto accanto al suo. «A mai più rivederci caro il mio infermierino!» disse ridendo. Erano bastate due parole dell’oncologo per renderla felice come non mai. Ma passata l’euforia, che durò pochi istanti, ricominciò a incupirsi, senza capirne il motivo. “Fossi stata grave mi avrebbero trattenuta” si disse, cercando di placare quella nuova inquietudine.
24 “Sono in uno dei maggiori centri oncologici europei. Sanno che sono una giovane madre, farebbero di tutto per salvarmi la vita. E comunque nel 2010 hanno l’obbligo di dire la verità al paziente!” pensò. «Non sono grave come temevo» disse alla sua anziana vicina di letto, cercando nel suo sguardo una conferma in più. «Sono così felice per te» rispose la donna commuovendosi «vedi, io la mia vita l’ho vissuta. Avrei evitato volentieri questo finale, certo, ma in un modo o nell’altro devo pur andarmene da questa terra; ho settantanove anni! Non è così scandaloso che io sia qui. Ma tu sei così giovane… non avresti dovuto nemmeno conoscerlo questo reparto. É ora di dire addio a questo posto, cara. Vai, corri dalla tua bambina, e crescete insieme!» Michela chiamò subito sua madre per dirle tutto. «Pronto?» rispose Anna, tentando di nascondere la sua enorme preoccupazione. Aspettava con ansia l’esito della scintigrafia. «Torno a casa oggi, mammina! Avvisa Gaia!» «Torni oggi?» chiese incredula. «Mamma gli esami vanno bene! Non mi faranno nemmeno la chemioterapia. Venti giorni di radio e avrò terminato definitivamente le cure! Farò tutto ambulatorialmente. Non mi sembra vero…» le si ruppe la voce. «Dai vieni a prendermi!» singhiozzò. E Anna corse da lei senza perdere un solo istante, non aveva più impedimenti che la potessero far tardare; da qualche tempo, infatti, non aveva più un lavoro. Era rimasta a casa non appena sua figlia si era ammalata di cancro, per poterla seguire meglio e aiutarla nell’accudimento di Gaia. Giunse in ospedale poco dopo, sebbene abitasse dall’altra parte della città. Appena vide sua figlia la abbracciò forte, per non cadere.
25 «Dai che la ruota inizia a girare nel verso giusto» le disse Michela. Ad Anna sembrò di sognare; si diede un pizzicotto senza farsi vedere, per essere certa di essere sveglia. Era passata dalla disperazione alla gioia in troppo poco tempo. Aveva pensato al peggio quando i medici avevano accennato all’ipotesi delle metastasi celebrali, per poi ritrovarsi ottimista nel momento in cui Michela le aveva parlato di piccolissime cellule insignificanti. «Ieri ho visto Silvia» le disse Anna mentre attendevano le dimissioni. «La mia Ughina… che fa?» «É svenuta al supermercato!» «Come ogni estate…» rise Michela. «Dai chiamala, dille che ti dimettono. Oggi pensava di venirti a trovare. Sarà felice di sapere che torni a casa.» Così Michela riaccese finalmente il suo cellulare, compose in fretta il numero della sua amica, e intanto chiese a sua madre di andare a sollecitare le dimissioni. Così Anna andò nella stanza degli infermieri, dove fu ricevuta dalla caposala, che la fece accomodare in attesa che arrivasse l’oncologo. «Michela è impaziente di tornare a casa» disse timidamente. «Manca la firma del medico, dovrebbe arrivare a minuti… dobbiamo prima parlarle, però.» Anna impallidì. «Purtroppo le cose non stanno esattamente come abbiamo detto a sua figlia» disse abbassando lo sguardo la caposala. Una doccia gelata inondò Anna completamente. «Cosa mi sta dicendo?» le tremò la voce. Dopo pochi istanti entrò il Dottor Mariotti e Anna sentì le sue gambe farsi pesanti.
26 «La situazione è estremamente delicata. Come le avevamo accennato ci sono delle metastasi alla testa, ma anche al…» Anna iniziò a piangere, a singhiozzi. «La prego non me lo dica, non mi dica nulla, non voglio sapere. Non lo voglio sapere!» disse tappandosi le orecchie. «Deve essere forte, deve farlo per sua figlia. Tendenzialmente siamo sinceri con i pazienti. Ma quando la loro reazione non è delle migliori valutiamo in equipe quanta verità dire al malato. Le abbiamo fatto incontrare la nostra psicologa, e a seguito del colloquio ci ha consigliato vivamente di non dire tutta la verità alla ragazza. La situazione, purtroppo, è aggravata dalla presenza della figlia piccola. Non ci fosse la bambina sarebbe più facile per Michela accettare questa sua condizione.» «Quale condizione? Quale? Non mi dica che non c’è più niente da fare o mi uccido. Glielo giuro, mi uccido!» L’oncologo guardò la psicologa, seduta accanto alla caposala, che gli fece segno di no con la testa. «È una condizione piuttosto grave» aggiunse «ma è ancora in una fase curabile. Non ne abbiamo parlato a Michela perché la ragazza è molto spaventata. Ma lei, che è la madre, non deve avere paura. Deve sostenere Michela, trasmetterle tutto il coraggio che lei deve necessariamente avere, e che a sua figlia in un momento così delicato manca. Sono genitore anch’io, e so che per un figlio la forza si trova.» Anna lo guardò con i suoi enormi occhi nocciola; sembrava un cerbiatto ferito. «Proveremo con la radioterapia. I noduli sono piccoli, molto probabilmente sarà sufficiente un ciclo di venti giorni per eliminarli. Altrimenti procederemo con un’altra terapia, o con un piccolo intervento, ma per ora è presto parlarne.» «Me la deve salvare, la prego…» lo implorò Anna, stringendogli
27 le mani. «Le assicuro che faremo il possibile. Ma ora vada a casa con sua figlia, cerchi di trascorrere questi giorni il più serenamente possibile. Deve sforzarsi di far vivere a sua figlia dei giorni felici. Lo stato mentale è molto importante in questo tipo di malattie. Se la ragazza sarà serena sarà tutto più semplice.» Fecero sciacquare il viso ad Anna e le fecero ripassare il trucco. La psicologa le diede delle pillole che l’avrebbero aiutata a dormire. Quando si fu ripresa la fecero tornare da Michela. «Ma quanto mi hanno fatto aspettare?» chiese la ragazza seccata, appena la vide. Poi la guardò meglio e scoppiò a ridere. «Ma ti sei truccata?» domandò incredula. «Sai com’è, non volevo sfigurare con l’onco-gnocco…» Le due donne lasciarono l’ospedale ridendo, ma con un passo molto simile a una corsa. Stavano fuggendo dal loro incubo peggiore.
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Alle undici di mattina squillò il telefono di Silvia. Appena vide apparire quel nome sul suo telefonino le brillarono gli occhi. «Pina!» «Ughina, sto tornando a casa!» «A casa? Che gioia! E io che pensavo che fossi al mare… ho saputo solo ieri che ti avevano ricoverata. Sarei corsa da te se l’avessi saputo prima.» «Lo so…» disse Michela con tono innamorato «non volevo farti preoccupare.» «Cosa dicono i medici?» «Che non è grave come immaginavano. Dovrai sopportarmi ancora per un po’!» e le raccontò tutto quello che le aveva detto l’oncologo. «Vengo da te oggi pomeriggio. Ho una cosa da dirti.» «Dai dimmelo adesso, non resisto…» «Non puoi immaginare che casino!» disse ridendo. Quando faceva quella risatina Michela sapeva che Silvia ne aveva combinata una delle sue. «Ughina! Dai vieni presto, voglio sapere tutto…» «Mangio qualcosa e arrivo.» Appena Silvia mise giù la cornetta e realizzò ciò che Michela le aveva detto, ebbe una brutta sensazione. Le sembrò strano che a seguito dei rilevamenti alla testa non la sottoponessero a una terapia d’urto. La radioterapia le sembrò
29 troppo blanda. Certo, se i noduli erano piccoli si sarebbero riassorbiti, perché no, ma erano pur sempre delle metastasi. Appena pensò a quella parola fu pervasa da un brivido; non era un’esperta di tumori, ma sapeva bene che le metastasi erano la peggior complicanza che potesse insorgere in un malato oncologico. Accese l’oracolo, il suo computer, e si collegò a internet. Fece una ricerca veloce e quello che ci trovò non fu affatto rassicurante. Iniziò ad approfondire il significato della parola metastasi o secondarismi, scoprendo subito che quella forma di tumore maligno è nella maggior parte dei casi molto più violenta rispetto a quella che l’ha generato. Una pessima notizia, poiché il tumore che aveva colpito Michela al seno era già di suo molto aggressivo. C’era davvero poco da rallegrarsi per quelle dimissioni precoci. Tornò a cercare informazioni sul tumore al cervello ed ebbe una violenta vertigine quando lesse che la prospettiva di vita, per chi ne è colpito, non supera le quaranta settimane. Provò a rileggere, incredula. Quaranta settimane, come una gravidanza. Le parve d’improvviso che la vita fosse tornata a parlarle, questa volta beffandosi di lei. La nausea aumentò. «Alien, ti prego» disse al mucchietto di cellule che si moltiplicava freneticamente in lei «non ti ci mettere anche tu.» Corse in bagno a vomitare. “I medici sono obbligati a dire la verità” pensò riprendendo fiato “non è più come una volta!” Spense l’oracolo, maledicendolo, e si preparò per andare da Michela. Salutò Andrea, che stava fumando il suo sigaro in terrazzo e non
30 si era accorto di nulla. «No, aspetta. Pranziamo insieme e poi vai…» «Esco subito, non ho tempo!» «Ma come chiudo qui?» «Lascia aperto, tanto se entra un ladro cosa vuoi che mi rubi? Se si porta via l’oracolo mi fa solo un favore! Ci sentiamo presto!» «Ti chiamo stasera» disse il ragazzo, senza ricevere alcuna risposta da parte di Silvia che stava già correndo giù per le scale ed era quasi arrivata al portone d’ingresso.
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