Anime e sangue

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Disponibile anche: Libro: 12,50 euro (dal 28 ottobre 2011) e-book (download): 8,49 euro e-book su CD in libreria: 8,49 euro (da novembre 2011)



FRANCESCO GRIMANDI

ANIME E SANGUE

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ANIME E SANGUE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Francesco Grimandi

ISBN: 978-88-6307-388-1 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova

Anche le parti più realistiche di quest’opera sono del tutto inventate. Personaggi, luoghi, oggetti ed eventi sono creati dell’autore e vengono usati allo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi attinenza con luoghi, fatti e persone vere, vive o defunte, è assolutamente casuale.


Per Alberto, Eloisa e Federica



«A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire» Guglielmo di Ockham (Ockham, 1288 – Monaco di Baviera, 1349)



I

Bologna, 10 novembre 1325, tre ore dopo il tramonto Il brillio del coltello nell’oscurità. Poi i fendenti lo trafissero, rapidi e spietati, dall’alto verso il basso. L’uomo non ebbe il tempo di capire, perso in altri progetti. Percepiva ancora il contatto con la pelle calda della donna appartata con lui nel vicolo, la coscia morbida di lei che lo stringeva a sé, in piedi contro un muro. Non poté fare nulla. E fu sopraffatto dall’istantanea consapevolezza di andare incontro alla morte. Sbarrò gli occhi ma a quel punto era troppo tardi. Una mano gli tappava la bocca, impedendogli di gridare. Sollevò le braccia, in un estremo tentativo di difesa; tuttavia i colpi lo raggiunsero lo stesso, precisi e implacabili. Allora annaspò. Ma riuscì solo ad aggrapparsi al vestito di chi lo stava uccidendo. Emettendo un gemito rauco, in un ultimo sforzo disperato, scalciò l’aria prima di crollare indietro, con il cuore squarciato. Il sangue denso e fumante si sparse sul selciato sconnesso. I topi scapparono veloci, intuendo il pericolo. Poco distante un ubriaco dormiva in un angolo. L’omicida studiò la sua vittima, la bocca spalancata, le pupille dilatate, lo sguardo fisso nel vuoto. Piegò la testa di lato, inalando l’aria fredda, umida di nebbia. Non era nessuno, e nessuno ne avrebbe pianto la scomparsa. Sospirò. La stanchezza parve calare tutta d’un colpo. Ogni volta era così. Dapprima l’esaltazione febbrile esplodeva, raggiungendo l’apice, poi le pulsazioni gradualmente si placavano, fino a


tornare normali. Avvertiva un bisogno estremo di rientrare a casa, però mancava ancora una cosa prima di considerare completo il lavoro. A quel punto prese il morto per le braccia e lo trascinò in fondo al vicolo, i talloni che strisciavano sul terreno. Non vi erano fanali a rischiarare la strada e scorgerlo sarebbe stato difficile, se non praticamente impossibile. Incurante delle condizioni pietose in cui versava il cadavere, si chinò sul corpo e l’evirò. Dopodiché prese l’organo che aveva reciso e lo ripose in una scarsella di cuoio, celata sotto al vestito. Soddisfatta la brama di vendetta, tornò a piegarsi sul morto e si ripulì le mani imbrattate di sangue sulla sua camicia. Poi si tolse la cappa e la rovesciò, per celare ogni traccia del suo gesto. Quindi sistemò l’abito sgualcito e tirò sulla testa il cappuccio. Con calma si avviò verso il centro cittadino. Nel volgere di pochi passi la sagoma infagottata sparì, inghiottita dalle tenebre.


II

11 novembre, presso Porta Stiera, nella prima mattina Disteso sul lettino nel retrobottega della spezieria, Jacopo Lamberti lasciò correre lo sguardo sulle mensole cariche di recipienti smaltati in terracotta, colmi di erbe medicinali ed essenze profumate. A giudicare dall’ordine e dal lindore che regnava fin negli angoli più reconditi, l’attività del suo amico, Niccolò Garzoni, doveva essere assai redditizia. Probabilmente una delle più redditizie in città, dopo quella dei banchieri e degli usurai. Lasciò che lo speziale finisse di visitarlo, poi si tirò su a sedere. «Allora, che cosa ne pensi?» Ancora l’assillava il senso di malessere, delle fitte minacciose e acute sotto lo sterno, che l’aveva spinto a richiedere un consulto. Niccolò gli fece cenno di rimettersi la camicia: «Purtroppo, per il tuo problema, è difficile fornire un responso esauriente.» Mentre si infilava anche la tunica, dal corpo sagomato e le maniche strette sull’avambraccio, una sensazione di angoscia tornò ad assalirlo. Non era la paura di morire a spaventarlo, ma il dolore che avrebbe dovuto sopportare. «Non potresti essere più preciso?» Lo speziale lo fissò, scuotendo il capo. «D’accordo, ci proverò. I dolori che avverti fanno pensare a un disturbo al cuore, ma l’avevi capito. Tuttavia, sei abbastanza giovane per soffrire di questi fastidi che di norma si presentano più avanti con gli anni.» Lo interruppe: «Non mi stupirebbe. Sai che sono sempre stato un tipo precoce, un po’ in tutto…»


«Certo, è vero. Ti conosco da quando pigliavamo le bacchettate dallo stesso maestro. E non ti sei mai smentito.» Jacopo rise divertito, ripensando a quel periodo privo di obblighi e responsabilità. Com’era cambiata la vita da allora. «Comunque» aggiunse Niccolò, sforzandosi di apparire sereno, «non mi fascerei la testa troppo presto. Altre cause possono spiegare questi acciacchi. Potrebbero dipendere dall’eccessiva stanchezza e dagli strapazzi cui ti sottoponi di continuo... Il tuo lavoro di sbirro non è il massimo per la salute. In tutti i sensi.» Jacopo distolse lo sguardo, per non raccogliere il biasimo che covava nell’espressione dell’amico. Un’altra volta la sua attenzione si posò sui boccali, le bilance, le spatole, i mortai e i torchi che troneggiavano sul bancone da lavoro alle spalle di Niccolò. Se non avesse avuto un carattere così ostinato, magari si sarebbe accontentato di fare pure lui quel mestiere, con dovizia e competenza, preparando medicamenti e composti per alleviare i dolori. Ma erano altre le sofferenze sulle quali aveva scelto di intervenire. E quotidianamente era immerso in mali ben più mortiferi, mali che scaturivano dal cattivo animo degli uomini. Come lo speziale si sporcava le mani pestando, cuocendo e distillando i composti, allo stesso modo lui imbrattava corpo e mente con le peggiori sozzure del mondo. Niccolò incrociò le braccia. Era un tipo piccolo e mingherlino. Ma dietro a quell’aspetto ordinario, celava una mente formidabile. Per alcuni istanti lo speziale rimase a fissarlo, tamburellando le dita della mano destra sul braccio opposto, in maniera pensosa. Poi si decise a parlare: «Allora? Cosa hai intenzione di fare?» «In che senso? Non ti capisco.» «A mio avviso, qui non servono gli impacchi o i bagni in acqua calda e fredda. Forse una soluzione ce l’avrei. Però devi seguirla.» Jacopo si decise a guardarlo in faccia. Avvertiva una stanchezza atroce, ma non capiva se dipendesse dalle membra provate o dall’affaticamento interiore che la vita ogni giorno di più gli riservava. Era un fardello oneroso da portare. Specie per chi come lui non aveva nessuno con cui condividerlo. «Quale sarebbe il tuo rimedio?» chiese, raccogliendo quel briciolo di energie che gli erano rimaste. Muovendosi, aveva avvertito una nuova


fitta pugnalarlo al petto. Un po’ meno acuta delle precedenti, ma ugualmente dolorosa. «Guarda che non scherzo. Se non ti convinci a curarti, rischi di lasciarci davvero la ghirba. Non sei soltanto pallido. Hai proprio un brutto aspetto.» «Lascia stare. Ti preoccupi troppo.» «E tu sembra che non ti preoccupi abbastanza. Hai un assoluto bisogno di riposo. Di notte riesci a dormire?» Jacopo lo guardò come se volesse scherzare. Non ricordava più il tempo che aveva dormito una notte intera, di filato. C’erano sempre quei pensieri a tormentarlo. Quegli incubi celati dietro le palpebre che grondavano sangue non appena si appoggiava sul letto, tentando di dormire. O prendeva sonno, appoggiato da qualche parte. Scosse la testa, rassegnato. «Posso darti qualche erba calmante, per farti riposare. Ho degli infusi che fanno miracoli…» «Nel mio caso ce ne vorrebbe uno parecchio potente.» «Così mi piaci. Aspetta solo un istante.» Lo speziale si diresse verso uno stipo di legno. Impiegando una piccola chiave che teneva al collo, l’aprì. Poi, con la perizia di chi sa quel che cerca, estrasse una fialetta contenente un liquido denso e giallastro, che ricordava molto un liquore. «Ecco» disse Niccolò, porgendoglielo con aria dottorale. «Devi stare attento però a non eccedere con le dosi, altrimenti potresti non risvegliarti più. Prendine non più di sei gocce, sciolte in un bicchier d’acqua, prima di coricarti.» Jacopo rimirò la fiala, osservandola di sbieco in controluce, poi la stappò. Il preparato aveva un odore zuccherino, che invogliava a berlo tutto d’un fiato. Tuttavia, preferì risigillarlo. «Grazie, Niccolò» disse assestandogli una pacca affettuosa sulla spalla. «Non so che farei senza di te. Sei un vero amico.» «Già, anche perché non mi risulta che tu ne abbia altri» disse lo speziale, sorridendo della sua stessa battuta. «Hai ragione. Con il mio mestiere è difficile stringere amicizie durature. La diffidenza è troppa. Appena imparano cosa faccio, tutti tirano a evitarmi. Anche gli osti e le puttane.» «Manco fossi il boia!» sbottò Niccolò in modo cordiale. Tuttavia lasciò perdere quando si accorse di non riuscire a smuoverlo.


La campanella attaccata alla porta d’ingresso della bottega tintinnò. Poi una voce raschiante e antipatica urlò: «Messer Lamberti! Messer Lamberti!» Jacopo scattò in piedi, dimentico di ogni acciacco: «Sono qui!» Poi, rivolgendosi all’amico, lo rassicurò: «È uno dei miei. Prima di uscire avevo lasciato detto dove mi trovavo.» Lo speziale annuì; all’improvviso apparve preoccupato, più per lui che per se stesso. Un bargellino entrò a passo di carica nel retro della bottega. Indossava una cotta di cuoio, un elmo e in cintura portava appesa una corta spada. Sulla sua faccia campeggiava un’espressione trafelata, affatto simulata. «Messer Jacopo, domine Fulgerio reclama la vostra presenza!» In quei mesi così travagliati per il Comune, rammentò Jacopo, Fulgerio il forlivese era stato investito dell’incarico di Capitano del Popolo per il suo piglio di parte guelfa. «Dove si trova adesso?» «L’attende con urgenza al Palazzo.» «Cosa è successo?» «Ne hanno trovato un altro.» Jacopo avvertì un brivido di gelo percorrergli la schiena, penetrandogli nelle ossa. Una scudisciata alle sue migliori intenzioni di dedicarsi qualche riguardo. «Stesso trattamento degli altri?» «Lo stesso.» «Precedimi. Dì a domine Fulgerio che arrivo subito.» Il bargellino recepì il suo ordine senza discutere. E si allontanò, animato dalla foga, come quando era giunto. Jacopo affidò la fialetta nelle mani di Niccolò: «Questa conservamela per dopo. Tornerò a prenderla non appena mi sarà concessa un po’ di calma.» Lo speziale accettò di riprendere l’ampolla in custodia, ma levò l’indice con aria perentoria: «Ricorda quel che ho detto. Riguardati, o sarà peggio per te!» Jacopo provò per lui un moto di simpatia spontanea: «Ti voglio bene!» E di sfuggita lo baciò sulla fronte, prima di andarsene.


III

Stesso giorno, Palazzo del Capitano del Popolo Jacopo studiò il cadavere denudato sul tavolaccio di legno. Assieme a un paio di militi era chiuso in una gelida stanzetta del Palazzo, adiacente alla scalinata che saliva al piano principale. Vita schifosa, imprecò tra sé, strofinandosi le braccia con energia per procurarsi un po’ di calore. Forse era colpa del mattino nebbioso, o forse della compagnia, ma lì faceva più freddo che altrove. Domine Fulgerio aveva comandato che il morto fosse sottratto alla vista dei curiosi, per non alimentare ulteriori allarmismi. Tuttavia, lo sapeva bene, il segreto non sarebbe durato a lungo: le notizie facevano in fretta a viaggiare di bocca in bocca, quando si trattava di fatti così gravi. Girando attorno allo sconosciuto, ghermito dall’artiglio impietoso della morte, s’interrogò una volta di più sulla brutalità e la macabra inventiva dell’uomo di infierire sui propri simili. Quello era il quarto corpo straziato rinvenuto nel volgere di pochi giorni. Ma che stava capitando? Bologna non aveva mai conosciuto una ferocia del genere. L’assassino aveva ucciso la sua vittima infliggendole numerose coltellate. Qua e là si scorgevano graffi ed escoriazioni; se non altro vi era stato un tentativo di difesa. Eppure appariva poca cosa rispetto allo scempio che aveva davanti. I colpi erano stati chiaramente inflitti frontalmente. Di conseguenza l’uomo, prima di soccombere, doveva aver visto il suo aggressore. Ma fino all’ultimo l’aveva come… ignorato. Perché non aveva provato a fuggire? In una situazione di pericolo era la


reazione più normale. Un colpo, almeno uno, l’avrebbe dovuto raggiungere alla schiena. Invece no, tutti davanti e sul petto. A parte lo scempio che si delineava subito sotto la cintura. Lì l’assassino - o forse gli assassini, neppure ne era certo - aveva infierito platealmente, recidendo l’organo distintivo di ogni maschio. Come aveva sottolineato domine Fulgerio, con una delle sue battute pesanti, erano scomparsi “i gioielli di famiglia”. In effetti, nonostante le ricerche, chi si era preso la briga di tutto quel daffare li aveva portati con sé o era stato molto bravo a farli sparire, poiché non ne era stata rinvenuta traccia. Ma a che scopo? Forse erano stati sottratti per pratiche di nera stregoneria? Si narravano atroci storie al riguardo. Ma il fatto non lo convinceva pienamente. Gli studi di Medicina, seppure interrotti, e i ragionamenti appresi dai filosofi greci lo inducevano a diffidare delle truci spiegazioni che erano state messe in campo. Maghi e fattucchiere erano spauracchi sventolati ogni qualvolta accadessero fatti cruenti e inspiegabili. E per quanto il popolo, assai suggestionabile, si bevesse quelle fandonie, a lui suonavano stonate come una campana fessa. Acquartierati per il momento quei pensieri, tornò a concentrarsi sul volto cereo del cadavere, come se da un minuto all’altro potesse di nuovo alzarsi e mettersi seduto, per rispondere alle sue domande. Avrebbe indagato, avrebbe scoperto chi fosse, tuttavia una cosa era certa: quel macabro rituale era toccato anche ad altri. All’inizio c’era stato Ferrante Bortolini, rivenditore di stoffe. Poi Enrico Sansoni, ceraiolo. E poco tempo prima Gugliemo Adimari, un cambiavalute molto noto in città. Tutta gente stimata e rispettata, secondo chi ne aveva denunciato la scomparsa e poi li aveva riconosciuti. Eppure, erano stati trovati a braghe calate, sorpresi in giro a tarda notte. Qual era il nesso che univa quelle morti? Domandando in giro, sembrava che i tre non si conoscessero. E finanche i posti in cui erano avvenuti gli omicidi risultavano lontani tra loro. Tuttavia… Tuttavia, la maniera di procedere di chi li aveva uccisi era la stessa. Dapprima li aveva attirati in luoghi fuori mano, dove poteva agire indisturbato. Dopodiché li aveva trucidati, senza che nessuno vedesse o sentisse niente. Per quanto Jacopo si fosse prodigato, battendo in lungo e largo i luoghi


ove erano stati compiuti i delitti, non era stato capace di raccogliere neanche uno straccio di testimonianza. Aveva torchiato a dovere i suoi informatori, che si muovevano nei rioni poveri della città, tra delinquenti e donne di malaffare, ma tutti erano caduti dalle nuvole… Per di più, alle vittime non era stato sottratto niente. Quella storia non aveva senso. E ogni ipotesi era plausibile. Ne aveva discusso persino con Niccolò per ottenere un qualche consiglio. Ma neppure lui era stato in grado di aiutarlo. Ce n’era abbastanza per dar credito a chi sosteneva che i delitti fossero opera del Diavolo. O di chi agiva per suo conto. Il Podestà in persona, pressato dai poteri forti e nemmeno tanto occulti che guidavano la città, aveva avanzato l’ipotesi nel corso di un incontro riservato con il Capitano del Popolo e i magistrati. Il vescovo aveva minacciato processioni e pubbliche penitenze. Ma era chiaro che si trattava di un’opera per riportare sotto il giogo ecclesiale il controllo del Comune. D’altronde la Chiesa là dove per difetto di forze non arrivava con la spada temporale, tentava con il laccio spirituale. Il Podestà era intenzionato a non cadere nel tranello, prestando il fianco ad attacchi che puntavano a minare il governo della città. Per togliere esca alle manovre del vescovo, aveva fatto fuoco e fiamme, pretendendo che si arrestassero tutti i seguaci del Maligno. Malgrado ciò, dopo un avvio a dir poco tumultuoso, presto ci si era trovati con un pugno di mosche e senza più appigli, se non qualche vecchia invasata o qualche temerario truffatore che si era vantato di possedere arcani poteri. Qualche notte al fresco e un po’ di sane sevizie li avevano fatti rinsavire. Anche perché, posti dinnanzi alla pena, erano stati i primi a confessare l’imbroglio: un buon tratto di corda e un paio di pinze arroventate avevano il dono di far parlare anche i muti. Jacopo scosse la testa, scrutando i volti dei bargellini che erano con lui. Sotto gli usberghi tutti tacevano, come ammutoliti. Non era quello il momento giusto per certe cose e alcuni lo stavano prendendo come un segno di malaugurio. Con i problemi che il Comune stava attraversando, la situazione era già abbastanza ingarbugliata. La città era impegnata in uno scontro sanguinoso e implacabile con Modena. Una lotta che tra alti e bassi si trascinava da sempre, senza mai una chiara e definitiva vittoria di una delle parti.


Come se gli avesse letto nella mente, il milite alla sua destra, un tipo ossuto dai capelli gialli come la paglia, sbottò deciso: «Io sento puzza di tradimento. Qui c’è lo zampino di quei dannati ghibellini.» Poi girò lo sguardo su di lui, fissandolo, come per ottenere conferma alla sua improvvisa intuizione. Jacopo sollevò le spalle: «Che vuoi che dica? Come idea non è poi così assurda…» I ghibellini, nemici del Papa, erano stati espulsi a più riprese, i beni confiscati o distrutti, e molti di loro erano riparati sotto la protezione di Passerino Bonacolsi, duca di Modena, giurando vendetta. In seguito, Papa Giovanni XXII aveva aggiunto del suo, dichiarando eretico Passerino, e contro di lui era stata bandita una crociata. I bolognesi ne avevano approfittato, ponendo mano alle armi. E durante l’estate avevano invaso e saccheggiato le sue terre. Passerino non era stato a guardare. Riuniti attorno a sé molti alleati, alla fine di settembre era passato al contrattacco, prendendo il castello di Monteveglio posto sui confini, e l’aveva occupato. Le truppe del Comune erano uscite in massa, assediandolo. Ma adesso la situazione era di stallo. E tutti erano sul chi vive. Jacopo tornò a posare lo sguardo sul morto, non senza una punta di riguardo. Quella condizione, un domani, sarebbe stata anche la sua. Magari il più tardi possibile. Magari in altre circostanze. Ma la sostanza cambiava di poco. Il freddo del pavimento saliva alle gambe, attraverso i piedi intirizziti, facendogli rimpiangere di non aver indossato calzature più pesanti. L’uomo steso sul tavolaccio, invece, non aveva più di quei problemi. La sua carne, tesa dai primi gonfiori interni che cominciavano a manifestarsi, pareva avere la consistenza liscia e rigida della pietra. Qua e là spiccavano i fori lasciati dai colpi dell’assassino, come corolle avvizzite, sulla pelle leggermente violacea. Con un dito, Jacopo andò a esplorarne il contorno slabbrato. Poi si avvicinò al volto, per annusarlo. Percepì una nota sfumata di colore, appena intuibile all’olfatto. Una fragranza femminile. A giudicare dall’odore anche buona. Forse costosa. Quell’elemento estraneo, tuttavia, non aggiungeva niente. Il morto era stato trovato con i calzoni abbassati. Al massimo la scoperta poteva solo confermare i gusti del trapassato. Trapassato, sì. In tutti i sensi. Ma come gli venivano quelle battute?


Probabilmente era l’influsso di domine Fulgerio. Di recente lo stava frequentando un po’ troppo… Uno dei militi tossì, e lui sollevò lo sguardo. Entrambi i bargellini lo guardavano con una strana espressione dipinta in faccia. «Tranquilli» li rassicurò. «Non sono uscito di senno.» Ebbe però la netta impressione che l’episodio si sarebbe presto aggiunto al novero di storielle sul suo conto. Tempo addietro aveva sentito alcuni piantoni farsi beffe di lui, convinti di non essere uditi. E la cosa gli aveva fatto male, peggio che un pugno allo stomaco. Di scatto si raddrizzò sulla schiena, in modo deciso. I bargellini abbassarono il capo, aspettandosi una reprimenda. Invece lui esitò, pensoso: «Ecco, stava per sussurrarmi il nome di chi l’ha ucciso. Ma voi l’avete interrotto...» I bargellini si guardarono a vicenda, confusi. A quel punto, dovevano essere certi della sua definitiva follia.


IV

11 novembre, metà mattina, Piazza Maggiore Aveva mentito ai bargellini, spudoratamente. Ma la gioia di vedere le loro facce stralunate non aveva prezzo. Bastava ripensarci perché gli venisse ancora da ridere. Con una scusa Jacopo si era liberato di loro e i militi erano stati felicissimi di lasciarlo andare. Tuttavia, mentre lasciava il Palazzo, transitando sotto il voltone del Podestà, ancora si interrogava sulla piega da dare alle indagini. In realtà, non ne aveva alcuna idea. Per un singolare effetto acustico, il calpestio svogliato dei suoi passi sembrava trasmettersi da un angolo all’altro del colonnato. La cosa era risaputa e proprio per questo i notai, che stipulavano i loro contratti sotto le scale che portavano alla loggia superiore, si guardavano dal discutere ad alta voce con i clienti. Oltre i banchi dei giuristi e dei commercianti, sotto quegli archi venivano impiccati i condannati a morte. L’assassino avrebbe fatto la sua bella figura, lì appeso, non appena l’avesse scovato. Giunto alla fine del porticato si guardò intorno. Non gli era mai capitato di trovarsi così a corto di indizi; soprattutto non era uno dei soliti casi che era abituato ad affrontare. I contorni della vicenda gli sfuggivano. E quando non capiva bene si sentiva depresso, nonché estremamente irritabile. A causa del freddo pungente, il fiato si condensava in nuvolette pesanti. Per scaldarsi, si strinse ancor di più nei vestiti. E strofinò le mani, con vigore, soffiandoci dentro.


Più vi rifletteva e più ne era convinto: l’unica cosa era ricominciare daccapo. Per farlo, doveva tornare sul luogo dove era avvenuto l’ultimo fatto di sangue. Ma questa volta avrebbe fatto a modo suo. Incurante dell’incessante andirivieni di artigiani e gente del popolino che animava la grande piazza alla sua destra, fece scorrere lo sguardo sulla città, adagiata entro i confini sempre più angusti delle mura. Poi focalizzò l’attenzione sulle due torri che spiccavano sullo sfondo, nella bruma tenace, la Garisenda e gli Asinelli. Nella luce pallida e apatica il profilo delle grandiose costruzioni appariva appena abbozzato; tuttavia il senso della loro presenza risultava inalterato. Bologna era zeppa di torri: ce n’erano a decine sparse in città. Più svettavano alte e massicce, più le famiglie che le avevano fatte edificare miravano a dare sfoggio del loro potere, sia economico che nobiliare. Ma la Garisenda e gli Asinelli costituivano anche, in una forma mai sancita ma comunemente accettata, il punto centrale della città, tanto che da esse si diramavano le vie più importanti. Tra Piazza Maggiore e le due torri si apriva la zona del mercato vecchio. I vicoli stretti e vivaci avevano nomi che rispecchiavano le arti e i mestieri che vi si svolgevano. Era il punto di incontro di mille interessi, la zona delle taverne più frequentate, nonché il quartiere più turbolento, da cui partivano a volte le sommosse. Da quelle parti era avvenuto il fattaccio. Scrollando le spalle, Jacopo si avviò verso il dedalo di stradine, dove le botteghe esibivano le insegne tra gli edifici di mattoni dai tetti spioventi, le finestre gotiche e le colonne squadrate di legno. Lì si poteva reperire ogni genere di mercanzia, a ogni prezzo, e le storielle su quel posto si sprecavano. Eppure, nella maggior parte dei casi non si trattava di esagerazioni. Lasciando il baccano della piazza, mentre la mole incombente delle torri si precisava venendogli incontro, considerò che iniziava a essere stufo del suo lavoro. Non era la prima volta che inseguiva quel pensiero. Negli ultimi tempi, gli capitava di ragionarvi sempre più spesso. Ma in che altro mestiere avrebbe potuto sperare? In vita sua era sempre stato uno sbirro. Non aveva santi in paradiso, né protettori a cui chiedere sostegno. Corrugò la fronte angosciato, mentre le mani strette a pugno oscillavano avanti e indietro, fendendo l’aria densa, carica di umidità.


Per quanto si sforzasse, proprio non gli veniva in mente nulla. Incurante delle facce stupite dei passanti, annuì tra sé. Ogni tanto, una contrazione involontaria al margine degli occhi gli faceva sbattere le palpebre. E una fitta netta e violenta gli scendeva al petto, come un morso doloroso. Bile, umori, complessione, erano i termini impiegati dai medici per chiarire il suo male. Ma Niccolò li riteneva segnali eloquenti. E anche lui sentiva che era la sua resistenza a essere giunta al limite. Troppe preoccupazioni, troppe delusioni e umiliazioni. Doveva mollare o almeno rallentare. Tuttavia era facile a dirsi, non a farsi. Giunto sul luogo che ricordava, si sforzò di sgombrare la mente da quei cupi pensieri per concentrarsi nella ricognizione. Si inoltrò nel vicolo che dalla via principale non si vedeva bene nemmeno di giorno, avvertendo un brivido di inquietudine. L’alone lasciato dal sangue rappreso era ancora distinguibile. Si chinò, posando un ginocchio a terra per esaminare da vicino la macchia, e con un dito la sfregò. La polvere si attaccò alla pelle, ma quando la strofinò tra i polpastrelli non rivelò nulla di nuovo. Allora si rialzò, indietreggiò di qualche passo e cercò di inquadrare il posto sotto un’altra angolazione. Tentò di figurarsi la scena della notte precedente, sperando di scoprire magari un dettaglio che gli fosse sfuggito. Ragionò su come era avvenuto l’incontro, perché un incontro lì c’era stato. Se il delitto era parte di un piano organizzato, si chiese, la femmina che aveva attirato la vittima era da ritenere in combutta con l’omicida, o era stata minacciata e poi fatta sparire? Una che lo faceva di mestiere, magari. Inviata appositamente. Si diceva che le cortigiane di Bologna fossero le più vivaci e le più spregiudicate per quanto concerneva l’amore. Di sicuro doveva essere assai appariscente, perché funzionasse. Se la figurò ferma al crocevia ignorare le proposte di altri, poiché aspettava il suo uomo, di cui conosceva le abitudini. Vedendolo l’avrebbe adescato, fingendo di trattare perché non si insospettisse. Poi si sarebbe fatta seguire, fino al punto stabilito, dove l’assassino si trovava già in agguato. Detta così poteva funzionare. Peccato che nel circoscritto ambiente delle prostitute avesse già indagato. E non fosse emerso niente.


Per un attimo chiuse gli occhi, facendo mente locale su un paio di elementi: la donna e il coltello. Molti punti restavano da chiarire. Ma ciò che non gli tornava era il motivo. Un’uccisione non era un fatto insolito; tuttavia questa spiccava per il modo in cui era stata perpetrata. Perché darsi tanto disturbo se poi non era stato rubato nulla? Mentre era intento a valutare le ipotesi, con la coda dell’occhio colse la presenza di qualcuno che lo scrutava con insistenza. La sagoma era contornata dal riquadro buio di un androne che collegava due caseggiati. Il pensiero latente giunse un istante in ritardo. Prima che avesse il tempo di girarsi, l’uomo si era volatilizzato. Fece per inseguirlo, ma dopo pochi passi lasciò perdere. Chissà cosa voleva? Gli era sembrato un tipo non molto alto, smilzo e con un cranio calvo che somigliava a un teschio. Il cielo stava mutando, spogliandosi del malinconico grigiore, e ogni tanto qualche sprazzo di luce riusciva a fendere le nubi. Mentre tornava al punto di partenza, Jacopo notò un brillio che catturò la sua attenzione. Più avanti, incuneandosi nell’acciottolato, la luce veniva rimbalzata di riflesso. Jacopo si affrettò a raggiungere la fonte del debole riverbero. E chinatosi raccolse qualcosa, incastrato sotto una pietra. L’osservò meglio, esaminandolo da vicino. Se non si fosse trattato di un vicolo fuori mano, con la massa di poveracci che si aggiravano per le strade della città, l’oggetto non sarebbe durato a lungo, finendo nelle tasche di qualcun altro. Si trattava di un bottone. Ma non di fattura comune. Nella parte superiore mostrava un disegno elaborato. Tuttavia, saggiandolo con i denti, scoprì il particolare più di rilievo. Era d’oro.


V

11 novembre, un’ora dopo mezzogiorno, Palazzo Rinaldi Quel giorno, Melania Rinaldi si sentiva piuttosto felice e aveva voluto che si tenesse una grande festa. Aveva però ordinato alla servitù di preparare per un numero ristretto di invitati, solo gli amici e le amiche più care. Senza far mancare nulla delle cose migliori. La mensa, allestita al centro della sala, era adornata con panni e tessuti acquistati direttamente a Firenze e a ogni ospite, seduto piacevolmente a banchettare, era stato apparecchiato con piatti e posate d’argento. Prima di iniziare, i domestici avevano posto accanto a ciascuno un lavamani, poi erano stati serviti i cibi. Erano state presentate in tavola ricche portate di carni e cacciagione, guarnite di frutta, e dolci caramellati insaporiti con le spezie, nonché ogni altro ben di Dio che le capienti cantine di palazzo avevano potuto fornire. Melania volse lo sguardo. Attorno a lei donne e uomini risultavano equamente divisi. Un vezzo, il suo, che le imponeva di esigere da ogni cosa il massimo della perfezione. I presenti si conoscevano da lunga data. Tra loro c’erano messer Guglielmo de Baiano, Lodrisio Raimondi, Ubertino Malvezzi e Gian Battista Grati. A tener alti i titoli delle nobildonne invece pensavano Isabella Tanari, la sua migliore amica, poi Stella Cappiani e infine Martina Beccadelli. Le dame esibivano vesti di una gran varietà di colori, per lo più a motivi geometrici, orlate di ricami. Cinture impreziosite da inserti in oro e


argento le cingevano ai fianchi, ponendo in risalto il profilo slanciato e lo strascico frusciante dei costosi abiti. I capelli, raccolti sul capo, erano contornati da fili di perle. Il resto dell’acconciatura, invece, era lasciato scivolare morbido sulle spalle. A completare il tutto, pendenti e collane, che scendevano a indicare maliziosamente l’accogliente incavo del seno, mentre le guance rotonde e rubizze e le labbra carnose erano ravvivate con i cosmetici più in voga. Melania era compiaciuta della loro bellezza. Ma pure gli uomini non erano da meno, e gareggiavano da pari a pari. Brache attillate dai colori sgargianti, bluse a coprire le natiche, di velluto e pelle conciata, quasi sempre con il cappuccio. Mantelle gettate di traverso sulle spalle, per via della stagione fredda. Catene massicce e sfarzose, arricchite di medaglioni con simboli allegorici. E capelli sfrangiati e corti, raccolti in ciuffi ribelli. Le barbe, irsute, crescevano quasi incolte. Ma erano sempre più quelli che avevano preso l’uso di radersi perché alle loro compagne piacevano così. Melania li guardò con indulgenza: ognuno serbava almeno un’amante. Per sedurle non bisognava impegnarsi in aspre lotte, bensì bastavano i regali. I convitati erano giunti alla spicciolata. Informati del subitaneo invito, si erano presentati a palazzo, nel pieno centro della città, entro l’antica cinta di mura, scortati dai propri paggi. E lei, che era la padrona, li aveva accolti e dirigeva il convivio, forte non dei beni ma del carisma, che l’elevava sopra a chiunque. Benché tra le dame riscuotesse un credito notevole, erano principalmente gli uomini a subire il suo ascendente. Che si occupassero di armi o arti o scambi, dagli sguardi accesi che le indirizzavano sapeva che l’amavano per lo splendore e il fascino dei suoi modi. Mentre giocava a illuderli, mettendo a profitto l’avvenenza dei bei tratti del viso, o li incantava con fugaci occhiate senza concedere più di un cenno, riusciva a trasformarli come per prodigio in corteggiatori smaniosi, anche se sposati, conquistando di fatto il primo posto nei loro cuori. «… Avete sentito? Pare che questa notte ne abbiano trovato un altro. Ammazzato allo stesso modo dei precedenti. L’assassino, dopo averlo trafitto, gli ha inciso il basso ventre. E gli ha cavato via… insomma… il coso!» A introdurre il nuovo tema era stata Isabella, inesauribile parlatrice, che


al solito sembrava disertare il silenzio. «Che strana mania» commentò Gian Battista. «Chissà che se ne farà? Magari li tiene per ricordo!» «É così» disse Melania. «Me l’ha riferito anche la mia dama di compagnia.» «Non vedo cosa ci sia da scherzare» sbottò Ubertino. «Chi diavolo può compiere un gesto tanto scellerato, riuscendo poi a dormire la notte?» «E chi ti dice che dorma di notte?» replicò Gian Battista. «Per l’amor del cielo!» esclamò Isabella aggrottando le sopracciglia sottili. «Ci vuoi proprio terrorizzare?» «Vi prego, mettetemi al corrente dei fatti» li implorò Lodrisio. «Manco da parecchio per via degli impegni che mi hanno trattenuto in Francia, e non ne sapevo niente. Ma dite… è vero?» «Sì » rispose Stella con un certo nervosismo. «Pare che in città si aggiri un mostro.» Melania notò che si era schiarita i capelli. Martina intervenne: «E il Podestà cosa intende fare? Questi atti criminali meriterebbero una risposta!» Isabella, come al solito, si mostrò la più informata: «Le autorità stanno svolgendo il loro dovere. So che gli uomini del Capitano del Popolo hanno portato via il cadavere prima che la gente lo vedesse. Ciò nonostante, la notizia si è sparsa lo stesso.» «Chi dicono possa essere?» l’interpellò Melania incuriosita. «Chi? Il morto o l’assassino?» «No, no. L’assassino.» «Qualcuno sostiene che si tratti di più individui. Anzi, quasi sicuramente…» «Sì, sì» confermò Stella, prendendo un fazzoletto dalla manica. «Anch’io sono dello stesso parere.» «Prima troveranno i colpevoli, prima potremo ritenerci tutti più tranquilli» sentenziò Guglielmo che fino a quel momento non si era espresso. Isabella continuò: «Sembra che i bargellini abbiano messo sottosopra i luoghi di malaffare setacciando i rioni popolari in cerca di quella gente. Ma non si è scoperto niente.» «È un segno, vi dico! È segno che è ora di smetterla con queste sgualdrine libere di circolare per strada e importunare la gente, come se nulla fosse» disse Ubertino con voce stridula. «Meno donnacce girano per strada e meglio è» asserì Stella.


«Ma, mia cara» intercesse Gian Battista, «ciò che fanno queste signore non è altro che il mestiere più antico del mondo. Vuoi forse impedirglielo?» Lodrisio accentuò il carico, sorridendo: «Già. E se quei disgraziati avessero avuto a casa una donna timorata, che li avesse saputi comprendere, credi che avrebbero avuto bisogno di girovagare nottetempo, ponendo a repentaglio la vita?» Martina e Stella arrossirono e abbassarono il capo imbarazzate, segnandosi con devozione. «Sei la solita canaglia!» lo rimproverò Isabella, levando un dito ossuto. Intanto che il dibattito si incendiava Melania si alzò, accennando ad assentarsi. Rivolgendo un gesto esplicativo agli ospiti, indicò che si sarebbe allontanata solo per poco. Mentre si muoveva per la casa, silenziosa e guardinga come un felino, un pensiero tuttavia appannava la sua felicità. Come un drappo funebre, quell’ombra ne deturpava la gioia. In modo costante. Da settimane. Imboccò una rampa di scale e salì al secondo piano. Poi, accertatasi che nessuno la vedesse, entrò in una stanza. L’ambiente era pressoché vuoto, fatta eccezione per un grande armadio di noce, dalle rifiniture pregevoli. Si avvicinò. Nella mente continuavano a vorticare i discorsi uditi prima, a tavola. La mano che saettava, animata da una furia assassina, colpendo ripetutamente. Il sangue che schizzava violento. Con un gesto brusco cercò di scacciare quelle immagini. Per un attimo, le sembrò di dimenticare dove si trovava. Si sentiva impaurita, come quando da bambina si ridestava dopo un brutto sogno e chiamava angosciata i genitori. Ma adesso loro non c’erano più. E doveva cavarsela da sola. Accarezzò allora il mobile. Il contatto le trasmise sicurezza. In quel momento, era ciò di cui aveva più bisogno.


VI

11 novembre, verso sera, Palazzo del Capitano del Popolo Fuori dalla finestra, un tramonto livido e foriero di infausti presagi chiamava a raccolta le prime ombre della sera. Una torcia rischiarava scoppiettando la stanza dove il Capitano lavorava. E un filo di fumo si levava sinuoso verso il soffitto. Jacopo dovette sforzarsi di restare concentrato per non lasciarsi distrarre dalla sua danza ipnotica. Domine Fulgerio era seduto sul proprio scranno dietro a un tavolo di gusto spartano, essenzialmente sgombro tranne per la spada appoggiata con la punta rivolta verso il visitatore e l’elmo, sormontato da un vistoso pennacchio, abbandonato come per dimenticanza su un registro voluminoso. «Vi posso parlare?» Il superiore l’invitò a entrare. Alle sue spalle spiccava un arazzo con scene di caccia. Un molosso, acciambellato a terra, gli rivolse un’occhiata sonnacchiosa. Domine Fulgerio si alzò e andò a un tavolino, su cui era sistemata una brocca. Prese un boccale di terracotta e si versò del vino, rosso e pugnace: «Volete approfittare?» Jacopo declinò gentilmente l’invito: «Fate conto che abbia accettato.» Domine Fulgerio tornò a sedere e gli indicò uno sgabello: «Ebbene, qual buon vento vi porta?» Jacopo si avvicinò, meditando quale fosse il modo migliore per catturare l’interesse del superiore. Conosceva infatti la sua riluttanza a farsi


carico di qualsiasi cosa che anche solo da lontano puzzasse di problemi. In maniera rapida, sciorinò lo stato delle indagini, compresi gli ultimi sviluppi. Era determinato a far bene. Malgrado tutto, credeva ancora in ciò che faceva. Domine Fulgerio l’ascoltò distratto, mentre lisciava l’elsa della spada. Non era certo il tipo del filosofo. La sua insofferenza faceva intendere che avrebbe preferito avere altro da fare. «Capisco» ribadì a un certo punto, badando più che altro ad accorciare la conversazione. «Pur tenendo in considerazione le vostre ipotesi, mi sembra che in mano però non abbiamo niente.» Jacopo lo fissò, affatto sorpreso, provando un misto di rabbia e frustrazione. Fin dai tempi dell’Università non riusciva a digerire le angherie. Bologna era diversa dalle altre, i giovani che vi venivano a studiare erano i più intransigenti sostenitori delle libere idee. Non tolleravano vincoli: portavano molti soldi e volevano avere voce in capitolo. Al punto che non potevano essere processati e i bargellini non potevano accedere al recinto dell’ateneo. Lui era stato uno di loro, e a loro doveva la sua carica pubblica. Domine Fulgerio ne era al corrente, e non perdeva occasione di far pesare la distanza che li separava. Con serietà spocchiosa, cercò di convincerlo della bontà dei propri argomenti: «A mio parere, le indagini dovrebbero indirizzarsi su quei dannati ghibellini. Qualcuno di quei gaglioffi, muovendosi nell’ombra, sta mostrando tutto il malanimo che cova nei confronti di questa città, prendendosela con i suoi inermi abitanti…» Jacopo lo guardò allibito, mordendosi la lingua per non rispondergli come avrebbe voluto. Più parlava, più si sentiva smanioso di mandarlo al diavolo. Lui e tutti quelli della sua cricca. «Con il dovuto rispetto, messere» disse chinando il capo, «non credo che in questo caso c’entrino le questioni politiche. È vero, c’è del metodo negli omicidi. Ed è per questo che vi ravviso l’azione di una mente che ha accuratamente pianificato e messo in opera i suoi disegni, con uno scopo che al momento ci sfugge. Non una persona qualunque ma qualcuno che si muove con una certa libertà. Magari, che sa di godere anche di una certa impunità…» Domine Fulgerio lo fermò, impedendogli di terminare il ragionamento. «Intendete un nobile? Lo trovo del tutto senza senso» disse con fare sprezzante. «Un nobile non si macchierebbe mai di simili nefandezze.»


Poi, senza guardarlo apertamente, come se riflettesse tra sé, aggiunse: «Non avete considerato che potrebbe trattarsi invece, che so, di un manovale oppure un garzone?» Il modo in cui gesticolava era studiato apposta per persuadere. Jacopo si schiarì la voce a disagio, cercando di non farsi troppo malvolere. «Un plebeo? Certo è pensabile» disse facendo buon viso a cattivo gioco. «Ma quali motivi avrebbe avuto?» «I più disparati! I più disparati!» sbuffò il superiore, picchiando il pugno sul tavolo. «E non devo essere io a suggerirveli!» Jacopo non riuscì a contenersi. Inclinò la testa, raccogliendo le idee per spiegare il suo sentito punto di vista, senza tacere. Quando gli succedeva, sapeva in partenza di andarsi a cacciare in un sacco di guai. «Eppure» disse sorridendo in maniera accomodante, per cercare di rendere meno invisa a domine Fulgerio la sua versione dei fatti, «oggi ho scoperto qualcosa che potrebbe aiutarci a chiarire il mistero. Dove è stata rinvenuta l’ultima vittima ho trovato un bottone.» «E allora?» «Si tratta di un bottone speciale, totalmente estraneo alla gente di lì. Sia per la lavorazione. Sia perché è interamente d’oro. Pertanto ciò sembra instradarci nella direzione che dicevo…» Domine Fulgerio si inalberò: «Dove volete andare a parare?» Jacopo continuò, con franchezza: «Nessun manovale o garzone o chiunque altro del popolo potrebbe vantare un ornamento simile.» Ecco, l’aveva scodellata la verità. Poi, sempre sorridendo, aggiunse: «Quindi a perderlo deve essere stato per forza l’assassino.» Domine Fulgerio parve ponderare l’affermazione, questa volta senza obiettare. Jacopo ne approfittò per concludere: «È per questo che credo ci sia di mezzo un aristocratico. Chi l’ha perso deve essere ricco.» Sull’ultima parola aveva calcato l’accento di proposito. «E che mi dite di un mercante o un banchiere?» replicò con veemenza il superiore. «Chi gestisce grossi commerci o presta denaro a usura dispone di capitali ragguardevoli. E di gente così a Bologna inizia a essercene parecchia!» Jacopo cercò di smorzare i toni della discussione. Prese un respiro, le labbra piegate in una smorfia forzata, poi disse: «Io mi asterrei dallo spargere accuse senza possedere le prove. Avete presente cos’è capitato quando abbiamo tirato in ballo il diavolo, battendo la strada comandata


dal Podestà?» I disordini scaturiti erano un ricordo ancora vivo nella memoria di entrambi. Avevano coinvolto tutti, nobili, grassa borghesia e popolo minuto, portando a galla dissapori e rivalità mai sopite. E le fazioni si erano scontrate senza riguardi. Domine Fulgerio parve ammorbidirsi. «Caro Jacopo» disse con enfasi. «Il mio predecessore mi ha informato sul vostro conto. Per quanto valga l’impressione che date, e forse io e voi non siamo partiti col piede giusto, so che nel lavoro siete un tipo in gamba. Per cui voglio fidarmi. A dire il vero non mi importa un accidente di come vi muovete, basta che veniate a capo di questo pasticcio. Il Podestà mi sta col fiato sul collo ed esige che si stani l’assassino. Fatelo e troverete in me il vostro migliore alleato. In tutto, se mi avete inteso.» «Non temete» affermò Jacopo. «Gli darò la caccia notte e giorno finché non l’avrò preso.» Il Capitano accarezzò la piccola croce templare che aveva appuntata sul petto. Poi gli rivolse un cenno eloquente, invitandolo a congedarsi. «E ora andate. Ma non mancate di fare rapporto.» Jacopo lo salutò, senza gioia eccessiva. Era chiaro che quell’incarico gli avrebbe procurato soltanto rogne. Tuttavia era un gioco al quale non poteva sottrarsi. Vedendolo uscire, il mastino drizzò le orecchie. Poi, uggiolando, tornò ad accucciarsi.

FINE ANTEPRIMA CONTINUA…


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