MASSIMO BERNARDI
APPUNTAMENTO ALLA FORTEZZA Racconti di fine millennio
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APPUNTAMENTO ALLA FORTEZZA
Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-571-7 Copertina: Immagine fornita dall’Autore
Prima edizione Luglio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
a Dino Buzzati
“Ma la primavera è inesorabile”. Banco del Mutuo Soccorso, E mi viene da pensare
INTRODUZIONE
Nell’estate del 2006, durante un viaggio solitario sulle montagne venete, soggiornai per una notte a Belluno presso Villa Buzzati, la casa natale del grande scrittore e pittore che porta il suo nome ed è attualmente un bed & breakfast gestito da una sua pronipote. La villa cinquecentesca, con la chiesetta di famiglia, il granaio e lo splendido giardino con il panorama delle dolomiti bellunesi, è un luogo già molto suggestivo di suo. Che poi Dino Buzzati ci tornasse da Milano ogni estate per ricongiungersi ai suoi famigliari, che lì si ispirasse per i suoi racconti e la sua pittura, che da lì partisse per le sue escursioni sulle amate montagne, tutto questo ai miei occhi lo rende un luogo magico e quasi spirituale. Quella notte, dormendo in una delle sue stanze, mi aspettavo di avvertire qualche presenza soprannaturale. Una vecchietta fantasma che mi portava un bicchiere d’acqua, ad esempio, o la voce di uno spirito dei boschi, l’ululato di un lupo che aveva visto Dio. Non accadde nulla del genere, ma la suggestione fu ugualmente notevole e indelebile il ricordo. Quel pellegrinaggio laico fino alla sua casa natale mi ero ripromesso di farlo, prima o poi, fin dagli anni dell’adolescenza, quando il prof di italiano ci fece leggere Il deserto dei Tartari. Fu una folgorazione, e da quel momento cominciai a divorare gli altri suoi libri, leggendoli e rileggendoli più volte nel corso del tempo. Posso dire di essere cresciuto con le sue inquietudini, con il fascino discreto dei suoi misteri celati dietro alle pagine dei romanzi, dei racconti, degli elzeviri che pubblicava sui giornali. Forse ero già predisposto geneticamente al lato oscuro e inconscio delle cose perché intanto crescevo anche a musica dark e psichedelica, a fascinazioni di arte surrealista e simbolista, a visioni di film barocchi e sperimentali. Ma sono certo che Buzzati mi abbia influenzato parecchio, tanto nei temi quanto nello stile, e che se non avessi incontrato la sua scrittura, forse queste pagine non le avrei neanche scritte. Ecco allora, dopo i suoi Sessanta racconti, i miei settanta (e quello numerico è l’unico paragone che mi permetto di fare).Il primo, che dà il titolo al libro, è espressamente dedicato a lui, ma idealmente lo sono
anche gli altri. Si tratta di testi brevi, a volte brevissimi, che spaziano dalla storia surreale al diario intimista, dalla finta pagina di cronaca al sogno fatto la notte prima. Sono racconti postumi perchĂŠ, a parte poche eccezioni, risalgono tutti alla fine degli anni Novanta dello scorso millennio, e dunque arrivano con un certo ritardo. Ăˆ inevitabile che abbiano giĂ una patina di polvere, come di cose rimaste su un tavolo dentro a una stanza in penombra dove nessuno apre mai le finestre. Da allora sono passati appena quindici anni, ma sembra un secolo. Ci sono dentro riferimenti a personaggi e vicende ormai lontane. A governi, canzoni e programmi televisivi andati in archivio. A monete nazionali fuori corso. Racconto esperienze di studio e di lavoro che appartengono alle mie vite precedenti, abitudini del sabato sera con gli amici che si sono perse per strada, e innamoramenti folli per splendide ragazze di cui oggi a stento ricordo le sembianze. Ma a queste pagine sono affezionato, e dopo tanto tempo avevo voglia di aprirle, quelle finestre, per fargli avere un po’ di luce. Meglio tardi che mai. l’autore, marzo 2013
SOGNI E FANTASIE
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APPUNTAMENTO ALLA FORTEZZA
14 gennaio Per ora sono soltanto voci non confermate, aneddoti colti al volo qua e là, buoni per costruirci sopra una leggenda metropolitana. Sì, una di quelle storie inverosimili che nascono come funghi nel fertile terreno delle umane fantasie. Basta un niente, uno spunto, un semplice episodio di cronaca sul quale tessere i fili dell’invenzione e ricamarci sopra una storiella avvincente, da divulgare a macchia d’olio. In queste storie c’è sempre qualcuno a noi vicino - l’amico di un amico, una novella sposa che abbiamo conosciuto al mare, uno zio o un cugino di provincia- a cui succedono cose assurde. Assurde, eppure vagamente possibili, se una serie di coincidenze e di casi vi si infilano nella maniera giusta. Tanto che alla fine arrivi a crederci, come se fossero accadute veramente. Inquietante. Da qualche giorno mi ritrovo fra le mani i pezzi che potrebbero dare vita a una di queste leggende. Non so ancora valutarne il peso, l’effettiva consistenza. Eppure c’è nell’aria qualcosa, lo si respira, lo si avverte. Mi è bastato trascorrere un po’ di tempo alla stazione, sulle banchine a fare finta di aspettare il treno, per intuire i primi segnali. Forse perché lì dentro c’è un viavai maggiore, le persone e le idee viaggiano rapidamente, si spostano, si evolvono e mutano in tempi brevi. Chiuso dentro al mio cappotto e coperto da un abbondante giro di sciarpa nera, come una spia in missione, ho seguito il popolo dei pendolari. Nel loro su e giù per le scale, negli avanti e indietro sui binari, in sala d’attesa. Ne ho ascoltato i bisbigli mentre parlavano al cellulare; ne ho colto gli sguardi ansiosi, le smorfie e i gesti di perplessità; le poche parole di scambio quando per caso tra di loro si incrociano e per un istante si fermano a salutarsi. Tengo in tasca un taccuino, dove riporto ogni minimo indizio. Appunti per una leggenda. Oppure per un allarme, un miracolo, una divinazione. Per qualcosa che si sta muovendo. Non so ancora verso dove.
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17 gennaio Belluno. Un’anziana vedova che viveva da anni in una bella casa senza grossi problemi di convivenza con la famiglia di suo figlio è all’improvviso partita, spiegando in una lettera di saluto che si trattava di una cosa importante, molto importante; un sogno fatto la notte prima che “la chiamava lontano”. Le immediate ricerche del figlio non hanno dato alcun esito. Dolomiti friulane. Un alpinista altoatesino in cordata con un gruppo di amici sulle pareti del Monfalcon a un tratto ha detto di aver sentito una voce, e di non poter proseguire oltre. A nulla sono valsi i tentativi degli amici per dissuaderlo; se ne è andato da solo senza dare altre spiegazioni, diretto verso un’altra catena di monti più a est. Di lui si è persa ogni traccia. Bassano del Grappa, domenica pomeriggio. Un cinquantenne a spasso nel parco con il suo alano, lo ha visto impietrirsi,lo sguardo fisso sul tronco di un grande tiglio avvolto in uno strano alone luminoso. Il cane è rimasto così per almeno cinque minuti e poi di colpo si è messo a correre via a gran velocità, e non è più ritornato. Pasta e cappuccio al bar della stazione centrale. Rileggo sul taccuino le notizie di oggi appena scritte. Le ho raccolte da bocche diverse, come frutti freschi da portare al mercatino delle fandonie. Ma in fondo potrebbe averle raccontate la stessa persona. Sono partenze, partenze improvvise e ingiustificate. Di uomini, donne, perfino animali. O meglio, un motivo dovrà pur esserci, ma per ora ci rimane oscuro. Penso al plurale, come se i fatti fossero noti a tutti. Fingo di condividere questo segreto con gli altri,cosa che mi dà conforto e sostiene la fragile impalcatura delle mie paranoie. Ecco, ne sono certo, tutti sanno, anche le due signore che bevono il tè al tavolino di fronte, e pure il giovane che sta controllando sulla Gazzetta dello Sport i voti dei calciatori. Ormai lo sanno tutti, di queste partenze. Ma non ne parlano, o se lo fanno è sottovoce, di nascosto. Lontano dai giornali e dalla TV, dai palinsesti, dove intanto continuano a propinarci le solite cose grette e banali. Mentre l’ignoto, il mistero si insinua dentro alle nostre coscienze ogni giorno di più, e non ci darà tregua.
13 (Tu, Giulia, che ne diresti? Cosa potresti pensare? Scuoteresti la testa, lo so, con quel tuo modo di fare che ricordo bene. Mi daresti del visionario, o peggio, del pazzo). 19 gennaio Ormai non è più necessario mettersi addosso un cappotto e una sciarpa nera, andare alla stazione centrale e spiare i discorsi dei pendolari. Non occorre restare guardinghi, in disparte, dietro alle colonne delle banchine a origliare i passanti, a coglierne frammenti di frasi rivelatrici bisbigliate al telefono rivolte a sconosciuti interlocutori. Lo strano caso delle partenze improvvise sta uscendo dal recinto delle mie tare mentali per entrare nella cronaca, nel vissuto quotidiano. Se ne parla, finalmente, alla luce del sole. Gli scettici, e ce ne sono tanti (anche tu, Giulia, sei fra questi) gettano acqua sul fuoco. Tutte sciocchezze, dicono, non può esserci nulla di vero. Li vedi ai tavolini dei bar a sghignazzare e a farsi beffe di chi invece ci crede, e si preoccupa, e ci pensa sopra. Sull’altro fronte ci sono i ciarlatani, i paranoici, quelli che credono agli asini volanti. E in mezzo, dove mi trovo anch’io, un grande mare di cauti e di possibilisti. Qualcuno, incurante degli scherni, già grida al miracolo, ammonendoci che questi sono i segni dei tempi. Come a dire che Dio, o chi per lui, ci sta chiamando a rapporto. È una specie di cartellino giallo per scuotere le nostre coscienze intorpidite. Ma è proprio Dio che si sta scomodando in modo così plateale? E poi, per dirci cosa? Non potrebbe essere piuttosto un santo minore, uno di quelli che stanno fuori dal calendario? Oppure un povero diavolo di provincia che va in cerca di anime perse, perché no. O magari un UFO, sì, un marziano senza pretese che è arrivato in ritardo, dopo tutti gli incontri ravvicinati che abbiamo visto al cinema negli ultimi cinquant’anni…è inevitabile che alle notizie presunte vere si aggiungano ormai anche gli scherzi, le battute, le storielle inventate di sana pianta. Così da alimentare il fuoco delle dispute, delle schermaglie verbali, in una babele di ipotesi che crea soltanto confusione. Ma di che cosa si sta parlando? Che cosa ne sappiamo veramente? Per ora ancora poco. Sembrerebbe -il condizionale è d’obbligo- che in questi primi giorni dell’anno varie persone, nelle regioni del Nordest, siano state coinvolte in un fenomeno nuovo, sconosciuto e inspiegabile. Una sorta di esperienza paranormale, di natura non chiara. Ho detto persone ma non è esatto, non si tratta solo di uomini. Alcuni casi riguardano animali
14 domestici, e perfino bestie del circo. Luoghi e circostanze sono anche molto diverse, ma in tutti i casi succede sempre la stessa cosa: l’uomo, la donna, il bambino, la bestia in questione vede, oppure -più di frequentesente qualcosa, qualcosa tipo una voce o un richiamo, e all’improvviso parte, se ne va, non se ne sa più niente. 21 gennaio (Il vento dell’inquietudine soffia forte, adesso. Nessuno può più restare indifferente di fronte a tanto mistero. Neanche tu, Giulia, ovunque tu sia in questo momento. Anche se stai facendo shopping nella grande città, o se qualcuno dei tuoi potenti amici ti fa strada tra i corridoi della sua dimora, nel suo castello, sulla sua barca panfilo transatlantico per una gita sul lago, promettendoti oro e gioielli di cui poi, come da copione, ti riempirà. Giulia, Giulia mia… anche tu che hai voltato le spalle ai sogni dovrai pur porti qualche domanda, adesso). Ormai è un mormorio generale, un brulicare continuo di affermazioni e smentite. Lo scetticismo arretra e resiste nelle ormai poche roccaforti del dubbio, mentre dilaga lo stupore. La lista degli scomparsi va aumentando di ora in ora. I testimoni raccontano le scene delle partenze a cui hanno assistito impotenti, oppure parlano di biglietti, di avvisi lasciati sul tavolo, addii tracciati col dito sui vetri appannati delle automobili. Ma dove vanno i chiamati? E chi li chiama, e perché? L’interesse intorno alla vicenda cresce in maniera esponenziale e abnorme, dilagano versione false e contraddittorie. In questa baraonda di voci le famiglie degli scomparsi vogliono farsi sentire per fare luce, avere un po’ di conforto e sperare di ritrovarli presto. Così iniziano ad aprirsi, a parlare, rilasciando le prime timide interviste ai giornali locali. Vengono fuori aneddoti, nuovi particolari, i pezzetti del mosaico messi insieme cominciano lentamente a mostrare un disegno. Sappiamo che il fenomeno interessa un’ampia zona geografica, dall’alta val Padana fino all’arco alpino tra il Veneto e la Venezia Giulia. I chiamati partono da luoghi diversi, dalle città come dalle campagne o dalle valli, ma si dirigono tutti nella stessa direzione. Vanno a nordest, verso il confine austro-sloveno. Ma a un certo punto se ne perdono le tracce, come se in vicinanza della frontiera sparissero nel nulla. Qualcosa li chiama, e loro non possono fare a meno di andare. Qualsiasi cosa stiano facendo, si sentono irresistibilmente attratti. Vanno verso un
15 raduno, un convegno, una rivelazione? Nessuno sa cosa diavolo ci sia in quel messaggio. Non può essere un semplice richiamo mistico, perché tra quella gente ci sono anche atei, agnostici, e perfino animali. Pare che Dio non c’entri, insomma. C’è un’altra cosa, che fa riflettere. Tutte queste persone che partono vengono descritte allo stesso modo. Introverse, schive, particolarmente sensibili. Anziani, giovani, donne, ragazzine, bambini, cani, conigli, cavalli… creature fragili, sognatrici, chiuse ciascuna dentro al proprio mondo. Ci sarà pure un motivo. 22 gennaio (Te la ricordi, Giulia, quella poesia sul silenzio della notte che avevo scritto l’anno scorso a ferragosto? Ma no, impossibile. L’avrai letta a stento una volta, distrattamente, e solo per farmi un piacere). …il momento del silenzio quasi assoluto quando camion e macchine sulle tangenziali si rarefanno fin quasi a scomparire nelle discoteche si spengono di colpo i decibel e anche i più nottambuli viveurs prendono ormai la strada verso casa quando il filo invisibile del tempo si stende da una parte all’altra delle città sospeso a mezz’aria sopra i tetti i palazzi gli svincoli le ciclabili i giardini le statue le fontane i pannelli pubblicitari e lentamente sgocciola i suoi secondi sparge i minuti tesse la trama delle ore quando sporgendosi alla finestra anche il più disattento degli uomini può udire i piccoli suoni delle cose sottofondo dell’universo
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È successo proprio stanotte quello che in un qualche modo dentro di me speravo. Saranno state le quattro e un quarto, proprio il momento del massimo silenzio. Me ne stavo in cucina, dietro alla finestra con la persiana mezza alzata e in mano un bicchiere d’acqua. Mandavo giù piccoli sorsi e guardavo fuori. Mi ero svegliato mezz’ora prima e non riuscivo a riprendere sonno. Sui rami degli alberi c’era una specie di agitazione. Si muovevano sbattendo l’uno contro l’altro, descrivendo linee spezzate e confuse. Fuori doveva esserci un gran vento e molto freddo. Ho voluto sentire quanto vento e quanto freddo c’era, allora ho aperto la finestra. E in quel momento anch’io, non so se per puro caso o per una precisa forma di destino, nel mio piccolo e in estremo ritardo, sono stato messo al corrente. Sono entrato a far parte dei chiamati. Non so da dove, da quale lontananza, ma nell’istante in cui ho messo la mia faccia dentro alla notte, pochi centimetri fuori dalla finestra, mi è giunto alle orecchie un soffio gelido e in quel soffio c’era dentro un bisbiglio, un mormorio fragile e sottile. Erano voci sovrapposte, concitate, che subito stentavo a riconoscere ma che poi ho intuito. Di quelle voci ho afferrato qualcosa. I brandelli di una frase ridondante, ripetuta come tante eco una sull’altra. Non ci è voluto molto per capire; quello era il messaggio, il suo invito a partire. Partire al più presto per raggiungerlo nel luogo fissato. Mentre stavo affacciato alla finestra questa notte gli spiriti silvestri -quasi certamente proprio loro, quelli del Bosco Vecchio- mi hanno invitato all’appuntamento. E adesso che si è fatto giorno ho preso le mie poche cose e sono già in viaggio, diretto a nordest. 23 gennaio Sono stato scelto anch’io, sebbene tra gli ultimi. Forse il richiamo di stanotte era per i più mediocri. Quelli non così sensibili da essere avvertiti subito, ma abbastanza per meritarsi un invito in extremis. Fino a dove saranno giunte quelle voci? Fino a quale avamposto, o catena di monti, a quale baia sul mare se ne sarà sentito il mormorio? Forse era proprio l’ultimo avviso, quello aperto alle più larghe fasce di pubblico. Un po’ come quando ai concerti negli stadi si vendono prima i biglietti ai paganti e quelli che arrivano dopo devono accontentarsi di vedere le briciole dello show, quando ormai volge al termine. O forse no, pecco di pessimismo. Può darsi che lui ci stia aspettando tutti quanti, e che non
17 cominci finché non sarà giunto anche l’ultimo dei convocati, il sognatore dei minuti di recupero. Ci vuole una certa fede nel fantastico per proseguire su questa incerta rotta. Non ci hanno detto dove sia esattamente quel luogo, a quanti giorni di cammino, né quante suole di scarpe consumeremo prima di arrivarci. Forse più avanti ci sarà un passaggio, una qualche macchina meravigliosa che ci trasporterà veloce verso destinazione. E se non è una macchina sarà una creatura volante, un mostro buono, chissà. Ci hanno detto soltanto di partire e proseguire fiduciosi. Andare avanti, aspettando che sia lui stesso, in qualche modo, a guidarci. 25 gennaio (Dovresti proprio vedermi, Giulia. Vedere con quanta serenità sto camminando con il mio zaino in spalla, riempito di poche cose. Vorrei che tu fossi qui almeno per un istante, a condividere con me questo viaggio pieno di scoperte, di piccole emozioni che vengono avanti a ogni passo. Dovresti conoscerli i miei compagni di avventura, te li presenterei uno a uno. Tutta gente buona, di una grande forza interiore. Un po’ strani, forse. Non potresti fare a meno di stupirti, nel riconoscere quanto è vario il mondo. Sarebbe un modo per capirmi, per capirci, finalmente. Ma noi non ci siamo mai capiti, neanche quando si andava insieme sullo stesso binario. Figurarsi adesso, ora che sei lontana chissà dove e rincorri cose che non mi appartengono). Sono partito da solo tre giorni fa, ma ne ho già incontrati molti sulla mia strada. Ho fatto amicizia con poeti, camerieri, postini, perfino nobili decaduti. Noi che stiamo andando tutti verso quel punto facciamo presto a riconoscerci, anche da lontano. Ci capiamo al volo, senza bisogno di tanti discorsi. Siamo tutti in balia di questo incantesimo, di cui sappiamo ancora poco. Ma quel poco ci basta per andare avanti, in un clima di attesa che cresce a ogni passo. L’attesa di incontrarlo, finalmente. E di ascoltare quel che ha da dirci, trent’anni dopo. 27 gennaio Giungiamo dai più diversi sentieri, ma convogliamo tutti verso le stesse catene montuose, i medesimi passi. Dalle vallate, da ogni parte scendono schiere di impiegati con la ventiquattrore, famiglie di zingari in carovana, plotoni di lontane armate a cavallo. Avventurieri, corsari,
18 bambini mai nati… tutti quanti vengono a ingrossare il lungo serpentone dei chiamati. Io sono in coda, un po’ defilato, ma in buona compagnia. Si dice che davanti a tutti, a qualche ora di cammino ci siano i suoi preferiti, i suoi figlioli, le creature da lui stesso gemmate e riprodotte in migliaia di copie nelle pagine dei suoi libri. Vanno avanti in fila, con le fanfare e i gonfaloni, in una specie di parata festosa per rendergli omaggio. Tra loro ci saranno senz’altro Barnabo delle montagne, Floriano l’eremita, il custode della piccola chiesa in val Morel. Il giovane soldato che da morto è tornato indietro a salutare la mamma, il cane randagio che ha visto Dio. I sette messaggeri partiti in nome del re, le anime dei briganti che diedero l’assalto al grande convoglio. E anche gli spiriti del Bosco Vecchio, quelli che sussurravano nel vento in quella notte della mia chiamata. E poi dottori, avvocati, autisti, beccamorti. Sarte, ragazzine, vecchie suore. Folletti, fontane magiche, ombre della notte. Gatti randagi, orchi, ranocchie che saltano nei giardini, nuvole a forma di qualcosa. Un popolo di personaggi, di uomini e bestie, di vivi e di fantasmi partiti dalle loro case, usciti dalle sue fantasie sta muovendo verso il luogo prescelto. Lassù dove le cime dei monti sfiorano il cielo e dalle torri più alte si può scorgere, senza vederne la fine, l’immenso deserto dei Tartari. Per chi vuole ancora sognare appuntamento alla fortezza Bastiani, diceva il messaggio. L’appuntamento è con Dino, proprio lui in persona. Torna dopo trent’anni nel mondo dei vivi, deve dirci ancora qualcosa. Prima che l’oblio del tempo, che cala come un nero mantello su ogni cosa, ne seppellisca lentamente il ricordo. Cosa ci racconterai dopo tanto tempo, Dino? Una favola postuma dimenticata in fondo a un cassetto? I segreti delle stagioni, i pensieri degli alberi e degli animali? La struggente poesia delle notti di plenilunio quando ti accorgi del silenzio? O ci rivelerai qualcosa del nostro mistero ultimo, quello che ci aspetta di là, oltre l’estrema frontiera? Oh, non importa. Qualunque cosa sia noi ci saremo, in prima fila o nell’ultimo posto laggiù in fondo. Dopo la lunga fatica del viaggio verremo ad ascoltarti, avvinti come sempre dalle tue storie. Proprio come allora, da ragazzi, quando d’inverno nella fredda stanza ti si leggeva con accanimento, ancora una pagina, un’altra, un breve racconto prima di spegnere la luce e prendere sonno.
19 (Pensa, Giulia, sono passati giusto trent’anni, i nostri anni. Che strana coincidenza; mentre lui fermo in un letto attendeva che il suo reggimento venisse a prenderlo nasceva la nostra generazione, quella dei primi anni Settanta. Sembra quasi un passaggio di consegne, di un testimone alla staffetta. Ma ora mi chiedo se abbiamo proseguito su quella corsia o piuttosto ce ne siamo andati altrove, per altre strade più sicure e molto più facili? Sa ancora immaginare la nostra generazione? Domanda retorica, se penso a te e a molti altri coetanei). una sera imprecisata d’inverno L’aria è fresca e l’atmosfera trepidante, come nei primissimi istanti di un concerto. Ci sono cinque o sei lune, gli equinozi e i solstizi si sfiorano come leggiadre danzatrici in un teatro orientale. Mille luci colorate diffondono arcobaleni boreali e dalle foreste intorno giunge il canto soave delle sirene. Ovunque melodie, zampilli di cascate, giochi di specchi. Una sagoma enorme, buffa e gentile si è materializzata nel cielo e ora galleggia a mezz’aria come un pallone, proiettando al suolo un’ombra tremolante e impalpabile. Da lassù ci guarda e sorride, il mostro buono.È il Babau, la superstite fantasia che ancora corre, e trotta, e galoppa sui cieli di frontiera, il più lontano possibile dalle città, al riparo dagli schioppi dei cacciatori. Dino è certo con noi, uno di noi, mescolato alla folla. La sua magia vola ancora una volta, al di sopra di tutto. (Giulia, mi dispiace che tu non sia qui a fare parte di questo incantesimo. Ma sei tu che hai voltato la spalle ai sogni per inseguire altre cose).
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LA BATTAGLIA SENZA FINE
Nel maggio 1988, durante la gita scolastica della seconda classe con gli allievi dell’Istituto d’Arte “Pontormo”, per la prima volta nella mia vita varcai le soglie dell’Alte Pinakothek di Monaco. Eravamo solo un branco di studenti svogliati e disattenti, poco inclini a respirare l’odore dei musei. Ci interessavano di più altre cose: gli scherzi in camera, i pistoni di birra tracannati all’Hofbrauhaus e soprattutto quelle mezze avventure con le ragazze di Baviera, da raccontare poi agli amici con qualche piccola aggiunta. Eppure di quella visita al museo mi restò un’immagine viva, la forza evocatrice di tutti quei quadri antichi fiamminghi, tedeschi, nordici- che riassumevano insieme l’arte e la storia d’Europa, le nostre radici. Una tela su tutte mi aveva colpito per la sua grandiosità: la Battaglia di Alessandro e Dario a Isso del 1529, l’opera forse più famosa di Albrecht Altdorfer.Rimasi immobile a contemplarla per qualche minuto mentre il prof spiegava noiosamente la vita dell’artista e i miei compagni già passavano alle sale successive. Fu un potente impatto visivo, una rosa di forme e cromatismi che non avevo mai visto prima. Tutte quelle figure in battaglia, centinaia o forse migliaia, i cavalli, gli stendardi, gli elmetti luccicanti dei soldati, le lance, i pennoni delle tende, e poi su con lo sguardo fino alle punte dei campanili e delle torri nella città murata, lontana sullo sfondo, sovrastata dall’imponente montagna di roccia, e ancora più in là, nelle sfumature di azzurro dove il lago e il cielo si confondevano, l’orizzonte si faceva curvo e la distanza infinita, e tra lo squarcio aperto delle nubi arruffate si insinuava la luce ocra del sole… Prima di andarmene gli scattai una foto con la Polaroid che mi aveva appena regalato mio padre. Era proprio in quei giorni che stava nascendo, insieme a quella per l’arte, la mia passione per la fotografia. Passarono alcuni anni. Presi la maturità e decisi di proseguire gli studi. Mi laureai in Storia dell’Arte con una tesi sul Manierismo italiano. Con le prime supplenze nelle scuole cominciai finalmente a guadagnare quel poco che mi bastava per comprare le biografie degli artisti, visitare i musei e le pinacoteche che prima non mi potevo permettere. Intanto
21 continuavo a dedicarmi alla fotografia, arrivando pian piano a costruirmi in casa un piccolo laboratorio di stampa. Nel settembre 1997, durante l’Oktoberfest, ero di nuovo a Monaco con un gruppo di amici. Fu in quell’occasione che ritornai all’Alte Pinakothek. Visitai per la seconda volta la sala della Battaglia e l’emozione fu la stessa di otto anni prima. Con la nuova Nikon stavolta non mi risparmiai. Mi ci andò mezzo rullino, tra fotografie d’insieme prese da diverse angolazioni e inquadrature ravvicinate dei particolari. Tornato a casa sviluppai le foto, poi andai a ripescare la vecchia Polaroid del 1988. Volevo fare un confronto, vedere quale evoluzione ci fosse stata nel mio modo di fare fotografie dopo nove anni. Dal momento che la vecchia istantanea era molto piccola rispetto alle ultime stampe ne feci una fotocopia a colori molto ingrandita. Quando finalmente potei fare un confronto alla pari fui preso da una strana inquietudine, perché c’era qualcosa di anomalo. La vecchia Polaroid ingrandita era troppo sgranata per vedere bene i particolari, ma nell’insieme mi appariva insolitamente diversa dalle foto recenti. Come se veramente certi punti del quadro, certe zone di colore, non fossero più le stesse. D’altronde era evidente che i colori dell’istantanea col tempo si erano un po’ modificati, e anche la fotocopiatrice poteva averli un po’ alterati. Non avevo elementi sufficienti per indagare oltre, e in breve tempo smisi di pensarci sopra. L’anno scorso mio padre, involontariamente, riaprì il caso. Conoscendo bene i miei gusti, per il mio trentesimo compleanno mi regalò l’enciclopedia della pittura del Rinascimento tedesco. Un’edizione di pregio in dieci volumi stampata nel 1979 a Norimberga. Si scusò per il fatto che era scritta in tedesco, ma mi fece notare come tutte le opere riprodotte fossero stampate in grande formato, ripiegate in due e anche in quattro parti dentro al libro. Un volume era per buona parte dedicato ad Altdorfer e la La Battaglia di Alessandro e Dario a Isso occupava diverse pagine, con numerose osservazioni e analisi dei migliori critici d’arte. La riproduzione del quadro, quanto a dimensioni, era paragonabile ai miei ingrandimenti. La curiosità, unita a quel vecchio scrupolo, mi portò ancora una volta a un confronto. E quello che era stato un senso d’inquietudine si tramutò in vero e proprio sgomento. Il sole che avevo fotografato io si trovava visibilmente più in basso, a contatto con la linea dell’orizzonte. Alcuni piccoli lembi di nuvola erano orientati in un altro modo rispetto a quelle del libro. La visione di massa della battaglia nel suo insieme pareva la stessa, ma osservando bene i
22 singoli soldati e i cavalli si vedevano chiaramente delle differenze nelle posizioni delle braccia e delle gambe, delle teste, delle code, delle punte delle armi. Perfino l’illuminazione era cambiata, e non si trattava di semplici differenze cromatiche di stampa. Nelle mie foto le ombre e i contrasti erano più accentuate. La illustrazioni dell’enciclopedia e le mie foto, che riproducevano lo stesso identico quadro, erano diverse! Mi trovavo senza alcun dubbio di fronte a un fatto inspiegabile. Non volevo attendere oltre. Con tutto il mio armamentario di libri e fotografie tornai di corsa al museo di Monaco, e per la terza volta mi posi di fronte all’originale della Battaglia. Non più per ammirarne la bellezza, ma per studiarla a fondo e indagarne l’arcano segreto. Passavo ore davanti al quadro, passandolo al setaccio in tutti i suoi punti e confrontandolo minuziosamente con tutte le mie riproduzioni. Poi andavo nelle biblioteche e negli archivi a cercare altre prove, altre stampe ancora più vecchie, fino a ricostruire una linea temporale sempre più ampia e precisa, così rivelandosi sempre più chiaramente il mistero del quadro. Poi ritornavo nella sala di Altdorfer, tra la curiosità dei turisti e il disappunto dei custodi del museo, per i quali ero solo un pazzo professore paranoico. E forse lo sono davvero, poiché non ho più altro pensiero che questo. Non riesco neanche a dormire, le mie notti sono tormentate dagli incubi. Ma come si può restare indifferenti di fronte a tanto inquietante prodigio? E poi mi chiedo: sono davvero io l’unico a sapere? Forse i critici, gli esperti d’arte già ne sono al corrente ma non gli danno importanza, oppure fanno finta di niente per non creare allarmismi, per non inquietare le coscienze, e si guardano bene anche solo dall’accennarlo con i loro cari. Non lo so. Noi stiamo qui a fare le nostre cosine, a continuare le insipide vite di sempre. E là, intanto, nell’ombra della sala di Altdorfer avanza il passo dilatato del tempo, ci sovrasta il mistero delle cose molto, molto più grandi di noi. La battaglia di Alessandro e Dario non si è conclusa, sta continuando sotto i nostri distratti occhi al ritmo che gli orologi non possono percepire. Lento, lentissimo, lo scenario del quadro va mutando, piccole macchie di colore si spostano di pochi millimetri all’anno. Il sole impiegherà decenni o centinaia di anni, ma prima o poi arriverà a tramontare spegnendo le luci sul campo di battaglia, mentre i soldati dipinti nell’atto di combattere saranno nei secoli trafitti, feriti, uccisi, rovinando al suolo in un giorno lontanissimo. E chissà quando, dopo una notte infinita, il sole arriverà a spuntare dall’altra parte. Allora la luce del
23 nuovo giorno ricomincerĂ lentamente a illuminare un campo di morte, le tende vuote dove agonizzano i pochi sopravvissuti, le carogne dei cavalli e i resti degli uomini, sparsi ovunque, sotto un cielo ormai sgombro dalle nubi.
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ESERCITAZIONE DI ZOOLOGIA
Come sapete, oggi faremo delle osservazioni al microscopio. Ho preso dei campioni di ambiente diverso, per fare un confronto il più possibile ampio. Ci sono delle piccole zolle prese dal prato, nel giardino di casa mia, per quelle non occorreva andare chissà dove. I campioni di fiume invece sono andato a prenderli in Panaro, un po’ in alto, verso le prime montagne, sennò non si trovava niente. A proposito, sapete che il numero di specie che si raccolgono in un fiume è indice diretto del suo inquinamento? Ci sono proprio delle tabelle, divise in classi, bla bla bla… Secondo anno di Biologia, un pomeriggio. Il professor Procopio, zoologo, si dilungava nell’introdurre la lezione, ma gli studenti ascoltavano con inconsueto interesse. Finalmente qualcosa di diverso dal solito: un’esercitazione pratica, con le curiose bestiole in carne e ossa. Il meglio però è nella lettiera, fresca fresca, l’ho presa dal sottobosco dell’Appennino. Cosa ci troverete? Be’, ormai lo dovreste sapere, la lettiera è un ottimo ambiente per la crescita di molti invertebrati. Ci sono le giuste condizioni di umidità, temperatura, pH, sapete quanto è importante il pH, c’è un intervallo ottimale per il metabolismo, bla bla bla… Adesso passerò a darvi i campioni, mi raccomando fate attenzione, maneggiateli con cura, non voglio tornare su a prenderne degli altri… L’esercitazione infine, cominciò. I ragazzi, chini sui microscopi, posizionarono i vasetti con i campioni, regolarono il fuoco e la luce. Dal tondo illuminato dell’oculare, tra fili d’erba, terriccio, sassolini e altre mille piccole cose apparvero dal vero le creature invisibili, fino ad allora viste solo sui libri. Il professore passava di banco in banco a dare consigli e spiegazioni. Poi andò alla lavagna a scrivere dei nomi. Gli animali nuovi che trovate veniteli a scrivere qui alla lavagna, vi ho già diviso le classi, voi venite a segnare la famiglia, se riuscite anche la specie. Nella lettiera, avrete visto tutti ormai, ci sono molti collemboli, qualche acaro e molti altri insetti piccoli, insomma un po’ di tutto…nel prato anche qualche oligochete, ho visto che ne avete già
25 trovati…nell’acqua di fiume? Be’, sicuramente dei rotiferi, quelli che si muovono a fisarmonica, sì proprio quelli, poi se mettete l’ingrandimento massimo potreste vedere dei tardigradi, sono quei vermi con le zampette che si attaccano ai fili d’erba, sì sì, quelle specie di orsetti così carini, però sono molto piccoli, solo con l’ingrandimento massimo…adesso se avete finito potete scambiarvi i vasetti, così fate un confronto, intanto io preparo il fissatore per dopo… I ragazzi erano entusiasti. Guardavano, cercavano, esploravano ogni angolo dei vasetti. Parlottavano tra loro, cambiavano di posto, si passavano i campioni. Solo il Boldrini, ultimo in fondo, pareva tutto assorto nel suo microscopio. Non alzava mai la testa e non parlava con nessuno. Ma si sapeva, era un tipo taciturno e schivo. Scriva più grande, però, che da là in fondo non vedono niente…forza, se avete qualcos’altro, c’è la lavagna ancora vuota…bravo, ha trovato uno psocottero, è difficile perché sono velocissimi, peggio dei millepiedi…e qui nel prato niente di nuovo, dice, solo qualche pidocchietto qua e là…se volete vedere là nel microscopio sul primo banco ho trovato un tardigrado, è al centro fermo immobile, per forza, è morto stecchito poveraccio, sì proprio nel mezzo, si vede anche abbastanza bene… Ve l’avevo detto che nella lettiera del secondo giornosi trovavano anche quelli un po’ più grossi, tipo coleotteri, dipluri, proturi. I proturi sono quelli senza la furca, con le antenne corte corte, bianchicci, sì sembrano un po’ patiti…ormai avete visto tutti, avete girato, vi siete scambiati i vasetti, bene. Siete già andati a vedere il rotifero fissato, bravi. Guardate pure ancora per un po’, così vi rimangono impressi, potete anche disegnarveli su un foglio…e lei là in fondo, Boldrini, cosa mi dice? Scusi sa ma mi preoccupa, è da un’ora che è seduto laggiù senza muoversi, si faccia almeno un giretto. O forse ha trovato una bestia strana, magari una balena, e non ce la vuol far vedere…no, sto scherzando ovviamente. Niente di nuovo, dice, non ha trovato nessun animaletto nuovo da scrivere alla lavagna? Va bene, allora, continui pure… Al Boldrini, nell’ultimo banco in fondo, batteva forte il cuore. Pallido in viso, sconvolto, aveva una segreta preghiera… “Corri, corri piccolo cavallo bianco, salta i granelli di terra, scavalca i sassolini, confonditi tra i fili d’erba, galoppa lontano, oltre l’orlo del vasetto, oltre il banco, fuggi dai nostri occhi, dagli esperimenti che vorranno farti, e sii libero!”
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UNA STRANA PARTITA
Prima delle leggende metropolitane ci fu l’epoca di quelle agresti, tipicamente ambientate nei boschi di montagna o nelle campagne. Erano leggende forse un po’ più poetiche, certamente più ingenue. Racconti semplici, che nascevano magari davanti a un camino acceso in una notte di neve, o ispirandosi alle profondità misteriose di un pozzo notturno in mezzo a un campo di grano. Passavano presto di bocca in bocca, e da sussurro all’orecchio diventavano piccole grandi storie, alle quali molti finivano per credere come realmente accadute. Raramente si espandevano lontano, al massimo i due o tre paesi confinanti, non di più. Oltre questo raggio perdevano credito, soffocate da altre leggende proprie di ciascun posto. Una di queste ultime favole campagnole note dalle mie parti risale agli inizi degli anni Settanta. Circolava nella Bassa modenese tra Cavezzo e Concordia sconfinando in territorio reggiano, e a nord non andava oltre il Po. Nata proprio in quell’epoca di transizione così mutevole risente già del clima moderno dei giorni nostri, e non a caso il contesto della vicenda è una partita di calcio. Una partita come poteva essere allora, quasi trent’anni fa, in un punto qualsiasi della nebbiosa pianura padana, tra pioppi neri e argini di fiume. La leggenda in questione narra di uno strano caso, quello della partita mai giocata. Accadde a Disvetro, località nel comune di Cavezzo, una domenica pomeriggio del novembre 1969. Nell’unico rettangolo verde del paese dovevano affrontarsi la squadra di casa e la formazione del Quarantoli, piccola frazione confinante. Una partitella di seconda categoria tra due compagini rurali, qualcosa di non molto diverso da un odierno “scapoli contro ammogliati”. Oltretutto era una giornata fredda e grigia, quasi invernale, che scoraggiava chiunque a restarsene fuori, figurarsi poi per un incontro del genere. Così sulle tre panche di legno lasciate a disposizione del pubblico c’erano soltanto un gruppetto di amici del bar, più il barbiere Ivano -un patito di calcio- e don Franco, parroco del paese, che di calcio non capiva niente ma gli piaceva stare in mezzo ai giovani. Le due squadre erano già scese in campo e i giocatori correvano avanti e indietro per riscaldarsi, finché l’arbitro li richiamò per
27 fare l’appello. Si fa per dire, perché a quel tempo nei paesi non c’erano ancora i cartellini delle società sportive, bastava semplicemente contarsi per vedere se si era in undici. Fin qui niente di strano. Ma a questo punti i fatti prendono una piega a dir poco incredibile. Si dice che subito dopo l’appello, nel giro di un minuto scese giù un nebbione fitto fitto, una fumana da non vederci più niente. A dirla così non fa effetto, ma quelli che erano presenti ci rimasero proprio di stucco perché la nebbia di solito viene giù piano piano, che uno fa in tempo ad abituarsi. Ivano brontolò qualcosa, forse una bestemmia, perché a lui le bizzarrie del tempo lo facevano andare in bestia. Don Franco si fece il segno della croce, non gli sembrava una cosa normale. Che ci fosse lo zampino del Diavolo? I ragazzi del bar scherzavano, sembravano divertirsi. Tutto quello che si riusciva a vedere era un gruppetto di giocatori che andavano verso il centro del campo insieme all’arbitro a fare “testa o croce” per decidere il calcio di inizio. Quando furono proprio al centro nessuno poté più distinguerli, si sentivano solo le voci. Per un po’ i giocatori confabularono, poi si sentì qualcuno gridare forte come se stessero litigando. Erano nervosi, non si capiva bene. Anzi, non si capiva proprio niente. Tutti i ragazzi rimasti sparsi sul campo si radunarono al centro sparendo nella fumana, e nessuno ne ritornava fuori. Continuavano ad arrivare voci e urla, imprecazioni, parolacce. Ivano e don Franco si interrogavano l’un l’altro inquieti. Qualcuno stava male? Che fosse successo qualcosa all’arbitro? Ma allora perché non correvano a chiamare aiuto? E se nessuno stava male, qual era il problema? La cosa andò avanti per qualche minuto. Poi finalmente i giocatori riapparvero dalla nebbia insieme all’arbitro. Ma invece di prendere posizione in campo si indirizzarono dritti agli spogliatoi. Scuotevano la testa senza dire nulla. Qualcuno brontolava con l’arbitro con larghi gesti come a significare che non era possibile, che così non si poteva. Ma non si poteva cosa? Ivano, don Franco e i ragazzi del bar si resero conto che la partita era morta lì prima ancora di cominciare. Ma continuavano a non capire perché. Provarono a fermare i giocatori per farsi spiegare, ma questi non avevano voglia di parlare e, scansandoli, tiravano dritto. Sembravano molto arrabbiati ma al tempo stesso scossi, quasi sconvolti. L’arbitro passò loro davanti in tutta fretta farfugliando qualcosa tipo “la partita non si fa, la nebbia non c’entra, non chiedetemi altro”. Doveva essere successo qualcosa di strano al centro del campo, che nessuno voleva rivelare. E per un po’ di tempo un’ombra di omertà scese sul
28 paese come se tutti i presenti, testimoni di un qualche misterioso avvenimento, dovessero conservarne il segreto. Anche a costo di lottare ogni giorno contro l’insistenza della gente, oltremodo curiosa e impicciona, che voleva sapere. Soltanto qualche settimana dopo, in confessionale, il giovane Alberto che giocava nel Disvetro lasciò trapelare qualcosa a don Franco. Questi, da bravo prete, si impose di non rivelare mai il contenuto della confessione. Ma come uomo, come paesano, gli fu impossibile tacere proprio tutto e così, a distanza di mesi, qualche cosa venne fuori. Piccoli indizi, mezze frasi masticate tra i denti nelle omelie, allusioni, metafore. Ma quel poco bastò. La gente poi ci ricamò sopra, rattoppando qua e là i buchi, e in breve ne venne fuori una storia decisamente inconsueta. Nonostante vi fosse in paese un certo scetticismo questa diventò fin da subito la versione, prima ufficiosa poi ufficiale, di come si erano svolti i fatti. La leggenda della partita mai giocata vuole che in quel famoso giorno del novembre 1969 il diavolo in persona fosse di passaggio a Disvetro e che, prima di andarsene, volesse combinarne una delle sue. Saputo della partita, poiché non gli venne in mente niente di meglio, decise che questa non si dovesse giocare. Mandò perciò una nebbia fitta sul campo per isolare i giocatori dal mondo esterno, e nel momento in cui l’arbitro lanciò in aria la moneta per il “testa o croce” di nascosto l’afferrò e se la tenne, lasciando i giocatori con un palmo di naso. Tutto quello che videro l’arbitro e le due squadre fu la moneta che spariva nella nebbia e non tornava più giù. Qualcuno poi si era anche messo a cercarla per terra, ma era evidente che non fosse mai ricaduta. Il diavolo poi mise zizzania nei pensieri dell’arbitro, che pur non capendoci niente intuì che la partita, per un qualche motivo trascendente -forse di origine malignanon s’aveva da fare. E mandò tutti negli spogliatoi nonostante le vivaci proteste dei ragazzi. In realtà non sappiamo se il diavolo c’entrasse veramente, o se fosse l’immaginazione di don Franco a farlo pensare. Certo rimane il fatto che la partita non si disputò mai. Nessun arbitro accettò di dirigerla, e l’incontrò figurò sospeso per tutta la durata del campionato, con l’assegnazione di un punto a tavolino a entrambe le squadre (evento quanto mai insolito nel mondo del calcio, ma comprensibile tenendo conto dell’epoca e del luogo). Un’aura di mistero continuò a circondare quella partita fantasma per almeno altre due o tre stagioni. Poi vennero
29 gli anni nuovi, con le TV a colori che portavano il mondo fin dentro alle più sperdute case, perfino oltre gli argini e nei fitti nebbioni della Bassa. E fu come un grande vento che passando spazzò via tutta una serie di cose: proverbi, dicerie e vecchie credenze popolari. Degli scherzi del diavolo, dei diavoli che quando c’è un temporale vanno in carrozza, delle voci dei morti dentro ai pozzi, degli animali parlanti, non ne restò più traccia. Erano stati gli ultimi baluardi della fantasia contadina, i residui di un mondo antico che aveva smesso di esistere.
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PAESAGGIO DI REMBRANDT
Il primo giorno era soltanto un bel quadro. Ci stava bene, sulla parete bianca della quinta sala. La custode Jenny lo trovava splendido. Amava molto la pittura fiamminga, tutti quei quadri del Seicento europeo che era venuta a conoscere almeno sommariamente grazie ai cataloghi e alle riviste d’arte che circolavano nel museo. All’inaugurazione di quel Rembrandt erano venuti in tanti, spendendo parole di lode e ammirazione per la bellezza dell’opera, per il cromatismo e l’armonia di fondo. Quando gli ultimi se ne erano andati Jenny era rimasta dentro ben oltre l’orario di chiusura per guardarselo meglio in santa pace. Gli occhi vispi che correvano in alto e in basso, da una parte all’altra, lungo i due metri per cinque della tela. Il secondo giorno era già un amore. Non poteva rimanere a lungo nelle altre sale senza provare un senso di malessere. Ogni tanto con una scusa si assentava e ritornava di là, a rimirarselo un po’. Il terzo giorno era una vera passione. Restò sveglia buona parte della notte a pensarci, ripercorrendo a occhi chiusi ogni settore del quadro. Era come averlo davanti. Ne fissava un punto, poi lentamente si spostava per assaporarne in pieno la sostanza, le sfumature di verdi spenti e marroni di cui erano fatti gli elementi del paesaggio. La mattina restò incantata a guardarlo per una buona mezz’ora, mentre Thomas -l’altro custode- la osservava perplesso. Il quarto giorno diventò un’ossessione. Si sentiva così presa da quel quadro che i visitatori le davano quasi fastidio, non le importava più niente di sorridere e dar loro le indicazioni richieste. Desiderò fortemente di entrare in quella bucolica visione e farne parte. Tornando a casa quella sera i grattacieli, la 38° strada tutta illuminata, le insegne dei locali notturni e tutto il resto le parve più che mai artificioso, squallido e insopportabile. Il quinto giorno, entrando al museo, le parve che qualcosa fosse cambiato. L’atmosfera era diversa dal solito. Nei corridoi notò tracce di umidità lungo i muri, e già percorrendo la quarta sala avvertì il profumo dell’erba fresca che veniva dal paesaggio di Rembrandt. Nel corso del
31 pomeriggio vide la sala cambiar colore, pareti e soffitti da bianchi diventare verdastri, con qualche sfumatura ocra e marrone. Lasciò il museo alle dieci di sera, la mente confusa. Mentre scendeva le scale, i gradini dietro di sé si riempivano di cespugli e acquitrini, o almeno così le sembrò. Ma non ebbe il coraggio di voltarsi. Tutto ciò era forse meraviglioso, ma le metteva anche tanta paura. Il sesto giorno era il turno di riposo. Restò in casa pensierosa, con quel paesaggio stregato sempre davanti. Come avrebbe trovato il museo, l’indomani? Dormì male, fra strani sogni che al risveglio non ricordava. Il settimo giorno si recò al museo con un presagio. Temeva di trovare non più l’edificio ma gli alberi e le colline del quadro. Invece no, era tutto apparentemente normale. Pareti, stanze, corridoi non avevano nulla di strano. Non c’erano profumi di fiori né canti d’uccelli né gorgoglii di ruscelli. Il Rembrandt era sempre al suo posto, ben chiuso nella sua tela. A guardarlo adesso non era neanche così imponente e non aveva nulla di straordinario. Il cuore non le batteva più come il primo giorno. Era soltanto un quadro come gli altri. L’amore, la magia, quel misto di sensi e allucinazioni erano durati ben poco. “Meglio così” pensò Jenny. Tuttavia verso sera, al momento di uscire dalla toilette, Jenny ebbe un sussulto. Aprendo la porta si trovò davanti a un ponte di legno (quello del quadro, ovviamente) con sotto un rigagnolo che scorreva verso il corridoio. Le stanze del museo non erano più un luogo chiuso ma una selva naturale di foglie e rami scossi dal vento. Jenny urlava impazzita, prigioniera di una follia, ma nessuna la stava ad ascoltare. Neanche Thomas il pastore, che già s’incamminava con il suo gregge tra rovine e mulini, verso le agresti colline fiandre gli odori i profumi le ombre della notte fiamminga.
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L’ALBERO ASTRATTO
Venite, venite a vedere che bel quadro ha dipinto il pittore. È un albero, un albero da frutto. Guardate l’intricato gioco dei rami che si sviluppano in tutte le direzioni. Un tratto vibrante e nervoso, potrei dire espressionista se me lo consentite. No, non sono un critico d’arte, solo un appassionato di pittura. Il cielo di un blu carico, il tronco rosso vivo. Dicono che ne ha guardati tanti prima di dipingerlo, se li è studiati dal vero con cura girandoci intorno. Dicono anche che lui non si accontenta e vuole andare oltre. Ma oltre dove? Venite, ne ha dipinto un altro. Ammirevole. È sempre un albero da frutta, questo sì, ricorda quell’altro di prima. Noterete tuttavia delle differenze anche vistose. Il tronco, guardate il tronco com’è tutto nero uniforme, quasi una silhouette, i rami che cadono da una parte come piegati dal vento. È un tratto ancora più nervoso, netto e deciso. E i colori? Be’, incredibili. Pennellate di blu cielo tra strisciate di giallo, blu e giallo, il nero dell’albero e nient’altro. Dicono che ancora non sia contento, che non gli basti. Ancora, venite. Non ci sono parole. No parole. Meraviglia. Lui vuole andare oltre. Un altro quadro, un altro albero. Qui albero strano, non vero. Qui guardate, rami uguale cielo, colore cielo forma degli alberi uguale, indistinto. Difficile. Simmetria di forme, sopra sotto, curvatura dei rami spazi di cielo, no profondità. Avanguardia. Albero esiste in mente sua, no reale. Ricerca spaziale. Lui no contento. Altro. Ancorabello. Spezzato, ramificato, superbo. Stilisticamente oltre. No possibile definire tracciare distinguere. Colore, campitura entro confini rami. Spazio, isolazione. Densità formale. Uniforme sopra. Uniforme sotto. Curvatura, angolatura. Linea. Albero, no albero. Lui cerca. Fantaquadro! La linea ramintreccia, alberando confine di. Formangolo, per cercaspazialità. Pancielo, in nervastraticampi. Pantablu, super verde simmetro. Metalingua, strapittorico. Versodove, proximo? Introcerca, ultrapingilineatrodisìgneta. curvinsert, tansavoltrepìttacrom, astrandostjlginglegiùnfrderttklindhujopgrigsapwmmiolqsnpotxedz
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DOMENICA DOPOPRANZO (ESERCIZI DI STILE ALLA QUENAU)
annotazioni Domenica dopopranzo, verso le tre, mi viene voglia di tornare sulla torre degli Asinelli. In fila per il biglietto, davanti a me, c’è un bambino ricciolo di tre o quattro anni per mano a sua madre. Il ricciolino pestifero con la mano libera regge un cono gelato e non smette un secondo di pestarle i piedi. La donna sbuffa, sospira, ogni tanto gli dice “basta, smettila” ma senza convinzione. Due signore di fianco a me osservano in silenzio, poi una dice sottovoce “ogni tanto un bel ceffone ci vuole” e l’altra annuisce con un ghigno di approvazione. A un tratto al bambino sfugge di mano il cono che si spiattella sul pavimento. Lui si mette a piangere e sua madre, spazientita, tira il piccolo per un braccio ed esce fuori lasciando libero il posto. Le due donne scuotono la testa all’unisono. Due ore dopo, mentre mi leggo un Dylan Dog sotto i portici di Santo Stefano, vedo passarmi davanti le due signore di prima, cariche di borse della spesa. Corrono verso la fermata dell’autobus che sta partendo in quel momento, ma nella fretta una delle due inciampa e travolge l’altra. Cadono a terra goffamente rovesciando tutta la spesa. Un gruppetto di amici in sella ai motorini segue la scena e scoppia a ridere. remoto Ricordo vagamente che quel giorno, in preda a non so quale smania, sentii il bisogno di ritornare ancora lassù, su quella torre avvolta dai rampicanti dove non salivo da secoli. Nell’attesa che precedeva la salita alle scale notai un bimbetto, un grazioso batuffolo di ricci che si agitava intorno alla sua mamma. Aveva in mano qualcosa, forse una merendina, o un giocattolo, non ricordo bene. Mi colpiva la sua vivacità, quel suo muoversi continuo saltellando sui piedi della povera signora che aspettava paziente il suo biglietto. Certo per lui era un gioco, povero cucciolo. Non riuscivo a capacitarmi di come due signore potessero far commenti sprezzanti su quel fanciullo innocente, al punto che ero quasi
34 tentato di dire loro qualcosa per farle vergognare, quelle vecchie megere. Ma all’improvviso il bimbetto scoppiò a piangere, non so bene perché, e la madre lo strattonò portandoselo via. Il posto rimase libero, e io avanzai lentamente di un passo verso l’agognata meta. Non so dire quanto tempo passò, quante stagioni. Per caso mi capitò di rivedere le due vecchie megere mentre fingevo di essere assorto in chissà quali letture. Passandomi accanto le due signore, appesantite dagli anni, trovarono forse un qualche inciampo che le fece rovinare a terra con tutto il loro armamentario di profumi e chincaglierie. Impietosamente, una squadraccia di giovani in giubba nera le schernì con lazzi e improperi, coprendole di ridicolo. Ma io, memore di quella volta alla torre, quando le due signore si mostrarono così insolenti con quel tenero bimbetto, ne fui intimamente rallegrato. Come se si trattasse in fondo di una piccola vendetta. esagerazioni Adesso vi dico cosa mi è successo ieri. Mi annoiavo, c’era un caldo porco, allora dico vado sugli Asinelli a prendere un po’ di fresco. Non l’avessi mai fatto, c’era una fila di coglioni che arrivava fino in strada e non si andava avanti neanche un millimetro. Davanti a me poi c’era un cinno di tre anni con dei riccioloni che sembrava un rasta, c’aveva un cono gelato più alto di lui e tirava dei calcioni a sua madre che a momenti lei si metteva a piangere, sembrava indemoniato come la bambina dell’Esorcista. Due vecchiarde di fianco a me a guardare quel cinno scalciante si erano infumanate, gridavano alla madre “dagli bene una sberla in faccia, che impari fin da piccolo quel fetente”, e poi la insultavano, e tiravano delle bestemmie di quelle pese. Poi al cinno gli è caduto il gelato e si è messo a urlare come un ossesso, e allora sua madre gli ha tirato un braccio così forte che secondo me gli ha spezzato le ossa, povero cinno. E quelle due stronze che gli davano addosso, “vattene via puttana”, “torna a casa baldracca te e il tuo rompicoglioni”, e allora la donna è andata via davvero trascinandosi il cinno per il braccio rotto, e lui strisciava sul pavimento e urlava e piangeva come un fontana, e dopo per terra c’è rimasta tutta una bava bianca che non oso immaginare cosa fosse. Be’, dopo due ore ero lì sotto i portici che mi sfogliavo un Dylan Dog di quelli pesi, da vomitarci l’anima, e chi ti vedo passare? Le due vecchiarde stronze che erano in fila con me alla torre. Secondo me
35 avevano svaligiato un negozio, dal gran che erano cariche di sporte e sportine. Vogliono prendere l’autobus che sta ripartendo, ma cosa cazzo corrono alla loro età? E difatti una è inciampata e stramazzata a terra, l’altra gli è caduta addosso, e dalle sporte usciva di tutto di più e per terra ci è venuto un poltiglio che sembrava un rione di Napoli in emergenza rifiuti. Una bici che arrivava a balla ci ha sbattuto contro e il ciclista ha fatto un volo di tre metri, per poco non finiva sotto una macchina. Una scena assurda, e c’erano dei fighetti in motorino che c’avevano pure il coraggio di ridere, gli sciacalli. onirico Dopopranzo sento bussare alla finestra. Mi affaccio e vedo un bambino con i riccioli d’oro e le alette azzurre che mi fa cenno con la manina di avvicinarmi. «Lo vuoi il mio gelato? È buono» dice, e mi sorride. Io cerco di afferrare quel cono ma mi scivola giù per la tromba delle scale, allora mi metto a scendere veloce giù per i gradini a chiocciola che vanno sempre più giù e diventano sempre più piccoli e sembrano i tasti di un pianoforte. A un certo punto siamo in una stanza di pietre antiche, io e il bambino alato di prima. C’è molta gente dietro di noi e davanti a noi, tutti fermi come in attesa di qualcosa. «Giochiamo che io ero un drago sputafuoco e tu una macchinina?» chiede il bambino, che però adesso ha i capelli neri e senza più i riccioli. Due signore anziane mi osservano da un po’ e parlano tra loro sottovoce. Quella con i denti storti a un certo punto mi domanda se io sono il padre del bambino. Scuoto la testa e le rispondo: «No, sono sua madre.» La donna fa finta di niente e comincia ad arrotolarsi intorno al braccio un gomitolo viola mentre l’altra canticchia una canzone, mi pare, del Quartetto Cetra. Prendo il bambino per mano e usciamo dalla stanza, mentre il gomitolo viola è diventato una palla di due metri che ha inglobato le due vecchie. Lo vedo rotolare sotto i portici di Santo Stefano, con le signore dentro che agitano braccia e gambe come dei burattini impazziti, mentre un ragazzo in motorino mi fissa serio e commenta: «Tu non puoi ridere perché non esisti.» A quel punto mi sveglio.
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a ritroso Ridevano, quei ragazzi in motorino. Avevano appena visto cadere due signore sotto i portici mentre correvano verso la fermata dell’autobus con le borse della spesa. Io stavo leggendo un fumetto, me le ero viste passare davanti due ore dopo averle incontrate alla torre degli Asinelli, in fila con me per il biglietto. Disapprovavano lo strattone di una madre al figlio piccolo, reo di aver fatto cadere un gelato sul pavimento. Prima, per tutto il tempo, non aveva fatto altro che tirare calci a sua madre. Era ricciolino, tre o quattro anni al massimo. In fila davanti a me alla biglietteria. Mi era venuta voglia di salire sulla torre, cosÏ, tanto per passare un pomeriggio. conciso In fila vedo un bimbo pestapiedi, due donne disapprovano. Le rivedo inciampare per strada e tutti ridono. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD