In uscita il 29/9/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2017 (3,99 euro)
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STEFANO MOSELE
AZZURRA DEI CILIEGI
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AZZURRA DEI CILIEGI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-128-0 Copertina: immagine di Debora Vianello (www.deboravianellofoto.it).
Prima edizione Settembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A te che mi hai insegnato a capovolgere gli arcobaleni per far sorridere il cielo.
A una libellula e un cane. Al passo danzante del piĂš prezioso temporale.
– SELECT – PLAYLIST 01: Azzurra dei ciliegi – SHUFFLE – – PLAY –
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UN GIORNO DI PIOGGIA (CANZONE 28)
«Se provassi a mettere qualche brano musicale?» «Non sarebbe una cattiva idea. Anzi!» esclamò la donna. Aveva uno sguardo dolce, carico di comprensione e affetto. «Però devi procurarti tu l’occorrente, va bene?» disse appoggiandogli una mano sulla sua spalla. La vide voltarsi e incamminarsi verso il corridoio che portava all’ascensore, oltre la porta della stanza. «Certo, nessun problema» sospirò il ragazzo. Osservò i lembi svolazzanti del camice della dottoressa. L’immagine in controluce si sovrappose a quella di una sagoma sullo sfondo di un sole rosso: gli eroi, anche quelli che non sanno di esserlo, si incamminano sempre verso il tramonto, prima o poi. «Signorina» la chiamò. Il medico fermò i passi e girò appena il viso, porgendo l’orecchio. «Martina. Chiamami Martina. Ormai è un po’ che frequenti questi posti, Daniele. Non c’è bisogno di mantenere le distanze. Il mio ruolo non ne risente se mi dai confidenza.» «Scusami. Ma non riesco ad abituarmi» tentò di giustificarsi. «Capisco, non è un problema. Io lo dicevo per te. Hai molte cose a cui pensare, la formalità non deve essere tra quelle, ok?». Adesso lo stava guardando negli occhi. Non c’era altro che una profonda compassione. Di quella buona, sincera. Un abbraccio semplice e diretto tra sentimenti che si assomigliano. «Ti ho interrotto», riprese, «cosa stavi per chiedermi?» «Ecco. Può davvero essere utile? La musica, intendo» borbottò Daniele. «Pensa a quanto può essere rilassante una buona musica quando
10 si è stanchi. Oppure a quanta carica può dare il brano giusto quando serve energia.» «Come rivivere dei ricordi.» «Esatto! Proprio così! Chissà che non succeda anche adesso. La mente umana è ancora un territorio inesplorato. I ricordi ci ripropongono le situazioni vissute e lo fanno staccandosi dal tempo e dall’ordine cronologico. Nessuno può dimostrare come la musica possa pescare qualche emozione dalla memoria e nemmeno se ciò sia possibile, ma ci sono casi in cui…» «Ok» la interruppe in modo brusco. «Male non fa. Alla peggio non farà nemmeno bene. Se posso.» «Prova a mettere su un po’ di musica, hai il mio permesso. La musica aiuta sempre, non tradisce mai, se credi in lei. E poi», gli sorrise, «sempre meglio che stare ad ascoltare il silenzio o i propri pensieri, non pensi?» La dottoressa gli fece un cenno indicando la cartelletta che teneva in mano, quasi scusandosi per il fatto di doversi dedicare ad altri pazienti. Daniele si soffermò ancora sul camice, poi lo sguardo si perse nel verde malato delle pareti. Aveva bisogno di musica. “Nel posto dove più servirebbe, la musica manca” pensò. Si ricordò di avere ancora il vecchio stereo, quello con l’ingresso AUX, lungimirante espansione di cui da bambino non aveva colto la funzione e che ora gli avrebbe permesso di far girare qualche playlist del lettore MP3 che la sorella Azzurra portava sempre con sé.
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PICCOLA CITTÀ (CANZONE 24)
«Credo di aver paura di raccontarti la mia storia.» «Come mai?» chiese la barista. «Potresti innamorarti.» «Della storia?» «No. Di me» le rispose l’uomo. «Per questo hai paura?» «Ti è mai capitato di prendere un espresso al bar?» domandò lui. «In un bar ci lavoro. Sì, mi è capitato. Quindi?» «Io lo prendo spesso. Se è buono, la mattinata comincia nel verso giusto. Se, invece, è annacquato o troppo forte, potrebbe essere l’inizio di una giornata nera.» «Cosa c’entra questo?» «Se il caffè è buono, ti innamoreresti mai del cameriere che te l’ha fatto?» «No di certo o, almeno, non mi innamorerei per quello. Magari il ragazzo è carino e…» fantasticò lei, gesticolando in una maniera talmente particolare che a lui dovette apparire alquanto buffa. «Così è per la mia storia» la interruppe lui. I suoi occhi gli penetrarono l’anima. C’era silenzio e un’aria fresca faceva ondeggiare le tendine del piccolo locale. Lui prese fiato e cercò di spiegarsi meglio. La bocca di lei accennò un leggero sorriso, un’increspatura docile che le solcò le labbra. «Se ti raccontassi la mia storia, finirei per farti innamorare, e la bellezza del mio racconto ti porterebbe a fraintendere i personaggi, a confondere i protagonisti. Le mie parole ti ammalierebbero, come un incantesimo potrebbero rapirti e farti perdere la
12 ragione.» «Forse stai esagerando» gli disse, mutando il sorriso in una dolce smorfia di rimprovero. «Non esagero. O magari sì. Ma so come vanno queste cose. Siamo figli della comunicazione. Amiamo e odiamo questa nostra condizione. Siamo talmente immersi nelle parole che non ci rendiamo conto del potere che possono avere.» «Secondo me ti fai troppe menate» concluse la ragazza. «Mi conosco. La mia storia è interessante. Però non è solo quello il problema.» «Quale sarebbe, allora?» domandò curiosa. «Il fatto è che so raccontare in modo divino» la spiazzò. Raccolse con il cucchiaino l’ultimo residuo di zucchero intriso di caffè, lo assaporò per bene. Era soltanto per questo piccolo piacere che si concedeva la costante assunzione di caffeina. «Sei sempre così sicuro di te stesso?» lo interrogò ancora la ragazza. «In realtà sono un insicuro cronico. Tuttavia, certe cose non possono passare sotto un velo di falsa modestia.» «Quindi non mi racconti niente di te?» provò a insistere. «Lo sto già facendo e la cosa va un po’ contro a quello che stavo cercando di farti capire. Non voglio che tu ti innamori di me.» «Non è detto che succeda.» «Però non è impossibile. Te la racconterei, la mia storia, se non fossi certo delle conseguenze. Sai che mi stai simpatica.» «Anche tu mi stai simpatico.» «Questo dovrebbe bastarti. E poi, non dovrebbe interessarti quello che ho da dire.» «Lascia decidere a me, no?» rispose quasi offesa. «Sei libera di fare quello che credi.» «Ti sei offeso tu, adesso?»
13 «No.» «Allora, vuoi iniziare a raccontare?» «No. Te l’ho già detto.» «Non cederai mai?» «Può succedere. Al momento, però, no. Mi fai il conto?» «Posso offrirtelo io?» «No. Come se lo avessi fatto. Preferisco pagarmelo, oggi.» «Sei veramente un tipo scontroso. Mi fai innervosire.» «Pensa a come posso sentirmi io che devo sopportarmi tutto il giorno. Eccoti il denaro. Buona giornata» disse. Adagiò le monete una in fila all’altra, ordinate secondo il valore, dalla più grande alla più piccola. «A te! Tornerai?» azzardò lei. «Tu che dici?» replicò lui, incamminandosi. La porta a vetri automatica lo lasciò uscire senza opporre resistenza. L’uomo non si voltò, non voleva incrociare ancora una volta gli occhi di lei. Sapeva che qualsiasi tentativo di camminare indifferente avrebbe lasciato trasparire la sua titubanza. Si sentiva goffo e impacciato, avvertiva il suo sguardo sulla schiena, lo percepiva pesare sulle gambe, come se l’asfalto si fosse sciolto e la camminata avesse dovuto affrontare un fiume di fango e non uno striminzito parcheggio. La realtà, probabilmente, era diversa. Forse si stava immaginando tutto e lei si era subito rivolta alle mansioni per cui era pagata. Logico e inevitabile. Un automobile si fermò in uno degli spazi vuoti delimitati dalle linee bianche a malapena ancora visibili. «In pochi chiamano ancora al maschile le autovetture» si disse. «Come, prego?» gli chiese un signore sulla quarantina con un elegante cappello in testa e una camicia a quadri. Con fare galante stava aiutando la compagna incinta a scendere dal veicolo.
14 «Oh, stavo riflettendo ad alta voce» si scusò. «Un automobile. Una automobile. Che differenza fa? Troppa e nessuna, solo punti di vista, prospettive diverse per guardare a una stessa vita che scorre via.» «La differenza è evidente nella grafia, non nel parlato» parve giustificarsi il suo improvvisato interlocutore che cercava sostegno sul viso della donna che era con lui. «Quello che cambia è l’intenzione, l’idea che esiste nella mente di chi formula la frase, l’importanza che si vuole dare al genere. Non mi presti attenzione, tuttavia. È solo una mania, un’attenzione smodata per i dettagli. Ha mai pensato se siano questi a definire l’esistenza oppure se tutto dipenda dall’interesse che si vuole loro dedicare?» Lo sconosciuto si aggiustò il cappello, poi fece scorrere una mano sulla barba incolta che gli agghindava il viso. «La lascio alle sue riflessioni» tagliò corto e proseguì verso la porta del bar. Lui lo ignorò, salì in macchina e accese il vecchio diesel. The triangle tingles and the trumpet plays slow… Il solito CD, sempre inserito nell’autoradio, propose Farewell di Guccini. Quella sua citazione in inglese, con un ostentato accento americano, biascicata alla maniera dei vecchi, diffuse nell’abitacolo un pizzico di malinconia che andò pian piano a esaurirsi nell’abbraccio del profumo alla mela verde dell’Arbre magique. «Lasciarsi sedurre non è difficile, a volte basta una frase. Molto più spesso, nemmeno quella» ammiccò verso lo specchietto retrovisore, raccogliendo il riflesso cupo del suo stesso sguardo.
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PLANET EARTH FOREVER (CANZONE 25)
La seconda cosa che si notava entrando nel bar era una vecchia cornice in plastica e vetro che proteggeva un ancor più antico poster pubblicitario della Pepsi. La prima era, senz’ombra di dubbio, la ragazza dietro al bancone. «Sai che non so ancora il tuo nome?» gli chiese un giorno. «È importante?» le rispose. «Direi di sì. Sono mesi che entri nel locale e ormai c’è un po’ di confidenza, no?» «Ci stiamo dando del tu. Direi che c’è confidenza.» «Ti faccio il solito?» Un caffè macchiato caldo, con tanta schiuma, alla temperatura giusta, anche a costo di allungarlo con del latte freddo. E due bustine di zucchero. Di canna, perché è più dolce. In barba a qualsiasi minaccia diabetica. «Sì, grazie… Giulia» azzardò in maniera provocatoria un nome a caso. «E poi, non lo so nemmeno io come ti chiami.» «A questo possiamo rimediare. Così puoi evitare di chiamarmi Giulia.» «Non ti chiami Giulia. È un altro passo avanti. Però mi dispiace.» «Questa devi spiegarmela» gli ordinò con tono sbrigativo la ragazza. «Hai la faccia da Giulia. Mi piace il nome e sembra adatto al tuo viso.» «E tu dai il nome che ti pare a chiunque incontri?» «Ci provo. Come vedi non mi riesce sempre di prenderci» disse rassegnato.
16 L’abitudine di affibbiare nomi a caso l’aveva ereditata da un vecchio zio paterno. La trovava particolare e degna della massima stima, anche se non molto apprezzata dai soggetti orgogliosi del proprio appellativo. «Comunque, io mi chiamo Azzurra.» «Era nella lista dei nomi che ti si addicono. Giuro.» «Impossibile. Ma faccio finta di crederti.» «È una specie di gioco. Sarebbe fantastico riuscire a intuire realmente il nome, purtroppo la cosa resta nell’ambito dei pregiudizi. Uno più o uno meno cambia qualcosa?» le domandò. Ci impiegò qualche secondo a rispondergli. Probabilmente non aveva capito, ma, con estrema gentilezza, provò a non darlo a vedere e cercò di deviare la conversazione. «Adesso che sai come mi chiamo, puoi dirmi di te?» «No. Ti ho già spiegato come la penso.» «Eccoti il caffè. E lo scontrino» disse. I suoi occhi lo fissarono con un’intensità che lo penetrò fin dentro lo stomaco. Cosa avrebbe dovuto raccontarle? Davvero credeva che la sua fosse una storia degna di essere riportata, magari scritta, ordinata tra le pagine di un libro? Finché fosse riuscito a mantenere l’aura di mistero attorno alla sua figura, la verità sulla sua insignificante condizione sarebbe rimasta un segreto. Non voleva deluderla, né voleva deludere se stesso. Nella vita è questa la strategia vincente. Quello che si conosce di se stessi conviene tenerlo per sé e basta. Lasciare che siano gli altri a fantasticare sulle origini, sui comportamenti, sugli ideali. Un atteggiamento da comparsa, forse un po’ remissivo che, tuttavia, può aiutare a sopravvivere. Ripetersi queste cose lo faceva stare bene. Provò a fare pace con la cameriera: «Te la sei presa?» Ma sortì l’effetto contrario. «Sono incazzata nera» gli confidò con un candore che permetteva
17 tuttavia di scorgere una velata speranza di riappacificazione. «Bene. Vuol dire che stai cominciando a capire con chi hai a che fare» le disse, giusto per non privarsi dell’occasione di risultare fastidioso. «Il bar è pieno di gentaglia che rompe le scatole. E tu sei uno di quelli.» «Può darsi. Anzi, hai sicuramente ragione. Però, permettimi, non ci credi nemmeno tu a quello che hai detto» concluse. «Perché devi fare l’antipatico?» «Allora, ricapitoliamo. Un giorno entro in un locale che frequento quotidianamente e la mia vecchia barista è rimpiazzata da una giovinetta dagli occhi furbi che mi dà del lei» provò a riassumere accennando un sorriso. Poi riprese: «Questo per un paio di giorni. Poi accade che la giovinetta prenda coraggio. E giù domande che nemmeno un interrogatorio riuscirebbe a reggere. Non dovrei innervosirmi?» «No. Per una volta che trovi qualcuno che ti presta attenzione!» disse lei alzando la voce. «Te la sei voluta. Mettiti comoda, preparami un altro caffè e ascolta» finì per dire, esasperato, l’uomo. Non era sua intenzione cominciare a raccontare. Cosa avrebbe potuto dirle? Che i suoi occhi lo avevano preso fin dentro al midollo? Innamorato? Forse. A guardare da fuori poteva anche sembrarlo. L’amore, però, è tutta un’altra cosa. La sensibilità che lo spinse a lasciarsi intrigare da quelle iridi chiare non era desiderio, non era niente di più che attrazione per l’ignoto. La molteplicità che si nasconde nelle persone lo colpiva e non lo lasciava in pace. Era immerso in un campo magnetico che lo faceva soffrire e che, al tempo stesso, lo esaltava. Arrivò l’ennesimo infuso scuro dall’aroma deciso.
18 «Macchiato, vero?» domandò la ragazza. «No, liscio» rispose. «Vai a cagare!» Al tavolino accanto all’ingresso era seduto un ragazzo, non più di trent’anni, calvo, un po’ per scelta e un po’ per necessità. Indossava una maglietta blu notte con il logo della ditta per cui lavorava. Un rappresentante di una qualche agenzia pubblicitaria, a giudicare dalla borsa di cuoio dalla quale sporgevano riviste e cataloghi ricolmi di immagini e loghi. Guardò nella loro direzione, li osservò per qualche istante, come se stesse soppesando l’intenzione di partecipare all’ascolto. Poi riprese la lettura del giornale che il locale dava in comodato d’uso. L’uomo al bancone osservava la ragazza preparare il caffè. Il suo sguardo passava dai capelli di lei alla maglietta del ragazzo. Adorava soffermarsi sulle espressioni degli sconosciuti, provava un piacere viscerale nel cercare di indovinare cosa passasse per la testa di quei manichini dotati di vita. «Ho fatto molti lavori nella mia vita. Ma è quello che non ho fatto che mi ha reso ciò che sono. Per il momento mi mantengo facendo il camionista. Trasporto di tutto. E finisco in paeselli sperduti o in grandi città.» «Conosci molta gente allora…» «In realtà no» rispose amareggiato. «No?» si stupì la ragazza. «Ho conosciuto molte più persone quando andavo all’università.» «Tu hai studiato?» chiese sorpresa. «Ci ho provato. Poi ho capito che non è possibile imparare a pensare. O meglio, non te lo possono insegnare. Così ho abbandonato prima degli ultimi esami.» «È un peccato, sai?»
19 «Balle. Non serve a niente un titolo di studio se non ti interessa averlo. Mi daranno l’honoris causa un giorno o l’altro. Lo studio è stato solo un diversivo per scappare da qualcosa. Per il momento sono felice di quello che ho scelto di fare.» Il cucchiaino rimestava la miscela scura, lo zucchero si lasciava sedurre dal movimento e svaniva nel soffice tepore della tazzina. L’uomo e la ragazza erano l’uno di fronte all’altra, divisi dal bancone di legno lucido che delimitava lo spazio riservato ai clienti. Il tintinnare delle chiavi di un signore di mezza età ruppe il silenzio. «Buongiorno» augurò senza troppa convinzione, entrando nel locale. «A lei» replicò la barista in maniera distratta. «Mi faccia un cappuccino» ordinò. «Subito» rispose e si allontanò dall’uomo e dal suo racconto. Il tempo di un bar ha una conformazione differente, si dilata e si ferma a seconda del ritmo che i clienti stessi riescono a imprimere. La convenzione sociale che vorrebbe rappresentare lo scorrere dei secondi come un infinito ed eterno allinearsi di punti lungo una linea retta, in un bar perde la sua valenza. Per quanti minuti possano passare, tra l’interruzione e la ripresa del discorso sembra sempre che non ci siano stacchi. Così accadde ai due. La ragazza servì il signore dalle chiavi penzolanti e poi tornò dall’uomo che, senza fatica, continuò il discorso. «Non penso che sarebbe cambiata di molto la mia vita se mi fossi laureato. E non mi dispiace nemmeno fare il camionista. Posso stare da solo e pensare, posso riflettere, ascoltare la musica che mi fa stare bene. Tutti i cantautori italiani. Li adoro, sai?» «Quella musica pallosa?» chiese Azzurra. «Sei troppo giovane per capirla. E non mi interessa nemmeno spiegarti perché a me piace e a te no» rispose quasi risentito
20 l’uomo. «Dai, non ti arrabbiare. I gusti sono gusti. Poi, in realtà, piacciono anche a me» lo sorprese. «Bene, ora è meglio che vada.» Il saluto dell’uomo lasciò la ragazza in preda ai soliti sensi di colpa che l’attanagliavano ogni volta che non riusciva a tenere tutto sotto controllo. Quello strano tipo la intrigava, la incuriosiva, ma la faceva anche sentire fragile, bisognosa di appigli ai quali tenersi per non essere investita da quelle emozioni che sentiva salire ogni volta. Quando aveva sette anni il suo pelouche preferito, Gigi, un orsetto con la tuta da meccanico – alla faccia della femminilità, avrebbe obiettato sua nonna – le era caduto di mano mentre stava attraversando la strada. Un camion che trasportava ghiaia lo aveva travolto, le grosse ruote lo avevano schiacciato e poi lo spostamento d’aria lo aveva fatto sollevare da terra di qualche metro. L’orsacchiotto aveva terminato il volo schiaffandosi sull’asfalto, senza troppi danni. Un lavaggio a mano e tre giorni di sole e vento lo avevano rimesso in sesto, ma ora Azzurra si sentiva proprio come il suo prezioso Gigi durante quell’infinito istante sotto al camion. Lei, una bambina di fronte agli occhi di lui. Lui che non la considerava troppo, che la illudeva, che sembrava così vicino eppure così lontano. Un semplice cliente del bar che voleva un buon caffè e un po’ di compagnia. Che colpa ne aveva lei se lui era così interessante nella sua normalità? Si dava della sciocca da sola, a non dormirci la notte, pensando a quel ragazzo che la faceva sorridere solo con la sua presenza. Amore? No, decisamente no. Simpatia. L’amore è un’altra cosa, ripeteva a se stessa. Se solo il suo ragazzo fosse stato anche lontanamente simile a quel tipo, sarebbe stata felice. Questo pensava e questo la faceva stare male, sconvolta dai rimorsi che l’accompagnavano
21 nel suo addormentarsi. Voleva conoscere la storia di quel tale, capire il motivo per cui stava ad ascoltarlo donandogli una confidenza che nessuno al locale era mai riuscito a carpirle. La sua religione – filosofia! – buddista la portava a credere che non fosse un caso averlo incontrato. Nelle sedute del giovedì parlava di questo con i compagni di fede. Si sentiva diversa anche in quel contesto, tuttavia un obbligo morale la spingeva a partecipare a quelle riunioni dove prima uno e poi l’altro esponevano dubbi, insicurezze, sogni e desideri. Nel buddismo ciascuno ha dentro di sé il concetto di divinità, non esistono peccati da espiare, non dovrebbe esserci la percezione di alcun senso di colpa. Eppure lei ne era divorata. Misteri della fede. E dell’animo umano.
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LETTERA (CANZONE 5)
La prima lettera le era stata recapitata il giorno del suo tredicesimo compleanno, chiusa in una busta di carta gialla da un sigillo in ceralacca. Nel bassorilievo della cera si componevano le linee che sembravano disegnare la sagoma stilizzata di una figura dalle sembianze umane ma dai tratti fantastici che alludevano ad antiche figure mitologiche. Azzurra non si pose troppe domande e il sigillo si lasciò aprire senza opporre alcuna resistenza. All’interno, piegato in quattro, c’era un foglio con sopra una scrittura che non lasciava spazi di alcun genere, non un solo a capo, le parole schiacciate una accanto all’altra e disposte in maniera ordinata sulle linee orizzontali della pagina strappata da uno sbiadito quaderno a righe. La bambina osservò curiosa il contenuto della busta. Immaginò che ci fosse lo zampino del nonno: era lui, di solito, che si divertiva a inventare favole e misteri per divertirla. Ebbe qualche difficoltà a decifrare la grafia. Non ci volle molto, però, per capire che le parole erano scritte da destra verso sinistra. Corse nella sua cameretta e, davanti al grande specchio che stava sul comò accanto a tre civette di gesso, il foglio svelò il suo fragile segreto. Non le risultava comodo leggere in quel modo, ma non vi era alternativa. Avvicinò la sedia, si sistemò di fronte allo specchio e si abbandonò a quelle parole scritte a penna. Nessuna luce attorno a me. Solo buio. E silenzio. Tanto silenzio. La voglia di piangere, il desiderio, forse la speranza di tornare a sorridere.
23 Mille voci e mille consigli, persone che si fanno chiamare amici. Musicisti senza musica e scrittori senza parole. Maghi e cartomanti alla ricerca di verità vuote, astronomi e sibille che si dilettano a copiare le mete fasulle del destino. Questa era la situazione. La realtà. Prima che un lampo di magia illuminasse la mia vita. Come ogni racconto che si rispetti, anche questo mio deve attenersi a delle regole. Altrimenti chiunque si trovasse a leggere rischierebbe di non comprendere. La prima regola è di descrivere quello che è accaduto, oppure quella di presentare i personaggi? Non ricordo bene, sono passati troppi anni dalle ultime lezioni di scrittura che seguivo. Quello che vorrei accadesse in queste pagine, tuttavia, va oltre alle solite regole, anche se mi prometto di seguirle fedelmente a una a una. Ma come posso fare a descrivere un contesto, a definire le trame, a riportare le avventure, se prima non faccio capire quello che provo dentro di me? Quindi, permettimi di partire non dall’inizio, bensì da metà del racconto. Ovvero, da quando lei è arrivata nella mia tranquilla esistenza. E l’ha cambiata, piano piano, senza fretta, con esili sguardi e delicati sogni nascosti tra le pieghe del tempo che scorre. Lei. La magia sublime, la goccia di rugiada che al mattino scivola sulla foglia e precipita in testa alla coccinella addormentata. Lei. L’insicuro specchio che mostra agli altri la loro immagine, ma che di sé ben poco conosce. Lei. L’istante fugace che al tempo stesso racchiude una lacrima e un sorriso. Lei. O meglio, loro. I due occhi grandi di quella minuscola creatura fatata che si faceva chiamare Nafix. La regina del popolo dei folletti dagli occhi grandi.
24 Ora sì, che si può partire con il racconto. C’era una volta, in un paesino al confine con un bosco scuro, una casa. C’è sempre una casa situata al limite della radura, posta appena a qualche metro di distanza dall’inizio di un ambiente diverso. Che sia un bosco, un prato fiorito, una irta salita, un mare che si distende verso l’orizzonte. Non certo una bella abitazione, non certo una villa con giardino o chissà quale cascina appartenuta a chissà chi. Quattro mura dall’intonaco scrostato, una porta, un paio di finestre a vetro singolo, un comignolo senza fumo, e un salice piangente, disperato di fronte a tanta desolazione, accanto. Nella casa non viveva nessuno. La vita l’aveva ridotta a un deposito di polvere e ricordi, ammucchiati senza logica tra l’odore stantio di chiuso e muffa. Qualche topolino di campagna, una decina di ragni con le loro ragnatele, un vecchio nido di rondini all’esterno. Eccoli, gli ultimi scampoli di movimento imprigionati nella staticità del disuso. A dire il vero, questa casa, che c’era una volta, c’è ancora. La gente del posto è talmente abituata a passarci davanti che ormai è come se l’edificio non esistesse. L’impressione è sempre quella di trovarsi di fronte a un enorme vuoto, a un buco nero che assorbe l’energia e che definisce contorni talmente sbiaditi da creare l’illusione di una non esistenza. La casa si staglia contro l’ombra verde degli aghi di pino e di larice. Il marrone del sottobosco riscalda l’atmosfera, l’azzurro scrostato degli infissi dell’edificio tenta di emulare la cupola celeste rigata dalle scie degli aeroplani. Io quella casa la ricordo sempre, anche se, a dire il vero, non lo faccio apposta. So che posso risultare strano, ma quelle quattro pareti esposte al passare del tempo mi fanno tenerezza. Come un bimbo al primo giorno di scuola, come un vecchio seduto al parco. Un senso di nostalgia
25 mi impone di pensare a quella casa. Sono meno sensibile con i parenti, per dire. Ma quella casa mi affascina. Era appartenuta a una famiglia della zona, contadini, lavoratori instancabili che allineavano le giornate con il ritmo della natura. Gente che sapeva ascoltare il vento, gente normale, che del teorema di Pitagora non sapeva nulla, ma che conosceva perfettamente ogni centimetro di corteccia di ciascuna pianta che popolava il podere. Padre, madre e figlia. Ad abbandonare questo mondo per prima fu la figlia. Seguirono, anni dopo, il padre e infine la madre. Di più non si sa. E forse non mi interesserebbe nemmeno tanto. Affari loro. Quello che importa è che la casa da allora non ha visto più nessuno varcare la soglia. Il motivo per cui questa abitazione è così importante ai fini del mio racconto? La casa è un limite, un punto di confine. Oltre quell’edificio le cose non sono come sembrano. La percezione del tempo e dello spazio muta forma e sostanza, le sensazioni che vengono recepite dal cervello si confondono, ogni passo non è solo un pezzettino di terra che scivola dietro le spalle.
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LIKE A ROLLING STONE (CANZONE 26)
Le sirene che tengono svegli la notte hanno poco a che fare con le ammalianti voci che irretirono Ulisse. A Persego non si sentivano spesso quegli ululati luminosi che quella notte svegliarono Azzurra e tutto il vicinato. Lei uscì sul balcone che dava a est, verso il bar dove lavorava. Le luci parevano essersi fermate lì. La notte stellata rifletteva nel buio la danza di colori che attirava l’attenzione verso l’epicentro del caos. Si vestì in fretta, indossò una felpa larga e un paio di pantaloni raccolti dalla sedia in camera, dove giacevano da qualche ora. Sembravano anch’essi sorpresi dal trambusto. In strada ormai si faticava a passare, satura com’era di curiosi che si accalcavano. Azzurra si infilò in un minuscolo passaggio che si faceva largo tra le case. Lo usava spesso per andare al lavoro, era una scorciatoia abbastanza conosciuta, ma in quel momento tutti parevano essersene dimenticati. Tutti meno uno. Con passo affaticato qualcuno la stava seguendo. Forse stava soltanto percorrendo la stessa via nella medesima direzione. Un delicato tintinnare di chiavi accompagnava i passi dello sconosciuto, prima a distanza regolare e poi sempre più ravvicinati, più veloci. Azzurra si sentì a disagio senza ben capirne il motivo. Perché avrebbe dovuto aver paura? Era a casa sua, nel suo paese, in fondo. L’ansia però stava prendendo il sopravvento. Il fatto che fosse mezzanotte, che il buio avesse inghiottito lo stretto pertugio tra gli edifici, che le sirene poco lontano non lasciassero presagire
27 nulla di buono, la rendeva inquieta. E quei passi parevano inseguirla. Rallentò l’andatura, si scostò di lato, intenzionata a lasciarsi superare. Incrociò le dita e cominciò a recitare il mantra che avrebbe dovuto riappacificarla con l’universo. Tra un termine giapponese e l’altro, in un paio di frenetici istanti ci infilò pure qualche preghiera cattolica, rimasuglio della consuetudine culturale in cui era cresciuta. Si fermò. “Al diavolo la curiosità, meglio arrivare un po’ dopo” pensò. Chiuse gli occhi ripetendosi mentalmente che sarebbe andato tutto bene. Non ci teneva a comparire in televisione, meno che mai come vittima, attraverso una foto sgranata destinata a invadere ogni frequenza disponibile nell’etere. Il tintinnio accelerò e si fece più forte, le passò accanto. Il signore le fece un cenno con la mano e si affrettò nella sua andatura. Era un volto conosciuto, uno dei clienti del bar. Azzurra sospirò, mise una mano nella tasca dei pantaloni ed estrasse un oggetto minuscolo, quello che considerava il suo talismano. Una banale moneta da un euro, del 2006, apparentemente uguale a tutte le altre. L’aveva ricevuta dal nonno e, oltre che per il valore affettivo, l’adorava anche per quella particolarità che l’aveva affascinata fin da subito. Niente di straordinario, tuttavia abbastanza da far strabuzzare gli occhi a una bambina curiosa: l’anello esterno era libero di staccarsi dal centro della moneta. A suo tempo le era sembrata una cosa impossibile che soltanto il nonno era riuscito a realizzare. Non sapeva, nella sua delicata ingenuità, che un colpo di martello ben assestato sul manico di un grosso cacciavite è più che sufficiente a separare le due leghe di metallo. Non solo di pratici movimenti può vivere l’umanità e,
28 dove la conoscenza non arriva, ecco che si crea lo spazio per un poetico volo di fantasia. Il piccolo euro privato del suo legale valore aveva acquisito nel tempo un prezioso status di portafortuna, acuito dalla scomparsa del nonno. Anche ora che un sospiro di sollievo le permise di riprendere una parvenza di normale respirazione, quel piccolo oggetto le aveva dato quello di cui aveva bisogno: un appiglio materiale a una speranza irreale e campata per aria. Come un Cristo in croce per il cattolico, come il rituale vuoto del calciatore che scende in campo, come la scaramantica routine dello studente prima dell’esame. Il trambusto non accennava ad attenuarsi, irriverente sfidava il silenzio che tentava, ostinato, di riappropriarsi della notte. Azzurra mosse i suoi passi verso la confusione di colori e striduli suoni che avevano attirato tutto il paese. Si fece largo tra i curiosi ammassati attorno al parcheggio del bar. Il bar. La struttura fatiscente, gialla e scrostata, le appariva ora come un enorme mostro pronto a spalancare le fauci e inghiottire la folla. Così diverso dal rassicurante posto di lavoro dove, tra alti e bassi, poteva dirsi al sicuro. Sono i terribili momenti di sconforto e paura che si annidano tra le difficoltà ad aiutare il buonsenso a rivalutare le condizioni abitudinarie che scandiscono il ritmo della quotidianità. Quella sera, quella notte, le luci roteanti sopra ai mezzi di soccorso rendevano irriconoscibile il tranquillo luogo di lavoro di Azzurra. Carabinieri, vigili del fuoco, addirittura vigili urbani. Forze dell’ordine schierate e attente a non far avanzare la massa di gente incuriosita dal disordine che aveva turbato la notte, tutte lì, attente a non lasciar trapelare informazioni.
29 «Azzurra!» Udì il suo nome vibrare come la corda tesa di una chitarra. Un suono nitido, famigliare. Una voce che sapeva di dover riconoscere, ma che, in quel momento, non riusciva ad associare a un viso noto. «Azzurra!» sentì ripetere, questa volta con maggior vigore. Sperò che fosse lui. Lui. Rimase immobile per qualche secondo, in attesa che la realtà desse conferma alla sua speranza. «Azzurra! Non ci senti più?» Una mano le sfiorò la spalla. Avrebbe dato ogni singolo respiro che la separava dalla fine perché quella mano fosse la sua. Un presentimento la stava divorando, il cuore e la mente stavano divergendo in maniera irreversibile. Voleva, sperava, desiderava che fosse lui. E al tempo stesso sapeva che non lo era. Si girò, le sembrò di essere diventata pesante, i movimenti le parevano di una fatica insostenibile. Cuore e mente collassarono e si frantumarono sulla realtà. Non era lui. «Simone…» «Almeno ti ricordi di me.» Sorrise ironico. «Che ci fai qui?» «Ci lavoro. Sono nei pompieri, non ricordi?» «Sì, sì. Ricordo» ammise Azzurra notando la divisa del ragazzo. Simone lo aveva conosciuto in una serata romantica che li aveva visti condividere il letto per una notte. Non si erano poi più sentiti, per diverso tempo. La delusione di pochi istanti di piacere fisico si era ripercossa sul prosieguo di quello che poteva essere considerato come l’inizio di una semplice amicizia. Non avevano approfondito il rapporto, ma erano rimasti in contatto, un vago accenno a una mite conoscenza, giusto per non dover
30 ammettere di aver sbagliato, entrambi, quella sera lontana. «Ti vedo un po’ scossa… Stai bene?» le chiese. «Bene… Non so, sono un po’ agitata. Cos’è successo qui?» «Ci hanno chiamato per un incidente d’auto. Una macchina ha sbandato ed è finita contro il lampione in mezzo al parcheggio del bar.» «Feriti?» «Uno, l’unico coinvolto. Grave.» «Un uomo?» chiese a Simone, con la voce che era ridotta a un sospiro. «Sì, uno non di qui. Non so il nome. Stanno cercando di capire chi avvisare. Ma i documenti non si trovano.» «È grave?» «Te l’ho detto, è grave. Ma che ti prende? Sei pallidissima.» «Non credo di sentirmi bene.» «È meglio che ritorni a casa. Pensi di conoscere il tipo dell’auto?» «È lui. Ne sono certa.» «Lui chi?» provò a indagare Simone. «Lui» rispose Azzurra. Poi si lasciò andare, leggera e pesante al tempo stesso, verso le braccia del pompiere che, con rapida apprensione, urlò qualcosa nella trasmittente che faceva parte dell’equipaggiamento da vigile del fuoco. Accorsero un paio di infermieri che adagiarono Azzurra sulla barella. Quando la ragazza finalmente chiuse gli occhi, l’ambulanza la stava inghiottendo e il portellone arginava all’esterno il vortice di luci ed emozioni che l’aveva fatta crollare. Lui. Era certa che fosse lui il ferito. L’ultimo pensiero che le attraversò la mente fu una scintilla di speranza. Pregò che fosse vivo. Fine anteprima. Continua...