Collana LaBianca Serie BIG‐C Grandi Caratteri
La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura ri‐ volti in particolare a lettori con problemi visivi (ipoveden‐ ti). Assieme a questo libro e fino a esaurimento scorte, vie‐ ne dato in omaggio un audiolibro su CD (anche di diverso titolo) che permette in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, di ascoltare il racconto conte‐ nuto anziché leggerlo. Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con ca‐ ratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo. La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finan‐ ziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice.
Gli audiolibri forniti, offerti in omaggio a scopo promo‐ zionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. www.jukebook.it www.labandadelbook.it www.0111edizioni.com
ROBERTA TOBBI
BELLADENTRO
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www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it BELLADENTRO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978‐88‐6307‐440‐6 In copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2012 Stampato in Italia da Logo srl Borgoricco ‐ Padova
A chi non sa leggere oltre l’apparenza A chi crede che il contenuto sia l’essenza A chi sa contare le stelle A chi legge l’anima A chi ama se stesso A chi non si conosce A chi si sta cercando A chi ama A chi ha il coraggio di odiare A chi non conosce il rancore A chi vive di rimpianti A chi vive coi rimorsi A chi vive nel rispetto A chi cerca la verità e Soprattutto a chi non la trova A te che hai questo libro tra le mani A chi non lo leggerà mai A chi non mi conosce A chi crede di conoscermi A mio fratello, Filippo, che desidero diventi anche amico A chi crede nell’amicizia A chi ha perso A chi ancora spera e non si affligge A chi crede che ci sia sempre un senso E lo trova. Ma anche a chi non lo troverà mai.
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PREFAZIONE Belladentro non è solo un diario autobiografico in cui l’autrice traccia le tappe fondamentali degli anni contraddistinti dall’anoressia, ma è anche un racconto che dipinge con inten‐ sità e con sguardo attento e introspettivo il mondo della pro‐ tagonista, fatto di relazioni familiari difficili, di quotidianità, di speranza per un futuro libero dall’ossessione del corpo, e di amore, primo fra tutti quello per Emiliano, il suo compagno di vita e di avventura. Sono grata a Roberta per avermi offerto la possibilità di pre‐ sentare ai lettori la sua prima opera e nel farlo non posso che ricordare con affetto il nostro primo incontro. Ripenso a una donna dallo sguardo vivace e fiero e dall’aspetto curato, die‐ tro al quale si celava un corpo gracile e sofferente. Era il 2007 e Roberta mi raccontò che la malattia e la sofferen‐ za rappresentavano per lei l’unico modo per sentire di esiste‐ re, parole espresse con tono duro e lapidario e che rivelavano in modo forte quello che era diventato il suo calvario. Ascoltarla parlare della malattia che la affliggeva fin dall’adolescenza e oggi leggere il suo diario, mi ha permesso di comprendere che la forza di Roberta sta nella capacità di raccontarsi in maniera autentica, di dare forma ai fantasmi del
8 passato attraverso immagini che arrivano dritte al cuore del lettore. Proprio in cucina, crocevia di delizie e tormenti, Roberta trova il coraggio di iniziare a scrivere la sua storia. Ecco allora che la memoria dell’autrice torna all’infanzia, a quella bimba vivace dai boccoli castani, alle prese con i primi amori, i giochi con il fratello e le amicizie. Dentro di lei inizia a manifestarsi un disagio silenzioso che cresce sempre di più fi‐ no a trovare riscontro nella preoccupazione dei genitori che la sottopongono a logoranti visite mediche e iniezioni di ormoni per facilitare il processo di sviluppo di un corpo ancora troppo piccolo per essere quello di un’adolescente. Inizia così la malattia di Roberta, il suo rapporto di amore e odio verso un corpo che sembrava destinato a rimanere quel‐ lo di una bambina. A poco a poco il logorio del corpo si trasforma in logorio dell’anima ed ecco che la magrezza appare come la soluzione a tutti i problemi: la rivincita sui medici e la possibilità di at‐ trarre le attenzioni materne e gli sguardi maschili. Stare dalla parte dei vivi e quindi mangiare o scegliere quella dei morti e smettere di nutrirsi? Interrogativo che diviene tra‐ sversale rispetto all’intera narrazione. Poi un barlume: il corpo come strumento per fare esperienza della vita. Dal contenitore l’autrice si sposta ai contenuti: il bi‐ sogno d’amare, prima se stessa e poi gli altri e di essere “bella dentro”. La Pasqua, quasi un presagio di rinascita, conduce a un epilo‐ go che cambierà per sempre la vita della protagonista.
9 L’esperienza di Roberta, narrata con intelligenza e intensità emotiva, può essere spunto di riflessione, di conforto e di spe‐ ranza per coloro che si trovano a vivere in una condizione di sofferenza simile e quella dell’autrice di Belladentro e che come lei possono trovare il coraggio di scegliere una vita mi‐ gliore. Dott.ssa Lorena Castano
10 10 gennaio 2005 Ho bisogno di scrivere. Reduce da un attacco di rabbia, di quel tipo incontrollabile che ti fa smettere di pensare. Credo che stessi covando l’arrabbiatura da una settimana almeno, sapevo che sarei esplosa prima o poi. Da giorni trascino l’insoddisfazione per il mio corpo che sta ingrassando, che prende forma, che si deforma. Mi guardo con minuzia allo spec‐ chio mentre faccio la doccia e ciò che vedo sono cosce grosse, fianchi arrotondati, il sedere più sporgente con anche un accen‐ no di cellulite. Mi tocco il seno e lo sento più gonfio, un po’ dolo‐ rante e allora penso che forse mi stanno per tornare le mestrua‐ zioni, ma non so se mi sento felice o abbattuta. Così com’è il mio corpo non mi piace. Sfoglio l’album del viaggio di nozze e osser‐ vo il mio ex corpo in costume da bagno: è magro, lineare. Posso contare le costole, le braccia sono due steli, le gambe due tron‐ chi esili senza muscoli, le anche sporgenti, spigolose, ma mi pia‐ ce. Poi chiudo gli occhi e provo a rivivere le sensazioni che mi dava quel corpo. Sento freddo, mi sento immobile, cammino con rabbia ed euforia solo per consumare energia: la rabbia è l’unica energia che produco. Non mi sento donna, non mi sento moglie, non mi sento madre, sono un corpo malato; mio marito mi sorregge mentre salgo le scale del bar, mi sta dietro perché
11 teme che io possa cadere. Facciamo l’amore una o due volte in dieci giorni, il mio ventre è contratto e dolorante, fatico a pro‐ vare piacere. Non voglio provare piacere. Quando riapro gli oc‐ chi dopo questo viaggio a ritroso nella memoria, ho comunque nostalgia del mio ex corpo. Mi manca la sua leggerezza, quella caratteristica un po’ mistica che possedeva, il suo levitare verso l’alto. Questo corpo non lo voglio, e penso spesso di strappar‐ melo via. Mi lavo con insistenza sulle cosce, odio le mie cosce, sono bassa e si vede subito che si fanno grosse. Non riesco ad accettarlo, non voglio mangiare. Ma è sofferenza anche la ma‐ grezza, anche il digiunare. Forse non so vivere, forse non voglio vivere. Così mi trascino pesantemente contando le ore delle giornate vuote. Domenica, ora di pranzo. Sbatto i pugni sul muro, piango, mi mordo un braccio, affondo con rabbia le mani nella verdura cot‐ ta, con schifo schiaccio tutto. «Non lo voglio mi fa schifo, mi fate schifo, mi fai schifo» dico a mio marito. Ma lo schifo è verso di me, è me stessa che vorrei schiacciare; il mio è un grido di aiuto. Dopo qualche minuto mi sento un po’ meglio. Piango ancora, piango, sento il mio corpo grosso; anche ora che sono seduta mi sembra di lievitare, percepisco il sedere grosso, le cosce cicciotte e la pancia gonfia, mi guardo le mani tozze… vorrei sparire. Poi penso, in un attimo di lucidità pura, che il corpo non è tutta la mia vita, è solo uno strumento che mi permette di fare esperienza della vita. Ma è un attimo, un atti‐ mo che non voglio approfondire; dov’è la mia vita se non nel corpo, cos’è la mia vita? Perché mi è successo tutto questo? Do‐
12 ve sono i giorni felici? Dove il coraggio di superare quelli tristi? Salgo sulla cyclette per dare ai pensieri un’accelerata. Era solo un attimo di lucidità, una frazione di secondo in dieci anni di malattia, di maniacale devozione verso la morte del cor‐ po: questa è l’anoressia.
13 In seconda elementare infilai nell’astuccio di Marco un bigliet‐ tino a quadretti grandi, sul quale avevo impresso ripetute vol‐ te un “ti voglio bene” con uno stampino di Poochie. Ricordo che Marco, incurante del mio lavoro, l’aprì indelicatamente strappando parte del biglietto e mi rispose a sua volta: “sei carina, ma un po’ cicciottella”. La definizione “cicciottella” mi ha perseguitata da allora. Il fatto che fossi carina non aveva importanza: ero cicciottella, per questo non mi voleva. Non ri‐ cordo se piansi. Mi confidai con mia madre, che mi rassicurò sottovalutando l’umiliazione che mi si era cicatrizzata sul cuo‐ re. Per mia madre ero bella, ne era certa perché tutti le facevano i complimenti per la figlioletta che era riuscita a mettere al mondo. Avevo la testa ricoperta di riccioli castani, due occhi grandi e scuri come i suoi, la bocca a cuore e un sorriso aperto e gentile. Era fiera della mia intelligenza, della mia educazione, del fatto che fossi una bimba posata e gentile. Io ricordo me stessa come una bambina silenziosa, che giocava con le bar‐ bie. Non rammento che mia madre abbia mai partecipato ai miei giochi; uno dei momenti di condivisione era l’appuntamento del sabato pomeriggio, quando dopo le puli‐ zie guardava i cartoni animati con me e mio fratello sgranoc‐ chiando crackers salati e cantando le sigle dei cartoni. Mia madre ci amava, ma era sempre troppo occupata per di‐ mostrarcelo. Pencolava tra bagno camera e cucina, oscillava tra piatti, bucato e marito. L’unico momento in cui potevo godere della sua presenza era la sera, quando ci addormenta‐ vamo nel lettone. Mi accucciavo stretta stretta a lei e sentivo il suo odore, solo allora ero sicura che mi amasse, quando po‐
14 tevo scaldarmi col suo stesso corpo e lasciarmi cadere nel sonno carezzandole i capelli lisci. Nel silenzio della notte, nel buio del sonno potevo concedermi il diritto di amarla. Di giorno mia madre strillava per il disordine che facevamo io e mio fratello. Mia madre era sempre arrabbiata, ho visto i suoi primi sorrisi quando ero già adolescente e facevo delle simpatiche battute per conquistarla, ma prima i sorrisi erano solo per gli altri, per i conoscenti, per gli sconosciuti, sorrisi di cortesia. Io nell’infanzia invece ero cortese sempre, anche in casa. Tutte le persone adulte mi adoravano, ma non piacevo ai miei coetanei. Mi rinchiusi in me stessa e nel mondo miniatu‐ rizzato delle Barbie. Mi piacevano le Barbie, erano donnine perfette e per anni ho inseguito il sogno di avere il loro corpo perfetto. Un corpo di plastica indistruttibile, immutabile, in‐ toccabile, insensibile. Ma allora volevo solo essere magra co‐ me una barbie perfetta, con tutto quello spazio tra le cosce, non pensato per fecondare o partorire ma solo per compia‐ cersi di se stessa. Inseguivo un modello che mi avrebbe di‐ strutta come donna; le bambole sono solo caricature femmini‐ li e come tali hanno come unico fine quello di trasformare l’essere umano in oggetto. Un oggetto, una cosa da usare, da mostrare. La donna è ancora questo, purtroppo. * * * Trascorrevo l’estate a giocare in cortile con mio fratello e altri bambini. Con noi c’erano Luca, Lauretta qualche volta sua cu‐ gina Veronica e Alessandro. Io ero la cicciottella, Lauretta la invidiavo tantissimo perché era magrissima e poteva mangia‐
15 re tutte le merendine che voleva senza ingrassare, sua cugina aveva un corpo con forme molto simili a quelle di una donna già sviluppata. Passavamo tutto il pomeriggio a correre; io ero un maschiaccio, mi piaceva fare un po’ la capobanda, ero ag‐ gressiva e prepotente. Forse più che comportarmi così per avere il dominio sugli altri, lo facevo per dimostrare a me stes‐ sa di valere qualcosa, di avere un minimo di importanza, e poi visto che nessuno mi considerava per la mia grazia, scelsi di farmi notare per la mia presunzione. Lauretta mi voleva bene, era una bambina buona, capace di sentimenti e con lei c’era complicità e divertimento. Lauretta è stata la mia prima vera amica del cuore. A dieci anni non ci sono grandi confidenze da rivelare, ma ci sono ancora una purezza e una ingenuità di fronte al mondo per cui tutto appare come un gran segreto, si fantastica sulle situazioni, si inventano luoghi e persone. Io e lei, insieme, abbiamo condi‐ viso i grandi sogni dei piccoli. Volevo fare la ballerina. Sono cresciuta al ritmo di “Flashdan‐ ce”, “Saranno famosi”, “Dirty dancing”. Per me ballare era sopra ogni cosa, mi liberava, mi faceva sentire viva, mi faceva sentire il mio corpo. Ma il mio corpo non era sottile e slanciato come quello delle ballerine, per questo coltivavo quel sogno in gran segreto e mi lasciavo cullare dalle note solo quando la casa era vuota. Era il mio modo per essere donna, per essere la donna che avrei voluto diventare. Il ballo è sensualità, ribel‐ lione, sessualità, vitalità, al primo attacco musicale sentivo l’energia crescere in corpo. Sarebbe arrivato il giorno in cui senza corpo non avrei più avuto energia.
16 Se Laura era l’amica delle vacanze estive, Paola era quella di scuola. Ma in seconda o terza elementare, non ricordo con esattezza, mi abbandonò. Dovette trasferirsi in un’altra scuola a causa di un trasloco. Piansi quando tutta la classe la salutò. Tutti le dissero qualcosa, io che ero la sua migliore amica non dicevo nulla, stavo seduta sulla seggiolina di legno dura e fredda in silenzio con un groppo in gola e le lacrime ferme ai bordi degli occhi. Poi Paola mi si avvicinò e mi strinse in un ab‐ braccio. Solo allora cominciai a piangere e singhiozzare, senza riuscire a fermarmi. Poi non la vidi più. Ancora oggi ripensan‐ do a quell’addio provo una sensazione di vuoto, di freddo, di smarrimento… Dio, mi si stringe lo stomaco. * * * Mi piace guardare le foto di quando ero bambina, molto pic‐ cola. Stavo davanti alla macchina fotografica come una picco‐ la top model, assumevo pose per catturare l’obiettivo o più probabilmente l’occhio di mio padre. Era sempre lui dietro alla macchina. In una serie sono seduta su una sedia da regista con una salopette tre a quarti di velluto beige, i capelli ricci ar‐ ruffati e una sigaretta tra le dita, senza scarpe; accavallo le gambine sul bracciolo della sedia, guardo sorridente mio pa‐ pà. Odio il fumo dalle scuole elementari, odio mio padre che fuma con la bronchite, odio mio marito che fuma perché gli piace, odio mio suocero che fuma per vizio. Odiavo mia madre che faceva qualche tiro dalla sigaretta di mio padre. Odiavo vedere i miei genitori farsi del male e farne a me e mio fratel‐ lo. Fumavano e poi dicevano:
17 «È un brutto vizio, meglio non cominciare.» A ogni sigaretta vedevo mio padre più vecchio, malato, mi sentivo soffocare dal fumo, da quel puzzo nauseante che mi si fissava sui vestiti, sui capelli, nelle tempie con un dolore acu‐ to. Dopo un tiro anche mia madre non sapeva più di mamma, non sapeva più di buono, sapeva di bruciato. La famiglia era inquinata, puzzolente. Quando alle elementari la maestra ci informò sui rischi che corrono le persone che fumano, tornai a casa disperata con la paura di rimanere orfana. I miei non lo capirono mai per davvero e sono certa che leggendo questa mia affermazione la troverebbero insensata, magari si giustifi‐ cherebbero così: “non avremmo mai abbandonato te e tuo fratello”. Già, solo che la morte non ti guarda in faccia. A lei servono i tuoi organi, non l’anima. Un giorno mi arrabbiai tan‐ to perché mamma e papà mi sembravano sordi agli avvisi che lanciavo ogni tanto per metterli in allerta, e ruppi il pacchetto di sigarette di mio padre, lui si arrabbiò. Poi attuai un altro pi‐ ano; ogni volta che vedevo accesa una sigaretta la spegnevo, e lui si arrabbiava. Allora di nascosto riempivo d’acqua il posa‐ cenere e lui che fumava come un automa spesso si ritrovava con la sigaretta spenta. Mia madre, che si considerava una fumatrice occasionale ma non dipendente, mi incitava in que‐ sta battaglia per far smettere mio padre. Così la vita di mio padre era una mia responsabilità, era mio compito persuader‐ lo. Quando era particolarmente nervoso, di fronte a sigarette rotte o annegate diceva: «Cazzo, costano!» E io pensavo: “Tua figlia invece non vale niente.”
18 Un giorno gli dissi che dava un cattivo esempio e aggiunsi che era per questo che i ragazzi a volte si infilavano in brutte compagnie. Si imbestialì e fu quasi sul punto di suonarmele di santa ragione. Io piansi ancor prima di essere sfiorata, non perché temevo le botte ma solo perché non comprendeva il mio terrore di poter rimanere senza padre né madre, senza amore. Gli adulti si sentono sempre autorizzati a farsi del ma‐ le. “Troppi pensieri…” si giustificano, senza capire che il male lo fanno principalmente a chi vuole loro bene, a chi si fida di loro, a chi dipende da loro. Come potevo affidarmi a un padre che non si rendeva conto della sofferenza che mi procurava? Cominciai a detestarlo. Lo destavo quando rompeva le stoviglie mentre litigava con mia madre, quando spaventava me e mio fratello col gesto di metterle le mani addosso, quando bestemmiava, quando or‐ dinava il caffè dalla sala davanti alla televisione mentre mia madre rassettava, quando studiavo e lui alzava il volume, quando discutevamo e diceva che io volevo sempre avere ra‐ gione. Odiavo me stessa perché a volte avrei voluto non avere un padre. * * * Le scuole medie non mi piacevano, non mi piaceva studiare. Passavo i pomeriggi a ballare, ad ascoltare musica, a rosicchia‐ re qualche snack davanti alla tv. Sognavo. Sognavo un’altra vi‐ ta, un altro corpo, la sera prima di addormentarmi speravo di svegliarmi in un corpo diverso, quello di una modella o di una ballerina. Spesso in sogno mi vedevo già adulta. Era sempre la
19 stessa visione, quella di una me non molto alta, ma con tacchi altissimi e un abito aderente che metteva in evidenza un cor‐ po magro, molto magro, con gli occhi di oggi potrei dire ano‐ ressico. A quei tempi non sapevo cosa fosse l’anoressia, non se ne parlava, o forse io ero troppo piccola per potermene in‐ teressare. L’anoressia è un progetto che sia conscio o incon‐ scio avanza per tappe definibili, di processi che si succedono, di regole rigide, di schemi fissi. Troppo per la ragazzina inge‐ nua che ero. Io mangiavo assaporando il gusto dei cibi. Ingur‐ gitavo forse troppe schifezze, però il cibo non aveva ancora una valenza emotiva. Sgranocchiavo snack come tutti gli ado‐ lescenti, adoravo i panini, la pizza, le focacce, il cioccolato, il gelato. Mangiavo pochissima pasta perché mia madre soste‐ neva che facesse irrimediabilmente ingrassare. Per anni ho temuto la pasta. Dopo la scuola io e mio fratello pranzavamo dalla nonna materna. «Mangiate, che chi non mangia muore» ci ripeteva ogni volta che appoggiavamo la forchetta per una tregua. In famiglia siamo tutti piccoletti, intorno a dodici anni mi sot‐ toposero a dei controlli perché il pediatra notò un rallenta‐ mento nella crescita. Dopo diversi esami mi fu prescritta la somministrazione di ormoni della crescita, ero più piccola dei miei coetanei. Ero anche più grassa, mi diedero una dieta da seguire. Da quel momento sarò per me sempre grassa e bas‐ sa. Il mio problema restava comunque quello della grassezza, perché per l’altezza non c’era alternativa, non c’erano altre possibilità, solo l’accettazione. Ma evidentemente non ci sono mai riuscita ed ecco sfociare il controllo sul corpo.
20 Quando andavo ai controlli l’altezza non aumentava, il peso non diminuiva. Mi sentivo un totale fallimento, schernita dai medici che mi ridicolizzavano a proposito della mia incapacità di seguire una banale cura dimagrante. Non riuscivo a essere una bambina che mangiava come un adolescente fissata con la linea. E quando mi son fatta adolescente ho voluto la rivin‐ cita, e con una dieta tutta personale ho voluto rientrare nel corpo di una bambina. * * * Non ho mai parlato a nessuno delle iniezioni ormonali, la mia famiglia mi aveva chiesto di non farlo, così mi sono portata dentro questo segreto per anni come fosse una terribile ver‐ gogna. Ancora oggi mi chiedo perché mai mi avessero racco‐ mandato di non svelare questo fatto. La terapia ormonale è durata per circa sei mesi, non di più, e dopo l’ultimo controllo i risultati erano evidenti: piccola perché così stava scritto nel mio patrimonio genetico. Con un padre alto un metro e ses‐ santa e una madre di un metro e mezzo non vedo di cosa ab‐ biano potuto meravigliarsi i medici. La scienza parla chiaro, il DNA è tutto ciò che siamo. Forse si aspettavano qualche mira‐ colo, forse serviva una cavia su cui testare gli effetti degli or‐ moni. La medicina esclude l’esistenza dell’anima, per questo per anni non sono riusciti a curarmi. Ricordo ancora quando sono uscita dall’ospedale dopo l’ennesima flebo. Era inverno, il cielo era sereno, limpido. Un’aria gelida mi sfiorava la faccia, mia madre era alla mia destra e dissi: «Basta non voglio mai più entrare in un ospedale.» E mia madre:
21 «Mai dire mai…» Pronunciò quelle parole per scaramanzia, ma io non ne avevo paura. Ero così arrabbiata e disillusa… sarei rimasta bassa, e forse anche cicciottella. Mia nonna per consolarmi aggiunse del suo: «Be’, metterai i tacchi alti…» La gente parla sempre a sproposito. Inoltre, piccolina come sono, ho difficoltà a trovare scarpe con i tacchi della mia misu‐ ra, quelle da donna vera, da femme fatale, scarpe all’ultima moda; il DNA mi ha voluta bambina. Torno bambina anche quando biologicamente mi trasformo in donna. Rifiuto il ciclo mestruale, mi è estraneo, è irregolare. “Non voglio mangiare. Sono grassa, andate via, tutti fuori dalla mia vita, non c’è più spazio per nessuno, neanche per me stes‐ sa.” Io volevo diventare grande. Mi sentivo rifiutata, con la famiglia intorno che mi diceva di non preoccuparmi, che l’altezza non contava, che ero bella, che ero perfetta. Se ero perfetta, perché loro per primi mi a‐ vevano affidata ai medici? Se ero bella, perché mi costringe‐ vano a una dieta forzata in età dello sviluppo? Perché non do‐ vevo preoccuparmi visto che loro per primi mi consigliavano degli escamotages per apparire più alta? Fu così che un giorno chiusi a chiave la porta della cameretta e proclamai che avrei digiunato. Volevo dimagrire. Dovevo dimagrire. * * *
22 La prima a preoccuparsi fu mia nonna. Dopo qualche giorno di alimentazione ridotta all’estremo: due mele al giorno e qual‐ che galletta di riso, mia madre si convinse e mi consegnò a un dietologo. Inizia così il mio rapporto d’amore e odio col cibo. Avevo sedici anni. Ho sempre amato mangiare, quel piacevole desiderio di coc‐ colarsi con qualcosa di buono, condividere argomenti gustan‐ do una coscia di pollo, leccare un cono gelato facendo un giro in centro, succhiare una caramella in attesa del bus, stuzzicare patitine e bere coca cola spettegolando, sorseggiare un frulla‐ to raccontando pene d’amore, una pizza con i compagni pri‐ ma delle vacanze estive, la chantilly per festeggiare il comple‐ anno, i datteri a Natale, i biscotti con la marmellata di fichi del‐ la nonna paterna, il riso in bianco quando si ha l’influenza. Mi sono spesso interrogata sul perché all’improvviso una die‐ ta sia diventa lo scopo della mia vita, e come tutti gli obiettivi frustranti mi abbia spossata fino a desiderare la fine, il logorio del corpo e dell’anima. Ero una sedicenne iscrittasi per caso al liceo linguistico, fre‐ quentavo il secondo anno. Non legavo molto coi compagni di classe, tutti molto benestanti, mentre i miei genitori erano degli acrobati nella gestione delle spese familiari e pur di dar‐ mi un futuro rinunciavano ai loro sogni, alla loro agiatezza. Al liceo non ero particolarmente brava. Ero sveglia e attenta, ma il mio difetto è sempre stato la timidezza. Avevo le rispo‐ ste ma mi si fermavano in gola, mi spaventava parlare a voce alta davanti a tutta la classe. Ero riservata, mi sentivo brutta. Non ero brutta, anzi ero davvero bella con la mia massa di ric‐ ci sulla testa, gli occhi grandi. Ero bella, ma bassa e cicciottel‐
23 la. Mentre le mie compagne raccontavano di esperienze ses‐ suali, io ancora sognavo di fare la ballerina, di cantare su un palco. Solo la danza mi rendeva istintiva, tutto il resto lo tene‐ vo a bada sotto un rigido autocontrollo. Avevo una sola amica del cuore, mia cugina Sara. Era magra, aveva delle cosce snelle e asciutte come quelle delle Barbie, i capelli lisci e cascanti sulle spalle, era socievole e simpatica, piaceva ai ragazzi. Al suo fianco mi sembrava di essere il brut‐ to anatroccolo, aveva sempre tutti gli occhi su di sé. Io mi sen‐ tivo la dama di compagnia che la accompagnava nel weekend a mietere vittime per le vie del centro. Sara era sempre solare e aveva un sorriso per tutti. Io di natura sono piuttosto schiva, non amo troppo dare confidenza. Lei era tutto il contrario di me, e io desideravo assomigliarle. È in quel periodo che si insi‐ dia nella mia testa quel tarlo, che mi vuole magra e a dieta. Il tarlo si ciba della mia adolescenza, poi della giovinezza, finché non resta più nulla. E anche quando desidero tornare indietro, il tarlo si è già mangiato tutto il tempo. Una sera la principessa Sara incontra il principe azzurro, la dama di compagnia non serve più. La dama vuole una rivincita dalla vita, il tarlo le si offre come consigliere. Con la magrezza avrebbe potuto dimostrare ai medici che lei poteva dimagrire senza di loro, anzi che lei po‐ teva arrivare laddove loro non erano riusciti: controllare il corpo. Con la dieta finalmente la mamma si preoccupava per lei, e non solo del fratello gracilino. La magrezza l’avrebbe re‐ sa donna agli occhi maschili. La magrezza avrebbe suscitato l’invidia delle compagne ricche. La magrezza le avrebbe final‐
24 mente dato uno spazio sociale, fisico, intellettivo. La magrez‐ za che ti cambia la vita, e in cambio ti chiede la vita. * * * Mi diplomo in lingue. Trovo un posto fisso come cassiera in un supermercato. Emiliano parte per il militare. Mi sento sola. Non ho amici, ho tenuto tutti lontani, ho allontanato tutte le cose belle della vita. Non ho bisogno della felicità, non ho bi‐ sogno di provare piacere. Ogni giorno mi sottopongo a un’estenuante attività fisica: faccio step, ballo, vado in giro per negozi alla ricerca di tutto senza comprare nulla. Non pos‐ so stare ferma, non ho bisogno di riposo. Il riposo mi annoia. Non ho bisogno di nutrirmi, il cibo è sporco. Mi faccio schifo. Ricerco spasmodicamente la mia immagine nello specchio, nel riflesso delle vetrine, nell’ombra che si allunga sulla strada, in quella che mi segue sulle pareti. La casa dei miei genitori è piena di specchi, in salotto mi guardo i piedi, le caviglie, mi in‐ ginocchio e mi osservo le cosce, sogno di avere mani schele‐ triche mentre guardo quelle che il vetro arcuato riproduce. Nella vetrina del mobile bar mi guardo il busto, la pancia, il se‐ no. Voglio appiattire tutto. Le mie giornate sono scandite dal ritmo del lavoro e dal mo‐ vimento. Non mangio quasi mai, uno yogurt a colazione, una banana a pranzo, un tè sul lavoro con mezzo cracker ‐ gli altri li butto o li offro ‐ la sera yogurt. Un vasetto, di quello magro naturalmente. Mangio sola. Quando mi capita di mangiare con la famiglia mi porto in tavola la banana e la mangio a piccoli pezzi con forchetta e coltello, e per evitare commenti parlo di
25 tutto quello che mi accade sul lavoro, parlo senza tregua cer‐ cando di creare un clima felice, mi dilungo nei particolari e ag‐ giungo effetti speciali. L’umore alterato dalla scarsità di cibo mi permette di tenerli a bada e sotto controllo per parecchio tempo. Non so se non facessero caso al mio comportamento, se fiduciosi nelle mie qualità intellettive non volessero pensa‐ re al peggio o forse attendessero solo che il “capriccio” pas‐ sasse così come era arrivato. Il tempo si consuma velocemente, il corpo anche. Per tenere lontana la fame bevo molto durante la giornata, bevande cal‐ de con l’aggiunta di dolcificante, uso anche tisane depurative per sciacquare via dal corpo tutto lo sporco. Mastico cicche in continuazione, a volte il masticare continuo causa forti mal di testa; nei periodi di stress, quando abuso senza limiti di gom‐ me da masticare, mi scatta persino la mascella. Emiliano mi chiama tutte le sere, parliamo poco; gli invio anche dei mes‐ saggi sul cellulare, ma lui non è un gran comunicatore, non ri‐ sponde quasi mai. Io amo parlare, comunicare, ho un bisogno fisico della parola per riempire tutti i vuoti delle mente, per buttare fuori la rabbia, per scaricare le energie. A volte parlo così tanto che mi fanno male le corde vocali. Parlo per niente in realtà, solo perché non sopporto il silenzio. Mi avvolge, mi annichilisce, mi mette di fronte a me stessa, ma non ho il co‐ raggio di affrontarmi. Non so più se amo Emiliano, è lontano, al militare, non si preoccupa di come sto. Se non parlo lui non chiede. Una sera chatto e mi innamoro. La sera dopo chatto con un altro e mi innamoro di nuovo. Sera dopo sera mi innamoro dell’amore, ho in testa un uomo fatto di tanti uomini diversi,
26 ho in testa l’uomo che vorrei mi tirasse fuori dalla merda. E non è Emiliano, lui nemmeno si rende conto di essere finito nella merda con me. Mi innamoro di ragazzi che vivono in al‐ tre città, ognuno ha una caratteristica diversa, tutti cercano solo di fare sesso. Ma io offro solo uno scambio di parole, di emozioni. Il mio corpo è sacro. Mia madre questa cosa non la comprende, mi insulta, mi dice che sono una sgualdrina; come posso rinnegare un ragazzo buono come Emiliano per uno sconosciuto? Mi ferisce come non ha fatto mai, ma mi apre gli occhi questa sua sfuriata. Mia madre non sa chi sono, non mi conosce, mi spezza il cuore come un amore che s’infrange. Mia madre. Emiliano è sempre dolce, accetta tutto lui. Accetta i miei di‐ giuni, i miei vomiti, accetta i miei insulti, accetta i miei schiaffi, accetta i miei silenzi, accetta la mia astinenza sessuale, accet‐ ta tutto di Roberta. Non accetta Roberta. Ora mi fermo; chi è Roberta? Mi sono persa. Lui no, sa chi sono e me lo dimostre‐ rà col tempo. Sul lavoro sono efficiente, mi piace il contatto con le persone, mi piace la vecchietta che mi saluta ancora prima di passare dalla mia cassa, mi cerca prima di fare la spesa; mi piace Deni‐ se, la bambina down che mi chiede se voglio bene al mio pa‐ pà. Non mi piace per niente lo sbruffone che ci prova, l’adolescente maleducato e più di tutti la madre che racco‐ manda al figlio di studiare per non finire a fare il commesso in un centro commerciale. Questa la odio proprio. La gente valuta sempre chi sei in base a quello che fai. Io non sono una cassiera, faccio la cassiera per mettere via i soldi e sposarmi. Io sono una poetessa. Mi cullavo con questo pen‐
27 siero, scrivere di un’emozione mi strappava il cuore, mi fruga‐ va nello stomaco; improvvisamente tornavo umana. Ricono‐ scevo i bisogni del corpo, riconoscevo il bisogno di piacere, di calore. Emiliano finisce il militare, gli chiedo un figlio. Dice di no, ma aggiunge anche coscienziose ragioni da bravo ragazzo. Dima‐ grisco a vista d’occhio. Un giorno in cassa passa una bambina con una bambola, ma è senza codice a barre, se la vuole deve aspettare che mi venga comunicato; qui ogni cosa è un nume‐ ro. La madre va di fretta, la bambola viene abbandonata. Si‐ stemo la bambola in una ciotola e le metto sopra un tovaglio‐ lo che le fa da copertina. Finisco il turno immaginando che sia viva, che sia la mia bambina. Rasento la follia. Quando il corpo non ce la fa più chiede aiuto alla mente, che senza risorse deli‐ ra. A giugno partiamo per le vacanze, facciamo una settimana in Puglia. Mi porto lo step e la bilancia per alimenti. L’ultima cosa che trattengo in pancia senza sensi di colpa è la brioche dell’autogrill; non saprei né come né dove vomitarla. Una vol‐ ta arrivati decido che mangerò pochissimo perché altrimenti in bikini si vedrà la pancia. Poi però non resisto alle mozzarel‐ line, al cocco, e allora li mangio ma poi vomito tutto. Vomito anche il buonissimo pane pugliese e quei pomodorini piccoli come ciliegie. Vomito la pizza, il gelato. Tengo solo la granita al limone, quella che gustiamo la sera sul lungo mare. Mi pre‐ occupo di mangiare lo yogurt a colazione per riuscire a scari‐ carmi, compro anche dei lassativi. La mia pancia è vuota, piat‐ ta, ma le cosce sono orrende, molli e grasse. Odio la curva dei fianchi, il seno rotondo, il sedere sporgente, odio tutte le prominenze del mio corpo. Ricordo un’unica cena non vomi‐
28 tata, avevamo scelto un ristorante in riva al mare, era una se‐ rata calda e l’aria era dolce. Avevo fame, sembrava tutto per‐ fetto, tutto possibile, così mi sono concessa un po’ di pesce. Delizioso. Dopo cena abbiamo passeggiato sul lungo mare, io correvo da una bancarella all’altra come presa da un irrefre‐ nabile desiderio di muovermi, sentivo l’adrenalina pulsarmi nelle tempie, ero nervosa ma sorridevo come una stupida, sorridevo per nascondere il delirio che mi agitava, mi toccavo di continuo la pancia, era più grossa era piena. Mi sembrava di lievitare, tutte le donne intorno a me erano magre, molto più magre di me, io ero un’ingorda cicciona. Mi sembrava di im‐ pazzire pensando al grasso sul mio corpo. Mi sembrava che non ci fosse alternativa al digiuno. Anzi, sì, c’era la morte. Emiliano non mi dava alternative di pensiero, lui zitto, ragazzo buono di poche parole, io persa nel vorticoso rincorrersi di os‐ sessioni. Pensavo al grasso, pensavo a come uccidermi, im‐ maginavo il mio suicidio. Un gesto teatrale accompagnato da una lettera d’addio ai miei genitori e una ben più appassionata a questo presunto amore della mia vita. Ma l’amore non ti sal‐ va? L’amore non ti fa gioire? L’amore non ti dona speranza? Forse ci si dimentica di un aspetto dell’amore, fondamentale è quello per se stessi. Sì, la metto nero su bianco questa banale affermazione che viene sciorinata in tutte le salse, la sotto‐ scrivo e firmo. Perché vera. Io non mi sono mai amata, ancora oggi faccio fatica a volermi bene, ancora oggi lotto contro questa insopportabile Roberta. Quando torno dalla settimana di vacanza, la prima cosa che faccio è mangiare una porzione di yogurt gelato. Mia madre mi vede visibilmente dimagrita, ma io dico che va tutto bene.
29 Comincio a non mangiare. Meno mangi, meno sembra di aver bisogno di cibo. Meno mangi più il cibo diventa il tuo ossessi‐ vo pensiero, dalla mattina alla sera, anche durante la notte. Mi capitava spesso di sognare di mangiare troppo, di essere co‐ stretta a mangiare da altre persone, di essere incapace di smettere di mangiare. Mi svegliavo in preda al panico, per at‐ tutire il vuoto della pancia mi preparavo qualcosa di caldo da bere. Poi mi rimettevo a letto con la speranza di riuscire a dormire. C’è un momento della malattia in cui devi decidere da che parte stare. Tra i vivi? Cominci a mangiare. Tra i morti? Smetti di nutrirti. Io sono sempre stata a metà, mangiavo ap‐ pena, quel poco sufficiente a tenermi in piedi. Non per codar‐ dia, ma per indecisione. Mia madre era spaventata dal mio aspetto, ma io non lasciavo trapelare nulla, nascondevo la sofferenza con chiacchiere inu‐ tili, con un continuo parlare di niente. Stavo in casa tutto il giorno, quando arrivava mia madre uscivo, andavo da Emilia‐ no, cenavo da lui. Non cenavo in realtà. Non sapevo più cosa potevo mangiare, non avevo più il coraggio nemmeno di as‐ saggiare il cibo, quando lo facevo lo sputavo. Smisi di vomita‐ re. Un giorno, dopo un’abbuffata di dolci, latte, cioccolato, pane, prosciutto, poi ancora gelato, latte, latte, perché i liquidi facilitano il rigetto, quel giorno a un certo punto il mio stoma‐ co si rifiutò di liberarsi del cibo. Mi sembrò di perdere la testa. Cominciai a camminare per casa, sudata, col cuore che batte‐ va a mille. Facevo avanti e indietro dal bagno alla cucina dove mi fermavo per bere, tornavo in bagno mi infilavo il manico del cucchiaio giù per la gola e… niente, qualche lacrima mi‐ schiata a un po’ di latte. Non capivo, non riuscivo a darmi al‐
30 cuna spiegazione, ero fuori di me, fuori dal mondo, mi control‐ lavo allo specchio lo stomaco gonfio di cibo, volevo morire. Poi cercai di riordinare i pensieri, tirai un sospiro, andai di nuo‐ vo in bagno e infilai il manico del cucchiaio fino in fondo, allora tutto uscì. Mi sforzai fino a che le gambe non cedettero, do‐ vevo essere sicura che nessuna traccia di cibo fosse rimasta nel mio stomaco. Quando la pancia tornò piatta mi guardai al‐ lo specchio. Avevo gli occhi gonfi, rossi, infossati, la bocca screpolata ai lati. Mi buttai sul letto e piansi sussurrando “mamma dove sei, perché mi hai lasciata sola” alle mura della camera. Un’ora dopo ero sulla cyclette e litigavo con mia ma‐ dre che mi implorava di scendere. * * * Durante gli anni del liceo mi piaceva fare merenda con le fo‐ cacce della Gina. Erano di un sapore strano; non erano dolci, non erano salate, sapevano di vita. Di una vita incerta. Io ero la più bassa della classe; c’era un’altra ragazza poco più alta di me, ma lei era magra come una stecca e mangiava parecchio. Era brutta, sembrava una miniatura di Olivia, ma la magrezza conta più della bellezza, e piuttosto che bella come Shirley Temple avrei preferito essere secca come Olivia. Ero bella, ero la prima a volte a sorprendermi della mia bellezza, ma mi sen‐ tivo vittima di un maleficio: dietro alla dolcezza di uno sguar‐ do o alla fragilità di un sorriso si cela un dolore inspiegabile. Mio cugino Simone da bambino mi scherniva chiamandomi “mucca”. Ricordo che un giorno mi sentii particolarmente u‐ miliata, mi gridava mucca davanti a tutti gli amichetti del corti‐
31 le e anche davanti a un altro cugino, Marcello, del quale mi ero anche invaghita, e mentre mi insultava con quella parola mi rincorreva per frustarmi con una corda. Io ero dura e non piangevo, mi tenevo le lacrime serrate negli occhi e il magone stretto nella gola, e correvo cercando di sfuggirgli. Mi sentivo schifosamente grassa, inaccettabile. Mi sono sempre sentita nel modo in cui gli altri mi definivano: bassa, grassa, bella, brutta, riccia, magra. Incapace di definirmi da sola, non mi so‐ no mai sentita me stessa. Ero una bambina da amare, in pochi mi hanno concesso il beneficio del loro cuore. Ero deforme, per questo nessuno riusciva ad amarmi. Che vergogna, il mio corpo era una insopportabile vergogna, soprattutto quando cominciarono a spuntare i seni, a sorgere i fianchi, ad arro‐ tondarsi i glutei. Mi vergognavo al punto da non volere uscire di casa. Invidiavo le coetanee che si lasciavano guardare men‐ tre io mi nascondevo sotto i vestiti di mia madre assumendo le forme di un fagotto. Detestavo le mestruazioni, erano dolo‐ rose e avevo sempre il terrore di sporcarmi o di sporcare dove mi sedevo. Ero sporca. Macchiata di mille colpe, più di tutte quella di non riconoscere le cause delle accuse. Quando mi sono scomparse le mestruazioni è stata una libe‐ razione, un sollievo. Non mi servivano più in fondo. Non mi serviva essere donna, il mio compagno non voleva dei figli da me, io non volevo esserci. Era per dare la vita che io volevo e‐ sistere, dimenticarmi di me e dedicarmi al figlio che avrei dato alla luce, salvarmi dalla spietata empietà dell’esistenza resti‐ tuendole un sorso di poesia con il parto. Partorire una poesia. Se tentare di redimermi era impossibile, allora le mestruazioni potevano svanire, io potevo dissolvermi all’ombra di una
32 femminilità negata, forse mai voluta. Contraddizioni del caso. Anoressia. * * * È chiaro che la mia malattia si evolse come un progetto incer‐ to. Sapevo come partire: la dieta. Non sapevo come finire: non potevo smettere di seguire la dieta. Su consultazione di un dietologo comincio una dieta, restringo, perdo dieci chili in tre mesi, restringo, perdo le mestruazioni, restringo, perdo la voglia di mangiare, restringo perdo la voglia di vivere. L’anoressia è uno stile di morte. La scelta di morire con stile, un epilogo drammatico: corpo emaciato, corpo evanescente, corpo disperato. Tutto è corpo, ma il corpo non c’è più. Prima di tutto l’anoressia è la dimostrazione di una forza superiore, della capacità inumana di vivere senza nutrimento, è lo sfog‐ gio dell’abilità di sapersi controllare. Di riuscire a imporsi con la mente sul corpo. L’illusione di poter comandare la vita e i suoi processi biologici. Le anoressiche sono vanitose, egocentriche, intolleranti. Le anoressiche vivono solo per l’anoressia. Ogni scelta, ogni ge‐ sto, ogni pensiero, ogni parola, ogni persona, ogni amico, a‐ mante, è funzionale alla malattia. Le anoressiche sono fallaci, purtroppo inconsapevoli ipocrite, perché le prime a racconta‐ re menzogne a se stesse. Le anoressiche sono vittime e come tutti i deboli cercano una rivalsa, perché non sanno accettare la sconfitta, non possono concedersi di essere perdenti. Per vincere occorre essere potenti, le anoressiche trovano il pote‐
33 re nel controllare la fame, il cibo, l’attività fisica, il corpo fisico e morale. L’anoressia diventa l’arma con cui sfidare il mondo, un’arma a doppio taglio perché per prime mettono a rischio la propria incolumità. Si feriscono per ferire. Quando persi il ciclo sentii di avere sfiorato l’onnipotenza: il controllo del mio corpo e la sottomissione degli altri. La perdi‐ ta del mestruo è un campanello d’allarme che mette in agita‐ zione i familiari, i quali si preoccupano, ti curano, ti amano, ti viziano, ti parlano dell’amore che provano, della tua unicità. Poi esplodono vedendo che ti lusinga giocare con la morte, ma a te piace anche essere maltrattata, scatenare emozioni di dolore, di sofferenza. Non ti arrendi nemmeno di fronte alle lacrime di tua madre. Di tuo padre. Tutti devono pagare, tutti ti devono qualcosa, vuoi che tutti riconoscano la tua immola‐ zione. Non ha senso la vita, molto più intrigante giocare con la morte. La famiglia subisce le contraddizioni della malattia, è succube di ripicche, ricatti morali e affettivi, viene portata all’esasperazione, alla distruzione. I genitori si scontrano, tu ti scontri con entrambi, poi ne scegli uno che ti crederà sempre anche davanti alla falsa verità e l’altro continua a disapprova‐ re. Li dominerai entrambi facendo in modo che mai collabori‐ no tra loro. Tu devi rimanere la più forte, è l’unico modo per‐ ché l’anoressia sopravviva. Perché lei deve vivere, tu vivi di lei, rischierai l’esistenza per lei. Non c’è altro. L’anoressia è il tentativo ultimo di trovare la propria identità, nasce da un vuoto interiore, dall’incapacità di stimare il pro‐ prio valore, dalla sensazione di inadeguatezza nei confronti del mondo e degli altri, da un’impotenza che spesso si genera
34 dall’esser donna. Forse anche dal desiderio inconscio di essere maschio. Avrei rinunciato ai miei seni, ai fianchi, al ventre fecondo, avrei livellato tutte le curve, appiattito le sporgenze, annullato me stessa. Prima della vita nuova c’è la distruzione. * * * Fu durante gli anni del liceo che cominciai a credere che pote‐ vo amarmi di più e farmi amare. Rinunciai alle focacce della Gina, agli snack, rinunciai alla mia adolescenza, mi concentrai su un unico obiettivo: il dimagri‐ mento. Dimagrire significa non solo seguire un rigido schema alimentare, ma anche rinunciare ai possibili contatti sociali che il cibo crea. Sono molte le adolescenti che non amano il pro‐ prio corpo, ma fortunatamente non tutte lo odiano al punto da volerselo strappare di dosso. Mi mettevo in posizione eret‐ ta davanti allo specchio ed esaminavo con cura la mia pancia. All’inizio della dieta mi interessava solo avere una pancia piat‐ ta. Una pancia sempre piatta, quindi appena notavo anche il minimo rigonfiamento pensavo di aver mangiato troppo “Fai schifo, come hai potuto mangiare tutta quell’insalata e per‐ fino il pane? Sei schifosamente ingorda!” A volte per espiare il senso di colpa mi sdraiavo in camera sul pavimento e facevo ginnastica. Mi concentravo sugli addomi‐ nali, poi mi rilassavo e distesa supina controllavo che tutte le ossa fossero sporgenti. Ma non era mai abbastanza.
35 All’inizio non fu semplice perdere peso. Ricordo che durante una visita di controllo il dietologo mi chiese: «Non hai mai fatto nessuno sgarro?» «No.» «Sicura? Nemmeno una patatina?» «No.» Era vero. Ero troppo orgogliosa per lasciarmi tentare da una patata. Quando uscii dallo studio mi interrogai se davvero una patatina potesse compromettere drasticamente l’esito di una dieta. Non ho mai sgarrato, mai, piuttosto buttavo il cibo che mi tentava. Arrivai anche a ridurre l’apporto calorico previsto dalla dieta perché volevo dimostrare che ero anche più brava. La migliore. In casa ero la migliore a seguire una dieta. Osser‐ vavo schifata il modo di alimentarsi di mio padre, di mia ma‐ dre, mio fratello invece lo invidiavo, mangiava senza mai in‐ grassare. Filippo era quello che io volevo essere. Col passare degli anni mi sono resa conto dell’invidia che provavo nei suoi confronti. Lui è sempre stato un ragazzo molto indipendente, capace di scegliere da sé e per sé senza bisogno né di consul‐ tazioni né di approvazioni. Ha trovato nello sport la sua stra‐ da, negli amici la sua famiglia, nella fidanzata la consolazione e l’amore. Più volte mi sono chiesta cosa provasse per me, qua‐ le posizione occupavo nella sua vita, e credo che per anni non mi abbia nemmeno considerata. Ero solo un’adolescente complessata, mentre lui un bambino che non poteva capire. Forse aveva bisogno di sostegno da parte mia, di solito i mag‐ giori sono un punto di riferimento. Sono felice che non mi ab‐ bia mai preso a modello e che anzi abbia sempre contestato le mie posizioni, perché da me non aveva nulla da imparare. Ha
36 percorso la sua strada da solo, con la sicurezza di un predato‐ re, poche volte l’ho visto titubante, insicuro. Ha applicato alla vita lo stesso rigore tecnico che utilizza nelle arti marziali. Il karate è stato la sua salvezza, ha combattuto con energia e col desiderio di vincere. A scuola ero migliore io e spesso me ne vantavo mortificandolo, era l’unico settore in cui valevo qualcosa, e valevo di più se lo offendevo mettendolo in catti‐ va luce davanti ai miei genitori. Mi dispiace tanto che mi duole il cuore. Come ho potuto essere capace di cattiverie simili? E dire che gli volevo un gran bene. Quando usciva vincente dalle gare mi commuovevo e avrei voluto urlare “ehi, quello è mio fratello!”. Invece stavo lì, silenziosa e raccolta sui gradini della tribuna con le lacrime agli occhi. Per me lui era il migliore. Lui è migliore di me, perché prima di me ha capito che la vita è una palestra dove i muscoli si allenano, non si consumano; dove la testa controlla l’azione, dove la prima gara l’affronti con te stesso e vinci quando accetti i tuoi limiti. Oggi quando guardo Filippo ho davanti ai miei occhi un uomo, anche se spesso vorrei abbracciarlo e coccolarlo come non ho mai fatto. Vorrei che mi perdonasse per il rumore che ho crea‐ to nella sua adolescenza, per lo scompiglio che ha dovuto af‐ frontare da solo, per avergli sequestrato la madre e aizzato contro il padre. Per non esserci mai stata, e per quando c’ero ma contavo solo io. Confido nella sua capacità di perdono. * * *
37 Mi sono sempre fermata ancor prima di cominciare questo la‐ voro. Ho sprecato tempo alla ricerca del quaderno giusto o magari di un diario con una copertina romantica o abbastanza drammatica da ispirarmi. Una volta capito che il supporto con‐ tava poco, mi sono soffermata sul mezzo: penna stilografica, a sfera, pennarello a punta fine, media… blu nero, viola ‐ il co‐ lore della spiritualità ‐ ma nemmeno il mezzo era sufficiente ad aprire i canali della mia emotività. Allora ho aspettato che arrivasse il momento giusto, l’attimo di esplosione creativa, l’impulso immediato che ti sorprende, ti illumina… sono rima‐ sta al buio nell’attesa. Mi sono quindi rassegnata all’idea che avrei cominciato a scrivere solo quando il mio malessere sa‐ rebbe sparito. Ho aspettato di sposarmi, di allontanarmi dalla mia famiglia di origine, da mia madre soprattutto, sperando che una volta lontana avrei trovato la pace, una sorta di quie‐ te interiore, la fine insomma del tormento che da anni covo nel corpo, nel cervello. Ho aspettato che la ricerca di equilibrio mi guidasse fino alla fine di questo enigma, ma non c’è fine, più aspetto più mi ritrovo alla deriva spinta da acque fangose, da speranze vaghe che mi si aggrovigliano ai nervi come mu‐ rene, prepotenti onde di desideri inutili mi spingono verso un deserto dove sopravvive solo il miraggio che ho di me stessa. Scelgo di scrivere questa sera alle undici. Prendo un pezzo di carta da un album pentagramma, reliquia delle scuole medie, impugno una penna dal portapenne vicino al telefono, una di quelle che ti omaggiano perché faccia pubblicità o forse l’ho rubata involontariamente alla cassiera del supermercato men‐ tre firmavo il voucher della carta di credito… chi può saperlo, faccio tante di quelle cose senza pensare. Comunque comin‐
38 cio a scrivere seduta a gambe incrociate sulla sedia della cuci‐ na, dò di spalle ai fornelli, sto lì perché è l’unico ambiente an‐ cora caldo. La cucina, crocevia di delizie e tormenti, delizie che assaporo con la testa e tormenti che mi distruggono la testa, luogo di pace quando riesco a nutrirmi dominata da un senso di tranquillità, di guerra quando la follia prende il sopravvento. Oasi quando vestiamo la tavola con la tovaglia della festa, quella bianca damascata, con le candele in centro, i calici di vetro di murano, le stoviglie quadrate in stile orientale. Si tra‐ sforma in trincea quando il piatto di mio marito straborda di prelibati manicaretti e il mio di anonime verdure bollite e scondite. Si incrociano i nostri occhi e gli sguardi, incapaci di qualunque espressione, ricadono sui piatti. Scrivo e sorseggio una tisana che mi depura dalla paura di ingrassare, che mi purga dal senso di colpa, che mi fa dormire meglio dei lassativi di cui abusavo per cagar fuori il dolore al mattino. Evacuavo le verdure sempre più anonime, ma anche l’anima che il più delle volte lasciavo nel letto perché talmente spaventata dalle coli‐ che notturne, dai crampi, dall’affaticamento del respiro che mi trascinavo fino al bagno solo col corpo. L’anoressia ti priva delle emozioni, ti lascia solo la paura. Ora mi illudo che un po’ d’acqua sporca addolcita con edulcoranti regolarizzi il mio transito intestinale e il mio passaggio su questa terra disgra‐ ziata. Mentre mi soffermo a cercare le parole ruoto di tanto in tanto la fede che porto al dito, ma non immersa nei pensieri di una sposa felice e innamorata, nemmeno in quelli più realistici delle responsabilità coniugali da assolvere, bensì in quei torbi‐ di pensieri ossessivi di una stramaledetta venticinquenne ano‐ ressica che cerca con ogni mezzo di valutare le proprie dimen‐
39 sioni fisiche, misurando ogni cosa che veste il suo corpo. Sono una sposina terrorizzata dall’idea che la profezia “vedrai che starai meglio, da sposata si è più rilassate e si ingrassa” si av‐ veri, così vago inquieta per la casa alla ricerca di una qualsiasi cosa da fare: un vaso da rispolverare, un piatto da spostare, un tappeto da sbattere, il letto da rifare, stirare un fazzoletto, e quando non so più dove sbattere la scopa alzo la radio e bal‐ lo dimenando tutti i muscoli del corpo e mi scateno in un deli‐ rio di passi di danza per combattere quei depositi adiposi che io vedo sempre in agguato allo specchio la mattina. Li vedo ri‐ flessi, tutti quei bocconi di grassi, proteine, carboidrati e li ve‐ do infiltrarti nei miei tessuti. Mentre corro per il salotto col cagnolino che mi rincorre non mi abbandono alla musica, so‐ no i calcoli delle calorie che mi fanno saltare, incrociare, girare la testa. Sommo divido moltiplico sottraggo fino a che la cassa non va in tilt ed esplodo in un pianto isterico. Allora cambia la musica: “non ce la faccio più, non ce la faccio più, voglio solo morire”. A quel punto arriva il mio principe azzurro a racco‐ gliermi dal parquet. Ma non ci sono baci, solo lacrime aggiun‐ te. 3 gennaio 2004 Apro gli occhi col tormento di osservare la mia immagine allo specchio. Vado in bagno ancora mezza addormentata e faccio pipì. Mentre passo davanti allo specchio mi dico: “Non ti fermare, torna sotto le coperte. Non ti fermare, torna da tuo marito.” Ma più me lo ripeto più l’ossessione si fissa, così faccio un passo indietro. Accendo anche la luce dello specchio e con gli
40 occhi stropicciati, alle sei e mezza del mattino, tiro giù il pi‐ giama e cerco le ossa delle anche, frontalmente poi di profilo. Mentre mi lavo i denti seguo l’incavo delle mani, voglio vedere i cinque tendini tirati. Assottiglio la bocca e cruccio la fronte per ritrovare tutti i tratti tirati del viso come linee perverse che mi incorniciano la faccia triste. “Specchio, specchio delle mie brame, tiranno del mio equilibrio mentale…” Ormai sola mi vesto in preda al panico del “devo provare ogni cosa per controllare se sono ingrassata”. Comincio dagli abiti acquistati più recentemente e arrivo fino al guardaroba esti‐ vo. Infilo, allaccio con le mani tremanti e la fronte imperlata dalla paura che tutto mi stia più stretto. Sfilo come una mo‐ della tossica dalla camera da letto all’anticamera, dove mi fermo a osservare tutti i lati del mio corpo davanti a quella dannata scarpiera fatta interamente di specchi. Sapevo che si sarebbe rivelato un acquisto deleterio. Sono davvero io quella intrappolata in quelle cinque ante a ribalta o è un’immagine ribaltata di ciò che la mia testa vuole vedere? Quando mi al‐ lontano da quella visione per il cambio d’abito percepisco il mio corpo estremamente goffo, esageratamente gonfio, pe‐ sante. Una colata di grasso superfluo mi riveste le ossa e os‐ sessionata da questa idea aspiro solo al suicidio. È il corpo che devo sopprimere o è la mia testa che devo annientare? Impaz‐ zisco, devo sapere se peso più di quei trentadue chilogrammi che la ginecologa ha proferito quando mi ha fatto salire sulla bilancia, inconsapevole del danno che mi stava facendo, un vero crimine nei confronti di una mezza donna psicolabile. Devo sapere o non mando più giù nemmeno mezza carota.
41 Oppure mangio così mio marito non si accorge di nulla, ma mi compro uno step e lo tengo nascosto sotto al letto così lo uso quando lui non c’è. Muoio se non mangio? Ma non è tanto questo a preoccuparmi quanto una affermazione da lui fatta tempo fa: “vuoi digiunare? va bene digiuno anche io”. Non è per il digiuno che mi sono allarmata; cazzo non può togliermi il piacere sublime di cucinare, di fare all’amore con gli odori delle spezie, di vedere il burro squagliarsi scosso dalla passio‐ ne della fiamma, l’olio soffriggere tra le code dei gamberetti. Non può togliermi questa bulimica overdose di cibo che assa‐ poro col naso, col tatto, con gli occhi. Devo sniffarmi un po’ di quelle succulente pietanze che amorevolmente gli porgo nel piatto. Lascia che almeno questo appaghi la mia fatica, il mio sforzo di simulare la moglie modello. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...