Blues al lume dell’Ikea, Andrea Quattrocchi, giallo

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In uscita il 22/12/2017 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2018 ( ,99 euro)

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ANDREA QUATTROCCHI

BLUES AL LUME DELL’IKEA

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

BLUES AL LUME DELL’IKEA

Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-157-0 Copertina: “Twins” di Salvo Sportato

Prima edizione Dicembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A noi tre



PARTE PRIMA



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UNO

Uno strappo sull’asfalto interruppe il rumore ordinato del traffico di mezzogiorno. Due utilitarie con la voce da fuoriserie si fermarono una di fonte all’altra, i conducenti scesero dalle vetture e - coi volti deformati - si scambiarono tre vaffanculo, due stronzo, sei o sette pezzo di merda, oltre a un numero indefinito di ingiurie nei confronti delle rispettive madri. E poi ciascuno per la sua strada, che era pur sempre il giorno del Signore. «Certo che questo incrocio è maledetto» disse Lauro Piazzoli. «Già» rispose Giacomo Manes «fosse solo per la rotatoria. La verità è che qui è tutto uno sfascio! Il mondo è diventato una giungla.» Seduti al tavolino del Poker Bar, i due ritornarono alle loro rispettive posizioni e attività. Lauro spazzolò i baffi bianchi con l’indice e avvicinò la tazzina di caffè alla bocca per terminare l’opera interrotta. Giacomo invece aggiustò il berretto, stese il quotidiano e voltò pagina. Alle loro spalle il flusso delle vetture era tornato un gomitolo ordinato. «Mai un vigile quando serve. Che cosa le paghiamo a fare le tasse?» «Per chi le paga, Lauro mio.» «Già, proprio vero. Hai detto bene tu: il mondo è diventato una tundra.» Un giovane con il viso appuntito e i capelli a spazzola si avvicinò al tavolo. «Posso prendere il giornale?» chiese con i denti gialli a vista. «No» rispose Giacomo «e per dirla tutta tu dovresti essere a lavoro, altrimenti con che cosa le vogliamo pagare le nostre pensioni?» Il ragazzo tirò il volto indietro, i denti scomparvero e si allontanò biascicando sulla via della ritirata parole come domenica, vecchio, acido, rincoglionito. «Questi sono tutti smidollati. Che cosa facevamo io e te alla loro età?» «Io lavoravo» disse Lauro con gli occhi accesi «con il primo stipendio da ragioniere ho comprato una 124 verde. Avrò avuto grosso modo vent’anni, come quello là.» «Eh, il lavoro, che disgrazia. E poi la nostra bella Mirò sul Fiume sta proprio morendo, non succede più niente di niente. E grazie che i nostri ragazzi vanno a vivere a Bardò. Che tristezza.» «Be’, che devono fare?» «Senti qua, prima pagina della cronaca locale» Giacomo tornò indietro con i fogli «“Razzia di funghi nel parco: multati in tre”.» «Che vandali» disse l’amico con le sopracciglia increspate.


8 «Ma no.» «E come no?» il tono di Lauro fece voltare l’uomo e la donna seduti accanto. «Sst, piano. Intendo dire: dove va una città in cui non succede talmente niente, che una multa per eccesso di funghi ti spunta sul giornale?» «Non avevo colto» disse Lauro gettando in aria gli occhi. «E pensaci» rispose Giacomo, poi ricompose il quotidiano e lo spalancò nuovamente a libro mentre un nuovo avventore faceva il suo ingresso nel locale. «Saluti Luigi, come andiamo?» «Buongiorno Piazzoli, ti vedo sempre più in forma. L’ho sempre detto che l’aria di Mirò è miracolosa. Posso offrirti qualche cosa?» «Stiamo bene, grazie. Abbiamo appena fatto.» Luigi Baroni si avvicinò al tavolino. «È inutile che ti nascondi» disse l’uomo scostando una pagina del quotidiano come se si trattasse della tenda d’ingresso di una casa estiva «ti riconosco dalla sagoma, caro Manes, pure dietro al giornale.» «Uh, che onore» Giacomo sollevò il berretto con pollice e indice e grattò la pelata col mignolo «un artista della tua levatura, Baroni, che mi degna di tante attenzioni. Fammi magari un autografo, già che ci sei.» Luigi sorrise, si voltò verso Alfredo e disse di segnare perché i signori erano suoi ospiti per il prossimo giro. «Vi saluto» aggiunse prima di dirigersi verso un tavolo con cinque sedie posizionato all’altro angolo del cortiletto. «Hanno ancora il complessino, Baroni e la sua cricca?» chiese Lauro. «Sì, non hanno mai smesso di suonare.» «Avevano avuto un bel successo. Aiutami, Giacomo, quando è stato? Una ventina d’anni fa?» «Giù di lì.» «E com’è che si chiamavano? Aiutami, non mi viene» Lauro portò la destra alle tempie. «Lou Baron band, oppure orchestra, una cosa così» Giacomo ripiegò il giornale e lo poggiò accanto ai salatini. «E lui, Luigi, sarebbe l’omonimo, giusto?» chiese Piazzoli. «Già» Manes sorrise con un soffio leggero dalle narici «e fra di loro si chiamano con i nomi inglesi, fa più artistico.» «E ancora giocano a fare i cantanti, alla loro età?» «Mica sono vecchi. Avranno sui quarant’anni, sono ancora dei giovanotti.» «Poveri noi, ancora hanno voglia di fare i ragazzini» Lauro giunse le mani e le agitò. «Ma sì, almeno si tengono attivi.» «Eh, beati loro. Che qui non succede proprio più niente di niente.»


9 Sbuffarono, inspirarono, silenzio. E ancora. E ancora. «Che dici Giacomo, domani verrà a piovere?» «Il reumatismo della mia gamba dice proprio di sì.» «Ah be’, meglio preparare gli ombrelli. Senti un po’: se dico Anna Ponti e Bernardino, che ti viene in mente?» Giacomo afferrò i braccioli della sedia e con un movimento secco fu con le orecchie nella bocca di Lauro. «Qualche cosa mi dice, ma vediamo questa volta quanto saprai stupirmi.»


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DUE

Neanche il tempo di prendere posto al tavolo, che Alfredo portò salatini, patatine e un calice di prosecco. “In paese” pensò Lou Baron “sono rimasti davvero in pochi a chiamarmi ancora Luigi Baroni.” Lo scambio di personalità era un fatto consolidato oramai dall’estate del lontano 1991. Da quando cioè Boogie-woogie della limonata era diventato un tormentone e aveva lanciato Lou nell’empireo del pop nazionale. Da quel momento i pettegolezzi si erano trasformati per lo più in elogi, almeno fin tanto che l’ottovolante era rimasto sulla cresta. “Bel periodo” ricordò Baron “il punto più alto di una carriera istantanea, irregolare e fugace come il bagliore di un fulmine.” Sollevò il polso destro - l’una meno un quarto - poi prese il telefono e controllò di non avere chiamate perse. “Il ritardo dei ragazzi è comprensibile” pensò “hanno finito di caricare gli strumenti sul furgoncino ben oltre le quattro del mattino.” Sospirò. Quel passato era lontano come e più di un’era geologica. Tutti avevano voluto Lou Baron: quant’è bravo, quant’è bello, quant’è cool, quant’è sexy, quant’è talentuoso. Di quella stagione rimanevano pochissimi amici, molti ipocriti, una lunga lista di detrattori di cui ancora ricordava volti, vizi e veleni. Del resto chi non ha nemici non esiste, non è nessuno, e la popolarità ha sempre un prezzo. La gamba che tamburellava appoggiata al piede del tavolino fece vibrare il bicchiere e Lou si voltò per guardarsi attorno. Ancora nessuno della band. La scalata era stata stupefacente, un percorso in cui non erano esistiti ostacoli, limiti, malesseri. «Tu non hai bisogno di niente e di nessuno» disse Lou a voce bassa. Il problema si era invece presentato alla discesa. Una caduta altrettanto verticale, o forse persino di più, con fine corsa in un luogo asfissiante e ostile in cui rivedere a ribasso e senza preavviso le pretese per il futuro. La fuoriserie, scrutata dalla vetrina, era diventa un’utilitaria. La villa a schiera, osservata dal giardino, si era trasformata in un appartamento condominiale con riscaldamento centralizzato e senza servizio di portineria. E poi un senso d’inadeguatezza, d’incompiutezza, di rabbia nei confronti della sorte, della


11 stupidità, della superficialità, della società, del paese, del mondo, di un Dio parziale. Come sentirsi nudi a una serata di gala. Lou si aggiustò nella sedia e si voltò ancora. In pochi minuti il cortile e l’interno del Poker bar si erano popolati come e più della messa di punta e le voci si mischiavano in un coro confuso di sottofondo. Baron vide il primo cittadino Giorgio Menegoni, noto per le sue prediche nichiliste, gesticolare in faccia a Don Martino mentre la moglie, poco distante, si preparava a dare le carte seduta con Gina, Assunta e Carmen. Lou prese il bicchiere, ma subito lo lasciò. Controllò la tasca, il pacchetto di sigarette c’era. Sistemare lo sfacelo, accettare di dover tornare invisibile, essere rieducati alla noia, disintossicarsi dalle folle in visibilio. Tutto sfiancante, un percorso che aveva preso tempo. Un sacco di tempo. Il suo nuovo equilibrio, quindi, Lou l’aveva proprio sudato. “Non è vero per un cazzo che le cose si sistemano da sole, che nella vita è destino, che siamo nati per lasciare scie luminose alle nostre spalle” pensò Lou. «Fanculo» disse fra i denti. Ancora una mano alla tasca: quante sigarette c’erano nel pacchetto? Una, tre, quattro, cinque. Tutto è bene ciò che finisce bene. Vero, almeno fino al giorno precedente. Poi era arrivato lui, l’uomo elegante che aveva tirato fuori una proposta della sua bella giacca sartoriale a quadrettoni. Un’offerta che, almeno potenzialmente, avrebbe potuto rimescolare di nuovo il mazzo. “No, grazie” pensò Lou “passerò volentieri.” “A che prezzo” rifletté “sarei disposto ad accettare? Quanto costa, oggi, un ciclo di cura dallo psichiatra? Quanto una causa di divorzio? Tanto, troppo.” Lou avvicinò la sedia al tavolo e incrociò le braccia. “Il fatto è semplice” pensò “occasioni e intenzioni hanno preso strade diverse, non si sono incontrate. Meglio farsene una ragione, ora e per sempre. No? Sì, no, non lo so, vedremo.” Si voltò di scatto a cercare la folla. Sindaco e parroco sembravano aver trovato un argomento comune, sorrisero, si salutarono e presero direzioni opposte. E dal groviglio di braccia e bicchieri spuntarono Alex, Matthew e Tom. «Finalmente, voi. Avete notizie di John?» «Tuo fratello è sempre in ritardo Lou, dovresti saperlo» rispose Alex. «Be’, anche voi però…» «Un quarto d’ora, su, non la fare lunga» disse Matthew. «Parlate di me?» John sbucò alle spalle di Tom. «Eccolo, il signorino si fa sempre attendere» commentò Alex. Alfredo lanciò un’occhiata a Lou, che ricambiò, e nel giro di un paio di minuti furono tutti serviti.


12 «È andata bene ieri, che dite?» «Come al solito Tom, noi andiamo sempre al top» rispose Alex. «Forse John non era proprio al meglio.» «Pensa per te fratello» disse avvicinando la mano aperta al viso di Lou «guardati: stamattina sei una merda, tutto spettinato.» Risero, poi presero a parlare di accordi, arrangiamenti, tette, mogli, amanti, Juve, Milan, Inter, Raffaella Carrà, finché Alfredo non portò il secondo giro. «So che è dura ragazzi, ma per una volta finite di fare gli stronzi, facciamo un attimo un discorso serio» disse Lou. «Stai bene?» chiese Tom. «Certo, che discorsi. Ascoltate, forza. Vi ricordate il tipo che ieri sera mi ha avvicinato alla fine del concerto?» «Come no» disse Matthew «quello distinto, ben pettinato, che sembrava Ken?» Lou, con le braccia conserte e le gambe larghe, annuì. «Ti sei fatto Barbie?» chiese Tom. «Ma vaffanculo» rispose Baron. Sorrise, sorrisero tutti. «E insomma» chiese John «che cosa ti ha detto?» «Il signor fighetta è un produttore televisivo, lavora per “Rete Rock”.» «E che vuole da te uno del genere?» chiese Alex con gli occhi spalancati. «Arrivo, arrivo. Voleva invitarci a una trasmissione che stanno preparando, si chiama Lo Stivale e il Rock, Lo Stivale del Rock, non mi ricordo bene.» «Com’è che si chiama? Lo cerco su Internet, fatemelo vedere in faccia» disse John. «Aspetta, non ricordo bene. Ah sì: Eugenio Campi. Aspetta, no… Eugenio Carlo Campi di Marzo.» «Ma di che si tratta?» chiese Alex. «È una specie di reality show, invitano i gruppi che hanno avuto successo negli scorsi anni, li fanno suonare e li mettono in sfida tra di loro.» «Ma chi se la vede ‘sta merda?» Tom gettò una mano indietro. «Ah, io non la vedo sicuro» Matthew sorrise. «E certo, lui è l’ortopedico che non si svaga mai. Pensa solo ai suoi piedi, alluci, taglia, cuci, aggiusta. Tu questa spazzatura non la vedi, ma guarda che i giovani vanno matti per queste trasmissioni» disse Alex. «Certo che se i ragazzi impazziscono per i quasi cinquantenni, possiamo certo essere tranquilli per il nostro futuro.» «Matthew, Alex, smettetela. Fate finire Lou» disse John. «Insomma, vogliono noi, ha invitato la Band e dice che ci darebbe il risalto che meritiamo, parole sue. Ha detto che è pronto a metterlo su un contratto che avremo successo, che torneremo ad averlo anzi.» «Ah be’» disse Tom.


13 «Comunque. Mi dice che sarebbe una bella occasione per rilanciare la band, perché l’audience, sempre stando a lui, compra i dischi ed essere in televisione ti garantisce un sacco di vendite, visibilità. Insomma torneremmo a suonare come ai vecchi tempi, anzi molto di più.» Alex si agitava sulla sedia, mentre gli altri si scambiavano occhiate furtive. «Allora, che ne pensate?» «Io ci sto, finalmente una bella notizia» disse Alex, col bicchiere in mano «brindiamo ragazzi, a questa grande opportunità.» «Aspetta Alex, dobbiamo decidere tutti insieme. Siamo una Band.» Tom, Matthew e John guardavano Lou in silenzio. E ancora una volta il sottofondo del bar prese il sopravvento. «Ragazzi, perché non parlate?» «Mah, io non saprei. Non devo rendere conto a nessuno, diciamo. Per me potrebbe anche essere divertente, un’esperienza simpatica insomma» disse John. «E voi due? Perché non dite niente? Allora?» «Calma Alex, calma. Per me è una stronzata, se proprio volete saperlo. Ma che figura, v’immaginate? Io devo essere credibile, ho impostato una carriera su questo, avete presente la parola serietà? Saremmo patetici. Ragazzi, io curo la gente, non la intrattengo. Mi ci vedete in ospedale dopo essere stato in tivù? Che direi ai miei pazienti? E alla mia famiglia, poi? Lo so, i miei figli mi riderebbero appresso…» «Dai Matthew, non esagerare. Mica ci ha proposto di fare le veline o di esibirci in costume da bagno. Potrebbe essere divertente, abbiamo sempre suonato con passione, non mi pare così tremendo divertirsi un po’. Che, un chirurgo del tuo livello deve per forza essere un musone?» osservò Lou. «Ma no, ci mancherebbe» disse con lo sguardo al tavolo «non saprei, continuo a pensare che saremmo ridicoli…» «Ragazzi, ma vi rendete conto di quello che dite? Guardate che noi si suona di livello, eh. Siamo ottimi musicisti, che vi credete? Non v’interessate più molto, ma in giro c’è gente manco intonata, ci credereste? E vende perché è in tivù o su Internet. Figuratevi noi, che sappiamo suonare» disse Alex sulla punta della sedia, pronto a scattare come un velocista in batteria. «In un certo senso sono d’accordo con Alex, potrebbe essere un’esperienza interessante. Anche se in effetti capisco il punto di vista di Matthew e non ci avevo pensato. Sai che figura se steccassimo?» «No che non sfiguriamo, John. Diglielo anche tu Lou» disse Alex con le mani giunte. «A questo Campi, tu che hai detto?» chiese John. «Che ci pensavo, o meglio che ne parlavo con voi. Perché la decisione non è solo mia. Comunque, il fatto è questo: è un’occasione per far vedere ancora


14 chi siamo. E siamo bravi, come dice Alex. Se poi vendiamo meglio ancora, non capisco che problema c’è a esporsi. Tom, perché non dici niente?» «Mah. Ho capito i punti di vista, sto ascoltando.» «E?» «E penso: mi ci vedete a consigliare supposte, aspirine e farmaci per il cuore dopo aver fatto il diavolo in televisione?» Tom si grattò il mento. «Esagerato» rispose Lou muovendo le mani in avanti verso l’amico. «Dici? Qui siamo in provincia, mica in una grande città. Comunque di questo non m’importa sinceramente.» «Anche perché i tuoi clienti, come li chiami tu, sono per lo più moribondi. E della cosa non rimarrebbe traccia a lungo» osservò John. Risero. «No, sul serio Lou, ci voglio pensare un attimo, non me la sento di darti una risposta così…» «Che pezzi di merda.» «Alex, dai, non essere melodrammatico. Pensiamoci, prendiamoci un po’ di tempo, ma non troppo.» «Quando devi dare una risposta?» chiese John. «Il quattro giugno andiamo a pranzo insieme. Mi ha detto che il sei di luglio registrano la prima puntata, per andare in onda il dieci. Direi però che al momento è più no. Giusto?» «Come? È no?» Alex si colpì la coscia con il palmo della mano. «Scusa, facciamo i conti. Tu sei d’accordo, John è più sì che no, Matthew è no sicuro, Tom ci pensa ma non sa.» «E tu, Lou, tu che vuoi fare?» incalzò Alex. «Diciamo che potrei essere d’accordo. Ma potremmo mai andare solo in tre?» «E perché no?» «Perché noi siamo una Band, Alex. Noi ci muoviamo come una persona sola» disse John. Alfredo era lì col terzo giro. E terzo giro fu.


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TRE

Il giorno con il puntino nero sul calendario del cellulare era arrivato, giovedì 4 giugno. Lou si era svegliato con lo stomaco chiuso e si era limitato a rispondere a monosillabi alle richieste della moglie Amalia. Durante il tragitto che in macchina lo portava al lavoro, come chi ricerca tra vecchi album una foto che sa di avere, scavò nei suoi ricordi per recuperare una data, un volto, un odore, che si avvicinassero a una costrizione almeno simile. E le trovò nel giorno dell’esame di maturità. “La scuola non è mai stata cosa mia” pensò, e sorrise per la prima volta dall’inizio della giornata. Parcheggiò al solito posto, estrasse le chiavi e quando fu per spegnere la radio si accorse che era rimasta muta. Entrato nel portone si specchiò e sistemò la cravatta. Lou era un uomo alto e impostato, non grasso. Il busto, reso ancor più voluminoso dal contrasto con due leve lunghe e magre, terminava con una pancetta sedentaria concentrata sulla parte bassa dell’addome. Quest’ultima si adagiava sulla cintura (stretta) dei pantaloni (stretti). Il suo era un viso bonario, largo e tondo, con lineamenti marcati ma intonati. Sul centro della fronte penzolava con naturalezza un ciuffo castano, reso ancora più sporgente dall’attaccatura alta dei capelli folti. Gli occhi incappucciati, di un marrone vispo, erano ben riparati dalle sopracciglia lunghe. Aprì la porta dell’ufficio - era il primo - e si diresse nella sua stanza per il secondo caffè. L’aroma si diffuse rapido e coprì l’odore dei faldoni di carta poggiati sulla scrivania e negli scaffali. Guardò dalla finestra le macchine che scorrevano, bambini con la cartella che passeggiavano per strada, un furgoncino in doppia fila con il portellone aperto. Sospirò, con le tempie che pulsavano, e ricomparve il senso d’impotenza di un predicatore in una sala di sordi che lo aveva accompagnato a letto la sera prima. Come facevano Matthew e Tom a mostrarsi tanto indifferenti alla proposta di partecipare alla trasmissione? Avevano capito di che opportunità si trattava? Davvero si erano così imborghesiti, spenti, prepariamo le esequie, opere di bene e non fiori, e Requiem aeternam? “Mi ci vedete a consigliare supposte, aspirine e farmaci per il cuore dopo aver fatto il diavolo in televisione?” aveva detto Tom. “Io curo la gente, non la intrattengo” erano state le parole di Matthew.


16 Ricordava benissimo, anche se erano già trascorsi tre giorni dalla chiacchierata al bar e non avevano più toccato l’argomento. Più del rifiuto pesava comunque la bolla di incomunicabilità nella quale, a parte Alex con i suoi tentativi di ragionare, erano tutti dentro. La porta si aprì e lo distolse da quei pensieri. Seguirono dei passi, i tacchi di Simona. «Buongiorno Luigi. Tutto bene?» «Ciao. Sì, grazie. Vuoi un caffè?» «L’ho appena preso, ti ringrazio» rispose la donna con un sorriso «volevo ricordarti che oggi alle dodici arriva il signor Baggio per parlare della polizza vita. Ha chiesto esplicitamente di te.» Lou sollevò lo sguardo per cominciare ad ascoltare. «No Simona, io oggi ho un impegno a pranzo. Tassativo, non posso proprio mancare.» «A che ora devi andare?» «Alle 12,30 devo essere a Bardò. Vedrai tu Baggio, ti piacerà. Pensa che faceva il calciatore…» «È per un cliente che hai questo impegno “tassativo”?» «No. Cioè sì. Una specie.» «Che cos’è questa novità? Dimmi, chi o che cosa è riuscito nell’impresa di schiodarti da qui per parlare di lavoro. Vorrei conoscerlo, per stringergli la mano.» «Che cosa ci vuoi fare? Arriva un momento che uno mette la testa a posto» rispose Lou allargando le braccia. «Quindi?» «Niente, Simona. Non ci sono e basta.» La donna mosse le labbra in una smorfia. Alzò le spalle, non era aria. Uscita dalla stanza notò che Carla e Barbara erano già alla loro postazione. “A giudicare dal loro silenzio” pensò Simona “devono aver sentito, se non tutta la conversazione, almeno la parte conclusiva.” «Sta incazzato» disse per anticipare ogni domanda «stamattina non lo disturbiamo, ci cerca lui se ha bisogno. E avrà bisogno.» Le ragazze, silenziose come ombre, erano già dedite alle loro attività. Una accendeva il computer, l’altra spolverava la tastiera. Così Simona decise di andare nella sua stanza, non prima di essersi raccomandata di far passare tutte le chiamate da lei. Barbara e Carla si lanciarono un’occhiata, se ne accorse, e pazienza se le due ragazze avrebbero pensato che Lou era in punizione come un adolescente. Tant’era, quando i canali di comunicazione fra uomo e donna perdono acqua, i buchi vanno tappati con un intervento risoluto. Perché già quando funzionano, lui dice “ahi” e lei capisce “mai”. Lou, nella sua stanza, di lavorare non aveva voglia. Continuava a pensare alla chiacchierata con i suoi amici, e più tentava di autoconvincersi che la


17 scelta logica fosse dire semplicemente “no grazie”, più si ammalava di un amore impossibile. Quella chiamata giungeva col suono acuto dell’ultima corsa del treno in partenza. Prese il telefonino, cercò il fratello John fra i contatti, ma ogni volta desistette sul punto di chiamare. Cercava un contatto e lo rifuggiva allo stesso tempo. Oltre alla porta e ai suoi pensieri, l’ufficio funzionava come in un giorno qualsiasi. I telefoni squillavano, le ragazze parlavano e ridevano fra loro, i clienti entravano, trafficavano e salutavano. Realizzò di non aver mai avuto in quell’ufficio l’occasione di trascorrere una giornata nel silenzio più totale. Quando era presente le ragazze venivano a cercarlo in continuazione e se non si affacciavano era lui a cercare loro. Ma quel giorno era diverso, provava una sensazione d’inconsistenza corporea, come fosse un fantasma, capace di disconnettere mente e corpo. Tanto che i pensieri tristi non riuscivano a procurare sofferenza, tensione, stress. “Galleggiante” pensò “ecco come mi sento.” Cercò di reagire. Idea: visitare il sito web di Rete Rock. Click, click e Lo Stivale del Rock era circondato dalle breaking news, da un intervista esclusiva a Josh Manede degli Shark, dalla pubblicità di una moto custom. Bella. Sentì un telefono - chissà da quanto squillava - e alzò il ricevitore con indolenza, più per farlo smettere. «Sono io.» «Dimmi Simona.» «Hai visto che ore sono?» Erano le 11,45. «Di già?» «Proprio. Dico a Marchetti che ci sei, allora?» «Macché, devo andare. Subito.» Superò con un balzo la scrivania, era già alla porta - ciao a tutte, a dopo quindi il portone. «Guarda come va a parcheggiare questo imbecille» disse proprio di fronte alla sua vettura. «È tardi, molto tardi» disse a voce bassa mentre si muoveva su e giù per il marciapiede. Poi si fermò e, preso dall’ottimismo, decise di salire in macchina imponendo a se stesso la calma e l’attesa, che il proprietario di quell’auto l’avrebbe subito riconosciuto. L’astinenza da azione, però, durò neanche due minuti. La zona era piena di negozi, trafficata, era escluso poter riconoscere una lettera in mezzo all’alfabeto di Babele. Idea - anzi, eureka! -: chiamare i vigili. Non il massimo della creatività, ma di altre lampadine manco l’ombra. Gliel’avrebbe fatta rimuovere, sì, e se i poliziotti non fossero arrivati nel giro di un quarto d’ora avrebbe sempre


18 potuto dedicarsi al vandalismo. Infilò la mano in tasca e tastò con le dita fino a selezionare la chiave del portone di casa: un bell’esemplare punzonato, che solo a toccarlo era una soddisfazione. Le mani passarono rapide nel taschino e solo allora si accorse che il telefono stava vibrando. Guardò il numero e rifiutò la chiamata, era l’ufficio ma non era proprio il momento. Un attimo, cambiò idea, ricompose il numero. «Barbara?» «Sono Simona.» «È uguale.» «Scusami.» «Fai una cosa, urgente.» «Ti chiamavo per dirti che…» «Aspetta, ho bisogno subito di un piacere. Trovami il numero dei vigili urbani, devo fare rimuovere una macchina. Ora, subito, e poi richiamami.» Riattaccò prima di attendere una qualsiasi forma di risposta. La prima mossa era sua, pensò soddisfatto, anche se l’impedimento era ancora lì: materiale, pesante, station wagon. E il tempo scorreva, molto più lentamente di quanto la situazione di panico lo avrebbe portato a pensare, che nella fretta i minuti pare passino come lampi. Erano le 11,54. Trentasei minuti per raggiungere un’altra città, percorrere venti chilometri di tangenziale nell’ora di punta di una metropoli, parcheggiare. Sbuffò e si arrese all’evidenza. L’unica cosa sensata sarebbe stata di avvertire Campi di Marzo del ritardo. Di nuovo il telefono. «Simona.» «Ciao. Ecco il numero: 045831-0208.» «OK, grazie.» «Aspetta, volevo dirti che c’è qui una persona per te.» «Dopo, dopo.» E già non c’era più. «Sì, buongiorno, vorrei chiedere la rimozione di un veicolo.» «Di che si tratta?» «Gliel’ho detto, di un veicolo.» «Sì ma di che veicolo? Dove, modello, targa, etc. Vuole darmi qualche indizio? O faccio da me?» “Astenersi dalle polemiche, astenersi dalle polemiche, astenersi dalle polemiche” pensò mentre dava a quell’agente tutti i particolari: marca, modello, targa, ammaccatura anteriore destra, specchietto sinistro leggermente graffiato, due dadi rossi attaccati allo specchietto retrovisore, cafone e pure tamarro. A quel punto non restava che cronometrare quindici minuti, allo scadere dei quali sarebbe stato il turno della chiave. La strinse fra le dita. “Oh yeah, baby” pensò “ci divertiamo io e te, promesso.”


19 L’euforia fu un sentimento effimero. Restava infatti il ritardo da comunicare e quell’idea gli fece vedere nuovamente il mondo grigio. Prese coraggio, cercò fra i contatti, ma la scatoletta quel mattino doveva essere posseduta: numero sconosciuto, forse i vigili. Ancora. «Sì?» «Signor Baroni.» «Sì sono io. Le ho dato tutti gli indizi, ma è ancora qui.» «Che cosa, scusi?» «La macchina.» «No, guardi, deve esserci un equivoco. Io sono Carlotta di Rete Rock.» Era uno scherzo, certo. «Mi scusi, non ho ben compreso. Chi parla?» «Sono Carlotta, di Rete Rock.» «Ah ecco, scusi. Mi ricordo. Mi dica pure» disse in tono calmo, per controllare la curiosità. «Volevo chiederle se era possibile, per cortesia, spostare l’appuntamento con il signor Campi di Marzo.» «Adesso?» aveva sentito bene. «Sì. Le chiedo scusa a nome del signor Campi, ma ha avuto un contrattempo personale, un impegno improrogabile. È appena uscito, ma si è raccomandato di farla chiamare.» Lou allontanò il cellulare dall’orecchio, alzò il pugno in aria. “Che culo sfacciato!” Improvvisò un’esultanza da derby. Poi si voltò. «Che vuoi?» disse all’anziano che lo stava fissando. La fortuna, comunque, aveva preso in prestito la voce gentile di Carlotta. «Davvero signor Baroni, mi creda, non ci sono alternative. Il signor Campi mi riferisce che la chiamerà oggi pomeriggio per proporle una nuova data.» «Be’, immagino sia stata proprio un’emergenza… grazie di avermi avvertito, invece. A questo punto non cercherò neanche parcheggio. Aspetto una sua notizia allora.» «Certamente. Il signor Campi mi ha detto più volte che la chiamerà appena possibile nel pomeriggio. E scusi ancora.» «Va bene Carlotta. Pazienza, nessun problema.» Mentre chiudeva la conversazione si sentiva euforico. Anche perché, in lontananza, notò arrivare la cavalleria con il passo cadenzato di un carro attrezzi. Tutto si stava compiendo. Ma quando si voltò per incamminarsi verso i Campi Elisi, fu interrotto nel momento di gloria da un ticchettio sulla spalla. Era Clay Mandelli. «Baron, come andiamo?» «Clay! Bene, grazie. Che coincidenza.»


20 «Coincidenza mica tanto. Ero venuto da te a cercarti, ma la tua collaboratrice Simona mi ha detto che eri uscito dallo studio per una delicatissima questione.» «Sì be’. Cose di lavoro, sai?» «Sì, sì, lo so.» “E quando mai hai lavorato?” pensò Lou. «Be’, comunque sono qui. Cosa posso fare per te?» «Mah, volevo parlarti di una cosa delicata. Hai due minuti?» «Sì, ma non di più.» Mandelli si girò, distratto dallo sguardo di Lou che fissava un punto preciso alle sue spalle. «Scusa Baron, quella è la mia macchina… la stanno portando via, cazzo. È stata lì dieci minuti. Aspetta un attimo, arrivo.» L’uomo si allontanò bofonchiando parolacce, bestemmie e maledizioni mentre Lou lo osservava sentendosi come Giuda al Getsemani, con le dovute differenze: lui Mandelli non l’avrebbe mai baciato. Clay si avvicinò ai vigili, gesticolava energicamente, giungeva le mani poi le agitava in aria. Il match sembrava combattuto, difficile pronosticare l’esito. Ora l’uomo passava all’attacco, ora si difendeva. E quando sembrò proprio sul punto di portare a casa il risultato, salutò il poliziotto e tornò indietro. «Non c’è stato verso di convincerli» disse Mandelli deluso «non ho neanche il telefono per chiamare un taxi. Cazzo, questo cellulare me lo scordo sempre.» Lou gettò gli occhi in terra. «Prendi il mio. Mi dispiace per la macchina. Mi dispiace.» «Anche a me» rispose Clay. «Certo che non si può neanche sostare qualche minuto in questa città: troppo efficienti questi della polizia locale. Efficienti in maniera quasi fastidiosa.» «Hai ragione Baron. Che fregatura, solo dieci minuti sono stato. Pazienza, mettano in conto pure questa.» «Non ci pensare. Invece, sei mio ospite a pranzo. Poi, se vuoi, ti accompagno a recuperare la macchina. Vieni su da me e mi dici di questa faccenda importante» disse Lou dopo due pacche sulla spalla. «Bravo, sono d’accordo su tutto. E ti va di culo che quando sono giù non ho neanche appetito.»


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QUATTRO

“Meno male che Clay non aveva appetito” pensò Lou. Perché se l’avesse avuto, lui e il suo amico avrebbero dovuto cambiare posto, che la dispensa del ristorante da Massimo per poco non era rimasta vuota. Primo: “Gradisco il bis, grazie” aveva detto Mandelli. Secondo: “Abbondante mi raccomando, con contorno di patate e verdure grigliate, perché le fibre aiutano la digestione, e se il tiramisù è della casa, come faccio a non assaggiarlo?”. Infine: “Gradisco sia caffè, sia ammazzacaffè”. Il pranzo per Lou era stato noioso proprio come se lo sarebbe aspettato, e alla fine Mandelli non aveva fatto manco la mossa di dividere il conto. Clay aveva attaccato la litania della sua arte indiscussa, quasi a ogni forchettata aveva elogiato quel talento cristallino che l’aveva portato al successo ai tempi d’oro, parole sue. La cameriera era tornata al tavolo con la carta e la ricevuta, Lou aveva firmato e l’aveva guardato silenzioso, nella fase che precede la digestione. Mandelli ancora ci credeva al sogno di sfondare, di quella tenacia bisognava dargliene atto. Ma volere non basta, e Clay del resto non si era mai molto sforzato di allenare a nuovi sapori il palato dei suoi fan. Che nel frattempo erano cresciuti, si erano evoluti, avevano manifestato esigenze diverse. Mentre lui lì, con i testi a parlare ancora e solo di amori impossibili, da liceo, interrotti con scazzottate fra machi. Quando aveva scritto l’ultimo testo inedito? Aveva mai più riflettuto sul look da palcoscenico, che sembrava sempre appena tornato da un set fotografico del 1994? Jeans stretti e strappati ad arte, stivali a punta pitonati, giacca di pelle, camicia a fantasia abbottonata dalla metà del petto. Certo il fisico glielo permetteva. Era un uomo magrissimo, poteva pesare forse sessanta chili, alto un po’ meno della media e con una bocca troppo grande per quel viso lungo e stretto. E non era sostanzialmente cambiato se non per quella calvizie mascherata con un cappellino verde militare che non abbandonava neanche quando era chiuso al cesso. “Io sono molto diverso” pensò Lou “mi sono evoluto nel corso del tempo, non sono rimasto legato a un passato che non mi ha portato al futuro che speravo.


22 Dopo il pasto Lou avrebbe avuto voglia di un riposino, ma si sarebbe accontentato anche solo di qualche minuto di silenzio. Invece gli era toccato accompagnare Mandelli al deposito giudiziario: due ore e venti per tutta l’operazione, compreso un quarto d’ora in giro per il parcheggio. Addirittura con la macchina di Mandelli erano dovuti tornare all’ingresso, tanto avevano scarpinato, derisi persino dal custode. Finita la caccia al tesoro, poi, si erano dati appuntamento allo studio. “Parcheggia bene questa volta” si era raccomandato. «Accomodati, vieni, ti faccio strada.» Aprì la porta e lasciò passare Clay, che sull’uscio, disse: «Complimenti, che bel posto. Sembra sì uno studio, ma non di un’assicurazione. Potrebbe essere lo spazio di un artista» aveva osservato «a giudicare dalle locandine di spettacoli musicali e teatrali appese lungo il corridoio e all’ingresso.» In effetti l’unico appiglio a chi si sarebbe aspettato di entrare nel mondo della protezione del rischio era il logo de “La Sicura” che ornava il pannello coprigambe della reception. Imboccato il corridoio, Clay fece per entrare in una stanza ma Lou lo fermò. «Di qua» gli disse «questa è la stanza della mia assistente, non vedi il cartello? “Simona Teste, assistente dell’Agente generale”. Io ai titoli non ci tengo. Accomodati, vuoi qualcosa da bere?» «Ancora? Ma sì, dai, gradirei proprio un amaretto.» «Intendevo dire se hai voglia di una bevanda tipo acqua, coca, fanta, non so. Dove la metterai tutta quella roba, tu?» «Ah. No, allora sto bene» disse Mandelli. Lou sollevò il telefono, compose con automatismo un numero breve. «Barbara?» «Sono Simona.» «Ah ciao. Per favore, di’ anche alle altre che per un’ora sono impegnato.» «Non ci sei neanche per noi?» rispose la donna in tono serio. «Soprattutto per voi.» «Con tre donne in ufficio» disse Lou a Clay «è una lotta continua, e la buona vecchia deferenza nei confronti del capo va a farsi fottere ogni giorno di più.» Ripose il telefono, poi incrociò le gambe e giunse le mani. I movimenti erano lenti, si rendeva conto, seguivano i tempi di una gestualità araba mostrata sfacciatamente per allontanare Clay dal suo territorio. Doveva essere ben chiaro verso chi pendesse la lancetta dell’autorevolezza. Avere dodici album all’attivo, una gavetta fatta di pub, aver trascorso nottate in furgone a dormire con un rullante come cuscino, erano tutti elementi sufficienti da contrapporre alla carriera del modesto solista che era Mandelli.


23 Perché quello era, sì. E aveva poi un padre ricco, ricchissimo, pronto a coprire tutte le spese di un figlio con un’arte senza seguito. Clay aveva scritto due o tre canzonette che erano passate nelle radio nazionali, d’accordo, e in quello erano pari. Ma con i suoi mezzi e il suo tempo a disposizione Lou avrebbe sicuramente fatto molto di più. O quanto meno la caduta e l’oblio non sarebbero stati così dolorosi. Mandelli comunque sedeva comodo nella poltrona e sembrava completamente assente, come estraniato. Come se sulle chiappe avesse avuto un interruttore di spegnimento, che si era attivato a contatto con la sedia. Clic, off, andato, carica insufficiente. Motivo in più per andare dritto al punto. Erano le quattro e mezza, entro le cinque al massimo lo avrebbe rispedito da dove era venuto. «Dunque Clay, dimmi, di cosa volevi parlarmi?» «Ah sì, Baron. Ecco, ti volevo parlare di una cosa che mi è capitata in questi giorni.» «Argomento?» «Musica, di cosa dovremmo parlare sennò?» Lou portò le mani ancora giunte vicino alla bocca. Che cosa poteva volere tanto da presentarsi addirittura nel suo ufficio? Era a corto d’idee? Non aveva più musicisti? «Ho fatto una data nel locale di Carletti, credo due giorni prima di te, e alla fine del concerto si avvicina un tipo elegante e un po’ stronzo che mi chiede di parlare in disparte.» Mandelli frugò nelle tasche della giacca di pelle e gli porse un biglietto da visita. «Insomma, questo si presenta e mi dice di essere un autore televisivo, che sta facendo una trasmissione di revival e ‘ste menate qua.» “Campi di Marzo. Possibile?” «Capisco. E…?» «Insomma mi propone di partecipare a questa trasmissione televisiva, dedicata alle rock-star di provincia. Quelli che non ce l’hanno fatta per poco, o che hanno avuto un successo molto breve fa lui, che alla fine non sono diventate come quelle fighette che girano in Ferrari e sono sempre ospiti di reality e programmi per casalinghe. Mi dice che cerca roba di qualità, perché questi altri che ha invitato avrebbero tutti potuto sfondare se solo si fossero presentati al momento giusto, se il mercato fosse stato ricettivo.» Lou fu indeciso. Dire o non dire che anche lui aveva ricevuto la stessa proposta? “Meglio aspettare” pensò mentre continuava a osservare Clay, fermo come il ritratto di se stesso. «Lou, hai capito?» «Sì.»


24 «E non dici niente?» «Vai avanti. Sei tu che volevi parlare con me, no?» «Mah, vabbè. Insomma come tu sai io sono un solista, non ho una band mia. Così ho pensato che sarebbe una bella occasione andare. Un’opportunità per avere visibilità, non so se sei d’accordo.» Lou inspirò. «E?» «E ho pensato al mio buon vecchio amico Lou Baron, alla sua favolosa band, e al fatto che avremmo potuto andare insieme alla serata in tivù. Pensa: Clay Mandelli e la Lou Baron band si esibiscono su rete rock per presentare Blatte matte, il mio brano di maggior successo, che tu conosci sicuramente. Bello, cazzo. Come la vedi?» disse Clay sorridendo. Baron espirò liberando il diaframma fino a quel momento compresso. Ci aveva quasi preso, anche se la scoperta non provocò alcuna espansione di ego. Lui e Mandelli: sarebbe stato come mischiare la gazzosa col Southern Comfort. Sorrise e riprese la sua aria di superiorità. Bisognava spiegare proprio tutto al povero, piccolo Clay, su come funzionava il mondo. Dire grazie, anche, per il gentile pensiero. Ma da dove cominciare? «Clay. Io ti ringrazio del pensiero, apprezzo la cosa anzi. Ti faccio notare, però, che non hai pensato al fatto che anche noi saremmo stati invitati.» «Invitati, voi? Figa, siete stati invitati? Be’, in effetti può essere, anche se avete avuto una sola hit sulle radio nazionali.» «Ti correggo. Le canzoni erano tre: Rock delle gambe strette, Boogiewoogie della limonata e Un maschio a sei corde. E furono tra l’altro dei grandi successi estivi: 1990, ‘91 e ‘92. Comunque non è questo il punto.» «Ah. E qual è scusa?» Lou notò che Mandelli non aveva smontato il sorrisetto. Forse non aveva capito che la risposta era no, per cui meglio essere più diretti. «Quindi, tornando al punto…» «Sì, ho già capito. Ma va benissimo quello che mi dici. Dov’è il problema?» «Scusa?» «Ma sì, ascolta. La Lou Baron band si esibisce sia con me che con te. Magari potremmo essere fortunati a non essere in scaletta la stessa sera. O, se dovesse capitare, niente panico: sicuramente non dovremo suonare contemporaneamente. E poi ti propongo un patto: la band suona con quello messo meglio in classifica, il televoto batte la giuria degli esperti.» Doveva essere paziente e, anche se ebbe una gran voglia di perdere la calma, riuscì a resistere all’impulso di urlare. “Non è colpa di Clay” pensò “se il suo comprendonio si è fermato per la digestione pesante.” «Ascolta, ti faccio una semplice domanda: come fa la Lou Baron band a esibirsi senza Lou Baron?»


25 Argomento facile e decisivo. «In che senso?» chiese Clay con l’espressione di un chierichetto. «Secondo te?» «Ah, forse non hai capito Lou…» «Ah be’, sono io che forse non ho compreso, certo. Il problema sono io, tante scuse.» «Ascolta, te lo dico più chiaro: io sono un frontman e non canto con un altro frontman. Il tizio è stato categorico: voglio Clay Mandelli, punto e basta. Io prendo la tua band, non ho mai pensato di esibirmi insieme. Seee… quella era una proposta che non mi sognavo di farti, sarebbe stata troppo offensivo e io ci tengo alla nostra ventennale amicizia. Dunque, io mi esibisco con la tua band, tutto qui, e adesso che mi dici che hai avuto la proposta di suonare per Rete Rock ti faccio un grande in bocca al lupo. A questo punto, potremmo dire…» Lou face alt con la mano, aveva sentito abbastanza. «Ma sì, ho pensato a tutto, è più facile a farsi che a spiegare.» «Secondo me sei scemo, non ci arrivi» Lou mosse in su gli angoli della bocca. «Ma non capisci tu, Baron, te l’ho detto che sei fuori strada.» Mandelli stava alzando la voce. «Non gridare» disse Lou, ma l’altro continuava a ripetere “non hai capito”, “non ci sei proprio”, “sei proprio fuori”, “sei limitato”. Così Lou non poté fare a meno di cedere alla pressione sanguigna e lo spumante si stappò. «Adesso chiudi quel cesso di bocca» disse con voce ferma «cioè, secondo te io ti faccio suonare con la mia band, con i miei musicisti? Ma guarda tu questo, che storia, che cosa devo sentire.» I decibel di Lou aumentavano, sforzò le corde vocali come quando eseguiva i brani dei Deep Purple, mentre Clay taceva. «Non so che dire, guarda davvero mi hai stupito Mandelli. Mi hai sorpreso veramente più di quanto potessi pensare. Tu sei tutto scemo, te lo ripeto e lo sottoscrivo.» Squillò il telefono. «Sì?» senza pensarci Lou rispose urlando. «Sono Simona, mi stai bucando i timpani. Volevo sapere se è tutto OK.» «Non va bene niente Simona: qui il mio amico vuole farmi diventare matto. Dai, lasciaci finire, tanto lui sta per andare via» si girò verso Mandelli «vero?» Era fuori di sé e chiuse il telefono facendo sobbalzare la base del ricevitore e tutti gli oggetti attorno. «Mandelli, credo che si siamo detti tutto.» «Baron, secondo me non hai capito, allora contatterò i membri della tua band uno per uno. Spero solo loro siano meno stronzi di te.»


26 «E cosa pensi ti diranno i ragazzi?» chiese Lou con una smorfia simile a un sorriso. «Be’, Alex Marchetti secondo me mi dirà che ci sta. Dai Baron, quello non aspetta altro.» «Questo lo dici tu. Pensi che manderebbe a puttane un’amicizia ventennale per uno come te?» «Ah be’, se la metti su questo piano. Devo ricordarti che per amicizia, come dici tu, tutti gli immobili della società di famiglia sono assicurati qui da te? E sono cifre importanti. Perché pensi che abbiamo scelto la tua agenzia?» Lou spalancò gli occhi. «Guarda Mandelli, sei proprio sceso in basso, non pensavo. Da quando t’interessi dei tuoi affari? Non sai neanche di cosa parli. Non eri mai entrato nel mio studio prima di oggi, qui non ti conosce nessuno, le mie collaboratrici non sanno manco com’è fatto Anacleto Mandelli. Non hai notato che manco ti hanno salutato? Sei un fantasma tu, mentre la tua badante, quella che ti allunga la paghetta mensile… lei la conosciamo, eccome.» «La mia che cosa? Ma che cazzo dici?» «L’avvocato Martinelli, non essere timido. Preferisci perpetua?» Clay si fece rosso in viso, si muoveva a scatti come un animale selvatico in una gabbia troppo piccola. “Questo sì” pensò Lou “che è un argomento convincente.” «Senti» gridò Mandelli «ma tu chi cazzo ti credi di essere? Sei solo una piccola, minuscola rockstar di provincia. Credi che se fossi uno gettonato quelli di Rete Rock avrebbero cercato proprio te? E me? Pallone gonfiato che non sei altro, resta in questa assicurazione che fai meglio, fatti imbalsamare qua dentro anzi.» Lou si alzò di scatto e in un attimo fu in piedi anche Clay. I due uomini, rigidi e con le gambe rette lungo il corpo, sembravano galli da combattimento intenti a studiarsi prima dell’attacco. Mandelli si girò di scatto, fece cadere la sedia con una spinta e come risposta Lou allungò le mani verso di lui. Lo afferrò dal bavero della giacca, ma Clay si divincolò bruscamente provocando uno squarcio nel polsino della camicia di Baron. Libero dalla morsa, Mandelli aprì la porta e uscì lasciandola spalancata. «Vai a cagare» sembrò a Lou di sentire, e se non erano quelle le esatte parole sicuramente lo era il senso. Baron restò immobile a seguire la scena con lo sguardo e si sbloccò solo dopo aver sentito il tonfo della porta d’ingresso. Si passò la mano fra i capelli, si sentiva scombussolato. Non gli piaceva litigare, ma tutta quella chiacchierata era stata una provocazione. Un’ombra sull’uscio della porta gli ricordò che non era da solo nello studio. La sagoma sul pavimento si allungava e s’ingrandiva fino a che non presero


27 forma le linee di Simona, slanciata e austera come una colonna ionica. Il suo era uno sguardo severo. Lou sapeva che la donna non sopportava chi alzava la voce. «Cosa è successo Luigi? Stai bene?» «Quello è scemo, mi ha fatto imbestialire. Certa gente l’ammazzerei.» «Non scherzare, non così. Chi era quello?» «Vedi? Non lo conosci, gliel’ho detto che non sai chi è.» «Perché dovrei?» «Lascia stare.» «Scusa, ma che ti ha fatto?» «Qualcosa che adesso gli faccio pagare. E con gli interessi pure. Non ci posso ancora credere che questo incontro surreale sia veramente avvenuto.» Lo sguardo di Simona sembrò preoccupato, così Lou sentì di dover fare o dire qualcosa. «Di solito sono io a fare incazzare gli altri.» «Ma si può sapere che ti ha detto? Guarda, non ti riconosco così.» «Simona, non ti ci mettere anche tu. Non mi scocciare» disse con le mani larghe «Come vuoi. Se hai bisogno sono di là.» Così Lou si gettò sul divanetto con l’avidità di chi ha trovato un giaciglio dopo una traversata nel deserto. Ma Simona, ferma, era ancora nella stanza. «Buona serata Simona, ci vediamo domani.» «Ma sono le sei, come sarebbe a dire?» disse la donna con l’indice sull’orologio. Il telefono cominciò a vibrare. “E meno male” pensò Lou “proprio quello che ci voleva per rompere questo strato di ghiaccio.” Si alzò e fece segno di aspettare dopo aver visto il numero sul display. «Sì? Buonasera Carlotta, non mi disturba affatto. Sì, me lo passi pure» Simona si voltò e uscì «buonasera signor Campi. Io bene, e lei? Scuse accettate, non scherziamo. Stasera per un drink? Sì, vedo di organizzarmi, mi dica a che ora e dove.» Chiuse la chiamata e sorrise. Gliel’avrebbe fatta vedere lui a quello strimpellatore da due soldi.


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CINQUE

Il traffico in una città di provincia è un’entità bulimica, con picchi regolari in corrispondenza degli orari di ufficio. Alle sei e venti in punto Lou salutò Carla e Barbara. «Esci a quest’ora?» chiesero le ragazze. «Proprio così» rispose lui. In macchina l’aria era pesante perché aveva battuto il sole tutto il giorno, così aprì tutti e quattro i vetri, poi accese la radio. «Il traffico» disse in tono lamentoso «mi beccherò tutto il traffico.» Ma poi pensò che l’appuntamento a Mirò era fissato per le nove e trenta quindi, anche considerando la percorrenza della tangenziale, con il tempo era comodo. Ingranò la retromarcia e dallo specchietto vide il collo e la cravatta. Sarebbe passato a casa per cambiarsi, non poteva presentarsi all’appuntamento vestito come un impiegato di concetto. Campi di Marzo voleva Lou Baron e lui gliel’avrebbe dato. Fuori dal cancello del palazzo, sulla via principale, prese coscienza della fase acuta in cui versava la viabilità cittadina. Le macchine erano l’una incollata all’altra e l’uomo sulla cinquantina che avrebbe potuto dargli strada lo fissò negli occhi per poi passare avanti. Lento. Lou sbuffò. «Pezzo di merda» disse, ma poi pensò che l’appuntamento a Mirò era fissato per le nove e trenta quindi con il tempo era comodo. Aprì la porta di casa. «Sono arrivato» gridò, ma per risposta ebbe solo silenzio. L’appartamento era quieto come non era abituato a vederlo. Gettò i vestiti in camera e si diresse in bagno per una doccia. Il passo verso lo shampoo e la rasatura fu breve, ma non c’era problema visto che l’appuntamento era alle nove e trenta. «Un altro uomo mi sento» disse dirigendosi nella stanza da letto, poi lo sguardo si fece riflessivo: il guardaroba era una cosa seria. Primo cassetto, mutande. Terzo, pantaloni. Quarto, jeans, anta a destra, camicie. Studiò le combinazioni, per sbloccarsi solo quando lo specchio gli restituì l’immagine di Lou Baron. «Yeah» disse. «Porca troia» aggiunse.


29 Erano le otto e quaranta e il tempo si faceva stretto come la vita dei jeans che aveva scelto. Corse a recuperare chiavi, portafogli, giacca e cellulare. Un messaggio da Amalia: «Stasera palestra, arrivo vs le 9, cucini tu? .» “No, cucini tu” pensò, ma avrebbe risposto più tardi. Con un po’ di fortuna, da Mirò a Bardò sarebbero stati venti minuti di macchina, ma il navigatore stimava l’arrivo alle ventuno e ventitré. E conosceva il suo mestiere l’aggeggio, visto che la voce metallica disse “Sei arrivato a destinazione” con soli tre minuti di difetto. Un posto, l’unico, meglio non farsi fottere. Così, messo in sicurezza il misero territorio di cinque per due virgola cinque metri, Lou si dedicò a perfezionare la manovra, girò la chiave, tolse la cintura e uscì di fretta. Ancora otto minuti all’ora dell’appuntamento e ciò significava che il tempo era tornato a essere comodo. Appena fuori fece vibrare le gambe per riposizionare i jeans, poi tirò fuori il telefono per ottenere conferma dell’indirizzo esatto: trecento metri, la prima a destra, facile facile. “Amalia, bisogna rispondere ad Amalia” pensò. «Amore torno a casa un po’ più tardi. Non so quando ma tanito taridi. Incontro quello della TV che ti ho detto. Ci vediamo dopo. Multa pafata. Ciak.» Invio, ricontrollo: “T9 del cazzo.” Così, le mani nelle tasche della giacca di pelle marrone, si diresse verso il locale con l’andatura compassata di chi è in anticipo ma non troppo. L’ingresso dello Zanzibar faceva una certa impressione. Come mai non c’era mai stato prima? Le fessure dell’entrata, un portone sagomato color antracite, oltre a una luce soffusa lasciavano sfuggire singhiozzi di melodie soft. Aveva sentito parlare del locale, sì, e chi non conosceva il ritrovo dei vip e degli aspiranti tali? Ancora qualche passo e, superato il controllo all’accesso, si decise a varcare le porte della metà all’ombra del mondo dell’intrattenimento. L’ambiente era arredato con cura, in uno stile che giudicò finto spartano. Al centro campeggiava un bancone circolare che, con i tavoli sparpagliati nel salone, dava l’impressione di una giostra con le sedie volanti. Dalla sala centrale, la più affollata, si diffondevano a raggiera delle salette più piccole e appartate. Il giovane rugbista del check-in lo aveva seguito e gli indicava un angolo. Obbedì - pensò che avrebbe eseguito qualsiasi ordine impartito da quell’energumeno - e nella penombra si materializzò la figura di Eugenio Carlo Campi di Marzo, seduto insieme a tre persone. “Un buon numero” pensò “per una piccola corte.”


30 Lou salutò con un cenno della testa, ricambiato, poi tese la mano superando il tavolino bianco rettangolare sul quale erano adagiati bicchieri in numero esattamente doppio ai presenti. «Eccola Baron.» «Buonasera signor Campi.» «Mi chiami Eugenio. Anzi, tagliamo la testa al toro: chiamami Dodi, se sei d’accordo diamoci proprio del tu.» «Grazie, certo che sono d’accordo.» La saletta era piuttosto intima e la musica proprio di sottofondo. Campi di Marzo, avvinghiato come una scimmia a una donna bionda ed esile, era seduto sul divanetto dal lato lungo. La ragazza era più giovane e di parecchio, a guardarla bene. Ma del resto lui era un bell’uomo, aria da cittadino del mondo, di certo con un conto in Svizzera intestato a una defunta nonna. Aveva un viso ben proporzionato, con un nasino piccolo e leggermente all’insù. Sulle mascelle quadrate cresceva una barbetta brizzolata e regolare come un prato inglese. In mezzo, un cespuglio: i baffi. Gli occhi erano color ghiaccio, si notavano anche in quell’ambiente soffuso. Le pieghe della camicia, all’altezza del polsino, disegnavano un ventaglio perfetto. Ancora, nonostante l’orario. Dodi - così lo avrebbe chiamato da quel momento in avanti - alzò la mano e si materializzò un cameriere. «Gianni-bello, porta al mio amico qualcosa da bere. Cosa prendi, Lou?» «Un Southern Comfort, grazie.» Il cameriere fece sì e nel giro di due minuti fu di ritorno. «Permettimi di presentarti Sara Bandiera, te la ricorderai nel film Un weekend di Pasqua coi miei.» No, non ricordava né Sara né quel titolo. Anzi, non li aveva proprio mai visti. «Mattia Fusco che sicuramente avrai visto in TV alla conduzione di Sguardi d’amore, la nostra trasmissione di punta» proseguì Dodi. Bip, elettroencefalogramma piatto. «Mentre la signorina accanto a te la conosci in anteprima e la vedrai in trasmissione: è Mara Regales, la nostra conduttrice.» «Che onore, piacere mio» disse Lou. «Invece, ladies and gentlemen, avete di fronte a voi una star del rock italiano: Lou Baron, cantautore che ha spopolato quando voi avevate ancora la merda nel pannolino.» I tre avevano spalancato gli occhi, mostrato novantasei bianchissimi denti, accennato un lieve applauso. Lou ricambiò sorrisi e stupore, più per compiacere Dodi che per reale emozione. E l’atteggiamento era di certo reciproco, nulla di personale. Perché, avrebbe potuto scommettere, nel giro di un paio d’ore volti e nomi sarebbero tornati nell’oblio. «Allora Lou, dimmi: la tua Band sarà dei nostri, vero?»


31 «Be’, era proprio di questo che volevo parlarle.» «Dodi. Abbiamo appena detto che ci diamo del tu.» «OK, appunto. Ho parlato con i miei, siamo tutti molto contenti dell’opportunità e…» «A proposito, parlami dei tuoi: chi siete? Non so quasi niente di loro. Siete in cinque, giusto?» «Sì. Io voce e chitarra, Matteo Jacoponi, detto Matthew, chitarra elettrica. Tommaso Pezzotta, Tom, organo Hammond. John Baroni, il mio gemello, al basso. Alessio Marchetti, Alex, alla batteria. E con questo siamo al completo: cinque.» «Fantastico. E come vi ha ridotto la vita?» «Scusa?» «Sì, cioè, che cosa fate per campare?» Dodi si voltò e avvicinò l’orecchio alla bocca della sua biondina. «Dunque» Lou portò una mano alla testa e cominciò a lisciare i capelli sempre nello stesso punto «io ho un’agenzia assicurativa, mentre mio fratello John è avvocato.» «Ah, però» commentò Campi «e gli altri? «Matthew è medico, mentre Tom ha una farmacia nel centro di Mirò. È la più antica del paese, è della sua famiglia da generazioni. Alex, invece, è nel settore automobilistico.» «Pilota?» «No, carrozziere.» «Fantastico, davvero fantastico. Sarete tutti perfetti, non scherzo. Vi conoscete da tanto, scommetto.» «Da sempre. Siamo amici da quando eravamo ragazzini, siamo cresciuti insieme, come una famiglia.» «Bene ragazzi, propongo un bel brindisi: al talento, che se ce l’hai ce l’hai e se non ce l’hai non ce l’hai.» «Che belle parole, cin» disse Sara mentre gli altri due ragazzi applaudirono. “Che merda di brindisi” pensò Lou, poi disse: «Salute.» «E dimmi, avete all’attivo degli album?» «Be’ sì, dodici.» “Che domanda… non sai manco questo?” «Però. E prodotti da chi?» chiese Campi. «Abbiamo una nostra etichetta, fondata da me e mio fratello.» «Non hai detto che faceva l’avvocato?» «Sì be’, è una piccola casa di produzione, nulla di che.» «Sara, stai sentendo Lou? Guarda che questo è un ospite della tua trasmissione.» Campi rise e con qualche secondo di ritardo l’euforia si propagò.


32 «Aspetta Dudi, ehm Dodi, ho parlato con i ragazzi della Band della tua proposta e c’è un problemino.» «Non dire niente, ho già capito. Puoi siglare tu il contratto, sei il loro rappresentante, no? Un’oretta fa mi ha chiamato Clay Mandelli, sai che parteciperà anche lui?» «Ah, sì?» Lou alzò la mano, un altro whisky, coso, Gianni-bello o come cazzo ti chiami. «Mi ha detto che eri indeciso, ma io non gli ho creduto. Perché saresti venuto, sennò?» «Eh, perché in effetti?» «Toglimi una curiosità: mi dicono che c’è una specie di rivalità fra voi, ma io non ho creduto neanche a questa cazzata. Voi rocker siete come una tribù.» “E come no?” pensò Lou. Lui e Mandelli erano più che altro di due tribù in guerra. «Ma no che non siamo rivali, ti pare?» «Certo, capito. È una cazzata, lo so. Anzi, abituati: il mondo dello spettacolo è pieno di serpi, non scherzo. Ragazzi, un brindisi: al successo, che anche se certe volte ci vuole culo, prima o poi arriva.» Cin, applausi, che parole toccanti. Il cameriere seguiva il ritmo di quella compagnia senza mostrare segni di fatica. Lou, al contrario, sentiva una martellata in testa a ogni sorso, ma l’impresa era alla sua portata. Non sfogava l’alcol col sudore come durante i concerti, ma il fegato era abituato a quel lavoro. Per cui cin cin e ancora cin fino a quando Dodi disse time-out, pausa, aspettate un attimo. L’uomo si chinò e da sotto il tavolo tirò fuori una borsa con dentro una cartella, con dentro un porta documenti, con dentro un foglio. Che porse a Lou. «Ecco il contratto, ho pensato di portarlo per non perdere tempo. Ehm, aspetta, aspetta prima di firmare. Mentre sigli ci vuole un brindisi.» L’impegno era stato preso ormai da un’ora abbondante quando Lou, alle due e mezza del mattino, uscì dal locale. “Ecco a cosa serve avere il fegato allenato” pensò; di bere non aveva più voglia ma si sentiva tutto sommato lucido. «Sei per sei, trentasei, sette per nove, sessantatré. Sono ancora sveglio» disse. A suon di rutti si trascinò verso il piazzale del parcheggio, che a quell’ora si presentava come una bocca con un solo dente: la sua auto. Un attimo per gustare il silenzio, l’odore e la penombra della metropoli che dorme, poi infilò la chiave per gettarsi sul sedile come liberato da un peso. “Il telefono” pensò “devo scrivere ad Amalia.”


33 Ma l’apparecchio era già fuori dalla morsa della mano, poi sotto il sedile, chissà quanto in fondo. Dove? Perso, irrecuperabile. Ma quello era l’ultimo dei suo problemi al momento.



PARTE SECONDA



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UNO

La mattinata del 5 giugno Franco Meneguzzi, medico di famiglia, si era svegliato di buon mattino, alle quattro e tre quarti per l’esattezza. Aveva trascorso la nottata a girarsi e rigirarsi nel letto, in preda a un’ansia che non avrebbe saputo descrivere. Proprio lui che dormiva sempre placido e sereno come un bambino stanco e che anche solo a vederlo si sarebbe potuta intuire una certa predilezione per le attività legate al riposo e alla contemplazione. Meneguzzi era un omone alto, con un viso ovale delimitato da due chiazze vermiglie sulle guance e sulla fronte ampia un ciuffo di capelli castani buttati a frangetta. Gli occhi, grandi nella forma, erano aperti a fessura, solo a metà, come se la natura si fosse divertita ad assegnargli lo sguardo di uno che si è appena svegliato. La bocca, piccola e con le labbra sottili, metteva ancor di più in evidenza un mento, con annessa fossetta, non adatto a quel tondo. Le ginocchia vare e le gambe ad arco lo rendevano simile allo stetoscopio che portava sempre nel taschino del camice bianco. Comunque quella giornata, lo ricordava perfettamente, era cominciata così così e il suo sesto senso gli aveva suggerito che il prosieguo non sarebbe stato migliore. Gina, ancora calda di letto, si era svegliata per il trambusto dei cassetti dell’armadio. E, informata della notte bianca, aveva ammesso di non aver percepito i turbamenti del marito. «Sin qui ho dormito pesante come Cenerentola» aveva detto «piuttosto, tu: che hai sognato, che hai mangiato, che hai bevuto?» A quella raffica il medico aveva reagito con lo sciopero delle parole, così la donna non aveva osato chiedere della seconda stranezza: suo marito in tuta e scarpe da jogging. Si era voltata. «Continuo a dormire non è manco l’alba» aveva detto. Il fatto, però, era molto semplice. Meneguzzi quel giorno aveva deciso di fare sport. E non perché si fosse sorpreso affetto da sindrome di Peter Pan. Non aveva un’amante più giovane, non aveva acquistato compulsivamente un’auto di lusso, tantomeno storica, nel suo guardaroba non c’era traccia di pantaloni attillati o giacche color pastello. Solo, quel 5 giugno, aveva sentito fosse giunto il momento di iniziare l’attività fisica dalle proprietà così benefiche, che non si stancava di consigliare a tutti i suoi pazienti. “Fate sport che fa bene al cuore”, “Fate sport che fa bene al colesterolo”, “Fate sport che ringiovanite di dieci anni in un colpo solo”, ripeteva come un mantra anche a chi in ambulatorio vi si trovasse per una lombosciatalgia.


38 E poi c’era l’orgoglio. Ferito per mano, anzi per bocca, dell’ottantacinquenne Terzi Adelina, fu Franco. Un pomeriggio, uno dei frequenti in cui la nonnetta andava a misurare pressione, chiedere pasticche per il cuore, rimedi per l’artrosi, gli aveva detto: «Dottore, lei mi propone di fare moto, ma ha visto la sua pancetta? Anzi, il suo bel pancione? Forse è lei che dovrebbe darsi una mossa.» Alle parole aveva anche accompagnato una risata di gusto, un gracchiare sinistro il cui ricordo lo turbava ancora, che per il medico dimostrava scientificamente la perdita d’inibizioni che si conquista con l’avanzare dell’età. «Scherzo» aveva ancora aggiunto la signora «lei mi piace. Del resto si chiama come il mio amato e compianto marito, mancato proprio alla sua età.» Comunque Meneguzzi, raccolto il guanto della sfida, aveva punito la donna con la prescrizione di un potente lassativo. Innocuo, aveva verificato qualche minuto più tardi, sfogliando il prontuario dei farmaci con le dita sudate per un sentimento che avrebbe definito a metà tra il senso di colpa e l’eccitazione. La sessione sportiva, insomma - alla quale avrebbe dedicato al massimo trenta minuti, visto che riprendeva dopo una brusca interruzione pluriennale - partiva nel segno del dovere più che del volere. Quando era uscito di casa, alle cinque e trenta circa, tirava un venticello pungente ma piacevole. Fuori dal portone del palazzo si era piegato per un’aggiustatina ai lacci delle scarpe e per tirar su i pantaloni della tuta stretta. Un’occhiata furtiva alla strada gli aveva segnalato che la giornata era cominciata. Il traffico dei pendolari che si preparavano a raggiungere la grande città, con i suoi colpi di clacson, era già moderatamente in ebollizione. All’ora di punta, però, lui sarebbe già stato sotto una doccia calda. Aveva così cominciato a camminare con gli occhi fissi al parco in fondo alla strada, inquadrato come nell’obiettivo di una macchina fotografica. Passo dopo passo si era avvicinato a quella minuscola oasi di verde, ricavata nel mezzo dei palazzoni figli del boom immobiliare degli anni sessanta. Giunto al giardino, senza ormai più scuse, aveva cominciato ad aumentare sensibilmente l’andatura fino a raggiungere la corsa. Destra, sinistra, destra, sinistra. Aveva teso l’orecchio per controllare se il passo avesse il senso ripetitivo di un automa, mentre coi polmoni aveva mescolato il fiato in dosi omogenee con la perizia di un alchimista che prepara una pozione. Peccato non aver pensato alle scorte di ossigeno e all’eccedenza di acido lattico. Destra, sinistra, destra, sinistra, sinistra, destra, destra, sinistra. Trascorsi una decina di minuti la falcata si era fatta scomposta, così che Meneguzzi si era dovuto arrendere all’evidenza della scarsa preparazione


39 atletica. Con una frenata brusca aveva interrotto lo sforzo, piantato i piedi sui sassolini col rumore di strappo della frenata. Aveva espirato violentemente, esplodendo il fiato ormai libero di fuoriuscire senza vincoli, e le gambe avevano cominciato a formicolare, i piedi a gonfiarsi, la vescica a pressare. Così si era guardato intorno due o tre volte: nessuno all’orizzonte. E poi ancora uno sguardo, questa volta per individuare il posto adatto. Alla sua desta le cancellate del giardino, distanti cinque o sei metri, alla sua sinistra due file di cespugli accarezzati alla sommità dai rami di una quercia. Si era mosso senza esitazione e, superata la prima barricata, aveva allargato le gambe. Pronti? Via. «Non ce la faccio più» si era detto a un certo punto. Fino a quando il silenzio del parco era stato interrotto dalla cascata artificiale che tanta soddisfazione aveva regalato al suo progettista. La gittata era stata energica, aveva puntato dritto nel cuore del cespuglio. Ed era stato quando la parabola si era allentata che aveva sentito quel suono artificiale. “Eccolo un altro stronzo che getta plastica in mezzo alla natura pubblica” aveva pensato. «Che schifezza» aveva detto. Combattuto tra il fare la cosa giusta e l’ignorare i doveri civici del buon cittadino che riteneva di essere, perché tanto nessuno l’avrebbe visto, aveva nel frattempo chiuso il rubinetto, tirato in su e annodato la tuta. Deciso ormai a perseguire la retta via, si era chinato per osservare da vicino, aveva piegato le gambe, era indietreggiato per lo spavento, caduto in terra. Perché la plastica non era plastica, ma una giacca di pelle. Con tanto di padrone ancora caldo dentro. Tale racconto riportò più tardi, intorno alle otto del mattino del 5 giugno, al giovane commissario di pubblica sicurezza che gli chiese conto di quella mattinata al parco.


40

DUE

«Chiamatemi Colombo. Lo voglio subito qui, immediatamente.» Il sostituto procuratore Pregadio gridava libero come Tarzan nella foresta e la sua voce da baritono dilettante rendeva gli ampi corridoi del Tribunale del tutto simili a quelli di un conservatorio. Il cancelliere Bova contrasse le spalle, unì le mani, abbassò il capo e distolse immediatamente la vista da quella furia con gli occhi rossi. La sagoma, un omone di un metro e novanta si era ritratta in pochi secondi come una pozzanghera al sole estivo. Annuì con il senso d’ingiustizia che gli bucava lo stomaco, poi girò i tacchi. Pregadio sbuffava, sollevò la mano destra e la fece precipitare sulla scrivania. Tanto che le vibrazioni fecero sobbalzare le montagne di documenti sopra al piano, mentre la luce che tagliava l’ambiente si riempiva di corpuscoli brillanti polverosi. Giunto nella sua stanza, Bova si aggrappò alla cornetta del telefono facendo rovinare per terra l’apparecchio. Si smarcò allora dalla scrivania a L per recuperare la cornetta, poi compose con calma il numero del commissario Colombo. «Pronto? Il commissario Paolo Colombo?» «Sì, chi è?» Il poliziotto doveva essere all’esterno, in sottofondo si udiva la città indaffarata. «Sono Bova.» «Ah, l’avrei chiamata io.» «Sì, lo immagino. Si trova al parco, no?» «Proprio così. Sono qui a visionare il cadavere.» «Che brutta storia. Com’è messo?» chiese Bova. «Maluccio. L’ha ritrovato un medico mentre faceva jogging. Dice che la morte deve essere recente, ma non è uno specialista. Che ne può sapere?» «Capisco» il cancelliere espirò. «Pensi che era nel panico, continuava a ripetere che le prove erano inquinate» precisò Colombo. «In che senso?» «Niente, ha raccontato che l’ha scoperto mentre faceva pipì, non si era accorto che si stava sfogando su un cadavere.»


41 I due uomini risero e il vice commissario Verga ruppe con un colpo di tosse quel momento macabro. «Bova, mi scusi, di chi è il caso?» «Di Pregadio… infatti la chiamo per questo. Come può immaginare…» «È nero» interruppe Colombo. «Forse qualcosa in più.» Il commissario sbuffò così forte che dall’altro capo Bova ebbe la sensazione di sentir muovere la rada peluria ancorata alla punta delle orecchie. «Ho capito, ho capito. Scusi Bova, ma il procuratore non vuole venire a dare un’occhiata qui?» «Visto che sono cinque minuti a piedi, vuole che venga lei per dargli le prime informazioni, poi tornerete insieme.» «E che senso ha?» «Così mi ha detto, io le riferisco. Che vuole fare?» «Niente, che vogliamo fare? Arrivo.» Colombo si congedò dal cancelliere - “la saluto e a presto” - mentre il suo vice, con le braccia dietro alla schiena, aspettava con pudore notizie e istruzioni. «Il caso è di Pregadio. Giove ci aiuti» disse il commissario. Verga si voltò dall’altro lato, rivolgendo al cadavere un’occhiata che sembrò ancora più compassionevole per via di quella notizia. «Vedremo se la sua fama è meritata. Lei ci ha già lavorato?» «Di striscio. Comunque, se nomen omen, non mi aspetto nulla di buono.» «Che vuole dire commissario?» «Che tu ti chiami Verga e sei pessimista, mentre lui con quel nome… da sacerdote, da fanatico… non vorrei che pensasse di amministrare la giustizia con il piglio, che ne so, di un mistico.» «Speriamo di no… certo, si chiama pure Giosuè. Comunque commissario, non sono pessimista, dica la verità. E se quello che dicono di lui è vero, spero solo che si riesca a lavorare al caso senza sapere dei progressi prima dalla stampa che da lui.» Colombo non rispose. «Vieni con me e da’ ai ragazzi le solite raccomandazioni: nessuno tocchi niente, appena arriva il medico ti chiamino, etc, etc. Pregadio ci fa andare da lui, ma poi ritorniamo qua tutti insieme.» «Ah, certo. Diamo il tempo anche ai giornalisti di arrivare sul posto, non vorrei che con la scientifica al lavoro non riescano a fare delle foto decenti» Verga sorrise. I due uomini s’incamminarono silenziosi e in fila indiana, con l’aria di due scolari che tornano a casa con cattive notizie sul diario dentro allo zainetto. Quando arrivarono in Tribunale erano le otto meno dieci e il caldo cominciava a rendere stretti i colletti delle camicie. Il cancelliere vide


42 arrivare i due uomini dal corridoio, si fermò salutando con un cenno del capo e porse la mano destra con cordialità. Poi con un gesto ampio ma legnoso del braccio fece passare i due poliziotti, li superò di nuovo sfiorando la spalla di Verga e procedette ad andatura spedita. I passi dei tre uomini rimbombavano sincopati negli spazi scarsamente arredati e ancora per poco chiusi al pubblico. In fondo al corridoio, si fermarono davanti a una porta di legno antica composta da due pannelli di legno laccati, lunghi e stretti. Bova bussò prima di cedere nuovamente il passo. «Avanti» pronunciò una voce baritonale. Il cancelliere spinse verso l’esterno le ante che, scricchiolando, aprirono il sipario della magistratura inquirente. Dalle pile di carta poggiate senza ordine su una scrivania accanto a una finestra aperta sbucava una figura intenta a sfogliare con le mani piccole e invadenti un documento in carta a uso bollo. Girava le pagine velocemente, indugiando solo a tratti, e in controluce era possibile osservare gli aloni di sebo lasciati a ogni passaggio. Anche da seduto rivelava una figura alta e dinoccolata, la cui continuità era interrotta dalla sola pancetta rotonda concentrata sul baricentro, a testimonianza di una sincera devozione al vin santo. Il viso, triangolare e spigoloso, era contornato da peluria di ogni tipo. Capelli grossi, folti e di un nero corvino a monte, barba ispida e lievemente brizzolata a valle. Nel mezzo, un naso lungo e aquilino assicurava il collegamento fra fronte e bocca, mentre gli occhi grandi circondati dalle ciglia arruffate ricordavano in tutto e per tutto un riccio di mare aperto. L’espressione del viso, con la bocca piccola a disegnare una smorfia a metà tra l’allegria e gli effetti del reflusso gastrico di cui soffriva, lo faceva apparire conciliante. Lo sguardo, in sostanza, gli conferiva una sottile aria di superiorità rispetto alle cose terrene, un aspetto pantocratore. E non era un caso, osservavano tutti, se il suo soprannome era “l’abate”. Per via del suo passato da spretato, ma anche per quel nome che si portava appresso come un marchio. Pregadio vestiva con il decoro che doveva convenire alla carica pubblica che con zelo amministrava. Di completi neri ne aveva assai, come amava dire: uno per ogni giorno della settimana. La camicia bianca e la cravatta anch’essa nera completavano una mise che non dava l’opportunità ai suoi sottoposti di intravedere mai nessun umore. Le controparti - malviventi, truffatori e omicidi per lo più - interpretavano invece quell’abbigliamento come un segno di malaugurio. E in lutto lui lo era per davvero, nell’esercizio delle sue funzioni: “Quale motivo di rincrescimento, quale colpa è più grave della violenza nei confronti della Dea Iustitia?”. Del suo passato, con chi lo conosceva, non faceva alcun mistero. Perché diceva che in fin dei conti era rimasto nello stesso campo, aveva solo


43 cambiato “patruni”. Che sia eterna o terrena, la giustizia del resto sempre giustizia è. «Signori, accomodatevi.» «Grazie signor procuratore» rispose Colombo. «Piacere di fare la vostra conoscenza. In maniera ufficiale, per così dire. Lavoreremo bene insieme, ne sono certo. Un caffè lo gradite?» «No, grazie. Verga?» «Neanche io, come se avessi accettato.» «A noi. Vi ho convocati per una sorta di riunione preliminare, per così dire. So che dovremmo essere già sul posto, ma volevo chiacchierare con voi prima che la stampa mi sbrani. Capite quello che voglio dire?» Annuirono entrambi. «Bene. Ora, che potete dirmi?» Verga si voltò, poi allungò la mano col palmo aperto verso il commissario che cominciò a parlare. «Be’, in effetti è ancora troppo presto per formulare ipotesi, come può immaginare. Lo abbiamo appena trovato e non è ancora arrivato il medico legale.» «Colombo. Posso chiamarla Paolo?» «Si accomodi.» «Bene. So benissimo che lo avete appena trovato. Mi dica qualcosa che non so, sia cortese.» «Certo, sì» il commissario si aggiustò nella sedia «è un uomo, quaranta o quarantacinque anni, vestito sportivo. Ha una giacca di pelle e dei jeans, di marca sia l’uno che l’altro. È morto per un trauma cranico, forse un colpo in testa, anche se non ci sono particolari segni di lotta.» «Secondo lei è un omicidio?» «Crediamo di sì, almeno da quello che abbiamo visto a livello superficiale. La mia è una primissima analisi.» «Perché?» chiese Pregadio. «Non è arrivato da solo sul luogo in cui l’abbiamo trovato. Non c’erano impronte, le suole delle scarpe erano pulite. E poi ci sono due particolari: è stata trovata una macchina con il portabagagli aperto, spalancato anzi, e un gemello.» «Della vettura ho capito, poi che altro c’è?» «Che c’era un bottone, uno di quelli da polsino della camicia. Era impigliato nel taschino della giacca di pelle del cadavere, come se si fosse strappato.» «Chi l’ha trovato?» il magistrato si sfregava le mani. «Un medico di base, dottor Meneguzzi Franco. È stato lui a trovare il corpo.» «Cioè?»


44 «Il signore era al parco a fare una corsa. Ci ha riferito di essersi fermato per un’esigenza fisiologica e ha trovato il cadavere per terra.» «Mi prende in giro?» il magistrato aveva spalancato gli occhi. «No procuratore, me ne guarderei bene davvero. Mi ha detto che mentre faceva pipì si è accorto che il getto, la caduta del liquido - ha capito insomma - aveva un rumore diverso. Per via della pelle della giacca. Controlleremo l’alibi del dottore, era sotto shock, e non sarà difficile. Galbiati, un mio uomo, lo conosce. Il suo studio è aperto tutti i giorni, sentiremo i pazienti e così verificheremo.» «Pensa, questa ancora non l’avevo sentita. Adesso dov’è?» «Sul posto, non lo abbiamo ancora congedato. Anche se credo che…» «Dobbiamo assolutamente evitare che parli con la stampa. Se decidesse di inventarsi una ricostruzione fantasiosa di quello che ha visto manderebbe a puttane l’inchiesta prima di cominciare. Perché un’indagine la facciamo, siete d’accordo?» «Be’, sì. Comunque per Meneguzzi stia tranquillo. Ho dato istruzioni, non si preoccupi: è blindato fino a che starà lì con noi.» «Certo, poi è sempre possibile che dia la sua versione dei fatti alla televisione. Mia moglie va matta per le trasmissioni poliziesche» intervenne Verga. Il vice commissario sorrise, aveva cercato con lo sguardo il procuratore. Ma l’uomo incavò gli occhi e serrò le labbra. «Male, male, molto male» Pregadio portò la mano alla tempia, appoggiò il gomito sul tavolo, poi stette in silenzio per due o tre secondi «può inventarsi le storie che vuole il dottor Živago. L’importante è che sia la giustizia a dare il passo, a fare sempre la prima mossa. Dobbiamo anticipare i tempi, la nostra versione è quella che conta, noi siamo l’autorità, lo Stato.» «La stampa è il meno in tutta questa vicenda» proseguì Verga. «Dice? Non sarei così convinto. La gente ci giudica non solo per quello che facciamo come umili e sommessi servitori dello Stato. Siamo sotto i riflettori per quello che scrivono e per le interpretazioni che danno i signori con i taccuini in mano. Se permette, questo per me è un aspetto essenziale. Ci rifletta. Noi disponiamo del destino altrui, loro del nostro.» Fra i tre calò il silenzio. «Aspetto una chiamata a momenti per capire di chi si tratta» intervenne Colombo. «Bene. C’è altro?» «No, non per ora.» «E il medico legale?» «Non era ancora arrivato, come le dicevo. Mi avvertiranno appena sarà sul posto.»


45 «Ho capito. Sentite voi due, ve lo dico subito così ci sintonizziamo sullo stesso canale e non ne parliamo più. Voglio un’indagine lampo, capire subito chi è stato e perché, il colpevole si deve cacare sotto e venire allo scoperto subito. Fino a quando il topo non esce dal nascondiglio la dichiarazione delle autorità è questa: “la giustizia sta facendo il suo corso, abbiamo delle ipotesi valide, siamo sul punto di identificare le responsabilità, lasciateci lavorare con serenità. Grazie a tutti e buon lavoro”.» «Ehm, sì procuratore. Consideri solo che non sappiamo ancora chi è la vittima» disse Verga mentre strofinava una mano contro l’altra. «Commissario, mi scusi: ma fa sempre così il suo collega? Dorme bene la notte? Mi dica vicecommissario Verga, se lei fosse un assassino avrebbe timore di una macchina dello Stato lenta e inconcludente? Risponda, la prego.» «Mi rendo conto…» provò a replicare, ma Colombo mise una mano sulla gamba e Verga interruppe il discorso. «Faremo come dice lei, va bene. Mi sembra una dichiarazione prudente, da utilizzare alla bisogna.» «Siamo d’accordo. Allora andiamo, vi faccio strada.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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