In uscita il /2014 (14,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine QRYHPEUH e inizio GLFembre 2014 ( ,99 euro)
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ALESSIO BIONDINO
BUONANOTTE, MADAME
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BUONANOTTE, MADAME Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-802-2 In copertina: Madame, di Fabrizio Seri Prima edizione Ottobre 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Rappresentanza e intermediazione letteraria a cura di Edelweiss – Servizi Editoriali Tel: 06 96525274 www.servizieditoriali.org info@servizieditoriali.org Agente di riferimento: Andrea Carnevale andrea.carnevale@servizieditoriali.org
Che posso donarti se non la mia umiltà? L’incondizionato bisogno di pietà di una violata intimità e di tarpato orgoglio. Puoi togliermi, in tragico crescendo, il corpo mutato in povero contenitore di protesizzazioni: è tuo ormai. Ti beffa, comunque, quella carezza che mi fa tremare la pelle… occhi limpidi che sanno dire: grazie… o… ti amo! Splendida capacità di cogliere l'attimo, di gioire e soffrire, di accogliere o respingere: ancor responsabile di me nella tua tentata frustrazione.
Maria Pia Pavani, Sla (dalla raccolta di poesie Canto Muto, ed. Consedit sas 2008)
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PREFAZIONE
Leggendo questo racconto-diario, ogni rigo mi rimandava ai ricordi di amici malati di SLA. Per tutti, voglio ricordare una persona con la sua testimonianza: “Non si pensa mai a quale possa essere il quotidiano di un malato, che può avere il corpo devastato dalla malattia ma la mente intatta, con il desiderio di esprimere ancora sentimenti e manifestare reazioni.” Quando mi dettò con i suoi occhi sul pc questa frase, riuscivo a leggerle in viso l’incredibile tensione interiore che la affliggeva. Poi Rosa Maria (per gli amici Rosma, coincidenza particolare per il suo nome simile alla protagonista del libro) fa un appello a tutti “i personaggi che definiscono il variegato mondo della sanità”: bisogna preparare del personale competente e adeguato all’assistenza dei malati gravi perché “gli ammalati tutti non hanno bisogno solo di farmaci e medicazioni, ma anche, e soprattutto, di presenze rassicuranti e positive”. Agli uomini di fede, poi, Rosma ricorda che “si può trovare l’assoluto anche in uno sguardo che vuole riprendere a sperare.” E qui avrei già detto tutto. Rosma avrebbe voluto un infermiere come è stato quello di Rosa. Per dire il vero, l’infermiere protagonista accanto a Rosa è andato oltre al suo dovere professionale; sicuramente, però, le ha dato forza per elaborare la sua condanna a una vita muta, imprigionata in un corpo quasi immobile, ed è stato oggetto di piena fiducia da parte di tutta la famiglia della malata. Anche se si sa che la SLA è una malattia che prima o poi porta alla morte, ciò che è capitato a Rosa avrebbe potuto essere di certo meno tragico. Non mi soffermo su questo, ma sul modo ironico e fantasioso delle reazioni della malata per mantenere alta l’attenzione per la sua sopravvivenza. Non manifesta le paure e le angosce, ma le maschera abilmente con delle strategie ben studiate per essere sorvegliata anche di notte, dove è con lei soltanto l’anziano marito.
6 Il fatto più grave che può capitare a una persona è quello di rimanere muta. Lo scambio di idee e l’espressione di qualsiasi desiderio diventano problematici, difficili, stancanti, ma fortunatamente non impossibili: i pazienti che presentano importanti deficit di comunicazione, infatti, di solito si concentrano sull’utilizzo e sull’ottimizzazione di ogni abilità motoria residua: la capacità di scrivere è sfruttata fino all’ultimo scarabocchio, così come la gestualità e le espressioni del viso o degli occhi; poi la comunicazione con l’Etran, la tabella alfanumerica trasparente, luogo delle rincorse con gli occhi a caccia di parole, frasi e pensieri. Avrei visto bene anche un comunicatore a scansione oculare, davanti a Rosa; si sarebbe divertita moltissimo. La voglia di vivere di questi malati è immensa e ogni piccolo gesto per migliorare la qualità della loro esistenza può essere incommensurabile. A volte dal valore inestimabile. Certo è che il nostro saper relazionarci con persone malate, anche in fase terminale, scaturisce specialmente dal bagaglio valoriale che possediamo: quello che non abbiamo non lo possiamo dare. E in genere, gli operatori sanitari sentono un naturale bisogno di instaurare una relazione con la persona che assistono; ciò è di fondamentale importanza per aiutare assistente e assistito a conoscersi, a entrare in sintonia e a creare un rapporto di fiducia che diviene indispensabile nell’intero processo di cura. Ed è proprio il vivere insieme condizioni difficili e complesse che dà a infermiere, assistente familiare e paziente la capacità di relazionarsi profondamente. Il lavoro, per questi infermieri di cura ad alta intensità, è molto duro e vario a seconda delle situazioni assistenziali: ci sono pazienti arrendevoli, che si fanno accudire pazientemente e che accettano i servizi alla persona spesso anche con ironia; altri invece sono puntigliosi, scontrosi a causa del loro malessere o del loro carattere e riversano di continuo tutta la propria rabbia su chi li cura e accudisce, rendendo l’opera di aiuto davvero molto complicata. Gravi depressioni, spesso devastanti e quasi incontrollabili, devono essere affrontate dal personale di assistenza sociosanitaria insieme alle famiglie, con molta delicatezza ed empatia e spesso con costi personali non indifferenti da parte di tutti i soggetti in gioco.
7 Un ambiente di lavoro sereno e la consapevolezza di avere dietro di sé un’organizzazione sanitaria efficiente possono essere un importante sostegno per gli operatori che si ritrovano nel bel mezzo di queste situazioni così difficili; un sostegno che può aiutarli a trovare la giusta soluzione anche per le tante difficoltà psicologiche ed emotive che l’assistito si ritrova quotidianamente a vivere nella impari lotta contro la propria malattia. Le persone che accompagnano malati così gravi nel loro più ripido tratto di strada terrena, solo alla fine riscontrano negli occhi lucidi e nelle strette di mano di parenti e amici il piacere di aver dato dignità a una vita non considerata più tale. Ed è un piacere immenso, duraturo… Impagabile. Mina Welby Co-Presidente Associazione Luca Coscioni Per la Libertà di Ricerca Scientifica
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Introduzione
La SLA non sembra una malattia. Assomiglia piuttosto a una condanna. È una morte inesorabile, terribile, che ti porta via un pezzetto per volta. Giorno dopo giorno. Oggi non muovi più bene un piede, domani un braccio; poi non riesci più a tenere in posizione la testa. Fino alla totale immobilità. Mangiare e bere diventa gravoso, problematico, fino a risultare impossibile. Ti accorgi che una semplice operazione come parlare da qualche tempo si è fatta complessa, laboriosa; e ti ritrovi a farfugliare frasi sempre più incomprensibili, sino a perdere in toto la capacità di comunicare verbalmente. Fai spesso fatica a respirare e questa tua sensazione peggiora, divenendo più frequente e opprimente col passare delle settimane. Nonostante tutto questo, la lucidità mentale e la sfera sensoriale restano perfettamente intatte; e con esse il proprio io, la consapevolezza di sé, i fastidi, la sofferenza e il dolore. Sei costretto ad assistere al progressivo, totale e inesorabile disfacimento del tuo corpo, che viene divorato a morsi da una patologia tanto ingravescente quanto inarrestabile. Sei consapevole del fatto che non esiste nessuna cura e che presto dipenderai dagli altri per ogni cosa; anche solo per grattarti il naso. Poi un giorno ti risvegli in un letto d’ospedale. Cerchi di capire cosa ti è capitato, ma ricordi solo che avevi fame d’aria e che ti sforzavi tanto per respirare; poi il buio. Ti rendi conto che ti è successo qualcosa di importante, di grave, ma che per fortuna sei ancora vivo. Però non fai in tempo a fare un sospiro di sollievo e a ringraziare Dio, che ti guardi… e vedi dei tubi che ti entrano disgustosamente in gola; noti che accanto al tuo letto è posizionato un affare chiamato ventilatore meccanico, che soffia dentro a quei tubi per aiutarti a respirare; vedi poi una sonda ficcata nella tua pancia, attraverso la quale ti nutrono artificialmente con fluidi poco invitanti e per mezzo
10 di un altro macchinario che te li spinge nello stomaco. Ti dicono che dipenderai da quei presidi per il resto dei tuoi giorni. E che presto, essendo “stabile” dal punto di vista respiratorio, sarai dimesso per essere gestito a domicilio dalla tua famiglia e/o da servizi medico/assistenziali che operano sul territorio. Immobilità, inguaribilità, dipendenza dagli altri e dalle macchine… ti ritrovi impantanato in una sorta di via di mezzo tra quella che era la tua vita e quella che sarà la tua morte. Senza limiti di tempo, per giunta, visto che ora sei un “paziente cronico stabilizzato”, condizione in cui si può sopravvivere anche per diversi anni. Quanta forza ci vuole per sopportare tutto questo? Come ci si può adattare a questa nuova, cruda realtà? C’è posto, in questa terra buia e desolata, per la speranza o per momenti di gioia, di serenità o di libertà? È possibile, in qualche modo, far tornare “vita” questa complicata sopravvivenza? Reputo questa premessa e questi quesiti necessari per introdurre questo libro. L’intero lavoro, infatti, è basato su un lungo, reale percorso assistenziale ed è liberamente ispirato (ogni riferimento a luoghi o persone è di mia invenzione) ai miei giorni vissuti in compagnia della signora Rosa, «madame» Rosa, mia paziente affetta da SLA, che ho assistito a domicilio per un anno e cinque mesi. Insieme abbiamo passato ben 2654 ore e abbiamo vissuto le molte difficoltà imposte dalla malattia, alcune situazioni di urgenza e momenti decisamente bui, ma anche miglioramenti, conquiste, dinamiche e situazioni piuttosto “vive” e divertenti. Tutto questo, nel tempo, ha creato una solida relazione d’aiuto infermiere-paziente e una “preoccupante” complicità, degna del più affiatato rapporto di coppia. Il libro è dedicato a lei e a tutte le persone che, costrette a letto da devastanti malattie cronico-degenerative, dipendono da presidi tecnologici per poter sopravvivere e necessitano di assistenza continua, ad alta intensità, per 12-24 ore al giorno. Spero tanto che, oltre a mettere in luce la realtà quotidiana di queste persone, a dare alcuni spunti di riflessione e a strappare qualche sorriso, questo libro contribuisca a far vergognare chi pensa o ha pensato che, qui in Italia, i fondi necessari all’assistenza domiciliare dei malati gravi… siano troppo consistenti o addirittura superflui.
PARTE PRIMA
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I Pupille vispe
6 luglio È ora di pranzo, l’asfalto del Grande Raccordo Anulare sembra prendere fuoco. Stranamente non c’è traffico, caratteristica senza la quale Roma sarebbe una città come le altre; tralasciando bellezza e storia, ovviamente. E ciò mi rende già questa giornata… diversa. Finalmente oggi è il primo vero giorno di lavoro dopo la laurea, a parte alcuni turni in ambulanza come infermiere volontario (e quindi senza retribuzione) effettuati qualche settimana fa. Mi dirigo in direzione Roma Nord, con tanto entusiasmo e con molti pensieri che si accavallano nella mia testa; tutti velati da un po’ di preoccupazione, ma più che altro da molta curiosità: so molto poco, infatti, dell’attività lavorativa che mi accingo a intraprendere e non ho nessuna esperienza in merito. Sono stato contattato da questa azienda appena dieci giorni fa e ho effettuato subito un colloquio di lavoro: durante l’incontro, ho ottenuto più che altro informazioni generiche per quanto riguarda la struttura aziendale e il funzionamento dei servizi erogati. Mi è stato anche spiegato che i pazienti da accudire sono tutti molto complessi, affetti da patologie croniche altamente invalidanti, attaccati a un respiratore automatico1 e portatori di tracheostomia2. Tutti necessitano, quotidianamente, di interventi ad alta intensità assistenziale e sono tutti in regime di Ospedalizzazione Domiciliare3; 1
Macchinario che sostituisce o integra l’attività dei muscoli deputati all’inspirazione fornendo l’energia necessaria ad assicurare un adeguato volume di aria ai polmoni. 2 Apertura chirurgica permanente della trachea attraverso il collo, al di sotto del pomo d’Adamo, dove viene inserita una cannula. 3 Trattasi di cure domiciliari sanitarie e/o specialistiche in pazienti complessi. È assicurata l’assistenza sui sette giorni nell’arco della settimana da parte di un
14 quindi da gestire esclusivamente a casa e con turni di lavoro di 6-12 ore. Che strano… a casa?! Solo questa notizia è bastata a incuriosirmi tanto. All’università il mondo dell’assistenza domiciliare mi era stato descritto poco; anzi, direi per niente. Non mi risulta, infatti, che l’argomento fosse mai stato trattato da qualche docente durante le lezioni e non ricordo di aver mai letto sui miei libri nulla di esplicativo o di esauriente a proposito di questa tipologia di assistenza sanitaria territoriale. Non credevo, poi, che pazienti così complessi potessero essere seguiti in sicurezza all’interno del loro domicilio! L’azienda mi ha presentato l’opportunità di iniziare a collaborare con loro da subito; così, con un immane bisogno e voglia di lavorare, non appena ricevuta la conferma sull’esito positivo del colloquio, gli ho dato immediata e piena disponibilità. Dopo qualche giorno è quindi iniziato il mio addestramento preliminare: ho cominciato ad affiancare dei colleghi esperti presso un caso molto interessante in zona Casilina, il signor Enrico, persona molto carina affetta da Sclerosi Laterale Amiotrofica. La malattia lo aveva reso totalmente immobile, comunicava attraverso una tavola alfabetica4 e aveva un numero impressionante di lesioni da decubito su tutto il corpo, pesante eredità di una lungodegenza ospedaliera. Era però molto gentile nelle sue richieste, molto tranquillo e provava spesso a sorridere. Credevo di dover essere inserito in quella situazione; ma dopo qualche turno di affiancamento, proprio quando iniziavo a familiarizzare col paziente, sono stato chiamato dalla coordinatrice per seguire un’altra persona. Ed è proprio da lei che mi sto dirigendo adesso. È una “nuova assistenza”, così mi è stato detto: proprio oggi verrà presa in carico per la prima volta dal nostro servizio assistenziale domiciliare. In queste infermiere e la presenza di équipes multidisciplinari pronte a intervenire sul posto in caso di necessità o per le visite specialistiche di routine (pneumologica, otorinolaringoiatrica, anestesiologica, ecc.). 4 È una tavola in plexiglas, trasparente, con attaccate delle lettere adesive. L’operatore la pone davanti agli occhi dell’utente e quest’ultimo, guardando i caratteri uno a uno, compone le parole e le frasi che vuole esprimere mentre l’operatore le legge in trasparenza.
15 ore, infatti, dovrebbe essere dimessa da un ospedale specializzato della periferia romana per essere trasportata con l’ambulanza a domicilio; dove io la aspetterò. Non so quasi nulla di questa persona, non è stato possibile effettuare degli affiancamenti con operatori che la conoscono (sarò io il suo primo infermiere domiciliare!) e, nonostante le ore passate insieme al signor Enrico e ai colleghi che lo assistono, non ho mai gestito da solo pazienti complessi di questo tipo. Ciò mi stimola, questo sì, ma mi causa anche un pizzico di ansia; e credo che ciò sia fisiologico. La coordinatrice mi ha comunque assicurato che mi spiegherà tutto e che sarà presente durante la presa in carico del paziente. Anzi, della paziente; mi è stato infatti accennato che si tratta di una donna, che si chiama Maria Rosa, che ha circa 64 anni, che è affetta anche lei da SLA, che è tracheostomizzata, ventilata meccanicamente e che oggi verrà trasferita a casa con tutti i macchinari e i vari presidi necessari alla sua complessa assistenza. Nonostante il navigatore satellitare (con cui ho un rapporto di reciproca diffidenza) mi abbia portato in tutt’altra zona, alla fine sono riuscito non so come ad arrivare puntuale all’indirizzo giusto. Anzi, in anticipo, visto che sono le 13:15 e l’appuntamento è esattamente tra un quarto d’ora. Perfetto, qui sembrano non esserci problemi di parcheggio: di fronte alla palazzina c’è un’ampia area dove poter lasciare la macchina e questo è importantissimo, visto che questo luogo sarà per chissà quanto tempo il mio posto di lavoro. In una città caotica come Roma, infatti, uno spazio dove poter incastrare il proprio mezzo è una chimera. Mi fermo all’ombra di un platano, scendo dall’auto e, foglietto alla mano mezzo scarabocchiato con nome e indirizzo della paziente, cerco il numero civico e il citofono giusti. Intanto mi guardo intorno. Praticamente l’abitazione è in un piccolo condominio, con una chiesetta molto graziosa davanti e un grande prato adiacente, dove riesco a scorgere in lontananza dei cani che si rincorrono e addirittura qualche pecora al pascolo. Ho individuato finalmente il portone, così mi appoggio con la schiena alla parete accanto a questo e aspetto. Tanto da un momento all’altro dovrebbe apparire in fondo alla strada l’ambulanza
16 che trasporta la mia paziente. Almeno spero. Non ho ricevuto altre telefonate da chi mi coordina, quindi penso che tutto sia confermato. Noto diversi gattini che vagano nel parcheggio e nel giardino qui accanto; mi soffermo a guardarne uno nero con un occhio cieco, che mi fissa impietrito con l’occhio buono, a debita distanza; poverino, chissà cosa gli è successo. Amo i gatti. Da sempre. Quand’ero bambino passavo ore con i gattini del mio quartiere sulle ginocchia. Li accarezzavo finché non si addormentavano. E poi me li tenevo lì, li guardavo, senza disturbarli o svegliarli, godendomi la loro tranquillità e le loro fusa. In pace. Reputo i gatti esseri superiori. Sono così misteriosi, eleganti e soprattutto liberi. E forse un po’ mi assomigliano anche: riescono ad amare solo chi è in grado di entrare in sintonia con loro, sempre e comunque secondo le loro regole. Mi avvicino di qualche metro e noto che l’occhio del gattino nero sembra chiuso chirurgicamente, è probabile che sia stato operato. Forse appartiene o è appartenuto a qualcuno, chissà. Per quanto un gatto possa “appartenere” a un altro essere. O forse c’è semplicemente qualche anima pia che si prende cura di loro, nonostante la colonia sembri composta da tutti mici randagi. In effetti ci sono diverse ciotole sparse qua e là per il giardino e poi, guardandoli meglio, gli animali sembrano tutti piuttosto in carne. Congedato il gattino nero e i suoi amici, che non mi hanno dato neanche un briciolo di confidenza, dopo diversi minuti di attesa mi risiedo in macchina nonostante il caldo. Mi metto poi a leggere alcune informazioni sulla sclerosi laterale scaricate sul web dai siti di alcune importanti associazioni che si occupano di SLA5, che ho stampato e portato con me in una cartellina: scorro così con lo sguardo le ultime novità a proposito della ricerca, le caratteristiche della patologia, eccetera. 5
AISLA (Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, www.aisla.it), Viva la Vita ONLUS (www.wlavita.org), Associazione Luca Coscioni (www.associazionelucacoscioni.it), Fondazione Stefano Borgonovo ONLUS (www.fondazionestefanoborgonovo.it).
17 Dopo qualche minuto di lettura, però, inizio a sudare come un cavallo e mi rendo conto che fa veramente troppo caldo per rimanere nell’abitacolo. Riguardo l’orologio. Sono le 13:30 in punto e, non vedendo ancora nessuno, mi viene il dubbio che forse il trasferimento è già stato effettuato e che la signora magari è già a casa che mi aspetta, al fresco del suo condizionatore d’aria. O forse sarei stato avvertito? Non lo so. Comunque chiudo ciò che sto leggendo, scendo di nuovo dalla macchina e a questo punto decido di citofonare: mi risponde un signore dall’accento familiare, che mi invita a salire. Mi apre la porta un uomo magro, sorridente, dal naso pronunciato, con gli occhi lucidi e speranzosi, accompagnato da un cagnolino grassottello e visibilmente anziano che mi abbaia e ulula. «Killer, stai buono» gli dice. E io: «Killer? Ehm… è cattivo? Morde? Il nome non è molto rassicurante.» Lui: «Tranquillo, usa i denti solo per mangiare. E li usa parecchio! Il nome glielo hanno messo i miei figli.» Ci stringiamo la mano. «Piacere di conoscerla, mi chiamo Alessio e sono uno degli infermieri che assisterà sua moglie.» «Piacere mio, sono Renato. Prego, entra, mia moglie ancora non l’hanno portata a casa, accomodati pure.» Ringrazio, varco la soglia e gli chiedo di poter andare in bagno per indossare la divisa e per lavarmi le mani. Dopo essermi dato una rinfrescata e aver infilato la mia tenuta verde acqua, torno da lui, che mi invita a sedere sul divano del salone. «Ti dà fastidio se fumo?» mi domanda. E io: «No, stia tranquillo. Fumavo anche io fino all’anno scorso. E nonostante abbia smesso, l’odore del tabacco non mi causa alcuna nostalgia. E non mi urta minimamente.» Così lui si accende una sigaretta e, dopo qualche boccata di fumo, inizia a parlare… e lo fa in modo continuo, serrato, quasi patologico. Praticamente mi racconta di tutto: dei 43 anni di matrimonio trascorsi con la moglie, della malattia che è piombata nelle loro vite, di come è composta la loro famiglia, dei tanti anni in cui lui ha lavorato come sarto, dell’età e dei problemi del cane, eccetera. Intanto l’ambulanza
18 tarda ad arrivare. Mi informa poi di essere nato e vissuto in Abruzzo e specificatamente a Loreto Aprutino, praticamente a due passi da Penne, paese natale di mio padre; ecco perché il suo modo di parlare mi è familiare: il dialetto di quelle parti, infatti, per me è inconfondibile. Gli faccio presente le mie origini e lui, vistosamente sorpreso, esclama: «Però… quant’è piccolo il mondo.» Sorride. La notizia ricevuta gli dà la licenza di descrivermi, per filo e per segno, come è strutturato l’intero paese e di raccontarmi della sua gioventù. Della sua intera gioventù. Continua per circa mezz’ora. Quando poi, annoiato a morte, sto per stramazzare al suolo, per fortuna lui cambia discorso: mi interroga sul funzionamento del nostro servizio assistenziale, sul numero degli infermieri che si avvicenderanno presso la sua abitazione e su date e orari delle visite mediche mensili; tutte domande a cui purtroppo non ho una risposta esauriente. Gli faccio quindi presente che di queste cose sarà meglio parlare dopo con Orietta, la mia coordinatrice; di sicuro lei potrà chiarire meglio molti suoi dubbi. E spero anche i miei. A un certo punto lui mi domanda: «Ma sarete sempre gli stessi infermieri a venire qui? È possibile quindi instaurare anche un rapporto di amicizia? Sarebbe bello e molto importante, soprattutto per mia moglie. Da quando si è ammalata sono spariti tutti. Amici, conoscenti… e anche parenti.» «Signor Renato, purtroppo non so quanti saremo, se saremo sempre gli stessi e per quanto tempo. Dopo chiederemo insieme a Orietta tutte queste cose. Amicizia? Beh, tutto può accadere. Ci tengo però a sottolineare che noi qui abbiamo una funzione ben precisa, alla quale è giusto e necessario attenersi.» «Che vuoi dire?» ribatte lui. «Prima di studiare da infermiere, ho assistito per anni persone disabili e anziane a domicilio; e le garantisco che mantenere un certo distacco è di vitale importanza per poter lavorare bene insieme. E a lungo. Ma le ripeto: tutto può succedere, siamo pur sempre degli esseri umani.» Non replica, ma dall’espressione del suo viso deduco che ci sia rimasto un po’ male. Forse si aspettava una mia “apertura” più
19 convinta. Di sicuro una risposta diversa. Magari bramava un semplice “sì”. In effetti, ora che ci penso, più che a una domanda ciò che mi ha espresso assomigliava molto di più a una richiesta implorante. «Chiamami Renato, togli quel signor» mi dice. Poi si alza in piedi e si dirige in cucina. Ritorna poco dopo, avvitando una macchinetta del caffè. «Alessio, mi sentirei molto più a mio agio se mi dessi del tu. Te lo chiedo per favore.» «Ehm… va bene, ci proverò» gli rispondo. Anche se, palesemente, non sono molto d’accordo. Torna poi in cucina per mettere la moca sul fuoco, e da lì esclama: «Prendi il caffè con me, vero?» «Va bene, sì. Grazie tante.» In quel momento vedo uscire da sotto al tavolo del salone una gattina nera, molto simile al micio cieco che avevo visto sotto casa. Sembra molto anziana, è magra, cammina in modo strano e difficoltoso con le zampe posteriori. Mi fissa incuriosita e probabilmente un po’ contrariata. Anche i miei gatti non amano gli estranei. Soprattutto se appollaiati sul “loro” divano. «Signor Renato, mi scusi… cioè, volevo dire Renato, scusa: chi è questa pantera nera che si aggira circospetta?» Mi spiega che si tratta di Minù, la gattina della signora Rosa. Mi dice poi che sua moglie ama tanto i gatti, che è tanto affezionata a questa micia e che all’ospedale ha pianto tanto perché non vedeva l’ora di rivederla. Non la conosco ancora, ma questa signora mi è già molto simpatica. Dopo aver preso insieme il caffè, il signor Renato mi porta a vedere la stanza che è stata sistemata e preparata per accogliere la moglie; appena entrati accende l’aria condizionata, attiva la pompa elettrica del materasso antidecubito6 e mi racconta dei lavori che ha dovuto far fare in fretta e furia per rendere l’impianto elettrico funzionale, a norma e in grado di rispettare i criteri necessari per l’Ospedalizzazione Domiciliare. Mi mostra poi il letto, tutti i vari 6
Generalmente ad aria, serve per diminuire il rischio di lesioni da pressione sulle zone cutanee più a rischio nei pazienti costretti a letto.
20 macchinari e lo sgabuzzino dove sono adagiati i tanti materiali necessari alla complessa assistenza della moglie. E qui la mia disperazione: di fronte a questa catasta informe di roba, dentro e fuori da decine di scatoloni ammucchiati alla rinfusa, sto infatti realizzando che dovrò sistemare tutto io. Perfetto. Suona il citofono, con un’ora e mezza di ritardo è arrivata l’ambulanza. Renato apre porta, portone e mi esorta: «Mia moglie si chiama Maria Rosa, ma odia essere chiamata così. Per favore chiamala solo Rosa. Altrimenti si incazza con me che non te l’ho detto e sono dolori.» Lo guardo con un’espressione perplessa. Non tanto per la sua richiesta, quanto per la sua ultima frase: quel “… Altrimenti s’incazza con me perché non te l’ho detto e sono dolori” mi fa infatti sospettare che probabilmente mi accingo a conoscere una donna particolare, battagliera e dal carattere di ferro. E anche qui, più che preoccupato mi sento tanto curioso. Mai sospetto fu più azzeccato, comunque. Esco dalla porta, mi affaccio giù per le scale e intravedo la camicia da notte rosa della signora, mentre il personale dell’ambulanza e la mia coordinatrice trasportano la barella percorrendo la penultima rampa di scale. Sono carichi di materiale, tra cui una bombola di ossigeno, il ventilatore meccanico, tubi vari, cartelline stracolme di materiale cartaceo e il pallone auto-espandibile ambu7. Mi dirigo verso di loro per aiutarli, ma le rampe sono piuttosto strette e la mia presenza complica ulteriormente i loro movimenti, così preferisco tirarmi indietro e ritornare sul pianerottolo. Intanto spalanco le due ante della porta per facilitare il loro ingresso. Con qualche difficoltà, tutti entrano finalmente in casa. Il signor Renato sorride e sembra commosso; si avventa verso la moglie e pronuncia a voce alta, a pochi centimetri dal suo viso: «Bentornata a casa, Rosa! Basta ospedali, adesso!» Lei lo guarda per qualche secondo e distoglie subito gli occhi. Sembra tanto stanca. Cerco anch’io un contatto visivo con la signora, mentre la portano nella sua stanza attraverso lo stretto corridoio; ma lei è girata 7
Presidio d’emergenza, che serve per ventilare il paziente manualmente in caso di necessità.
21 dall’altra parte e non può vedermi. Appare molto provata, sicuramente per lei sono state ore molto stressanti e movimentate: ha infatti subito lo spostamento dal letto alla barella, il trasporto in ambulanza dall’ospedale, il caldo, l’attesa; avrà anche un po’ d’ansia e di preoccupazione a causa di questo ennesimo e radicale stravolgimento che sta interessando la sua vita. È magra, pallida, a occhio sarà alta circa un metro e sessantacinque. Sul suo viso e sul collo non c’è nemmeno una ruga, ha il naso all’insù e una chioma brizzolata liscia, un po’ in disordine, che le arriva fino alle spalle. Nonostante l’inevitabile sfioritura causata dalla terribile malattia da cui è affetta, dalle sofferenze accumulate durante il periodo del ricovero e dalla trascuratezza forzata cui è costretta una donna nelle sue condizioni, è decisamente una bella signora. Il personale dell’ambulanza è molto sudato, ma per fortuna, grazie al condizionatore, in stanza la temperatura è ora accettabile. Cercando di fare ordine tra i vari fili elettrici, circuiti ventilatori8 e tubi vari, posizioniamo provvisoriamente i macchinari su una specie di tavolino e ci organizziamo per spostare la signora dalla barella al letto. Orietta coordina le operazioni: «Tu mettiti dietro, tu e tu di lato, io sto alle gambe. La alziamo con il lenzuolo. Signor Renato, per cortesia, tolga questo cane che gironzola tra le nostre gambe, potrebbe farci cadere e rimediarci una pestata. Tutti pronti? Al mio tre, allora: uno… due… e tre!» La stanza è piuttosto stretta, e in più ci sono un enorme armadio e una poltrona che complicano non poco i vari spostamenti. Ma siamo in cinque, compreso il signor Renato (che a tratti però rincorre il cane), la signora è abbastanza magra e, al fatidico “tre” di Orietta, riusciamo a sollevarla tramite il lenzuolo e ad adagiarla sul letto in modo piuttosto agevole. Durante la mobilizzazione osservo un po’ la mia paziente per cercare di coglierne le capacità motorie residue e le caratteristiche: noto che riesce a muovere ancora le braccia, in particolar modo il sinistro, seppur faticosamente e con spostamenti lenti e gelatinosi; la testa è 8
Corrugati attraverso cui il ventilatore meccanico è connesso alla cannula tracheostomica della paziente.
22 poco mobile, ma sembra essere ancora ben sorretta dai muscoli, in quanto non cade in avanti o di lato. Mentre invece gli arti inferiori sono del tutto immobili e caratterizzati chiaramente da una paralisi flaccida9, per cui bisogna stare molto attenti a non farle sbattere durante i vari cambi di posizione. Non appena la paziente è adagiata sul letto, la riconnetto subito al ventilatore. Mi viene riferito da Orietta che vi è qualche lieve arrossamento sulle prominenze ossee (principalmente in zona sacrale e dietro alla testa), dovuto all’immobilità sul letto del reparto; ma che, per fortuna, non ci sono vere e proprie lesioni da pressione a complicare il quadro clinico della signora. Mentre parliamo, suona l’allarme del respiratore; guardo così la paziente e mi rendo conto che ha un’espressione del viso veramente poco rassicurante: la sua faccia è infatti rossa, solcata da lacrime, le sue palpebre sono serrate e la sua bocca ha assunto una strana postura, come per tossire. Il collega dell’ambulanza accende quindi l’aspiratore ed effettua repentinamente un’aspirazione tracheobronchiale10. La procedura rimuove molte secrezioni, libera la trachea e rasserena il volto della signora, che torna a respirare normalmente e riapre gli occhi. Dopo qualche istante, per la prima volta, i nostri sguardi si incrociano. Le sue iridi sono fosse profonde, scure, da cui spuntano pupille vispe e arzille. Sorridendo le dico: «Piacere di conoscerla, signora Maria Rosa, sono Alessio, il suo infermiere. Ora ci sistemiamo e poi ci presentiamo come si deve.» Lei contrae i muscoli del viso in modo debole e disordinato, come per ricambiare il mio sorriso. Sì, credo proprio che mi stia sorridendo. Poi annuisce e socchiude di nuovo gli occhi. Ha un viso veramente molto stanco, poverina. Cavolo, l’ho chiamata Maria Rosa anziché Rosa. E adesso? Si arrabbierà col marito per colpa mia? Iniziamo bene. Va beh, dopo ci penso. 9
Ovvero con assenza di tono muscolare. Quindi le sue gambe non sono rigide, tutt’altro: seguono passivamente qualsiasi movimento venga loro imposto. 10 Procedimento che prevede la rimozione meccanica delle secrezioni da trachea e bronchi per mezzo di una fonte aspirante (aspiratore) e di un sondino inserito nelle vie aeree (in questo caso rappresentate dalla cannula tracheostomica).
23 Le togliamo il lenzuolo sporco, cerchiamo di sistemarla comoda con dei cuscini sotto testa e spalle, le alziamo lo schienale del letto a una trentina di gradi, solleviamo le sponde e fissiamo i vari tubi in modo che non intralcino i nostri movimenti e, soprattutto, che non vadano a trazionare la cannula11. E poi, non appena la mia paziente ci appare in una posizione confortevole, cerco con lo sguardo la mia coordinatrice, in attesa di qualche informazione più dettagliata sulla signora Rosa e sulla sua condizione patologica. Ma lei è braccata dal signor Renato, che la tiene in ostaggio in un angolo e le rivolge le sue tante domande. Non appena riesce a liberarsi, Orietta si avvicina a me e inizia così a spiegarmi tutto, mostrandomi subito dove sono i presidi per le situazioni di emergenza come il pallone auto-espandibile (AMBU) e le bombole di ossigeno. Mi fa poi vedere i vari documenti che compongono la diagnosi, la terapia, le dimissioni della paziente dall’ospedale, il piano assistenziale, i moduli per le consegne e per le firme, i numeri di telefono da chiamare in caso di emergenza o di guasti tecnici del ventilatore. Poi mi fa notare l’ubicazione dei vari presidi per il e monitoraggio dei parametri vitali (pulsiossimetro12 13 sfigmomanometro ), mi spiega il funzionamento dell’aspiratore chirurgico per le manovre di aspirazione tracheobronchiale, mi aiuta a impostare la pompa d’infusione14 per la nutrizione enterale15 e mi dà la sua totale disponibilità per qualsiasi chiarimento telefonico o intervento in caso di dubbio o problema. Dopo di che l’équipe si congeda da me, dalla signora e viene accompagnata dal signor Renato verso l’uscita. Lui sprizza gioia da ogni poro, ringrazia tanto la mia coordinatrice e l’intero personale 11
Può causarle tosse o l’accidentale asportazione della cannula stessa. Dispositivo medico non invasivo (si applica al dito del paziente), in grado di rilevare la quantità di ossigeno nel sangue e la frequenza cardiaca. 13 Apparecchio medico fornito di un manometro ad aria per mezzo del quale si misura la pressione arteriosa. 14 Apparecchiatura elettrica deputata alla somministrazione continua della nutrizione enterale, secondo quantità e velocità prescritte. 15 Miscele nutritive preparate artificialmente e somministrate tramite una sonda direttamente nello stomaco. Viene utilizzata in quelle persone che, per diversi motivi, non riescono a nutrirsi per bocca. 12
24 dell’ambulanza, è visibilmente felice che la moglie sia di nuovo a casa con lui. Li guarda mentre scendono le scale, chiude la porta e si gira poi verso di me, che sono in piedi sulla soglia della stanza della signora Rosa. Dopo qualche secondo di immobilità e silenzio, ci dirigiamo entrambi da lei. Si comincia. Non appena entrati di nuovo in camera, lei guarda subito il marito e gli fa un cenno con la mano sinistra. Lui allora prende un quaderno e lo appoggia sull’addome della moglie. Le mette poi una penna tra le dita, indossa gli occhiali e la esorta: «Dimmi, Rosa.» Lei inizia così a scrivere. Non può più parlare o emettere suoni16, ma per fortuna utilizza questo che sembra essere un modo abbastanza semplice per comunicare; lento, ma semplice. Ci sarà sicuramente molto utile in questi primi giorni insieme. L’importante è che, almeno fino a quando non avremo approfondito un po’ la nostra conoscenza, la signora riesca a farmi capire facilmente i suoi bisogni fondamentali e le sue richieste. Poi magari, di comune accordo, cercheremo qualche metodo alternativo di comunicazione, speriamo un po’ più valido e veloce; anche perché la sua scrittura, da ciò che sto vedendo, non è così facile da decifrare. Anzi. Intanto moglie e marito parlano, più che altro di cose da sistemare o da fare: “Camicie” scrive lei. E lui: «Le ho sistemate prima, le camicie da notte. Sono tutte in ordine nell’armadio, Rosa.» Lei: “Lenzuola.” Lui: «Rosa, stai tranquilla, ho lavato e sistemato anche quelle. È tutto a posto e pronto per essere usato.» Lei: “Avverti figli.” Lui: «Ho già chiamato tutti, domani dovrebbero venire. Ora stanno lavorando. Forse stasera passa Michele.» Lei: “Tende.” Lui: «Come, Rosa? Le tende? In che senso?» Lei: “Schifo.” 16
A causa della malattia che le ha paralizzato i muscoli interessati nell’articolazione della parola e a causa della cannula tracheostomica che impedisce il passaggio dell’aria attraverso le corde vocali.
25 Lui: «Rosa, lo so, sono sporche. In questi mesi ho avuto tante altre cose a cui pensare, abbi pazienza. A forza di andare avanti e indietro dagli ospedali sono stato costretto a trascurare un po’ la casa. Va bene, domani le lavo.» E poi continua, rivolgendosi a me: «Scusaci, Alessio, stiamo sistemando un po’ di cose. Anzi, a dire la verità è lei che mi dà direttive su come sistemarle.» «Stia tranquillo, Renato. Fate come se foste a casa vostra.» Mi sorride, mentre la moglie continua a far scorrere la penna sul quaderno molto concentrata: «Questo letto non mi piace e non lo voglio» scrive. Mi colpisce quest’ultima frase. Guardo quel letto e in effetti forse la signora non ha tutti i torti nell’essere così contrariata: tornare nella propria casa, dopo una interminabile degenza ospedaliera, al termine di una mattinata così sconvolgente e trovare un giaciglio così diverso da quello cui si era abituati, credo che sia decisamente irritante. Quello in cui è stata adagiata oggi, infatti, non assomiglia neanche lontanamente al suo familiare e comodo nido d’amore matrimoniale: è un letto super accessoriato, a una sola piazza, che può sollevare la testa, i piedi, le gambe, può inclinarsi, alzarsi o abbassarsi; insomma, una sorta di piano di lavoro. Ideale per far fronte alle condizioni di salute di una paziente nelle condizioni della signora Rosa, questo sì, ma che in effetti, obiettivamente, è veramente brutto. Per nulla accogliente o rassicurante. E poi ha quelle sponde laterali, per evitare di farla cadere, che lei guarda a più riprese con evidente e assoluto disprezzo. Quasi fossero l’unico impedimento a scendere. Per non parlare, infine, del materasso antidecubito che si gonfia e si sgonfia rumorosamente e senza sosta sotto al suo corpo. «Rosa, purtroppo questo è l’unico letto dove puoi stare. È adatto a te, vedrai che ci starai tanto comoda. Ti ci devi solo abituare. Dammi retta» le dice il marito. Lei fissa il vuoto, palesemente irritata. E dopo un po’ riprende a scrivere. Continuano così a parlare per circa un quarto d’ora; ogni tanto ci sono dei momenti di pressoché totale incomprensione. E anche di tensione. La calligrafia della signora, infatti, a tratti assomiglia a un vero e proprio geroglifico e il signor Renato, che ha più di 70 anni, nonostante metta gli
26 occhiali, non appare propriamente un falco: ciò rende il loro scambio comunicativo impreciso e difficoltoso. Quando lei si agita, poi, la mano che tiene la penna le trema vistosamente e ciò rende ancora più complicata, per chi legge, l’interpretazione dei vari scritti. Renato cerca di farmi capire il perché delle sue difficoltà: «Allora, Alessio, ti spiego, se no ci prendi per matti: un po’ è colpa mia perché non ci vedo bene, un po’ è lei che non ce la fa e che si stanca presto, un po’ è la posizione sdraiata in cui è costretta a scrivere; fatto sta che spesso discorrere diventa una lotta, in quanto lei fa tutti segni strani, tremolanti, uno sopra all’altro e io non ci capisco niente. Così va a finire che lei si innervosisce, che io mi arrabbio e alla fine bisticciamo. Ah, poi c’è anche un altro problema: lei non è mancina e si è dovuta adattare a scrivere con la mano sinistra, perché con la destra non ci riesce più. E di conseguenza la sua calligrafia è ancora di più un macello.» «Capisco» gli rispondo. Intanto loro, tra incomprensioni e fraintendimenti, continuano la loro chiacchierata. Noto che la signora si agita immediatamente e parecchio quando non è capita: muove la mano come per sbattere contro la sponda del letto e sul quaderno, diventa rossa in viso, “litiga” col respiratore meccanico contrastando le sue insufflazioni e mandandolo in allarme, tossisce e fa una smorfia del viso piuttosto sofferente, come per piangere. Anche Renato si innervosisce quasi subito e alza la voce, urlando e sbraitando in preda all’ansia e alla frustrazione; tutte cose che sembrano non aiutare minimamente il loro già complicato scambio comunicativo. A un certo punto lui, stanco e visibilmente alterato, esclama: «Ecco, che cavolo piangi?! Rosa, se non ti capisco che cosa devo fare?! Basta, me ne vado di là che è meglio. Qui cominciamo proprio bene, oggi.» Esce dalla stanza borbottando e se ne va in salone. Dopo qualche minuto di lacrime e di smorfie sofferenti, l’espressione facciale della signora cambia; ora sembra serena. Finalmente mi avvicino e le dico: «Eccomi a lei, signora Maria Rosa. Pardon, Rosa.» Ora contrae i muscoli del viso in modo diverso, sta di nuovo sorridendo.
27 «So che per lei è stata una mattinata micidiale, quindi non voglio stressarla più di tanto. Ma abbiamo alcune cosucce da fare. Anzitutto mi ri-presento: mi chiamo Alessio, sono un infermiere e passeremo tanto tempo insieme, visto che i nostri turni qui saranno di dodici ore e, da quello che ho capito, l’équipe sarà composta al massimo di trecinque persone. Almeno così ho sentito prima, mentre Orietta parlava con Renato. Avremo quindi tutto il tempo del mondo per conoscerci; intanto però iniziamo a fare le cose fondamentali come la somministrazione della terapia, l’idratazione, l’alimentazione, le cure igieniche e le medicazioni. Dopo di che ci faremo una bella chiacchierata e ci racconteremo un po’ chi siamo. Cosa ne pensa?» Annuisce leggermente e mi fa segno di voler scrivere. Le porgo quindi quaderno e penna. Ora che è più tranquilla i suoi scritti si capiscono molto meglio. “Le gambe” mi dice. «Sta scomoda, signora? Gliele sposto?» Mi fa nuovamente cenno di sì. E continua a scrivere, mentre io le mobilizzo e riposiziono gli arti inferiori: “Da quanto tempo lavori?” «Lei è il mio primo caso, per quanto riguarda l’attività di infermiere domiciliare. In realtà, però, ho altri sei anni di esperienza come assistente di persone disabili sul territorio.» Poi mi chiede: “Laureato?” «Certo, signora. Sì, sono laureato.» Mi guarda ispezionando a fondo i miei bulbi oculari e il mio viso; ho la vaga sensazione che mi stia studiando. E che stia aspettando una risposta più esauriente e convincente. Infatti continua a guardarmi e ad attendere. Cosa vorrà sapere? Ha bisogno di dettagli? Forse è una mia impressione, ma il suo atteggiamento assomiglia parecchio a quello di un ispettore di polizia durante un interrogatorio: mi manca solo una lampada puntata dritta in faccia e siamo a posto. Dopo qualche secondo di silenzio, io continuo: «Mi sono laureato a marzo all’Università di Tor Vergata, signora. Con lode. Dopo aver discusso una tesi sull’assistenza ai pazienti sordociechi e a quelli con minorazioni psicosensoriali, realizzata in collaborazione con la Lega
28 del Filo d’Oro. Quella che ogni tanto mostrano in TV e che ha come testimonial Renzo Arbore, ha presente?» Fa cenno di sì, mentre mi ascolta molto interessata. E poi scrive, cogli occhi lucidi: “Bambini nati sordi e ciechi. Non posso pensarci. Non è giusto.” Le lacrime ora le colano sul cuscino. Io, molto colpito dalla sua sensibilità, cerco di cambiare subito discorso per distogliere la sua attenzione da un argomento che, evidentemente, la rattrista parecchio. «E lei, signora? Che lavoro faceva?» aggiungo asciugandole le lacrime. «Operaia industria bambole» mi dice. Rivolge poi lo sguardo verso il marito, che è di nuovo entrato in stanza col cane. Lui mi conferma: «Sì, ha costruito e vestito bambole per tanti anni, era un lavoro che le piaceva molto. E le si addiceva. Bimba e femmina com’è.» Si siede poi accanto al letto della moglie, su uno sgabello vicino alla finestra. Le prende una mano e, dopo qualche secondo di carezze, cerca di rassicurarla: «Rosa, stai tranquilla, vedrai che ora tutto sarà diverso. Non sarai più trattata come all’ospedale, dove nessuno ti dava retta e se suonavi il campanello venivano ad aiutarti dopo mezz’ora. Qui sei a casa, ci sono io e c’è un infermiere che si dedica solo a te dalla mattina alla sera. E poi non preoccuparti, non tartassarlo di domande: è bravo. Si vede.» Ecco fatto. Da cosa “si vede”? Perfetto: non ho neanche iniziato a fare questo lavoro e già devo stare attento a non deludere le aspettative di chi, a primo impatto, mi definisce già bravo. Anche se sicuramente lo ha detto solo per tranquillizzare la moglie. «Grazie per la fiducia» sussurro rivolto a lui e abbozzando un sorriso. Lei invece lo ignora palesemente. Dopo diversi secondi di silenzio, lui continua: «Ah, Rosa, aspetta.» Si alza in piedi e si dirige verso la sala da pranzo. Torna con in braccio Minù, la gattina nera, e gliela porta a circa un metro dal letto. La signora la guarda, sorride e si commuove; prova poi ad alzare la mano come per toccarla; con molta difficoltà riesce a staccare l’avambraccio
29 dal letto e a sollevare l’arto di circa dieci centimetri, sforzandosi però molto. Renato si gira verso di me e mi domanda: «Si può, Alessio?» Io ci penso un attimo, non so che dire. Nessuno mi ha mai parlato di quest’eventualità o mi ha mai dato direttive a tal proposito. E da sanitario, poi, non ho neanche mai affrontato la questione, visto che nelle corsie d’ospedale dove ho effettuato i miei tre anni di tirocinio prima della laurea, giravano ben pochi gatti. Coinvolto dalla carica emozionale del momento, però, gli dico di sì. Specificando che si dovrà evitare la presenza della micia sul letto e che, dopo averla accarezzata, tutti dovremo lavarci sempre le mani. Non appena ho detto quel “sì”, però, Renato ha già avvicinato Minù alla mano tremante della signora; e probabilmente nessuno dei due ha ascoltato il mio successivo tentativo di educazione sanitaria. Va bene così, ho tanto tempo per spiegare a entrambi alcune cose. E magari per trovare il modo di farmi dare retta. Dopo il contatto tra la mano della signora e la testa della gattina, ci sono dieci meravigliosi secondi di silenzio. Lei tocca la sua micia commossa, cercando di muovere la mano e il braccio come per accarezzarla, nonostante il suo arto sembri trattenuto da una forza oscura, come se fosse incatenato. Renato sorride, si gode sua moglie che piange di gioia, si avvicina e le dà un bacio sul naso. Minù intanto fa le fusa, anche se in verità appare poco tranquilla per le molte novità presenti in stanza. Io invece sono a pochi metri di distanza da loro e contemplo questo quadretto familiare senza far rumore, con una sorta di mezzo sorriso beota stampato in faccia. Forse è opportuno lasciarli un attimo da soli, provo così a uscire dalla camera. Renato però se ne accorge, si gira a guardarmi e l’incanto termina. «Che fai, te ne vai?» mi ammonisce. Confermandomi di aver capito il mio disagio e la mia sensazione di essere di troppo. Gli sorrido senza rispondere. Lui “libera” poi la gatta che, terrorizzata dalla mia presenza e dal rumore dei macchinari, corre via zoppicante verso il salone. Inizio a individuare altri aspetti piuttosto complicati di questo lavoro; aspetti che fino a ora non avevo preventivato: l’infermiere domiciliare si trova per molte ore inserito nella quotidianità del
30 proprio assistito; diventa perciò una presenza fissa che accompagna la sua esistenza, quella dell’intera famiglia e che si ritrova a essere inevitabilmente spettatore di momenti di gioia, di angoscia, di crisi e di dolore. Anche piuttosto privati. Di conseguenza, egli rischia costantemente di rimanere troppo coinvolto a livello emotivo nel “caso” assistenziale, di alterare alcuni delicati equilibri familiari e forse a lungo andare anche di perdere di vista il proprio ruolo di professionista. Quindi deduco che, per quanto possibile, egli debba stare molto attento, muoversi in punta di piedi quando necessario e cercare di utilizzare l’empatia, imprescindibile “arma” di un infermiere che si rispetti, in modo molto oculato. Col fine ultimo di non logorarsi e di non rischiare di compromettere in tempi troppo brevi l’intera relazione d’aiuto con l’assistito e con i suoi cari. Il problema è… Come si fa? Come ci si può defilare da certe dinamiche pur rimanendo presente? E quali sono le scappatoie giuste da usare? È davvero possibile nascondersi per non farsi trovare dalle proprie emozioni? Beh… boh! Per certi versi mi sembra un rompicapo. Mentre mi perdo in queste elucubrazioni, della saliva inizia a colare dalla bocca della signora Rosa. La tampono con una garza, ma lei mi indica con la mano il rotolo di carta assorbente che è sul comodino. Il marito ne strappa un pezzo e gliela mette in bocca. Ho capito, sono abituati a tamponare la scialorrea17 in questo modo. Per fortuna quella della signora sembra non essere troppo abbondante: da quando è arrivata non è mai stato necessario tamponarla, almeno fino a questo momento. Dopo che Renato le ha posizionato la carta in bocca, lo guardo perplesso; cerco di resistere (ormai è fatta), ma non posso non fargli presente una cosa: «Ehm… Renato, poco fa avevi il gatto in braccio. Ti sei lavato le mani prima di mettere la carta tra le fauci di tua moglie?» 17
Eccessivo accumulo di saliva in bocca che tende a colare dalle labbra. È una delle caratteristiche della SLA bulbare, ed è dovuta alla difficoltà di deglutizione.
31 «Oh porca miseria, no» risponde mortificato. E io, sorridendo: «Ecco. È importante, mi raccomando.» Mi soffermo poi a guardare la signora con quel coso in bocca. Quel cartoccio è troppo grande, storto, decisamente brutto; così mi lavo le mani, glielo tolgo e cerco di realizzare un nuovo tampone degno di tale nome, magari un po’ più ordinato, più piccolo e simmetrico: prendo quindi un foglio di carta assorbente, lo piego a metà per quattro volte e creo così un quadratino di circa sei centimetri per sei. Una volta pronto, lo mostro a lei e le chiedo: «Pensa che così potrebbe andare meglio?» Fa cenno di sì, così glielo appoggio tra le labbra. Lei quindi chiude la bocca afferrandolo e, dopo qualche istante, continua ad annuire guardandomi. Non le faccio altre domande, il suo è un chiaro “Sì, così va decisamente meglio”. Almeno credo. «Bravo» interviene Renato, «a lei piacciono tanto le cose piccole e ordinate. Solo che io non sono capace a fare niente di ciò che vuole lei. Manualmente sono diventato una frana. E anche quando forse ci riesco, a lei comunque non va bene; quindi ci rinuncio.» «È normale che non le vada bene ciò che fai, Renato: sei il marito!» rispondo. Sorridono entrambi. Poi abbiamo continuato a parlare tutti e tre: Renato mi ha raccontato del ricovero, di quanto fosse stato difficile per la signora stare tutto quel tempo (circa tre mesi) in ospedale, di quanto fossero pochi, “svogliati” e “sgarbati” alcuni infermieri incontrati. La signora mi ha poi scritto che addirittura due di loro la chiamavano “la vecchia”, cosa che la mandava su tutte le furie. Tentando in qualche modo di difendere la mia categoria, ho spiegato loro che i miei colleghi ospedalieri sono spesso costretti a lavorare in condizioni aberranti, al limite dello sfruttamento, con turni massacranti e stipendi da fame; ed è verosimilmente per questo che spesso possono apparire tesi, frustrati e poco simpatici. Intanto che chiacchieriamo, provvedo alla misurazione dei suoi parametri vitali: pressione arteriosa, frequenza cardiaca, saturazione di
32 ossigeno18. I valori sono buoni e stabili. Preparo poi la terapia da somministrare via PEG19, quella sottocutanea20 e la sacca per la nutrizione enterale da somministrare tramite pompa da infusione (sempre via PEG). Lei interrompe spesso le mie azioni a causa di un pressoché perpetuo bisogno di mobilizzare le gambe; me le indica chiaramente col dito, accompagnando il gesto con una smorfia del viso piuttosto sofferente. Così gliele sposto più volte, mentre cerco di predisporre tutto il necessario per le varie pratiche assistenziali. «Stamattina è stata lavata, signora?» le chiedo. Mi fa cenno di voler scrivere. Le porgo così quaderno e penna e lei mi aggiorna: “Solo cambiato pannolino.” «E le stomie? Sono state medicate?» aggiungo. Allungando l’indice della mano sinistra e scuotendo il polso, lei mi indica un chiaro “No”. «Va bene, allora provvediamo a fare tutto.» Notando poi i suoi capelli totalmente alla rinfusa, in parte attaccati, unti, con croste e arrossamenti cutanei le chiedo: «Signora, quanto tempo è che non lava i capelli?» «Mah, saranno tre mesi» risponde Renato. «Cosa?! Tre mesi?! Ma siete sicuri?! Cioè: dall’inizio del ricovero nessuno glieli ha mai lavati? Ma no, è impossibile» ribadisco io. Lei invece annuisce. E dopo un po’ anche Renato. Beh, semplicemente assurdo, rimango allibito. Come si può non lavare la testa di un paziente per tre mesi?! Di sicuro è un ottimo modo per ridurre l’autostima di una persona in frantumi e per calpestarne la dignità. 18
Quantità di ossigeno, espressa in percentuale, che lega l’emoglobina del sangue. 19 Gastrostomia Endoscopica Percutanea, apertura sull’addome (effettuata chirurgicamente) tra stomaco e ambiente esterno, dove viene posizionata una sonda per poter nutrire e idratare il paziente che non riesce più a deglutire adeguatamente e rischia di inalare liquidi e/o solidi. 20 Iniezioni di anticoagulante (enoxaparina sodica), profilassi contro l’embolia polmonare nei pazienti poco mobili.
33 «Va bene, vorrà dire che oggi ci faremo uno shampoo coi fiocchi» li rassicuro dopo un lungo sospiro. Lui aggiunge: «In quel reparto erano sempre e solo in due, i tuoi colleghi. Li vedevo correre come pazzi da tutte le parti, avevano tanti pazienti e tantissime cose da fare. Qualche volta gliel’ho chiesto, se potevano lavare i capelli a mia moglie; ma era palese che non avessero proprio il tempo materiale per farlo. Così non ho mai insistito più di tanto.» Inizio a somministrare la terapia via PEG con una siringa da 60cc (in gergo ospedaliero “schizzettone”). E mi rendo conto di un problema: la sonda è ostruita. Probabilmente non è stata lavata dai residui di nutrizione della mattina, e ora il suo contenuto si è solidificato. Ok, piano piano riuscirò a stapparla. Almeno spero. Purtroppo questo è un modello di PEG piuttosto obsoleto: non si può sostituire la parte esterna della sonda, cosa che è invece possibile in altri modelli più recenti (in quella del signor Enrico, ad esempio, si può) e che rende facilmente risolvibili problemi di questo tipo. E poi, cosa altrettanto antipatica, è una PEG fatta di un materiale gommoso che assomiglia al caucciù: cercando di stapparla con la pressione della siringa, infatti, si espande gonfiandosi come un palloncino, ma senza risolvere l’ostruzione. Niente da fare, le sto provando tutte: pressione, acqua calda, cola (sembra che quest’ultima abbia poteri miracolosi per disostruire le PEG, quasi fosse una sorta di acido. E ciò fa riflettere) e manipolazioni della parte esterna della sonda con l’intento di spingere verso l’esterno il contenuto solidificato. Proprio non ne vuole sapere di sturarsi. Dopo circa un’ora di tentativi andati a vuoto, chiamo telefonicamente la mia coordinatrice e le faccio presente il problema; ricordandole che la paziente non assume liquidi, terapia e alimentazione dalla mattina e descrivendole le varie azioni compiute nel tentativo di ripristinare la pervietà del tubo. Mi dice di stare tranquillo, di riprovare ogni mezz’ora inserendo cola e acqua calda e di richiamarla nel tardo pomeriggio, nel caso in cui non fossi riuscito a risolvere l’ostruzione. Intanto la signora pare serena e poco turbata dal grattacapo verificatosi: si guarda intorno in apparente relax, godendosi le mura
34 familiari che la circondano e senza dare troppo peso al losco individuo vestito di verde che suda e traffica sulla sua pancia con siringhe e tubi. Le spiego quanto illustratomi da Orietta e le dico che intanto possiamo andare avanti con le cose da fare, ovvero con le cure igieniche, lo shampoo, le medicazioni varie e una prima sistemazione provvisoria dei tanti materiali “appoggiati” alla rinfusa nell’altra stanza. Il marito invece è preoccupatissimo, sprizza ansia da tutti i pori e continua a ripetermi: «E adesso come si fa? Si risolverà? Ma se viene il medico o chiamiamo l’ambulanza, poi quel tubo glielo possono cambiare qui a casa? Non è che me la riportano in ospedale?» Cerco di tranquillizzarlo, ma con scarso successo. Comincio poi a impegnarmi per sistemargli a dovere la moglie, sperando che vederla pulita e ordinata dia anche a lui un po’ di sollievo. Di conseguenza cerco e trovo un modo per lavarle i capelli lasciandola sdraiata e comoda, aiutato da un pannolone, da un telino assorbente posti sotto alla testa e da una bottiglia di acqua tiepida; cosa molto apprezzata dalla signora, che si gode in totale rilassatezza l’intero procedimento; dopo lo shampoo sembra rinata. Mentre le asciugo i capelli col phon, ha infatti un’espressione beata, soddisfatta, di evidente benessere, nonostante io non sia un parrucchiere provetto e alla fine dell’operazione la signora appaia come una sorta di incrocio tra un leone spettinato e Angelo Branduardi ai suoi tempi d’oro. Mi scuso per la discutibile acconciatura, ma a lei sembra interessare molto poco: i suoi capelli ora profumano e sono morbidi; questa, al momento, sembra per lei essere la cosa più importante. Provo di nuovo a disostruire la sonda con acqua calda, con la cola e tramite altre manipolazioni per tutta la lunghezza del tubo. Niente da fare. È arrivato il momento di eliminare la camicia da notte sporca e di dare una sistematina anche al resto del corpo. Chiamo il “signor Renato” per chiedergli una bacinella, del sapone e una camicia da notte pulita. Mi porta tutto dicendomi: «Ancora… basta con questo signor Renato, io sono Renato! E dammi del tu.» Lo guardo e gli rispondo: «Va bene, ci provo con più convinzione. Preparati, Renato, all’inizio sarà un casino: a tratti ti darò del tu e a
35 tratti del lei, cerca di sopportarmi.» Sorridono. Lui dà una carezza alla mano della moglie e si posiziona in un angolo, seduto sul piccolo sgabello, con il suo cagnolino grasso tra i piedi. «Se ti serve una mano sono qui» mi dice. «Va bene, grazie. Anche se non credo che ne avrò bisogno» rispondo io. Chiedo poi alla signora il permesso di svestirla e iniziamo così l’opera di pulizia. Mentre la movimento passivamente ed effettuo varie azioni sulla sua persona, mi dà l’impressione che lei stia cercando di non incrociare mai il mio sguardo. Ogni tanto, oltre a tenere d’occhio il display del pulsiossimetro, le chiedo: «Tutto bene, signora?» E lei annuisce, sempre senza guardarmi. Se per sbaglio lo fa, i suoi occhi si posano sui miei solo per un istante, poi tornano a fissare il vuoto. Probabilmente è a disagio e prova vergogna. Come d’incanto, smetto di vedere in lei una paziente da lavare e medicare… e ci vedo una donna. Che si ritrova nuda e inerme; toccata, spostata e ispezionata da una persona sconosciuta. Dall’ennesima persona sconosciuta, in questo suo lungo e terribile incubo chiamato SLA. Così mi fermo un attimo e cerco di rassicurarla: «Lo so che ci vuole del tempo, signora, ma stia tranquilla e cerchi di non vergognarsi: sono un uomo, ok, ma le assicuro che l’infermiere è la categoria professionale più asessuata che esiste! Mi sentisse la mia ragazza…» Prova a sorridere. Mi chiede poi di farla scrivere e mi dice: “Non ti preoccupare, fai quello che devi fare, mi abituerò”, facendomi dedurre con un gesto della mano e con lo sguardo che negli ultimi mesi è stata costretta a dimenticare totalmente la propria privacy, la propria intimità e per certi versi anche la propria femminilità. È giunto il momento di girarla su un fianco per detergere e controllare schiena, sacro e zona perianale. Sembra però che posizionata di lato ogni azione le causi dolore, molestia, fastidio, tosse e soffocamento: cambia spesso espressione del viso, attira di continuo la mia attenzione e io le domando ancora: «Signora, tutto a posto?» E poi: «Le fa male la gamba? Cosa mi indica? Aspetti, la rimetto sdraiata e mi scrive tutto.» E così ogni minuto. A tratti sembra proprio che non sopporti nulla. Ma più probabilmente devo solo conoscerla meglio, in modo da capire e
36 prevenire i suoi fastidi, i suoi dolori, le sue richieste, cercando così di farla stare comoda durante tutte le varie fasi delle operazioni che svolgiamo. Col tempo quest’aspetto migliorerà. Riesco comunque a lavare totalmente la mia paziente, a pettinarla, a passarle sul corpo e sulle gambe delle creme idratanti profumate e a metterle un’altra camicia da notte rosa pulita. Detergo e medico poi a dovere le stomie, che ho trovato piene di incrostazioni, sostituisco le lenzuola e “ricompongo” il letto in modo che sia ordinato e comodo. Ricomincio infine i miei tentativi di disostruzione della PEG. Ancora una volta senza successo. Il pomeriggio prosegue poi così: con Renato che parla, racconta e spiega, parcheggiato sul suo sgabello; con la signora che guarda la TV in una sorta di rilassatissimo dormiveglia… e con me che sostituisco spesso il tampone di carta che lei ha in bocca, che le sposto in continuazione le gambe e che ogni quarto d’ora riprovo a stappare quel maledetto tubo. Faccio poi l’inventario dei farmaci, segnando quelli da far prescrivere al medico e do una bella sistemata ai tanti materiali nello sgabuzzino adibito a magazzino; cosa che mi porta via un’ora abbondante. Effettuo quindi l’ennesimo tentativo di disostruzione della sonda PEG. Nulla da fare, sembra ostruita di brutto. E non ho la più pallida idea di cos’altro tentare per stapparla. Guardo l’orologio, sono le 18:30. È ora di avvertire Orietta che ogni mio tentativo, purtroppo, è stato vano. Le telefono, la aggiorno e, come prevedibile, lei mi invia un’ambulanza. L’unità mobile di soccorso arriva alle 19:00 in punto. Spiego il problema all’équipe, faccio leggere al medico la cartella di dimissioni dall’ospedale della paziente e lo aggiorno sulle condizioni delle ultime ore e sui parametri vitali della signora Rosa. Gli faccio poi presente che la paziente non assume liquidi, terapia e alimentazione dalla mattina e gli elenco i modi attraverso cui ho provato a disostruire la sonda. Dopo di che, anche lui mette in atto vari tentativi di disostruzione, aiutato dai suoi colleghi. Le prova tutte. Beh, niente da fare. Per certi versi, anche se dispiaciuto per la signora, faccio un sospiro di sollievo: è il mio primo giorno di lavoro da solo con questo tipo di pazienti e, visto il mancato successo delle mie prove per risolvere il problema, a un
37 certo punto mi ero convinto che la colpa fosse mia e della mia poca esperienza. Invece quella sonda è proprio tappata. Dopo averci provato per circa un’ora senza successo, il medico desiste e mi fa presente che è inutile continuare in quanto, molto probabilmente, la sonda PEG è oramai del tutto ostruita ed è da sostituire. Ma non ce n’è un’altra di scorta presente a domicilio, purtroppo; e il nutrizionista responsabile, comunque, a quest’ora non è più rintracciabile. Bisogna per forza aspettare domani. Il dottore opta quindi per l’idratazione della paziente tramite un accesso endovenoso e mi fa cenno di reperirlo: così, con qualche difficoltà e dopo vari tentativi (le vene della signora non sembrano essere così “facili” da reperire e le sue braccia sono martoriate da mesi di punture), riesco a posizionare un’ago-cannula21 nei pressi del polso sinistro della paziente e la connetto infine a una flebo. Si sono fatte già le 20, sarebbe ora per me di andare via; il mio turno di lavoro, infatti, per oggi dovrebbe terminare qui. Ma aspetto ancora un po’, voglio capire se e come si risolverà l’intoppo. Chiamo la mia coordinatrice e lei mi chiede se posso trattenermi ancora qualche ora, visto il problema verificatosi. Le domando: «Cioè? E il collega che dovrebbe darmi il cambio? Ha avuto qualche problema?» Lei mi spiega: «Alessio, nessuno ti darà il cambio. La signora Maria Rosa ha diritto ad assistenza infermieristica 12 ore al giorno, con l’aggiunta di sole due notti a settimana, in cui verranno ad assisterla degli operatori socio-sanitari. Ma per stanotte non è in programma l’assistenza ed è impossibile trovare personale disponibile a quest’ora.» Rimango basito. Mi allontano dalla stanza per evitare di essere ascoltato dai padroni di casa e rispondo a Orietta: «Cioè? Per cinque notti a settimana la signora Rosa e il marito saranno sempre da soli? Senza un sanitario in casa ad aiutarli?» «Esatto. Lo so, può sembrare una cosa strana, ma è così.» 21
Un piccolo catetere che viene inserito all’interno di una vena e viene lasciato in sede per somministrare terapie e/o infondere soluzioni.
38 «Strana? Scusami se insisto, ma come può una paziente in queste condizioni fare affidamento, di notte, sul marito ultrasettantenne e basta?! Questo signore ama la moglie, si vede, ma non può gestirla da solo. Non sa proprio dove mettere le mani, poverino. Le cose da fare qui sono tante e non sono neanche così semplici: aspirazioni tracheobronchiali, ventilazioni di soccorso, ossigenoterapia in emergenza, monitoraggio delle funzioni vitali e del corretto funzionamento dei macchinari, somministrazione della terapia farmacologica, cure igieniche, mobilizzazione, eccetera. Come può un signore di 72 anni che ha fatto per una vita intera il sarto stare attento a tutte queste cose e saperle fare? E in caso di emergenza? A parte chiamare il 118 cosa può fare lui?» «Ciò che affermi è giusto, Alessio. Sacrosanto. Ma le chiacchiere stanno a zero, sembra proprio che non ci siano risorse economiche per attivare, ai pazienti come Maria Rosa, un’assistenza continua per 24 ore. Almeno al momento. Lo so, forse è assurdo. Ma tant’è. E non dipende da noi.» Dopo qualche secondo di riflessivo silenzio, le confermo: «Ok, mi trattengo ancora per qualche ora. Ci sentiamo dopo.» Tutto è quindi da ricondurre a una questione economica: non ci sono i soldi. Con tutti gli sprechi e le ruberie che ci sono e che ogni giorno ci vengono sbattute in faccia in TV, mancano i soldi per garantire a un grave malato di SLA, tracheostomizzato e in ventilazione meccanica continua, un’assistenza sanitaria per 24 ore. Lo so che vivo in Italia e che forse la cosa non dovrebbe neanche stupirmi più di tanto, ma la questione mi stravolge. Che senso ha avere un’assistenza continua di giorno da parte di professionisti, ma di notte niente? Una persona “può” quindi sentirsi male e sperare di essere aiutata soltanto di giorno? Per quanto mi sforzi di capire, la cosa mi sembra veramente senza senso. Rimango con la signora Rosa, con Renato e con l’équipe d’ambulanza altre due ore. Alle 22:10, infatti, la coordinatrice mi comunica telefonicamente che posso andare via senza problemi: mi spiega che si sta organizzando per risolvere il problema con un altro operatore e che nel frattempo rimarrà a domicilio l’équipe di ambulanza. Io, molto più tranquillo, compilo così la consegna infermieristica, mi copio il foglio
39 della terapia della signora per studiarmela a dovere, firmo l’orario di lavoro e vado a cambiarmi. Tornato in stanza in tenuta borghese, mi avvicino al letto e saluto la mia assistita: «Buonanotte, signora. È stato veramente un piacere conoscerla. Ci vedremo presto. Grazie per la pazienza!» Lei mi sorride, spalancando gli occhi e fissandomi con le sue pupille vispe; e per me questo è stato come un chiaro “grazie”. Ha un sorriso da bimba dispettosa, nonostante la malattia le impedisca di esprimerlo al meglio: i suoi muscoli del viso infatti sono poco mobili, e ciò fa sì che anche quelli deputati al sorriso svolgano la loro funzione in modo molto limitato. Ne esce un’espressione che più che altro è un tentativo di sorriso, che a tratti pare quasi sofferente. Però ha una caratteristica che lo rende comunque vivo, sbarazzino e impertinente: un incisivo imperfetto, per intenderci alla Laetitia Casta, che si fa largo tra le labbra a ogni smorfia. Mi congedo anche dall’équipe d’ambulanza e mi dirigo poi verso la porta, accompagnato da Renato. Lui è molto agitato, ansioso e comprensibilmente preoccupato. Teme per la salute della moglie, ha paura che forse riportarla a casa non sia stata una buona idea; me lo dice chiaramente, però allo stesso tempo teme per un suo ritorno in ospedale, cosa che la signora Rosa proprio non vorrebbe. E in fondo, neanche lui. Ci salutiamo, mi stringe la mano e mi dice: «Grazie di tutto, Alessio, oggi me l’hai proprio rimessa a nuovo. Quando ci rivediamo?» «Rimessa a nuovo? Non dirmi così, altrimenti più che un infermiere mi fai sentire un carrozziere!» Ridiamo. Poi continuo: «Grazie a voi, Renato. Mi dispiace per questo problemuccio, ma non è niente di preoccupante. Stai sereno, vedrai che si risolverà presto: domattina verranno sicuramente a sostituire la sonda. Noi ci rivedremo dopodomani e staremo insieme 12 ore, per tutto il giorno. Avremo così modo di conoscerci tutti un po’ meglio. Buonanotte, ciao.»
40 Mi segue con gli occhi, intanto che scendo le scale. Io a metĂ rampa gli rinnovo il mio saluto; poi dirigo il mio sguardo in avanti e accelero la discesa, mentre sento la porta chiudersi alle mie spalle. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD