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GIANLUCA INFANTINO
CINQUE CUORI UN SOLO BATTITO
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CINQUE CUORI UN SOLO BATTITO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2012 Gianluca Infantino ISBN: 978-88-6307-408-6 In copertina: Immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
Dedico questo mio romanzo a Cristina che lo ha letto prima di chiunque altro, alla mia adorata famiglia e a Simone, fratello prima ancora che amico. Per tutti voi solo poche, semplici parole: grazie, perchĂŠ rendete importante e meraviglioso ogni singolo istante della mia vita.
PROLOGO
Quanti ricordi legati ai nostri mitici sabato sera… alla fine non si arrivava a nulla. Due ore di discussione e di proposte avanzate per poi ritornare al punto di partenza. Ed era già tanto che lo ricordassimo, quel dannato punto di partenza. Ci capitava di iniziare a parlare in un crescendo di sciocchezze e d’insulsi ragionamenti per poi disperderci in uno di quei tanti deliri senza fine che tanto sembravano tormentare le menti di noi poveri ragazzi. Eravamo in cinque e, anche se è stato un periodo indimenticabile, faccio fatica a inserirlo in una situazione temporale non dico precisa ma perlomeno reale. È come se tutto si fosse svolto in una dimensione parallela in bilico fra la realtà e il sogno, dove anche le cose più semplici assumono dei contorni strani e indefiniti. Forse sarà perché dopo più di dieci anni i ricordi sono per forza di cose meno nitidi. A dir la verità avrei dovuto iniziare a scrivere già da molto tempo, ma non è stato facile trovare il momento opportuno per farlo. Il lavoro, la vita di tutti i giorni, lo stress da troppi impegni e soprattutto la mancanza di coraggio mi hanno sempre fatto rimandare l’inizio di questa avventura. Non trovo altro modo per definirla anche perché non sarà per niente facile fare un po’ d’ordine nei miei pensieri. Gli altri non sanno nulla. Li avvertirò a cose fatte. Quando e se riuscirò a completare tutto, sarà stupendo rileggere tutti insieme la parte più bella, intensa e sconvolgente della nostra vita. Mi sento come se fossi in un cinema. Il nostro film è terminato e stanno per riaccendere le luci, mentre si comincia a sentire un brusio di sottofondo. Le persone in attesa di uscire si scambiano commenti e pensano già a cosa fare una volta fuori dalla sala. C’è chi andrà a dormire e chi, di sicuro i più giovani, prospetta già di terminare la serata in una birreria a scambiare quattro chiacchiere. Per me è diverso. Non posso uscire anche io e far finta di nulla. Che diamine! Sono uno dei principali protagonisti e lasciarmi alle spalle quanto appena visto non è possibile. Voglio fermare tutto adesso che mi sento capace di farlo e così, con il cuore che batteva all’impazzata, circa un quarto d’ora fa ho acceso il
mio portatile. Il file sul quale salverò tutto quanto leggerete nelle pagine seguenti, andrà a occupare il posto più importante nell’hard disk della mia vita, e se riuscirò a scrivere la parola fine sarà il coronamento di un sogno. Ho preso le ferie, ma non ho voglia di muovermi da casa e poi dove dovrei andare? Mi sposterò con la mente e non ti preoccupare, sarò in grado di destreggiarmi con sufficiente disinvoltura. La strada l’ho già percorsa, ora si tratta di intraprenderla a ritroso con te che saprai aiutarmi ogniqualvolta dovessi perdermi a un bivio che non ricordo. Non mi manderai allo sbaraglio è vero? Te la farei pagare e spero tu non abbia voglia di vedermi arrabbiato… I sogni, le speranze, le delusioni, le gioie e i tormenti di cinque ragazzi rivivranno fra poco tra queste pagine. Non penso d’amare più di tanto le rimpatriate, ma questa te la devo, la dedico a te: tassello importantissimo e irremovibile del puzzle della mia esistenza. Non lascerò cadere tutto nell’oblio, anche se sarebbe la cosa più facile da fare. Se fossi egoista e cinico depennerei il verbo ricordare dal mio vocabolario personale, ma per fortuna Dio mi ha donato un cuore. Qualcuno usa il proprio solo come un muscolo che permette al sangue di circolare per tutto il corpo risparmiandosi in questo modo tanti problemi. Oltre a questi ultimi però, c’è il rischio di lasciare per strada anche tanti momenti meravigliosi. Noi invece il nostro cuore l’abbiamo proprio stressato a dovere eh? Non ci siamo fatti mai mancare nulla nel bene e nel male. Il nostro passato è ricco d’amore, sorrisi, pianti, colpi di scena, buffonate, incazzature e via discorrendo. Tra le altre cose ad esempio sono orgoglioso, e so che lo sei anche tu, d’aver pianto per amore o d’aver riso tante volte fino a perdere il fiato. Emozioni diversissime l’una dall’altra ma, appunto, emozioni. È giunta proprio l’ora di cominciare… cosa dici? Nessuno mi obbliga ad andare avanti? Dai non rompere le palle! Farà piacere un po’ a tutti noi e questa volta non ci sarà bisogno di tirare a sorte. Sono io a offrirmi volontario, lasciami fare! Partiamo…
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«Insomma neanche stavolta abbiamo la più pallida idea di come passare il sabato» disse Mirko ponendo fine a un discorso in fondo mai nato. «Andiamo a giocare a biliardo al bar di Gigi, vi va?» «Basta Fabio! Il biliardo è diventato il peggiore incubo della mia vita. Giusto ieri mia madre mi ha minacciato per l’ennesima volta di pulire la mia camera all’istante e io sai cosa ho fatto?» «Conoscendo quanto sei disordinato, di sicuro hai chiesto pietà piangendo e singhiozzando» intervenne Franco con il vocione un po’ troppo impostato per i suoi diciotto anni ancora da compiere. «Imbecille!» rispose Alex «a quel punto ho impugnato la scopa come fosse una stecca, e ho cominciato a cercare la migliore posizione per mettere dentro quella maledetta otto e non pagarvi da bere.» Nonostante l’apparente sdegno che traspariva dalle parole di Alex, le frequenti capatine al suddetto bar non rappresentavano sempre l’ultima spiaggia dei nostri sabato sera o, perlomeno, non venivano ogni volta interpretate come una soluzione noiosa e di ripiego al non aver nulla da fare nella cittadina nella quale abitavamo. Attorno a quel tavolo di biliardo abbiamo passato, infatti, dei momenti indimenticabili grazie anche alla divertente ironia del padrone di casa. Gigi era un uomo sulla quarantina con una capigliatura molto rada, statura un tantino al di sotto della media e un’enorme carica di simpatia che sapeva conquistarti all’istante. Chiedere una sua opinione riguardo a un’azione calcistica piuttosto che a una vicenda politica del nostro paese, significava sbellicarsi dalle risate nel momento stesso in cui avesse aperto bocca per rispondere. Non si era mai sposato. Lui sosteneva di essere all’eterna ricerca della sua anima gemella. Magari non possedeva la stoffa del marito irreprensibile, di sicuro però sarebbe stato un ottimo padre visto lo splendido rapporto instaurato con i due figli del suo unico fratello. A mio avviso non si sforzava più di tanto nel calarsi nel loro mondo infantile, forse perché sotto sotto anche lui ne faceva ancora in qualche modo parte. Comunque, nel film della nostra vita, non fu soltanto una semplice comparsa.
8 Successe mentre ridevamo di gusto sulle disavventure familiari di Alex. Sì è vero, proprio in quel momento ebbi la folgorazione che cambiò la vita a un gruppo di ragazzi in odor di patente automobilistica. «Andiamo a Roma!» proruppi con una punta d’orgoglio per la bella pensata. «Sì Matteo, trecento chilometri ad andare e trecento a tornare. Puoi prendere il tuo elicottero, che il mio deve passare la revisione e ho paura che mi fermi una pattuglia di polizia aerea?» «Non scherzo per niente Alex! È ora di finirla con questa mentalità provinciale che sta rovinando gli anni più belli della nostra vita.» «Ah sentiamo…» mi apostrofò Alex «e tu vorresti “uscire” da questa mentalità provinciale con uno sputo di miscela nei motorini e cinquemila lire nei portafogli?» «No. In verità pensavo di farlo con un diploma in tasca e un po’ di soldi messi da parte con qualche lavoretto part-time.» Ebbi il tempo di iniziare a dar forma al mio progetto di andare a Roma, non come turisti ma come veri e propri abitanti, prima che qualcuno afferrasse in pieno quanto avevo appena finito di dire. Fu Franco il più lesto a dar seguito alle mie parole. «Tutto sommato potrebbe essere una cosa fattibile… sarebbe un sogno…» «Sveglia sognatori!» disse un Alex ancora con la testa confusa «volete rendere partecipe il resto del mondo dei vostri discorsi senza senso?» «A parte il tuo cervello non vedo niente senza alcun senso qui intorno» rispose sorridendo Franco «penso che Matteo stesse parlando di andare a stare a Roma dopo aver preso il diploma o qualcosa del genere.» Ci furono solo pochi istanti di silenzio. Un tempo sufficiente tuttavia a far correre velocemente i miei pensieri. Quando riprendemmo a parlare, infatti, mi sembrò d’essere stato interrotto proprio mentre stavamo prendendo possesso della nostra nuova abitazione cittadina. «Sul serio era questa la tua idea?» mi chiese conferma Alex. «Ma sì, dai!» risposi «non mi è venuto in mente nulla per come passare il sabato sera, ma penso che come proposta non è poi malaccio. È da qualche mese che ci rifletto, e poi a Roma avremmo solo l’imbarazzo della scelta per la facoltà alla quale iscriverci.» «Ma fatela finita!» tagliò corto Fabio «siete proprio bravi a lavorare di fantasia! Parlate come se Roma fosse qui dietro all’angolo e andarci a frequentare l’università poco più di un gioco…» Come volevasi dimostrare. Conoscendo questo ragazzo mi aspettavo una risposta del genere, ma non immaginavo certo che ci avrebbe
9 messo tutta questa carica nell’esprimere il suo parere negativo. Fabio era la classica persona che non desiderava abbandonare le sue poche certezze per tentare di migliorarsi o di inseguire un sogno. Era un ragazzo adorabile e un amico sincero, tutti noi però gli facevamo notare spesso il fatto che fosse un po’ troppo inquadrato e intransigente. I suoi capelli biondi tagliati sempre cortissimi e il fisico asciutto e atletico grazie a ore e ore passate in palestra, rispecchiavano in parte questi lati del suo carattere. Ormai aspettava soltanto il diploma, l’iscrizione a Ingegneria l’aveva già programmata da tempo, dopodiché con una laurea in tasca avrebbe cercato un lavoro tranquillo e magari ben pagato. Tutto era già scritto, definito. Certo, non c’era nulla di male o di strano nei suoi progetti, ma se uno non ha la forza o la voglia di fantasticare a diciotto anni quando lo potrà fare? Io non avevo ben chiaro cosa volessi dal mio futuro, però desideravo con tutte le forze di non uniformarmi a migliaia di altre persone. Persone che si svegliavano incazzate per l’inizio di un’altra giornata di lavoro e tornavano la sera ancora più incazzate perché stanche e depresse. Stanche di una vita sempre uguale a se stessa. Una vita che non erano riuscite a indirizzare per il verso giusto quando era il momento di farlo. Ecco, a me sarebbe piaciuto svegliarmi sempre con un sorriso. Un sorriso di gioia per la vita passata e uno di contentezza per quella ancora di là da venire. Sognavo un lavoro che mi potesse far vivere così. Comunque, come quasi tutti quelli che all’apparenza sembrano troppo tranquilli, quando Fabio decideva di fare uno “strappo alla regola” diventava incontenibile. Ad esempio, dopo una settimana che passava chiuso dentro casa a studiare per una serie di interrogazioni, spesso nel week end prendeva lui in mano la situazione e allora c’era da divertirsi. Fino a pochi mesi prima nessuno di noi aveva la patente, e così lui chiedeva a tutti i ragazzi maggiorenni del bar di Gigi se avevano qualche posto in macchina per andare a ballare e sempre, magari facendosi mandare a quel paese o insultare, riusciva a trovare un passaggio per tutti noi. Era buffo vederlo ricattare un suo cugino diciannovenne al quale dava una mano in matematica. «Allora Stefano» esordiva «sei stato già bocciato due volte e zio Giuseppe si sta muovendo per trovarti un buon posto di lavoro estivo come raccoglitore di pomodori. Se vuoi evitare questa tragedia ti devi affidare a me, sai di non avere alternative…»
10 A questo punto il cugino alzava bandiera bianca e chiamava a raccolta qualche suo amico. «Scusate ragazzi. Mi serve una mano» cominciava sospirando «se volete che venga anch’io questa estate a Ibiza, devo fare qualche favore a questo rompicoglioni di mio cugino. Riusciamo a rimediare cinque posti in macchina per stasera?» A questo punto Fabio ci sorrideva soddisfatto e noi lo ringraziavamo per la sua bravura nel ricattare il prossimo. Poi c’era Alex… allegro, spensierato e “corroso” dalla voglia di vivere, Alex era quello meno abile a programmare l’ormai mitica uscita del sabato sera, figuriamoci se aveva tempo e voglia di programmare il futuro. Era quello tra noi più abituato a vivere alla giornata e i diciotto anni rappresentavano per lui, più che per tutti noi messi insieme, l’occasione per fare un miliardo di cose di cui un giorno forse si sarebbe pentito, ma che sul momento lo rendevano felice. Non si fermava certo a calcolare le conseguenze di un suo atteggiamento e d’altro canto se era perennemente rimandato in matematica una ragione doveva pur esserci. Non amava essere imbrigliato in tutto quanto odorava di logica e metodicità e, in un’improbabile carriera da calciatore, avrebbe di certo occupato il ruolo di fantasista alla Roberto Baggio. Sfiorava il metro e ottanta d’altezza ed era rarissimo vedere i suoi capelli castani, lunghi fino alle spalle, senza un cappellino con visiera o uno zuccotto che li ricoprissero. Non si poteva definire un fotomodello, tuttavia piaceva molto alle sue coetanee grazie anche al suo carattere solare e imprevedibile. Con una famiglia simpaticissima alle spalle, Alex si apprestava a sostenere la maturità classica con poche speranze di ottenerla con un voto molto al di sopra dei 36/60. Per quanto riguarda Mirko, tutto quanto in lui si poneva a metà strada fra i due ritratti di persona da me appena tracciati. Portava i capelli quasi sempre a zero e i lineamenti marcati del suo viso non impedivano a nessuno di notare i suoi splendidi occhi verdi. Riflessivo ma non troppo, abbastanza intelligente da garantirsi un rendimento scolastico accettabile senza eccessivo sforzo, Mirko era fra noi uno dei più eccitati quando si prospettava di trascorrere una di quelle serate che chiamavamo sballate. La serata sballata era pronta a esplodere come una bomba a orologeria, quando qualcuno di noi era troppo giù per i problemi più svariati, e quindi più soggetto a entrare in paranoia. L’idea per queste serate, diciamo un po’ alternative, la prendemmo in prestito da una scena del film “I laureati” con Leonardo Pieraccioni. È la parte in cui
11 quest’ultimo si alza e comincia a ballare da solo in mezzo ai tavoli di una pizzeria per evitare ai suoi amici e a sé stesso di intristirsi troppo. Degna di entrare nella storia fu la serata sballata che Alex e Franco organizzarono a mia insaputa, quando mi ero lasciato con Alessia. Avevo compiuto da poco diciassette anni e quella fu la prima, vera delusione amorosa della mia vita. Ne combinammo davvero di tutti i colori e ancora oggi, nonostante siano passati un’infinità di anni, ricordo quella serata con immenso piacere. Calcolando che l’avrei dovuta passare a piangere per la fine di un amore, mi sembra un risultato sconvolgente o no…? …prima di ripiegare su qualcosa di più “tranquillo”, i miei amici mi proposero perfino di salire su un treno a caso per allontanarmi il più possibile dai luoghi che mi potessero ricordare Alessia. «Scusate, ma andiamo a ballare a Perugia no?» propose Alex come se fosse la cosa più naturale del mondo. «E come no?» rispose Mirko «e quando domani mattina torniamo a casa e troviamo la serratura cambiata andiamo a dormire sotto il ponte dell’autostrada. Lo vedi che sei deficiente? Per salvare Matteo ci facciamo inculare tutti quanti!» «E che sarà mai! Mica andiamo ad ammazzare qualcuno! Ci prenderemo un po’ di urlacci e tutto finirà là!» «Altro che urlacci!» intervenne Fabio «se non torno a casa per le due il morto ammazzato sarò io!». «Purtroppo anche per me vale la stessa cosa» dissi con voce rassegnata «dai ragazzi, prendiamoci un’altra birretta da Gigi e andiamo a nanna. Ho un mal di testa da competizione e soprattutto nessuna voglia di far danni.» «Vorrà dire che i danni li farò io!» annunciò Alex, fiero di questa sua affermazione «è giunta l’ora di prendersi qualche bella rivincita!» «Vuoi andare ad ammazzare di botte Alessia?» domandò Franco «io non te lo consiglio. Il fratello è un animale di un metro e novanta che spezza le ossa con lo sguardo!» «Non ci ho pensato nemmeno per un istante. Conosco anche io l’animale e se davvero fosse stata questa la mia idea, sarebbe stato Matteo a sacrificare la sua giovane vita per tentare l’impresa» rispose sorridendo «io stavo semplicemente pensando di dar fastidio a un altro genere d’animali che popolano la nostra cittadina…» «Se hai in mente di andare a tirare i sassi ai gattini, toglitelo dalla testa!»
12 «Ma quale gattini rincoglionito! Ho tanta voglia di rompere i coglioni a Gianfranco oppure a quell’antipatica della signora Cantucci! Facciamo il pieno di birre e andiamo alla cabina telefonica di fronte alla scuola elementare.» La signora Cantucci era nostra nemica giurata fin dalla notte dei tempi. Aveva cominciato dandoci fastidio quando giocavamo a nascondino da piccoli vicino a casa sua, e aveva proseguito nel corso degli anni mettendoci alle costole un suo cognato vigile urbano. A suo modo di vedere i nostri motorini facevano troppo rumore e dietro alle nostre risate, pensava si nascondesse sempre qualcosa di losco. In poche parole, ci considerava una banda di delinquenti. Aveva un figlio diciannovenne, da poco entrato nella Marina Militare, e non perdeva occasione di vantarsi di quanto fosse speciale e soprattutto diverso dalla “marmaglia di giovinastri” (così amava definirci) che affollavano la piazzetta a qualsiasi ora del giorno e della notte. «Mio figlio Marco non frequenta gente del posto» amava ripetere altezzosa «ha pochi amici ma ben selezionati.» Il Marco in questione era un sallucchione di quasi due metri, brutto come la fame e secco come un chiodo. Nonostante questo suo aspetto non proprio da fotomodello, si sentiva anche lui in diritto di mostrarsi superiore e a volte perfino schifato da noi ragazzi del posto. «Ragazzi qua ci vuole una super idea…» continuava a ripeterci Alex «dovrà essere lo scherzo telefonico più riuscito di tutti i tempi!» «Più che una super idea» commentai «basterebbe trovare il modo per non farci attaccare il telefono in faccia dopo due secondi netti.» «Fatemi pensare…» disse Alex «ci sono! Eccola la super idea! Ragazzi datemi il tempo di entrare nella parte dopodiché sarò pronto a comporre il numero di telefono. Mi raccomando però! Se dovete ridere uscite dalla cabina o mi rovinate tutto!» «Ok allora!» intervenne Mirko «io faccio un salto a casa a prendere il registratore portatile.» Quel pazzo esaurito di Alex non aveva avuto una super idea ma un’idea semplicemente geniale! Aveva chiamato la Cantucci spacciandosi per il comandante della caserma dove prestava servizio militare suo figlio, e ancora oggi non riesco a spiegarmi come abbia potuto portare a termine lo scherzo senza ridere nemmeno per un istante! Aveva cominciato la telefonata prendendola alla larga e domandando alla madre se Marco avesse avuto qualche problema a socializzare nella sua infanzia, o se passasse molto tempo in silenzio estraniandosi dal resto del mondo. Dopo questo sondare il terreno era andato dritto al
13 motivo della telefonata: durante un’ispezione notturna delle camerate, nell’armadietto di Marco nascosta in una sorta di doppio fondo all’interno di un borsone, era stata rinvenuta una tuta aderente nera in lattice più alcuni frustini e maschere di seta. A questo punto della telefonata noi tutti eravamo già schizzati fuori dalla cabina con le lacrime agli occhi e tappandoci la bocca per non far sentire le risate. La restante parte dello scherzo la sentimmo tramite la registrazione e fu anche più bello perché potemmo apprezzare le reazioni della Cantucci a metà tra il sorpreso e lo scandalizzato. Alla fine il famigerato Comandante Sperelli aveva vuotato completamente il sacco. Era saltato fuori che il prode Marco aveva confessato d’essere solito partecipare a festini sadomaso già da un paio d’anni ma, e questa era la parte più comica e sconvolgente, aveva anche aggiunto che questa sua perversione era venuta fuori osservando di nascosto i propri genitori! A questo punto la signora Cantucci aveva iniziato a balbettare per la vergogna, negando con tutte le proprie forze d’aver mai soltanto pensato simili schifezze! Nonostante Alex avesse recitato la parte in una maniera a dir poco sublime, una persona dotata di intelletto nella media si sarebbe perlomeno domandata se potesse trattarsi di uno scherzo, ma la nostra vittima ci cascò con tutte le scarpe. Alex concluse la telefonata con un perentorio “Forse dovremo rivedere la posizione di suo figlio all’interno della Marina Militare” e, soprattutto, senza lasciare il tempo di replica da parte dell’altra persona. Il nostro amico non era la classica cima in Italiano, e infatti ci confidò quasi subito che quest’ultima frase l’aveva presa in prestito da uno dei tanti film di guerra che aveva visto nel corso degli anni. Purtroppo non sapemmo mai come andò a finire quella storia così, uno dei rimpianti della mia vita, è stato quello di non aver potuto ascoltare l’inevitabile e successiva telefonata della Cantucci che chiedeva spiegazioni a suo figlio! Comunque l’obiettivo era stato raggiunto alla grande. Quel pazzo esaurito di Alex era riuscito a tirarmi su di morale e non di poco. E non era finita. Il tempo di riprendersi e la serata continuò a sfrecciare come una Lamborghini in una corsia deserta di un’autostrada. Tra le altre cose ci sostituimmo con tanto di fischietto ai vigili urbani per sbrogliare un ingorgo all’uscita di un teatro (guadagnandoci pure qualche soldarello di mancia) e ci scattammo alcune foto, non proprio da poter mostrare ai bambini, con una riproduzione in cartone a grandezza naturale di una nota attrice in
14 bikini posta di fianco a un’edicola. E alla fine? Quei quattro scapestrati erano riusciti a non farmi pensare ad Alessia e sì, era anche merito di Fabio, quella sera più scatenato del solito… Come avrete capito, le serate sballate servivano per sminuire la gravità dei nostri problemi adolescenziali o perlomeno per alleviare quelli che si potevano risolvere con una risata generale. Erano un po’ il nostro ricordarci d’essere ragazzi, quando a volte sembrava che ce lo dimenticassimo. I problemi vanno rapportati all’età di chi si trova alle prese con loro, perciò anche un semplice brutto voto a scuola poteva essere vissuto come una tragedia. Di certo questo non era il nostro caso… a parte Fabio tutti noi, chi più chi meno, ridevamo di gusto sopra le nostre traversie scolastiche e, a memoria d’uomo, non ricordo una serata sballata messa su a causa di un tre in Biologia. E dire che di tre in questa materia c’era chi ne possedeva un’intera collezione, vero Franco? Già, Franco… dimostrava almeno cinque anni in più dei diciassette che ancora denunciava la sua carta d’identità. Barbuto fin dall’età di quindici anni, era stato il primo di noi a fumare sul serio una sigaretta senza tossire e più che il piccolo della compagnia sembrava un fratello maggiore. Bastava poco per fargli perdere la pazienza e innervosirlo, e questo era il suo difetto più grande. Alex giocava molto su questo aspetto e spesso si divertiva a farlo incavolare solo per gioco. In ogni caso era un ragazzo dal cuore d’oro, pronto a farsi in quattro se qualcuno di noi gli chiedeva un piacere. Ah, io mi chiamo Matteo. Quinto membro di quella combriccola di quasi diplomati. A quel tempo studiavo per conseguire la maturità scientifica così come Franco che era anche mio compagno di classe. Se mi è permesso tracciare da solo il mio profilo personale, ero senza dubbio un tipo introverso e sognatore. La capigliatura folta e disordinata di quel periodo rispecchiava appieno i miei sentimenti e le mie aspettative. Tra uscite, compiti in classe, interrogazioni e vicissitudini varie, in quei mesi trovai anche il tempo di dare una sistemata ai miei capelli senza per questo riuscire a fare un po’ d’ordine in ciò che si trovava al di sotto degli stessi. Così, in un caos mentale molto al di sopra dei livelli di guardia, i mesi mancanti ai fatidici esami di maturità cominciarono a volare così velocemente che, a confronto, gli ultimi dieci minuti di una partita di calcio nella quale la tua squadra deve recuperare un gol, ti sembrano eterni.
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L’appuntamento era alla nove e mezza di fronte al bar di Gigi. Ognuno avrebbe vissuto da solo il momento tanto atteso e poi ci saremmo incontrati lì per… festeggiare? Penso di sì. Qualsiasi sarebbe stato il risultato. Era una splendida giornata di metà luglio e come noi molte altre migliaia di ragazzi avevano un qualcosa che si agitava dentro, mentre si apprestavano a chiudersi alle spalle la porta della prima fase della vita. Era una sensazione in parte diversa da quella provata l’ultimo giorno di scuola. Per quanto ti sforzi di pensare che sia quella la vera conclusione delle tue esperienze scolastiche, ci sono sempre gli esami all’orizzonte a tenere vivo lo studente che è in te. Così, quando abbandoni la tua classe ben sapendo che non ci tornerai più, almeno nelle vesti di alunno, non riesci a comprendere bene quanto stia succedendo. O almeno io ho provato questo tipo di sentimento a metà tra lo stupore e l’incredulità. Nient’altro. Il vero e proprio distacco da quell’ambiente nel quale avevo vissuto per tredici anni, avvenne una mattina di ottobre dell’anno scolastico successivo ai miei esami di maturità; fu il giorno che ritirai il mio diploma. Niente romanticismi legati a quel pezzo di carta in sé abbastanza inutile, piuttosto rottura di quel sottile filo che ancora mi legava a quel tipo di edificio. A causa dei festeggiamenti dell’ultimo giorno scolastico, non ero riuscito a completare il mio personalissimo regalo d’addio e ora ero tornato anche per questo motivo. Non che fosse nulla di particolarmente meraviglioso, ma sentivo che se non l’avessi portato a termine un giorno me ne sarei pentito. Fu così che in mezzo a tanti disegni più o meno belli, ora c’era anche il mio su un muro del bagno del quarto piano del liceo scientifico Marco Polo. Il mio artistico commiato consisteva in un uomo con un impermeabile nero che si allontanava di spalle con all’orizzonte uno scorcio marino e un sole che tramontava o sorgeva, a seconda dell’interpretazione che si voleva dare a quei quattro colori confusi. Sotto, quale firma dell’artista, figurava la scritta ”Matteo was here a.s. 1996/1997”. Ancora oggi, nonostante siano passati degli anni, ripenso sempre a quel disegno senza riuscire a
16 capire se quel giorno l’uomo misterioso stesse andando incontro al sorgere del sole oppure al calar della notte. Non ho assolutamente voglia di avventurarmi in una sorta di labirinto del quale non intravedo io stesso l’uscita perciò state tranquilli e continuate la vostra lettura senza problemi. La mia intenzione non è certo quella di annoiarvi a morte con uno sproloquio assurdo sul destino ultimo della carriera di uno studente, bensì quella di dividere con voi qualche sensazione provata e vissuta dietro a un banco scolastico. Ripercorrere una fase della mia vita alla ricerca di tutte quelle esperienze, alternative o comunque ai margini dei libri, che ogni scolaro degno di chiamarsi tale ha vissuto almeno qualche volta. La scuola, sia essa elementare, media o superiore, ha un filo immaginario che lega i tredici anni di un normale corso di studi. Cambiano i programmi, cambiano i compagni, cambiamo noi stessi con il passaggio da un’età all’altra, ma c’è sempre un qualcosa che accomuna un bimbo di sei anni a un ragazzo di diciotto: la spensieratezza. Nei quattro muri dell’aula si instaura un universo particolare in cui il passare degli anni e la maturazione di un individuo sembrano assumere un significato del tutto relativo. Così, in prima elementare come in quinto superiore, ci si ritrova a tirarsi le palline di carta. Breve precisazione: dicesi (Fantozzi forever!) “pallina di carta” qualsiasi oggetto contundente possa procurare un qualche fastidio al compagno di classe. Solo che, parallelamente alla crescita in centimetri, aumenta anche la forza muscolare di un individuo quindi se un bambino di sei anni lancerà proprio un pezzo di carta, con l’avanzare delle classi cominceranno a volare sedie e zaini strapieni di libri e dal peso assai elevato. Non potrò mai dimenticare quando, in quarta superiore, la professoressa di artistica entrò in classe annunciandoci che avremmo visitato una zona di alto interesse archeologico. Sguardi d’intesa fra noi maschi; ci saremmo divertiti. Provate a immaginarvi la scena: un viale sterrato abbastanza lungo con a lato, sotto forma di statue e di colonne spezzate, le testimonianze di un antico passato e di una civiltà guerriera. Le prime figure umane che si potevano scorgere quel giorno in questo paesaggio erano costituite dalla professoressa attorniata da un gruppo di ragazze attente alla spiegazione artistica del luogo. Dopo il loro passaggio, un minuto abbondante di silenzio assoluto su quel terreno che nel frattempo si stavano lasciando alle spalle. Quando già i contorni di quel gruppo cominciavano a farsi meno chiari, una persona dall’aria furtiva sbucava all’improvviso da dietro a una colonna e di colpo
17 intraprendeva una corsa fulminea coprendosi la testa con il giubbotto. Qualche sporadica pigna o innocuo sassetto lo coglievano di tanto in tanto sulle gambe o sulla schiena. Del luogo del lancio e soprattutto del lanciatore nessuna notizia. Di lì a poco si sarebbe scatenato il finimondo. Divisi in due squadre, io e i miei compagni avevamo deciso di darci battaglia in quell’atmosfera surreale con tanto di strategie di attacco e gradi di anzianità studiati a tavolino. Una pioggia d’oggetti sempre più fitta sibilava nel cielo, prima di cadere su qualche bersaglio umano e non. Sarà per le urla agghiaccianti o per il gran rumore prodotto, fatto sta che fummo scoperti. Franco, il nostro avvocato difensore, dovette ritirarsi con la coda fra le gambe di fronte alla granitica stabilità dell’accusa. Avevamo costruito la nostra fragile tesi difensiva sul desiderio di rivivere le affascinanti battaglie storiche apprese sui libri scolastici. Sono sempre più convinto che quel giorno evitammo l’espulsione solo per un qualche intervento divino. Questo, e mille altri episodi divertentissimi, facevano ormai parte del mio “bagaglio culturale” mentre camminavo in direzione del mio liceo. Ultima barriera fra me e il mondo universitario, solo i quadri con le votazioni finali mi separavano da un nuovo corso di studi molto diverso da quello appena portato a termine. Avevo un nodo alla gola quando, dopo essermi fatto strada tra una moltitudine di ragazzi accalcati, riuscii a scorgere il foglio con le votazioni della mia classe. Gli occhi puntarono dritti sul mio nome: 49/60. Era finita… cinque anni della mia vita riassunti in quei pochi numeri. Mi aspettavo qualche voto in più, ma non era questo il punto. Era ormai convinto da tanto tempo del fatto che a scuola andassero avanti soltanto gli idioti. Come a dire: “Lasciate l’intelligenza o voi che entrate”. Ci pensò Franco a porre fine a questa mia invettiva contro il sistema scolastico italiano. «Quarantasei io, quarantanove tu, tutto sommato ci possiamo stare. O ti stai forse dimenticando di aver studiato una trentina d’ore in tutto in cinque anni?» «No, non è quello» mi affrettai a precisare «forse però trenta ore sono state troppe rispetto a quello che di veramente utile ho imparato in questi anni.» «Fregatene Matteo, andiamo che gli altri ci stanno aspettando.» E così dicendo mi invitò a seguirlo. Era venuto in motorino, così montai dietro e partimmo.
18 Arrivati al bar di Gigi, dei nostri amici c’era solo Alex che camminava avanti e indietro fumando una sigaretta. Quando ci vide cominciò a correre verso di noi urlando come un ossesso. «Quarantadue! Mi sono vergognato di me stesso!» «E hai fatto bene!» gli dissi sorridendo. «Ma vi rendete conto?» riprese tutto eccitato «io che aprivo i libri solo e soltanto per disegnarci le caricature dei miei professori, quarantadue!» «La commissione avrà apprezzato sicuramente queste ultime» scherzò Franco. «Sessanta, ragazzi.» Senza neanche voltarci capimmo subito che a parlare era stato Fabio. Chi, se non lui, poteva essere entrato nell’olimpo dei diplomati con il massimo dei voti? Nei dieci minuti successivi ci scambiammo complimenti e battute insieme a Mirko che era arrivato dandoci notizia del suo cinquanta. Dopo aver brindato con due aperitivi in cinque (di più i nostri portafogli dissanguati non poterono permettersi) Alex ci invitò a continuare i festeggiamenti a casa sua di fronte a un piattone di fantastici spaghetti alla carbonara di sua madre. Naturalmente non fu necessario che pronunciasse frasi del tipo “Non fate i complimenti” perché accettammo all’istante. Alla larga dai nostri pensieri rifiutare simili inviti, era altresì vero che le cose da festeggiare erano molteplici. Erano passati quattro mesi da quando avevo avanzato la proposta di andare a vivere a Roma. Dopo le prime comprensibili titubanze (più energiche quelle di Fabio) si era passati alla fase due. Convinti noi stessi della buona pensata, restavano da convincere i nostri genitori. Dagli irremovibili no dei primi approcci riuscimmo dapprima a farli ragionare poi, grazie all’irreprensibile comportamento che decidemmo di tenere nei loro confronti (il difficile fu convincere Alex a pulire ogni tanto quella cazzo di camera!) strappammo delle condizioni tutto sommato soddisfacenti. Ebbene sì, saremmo andati a vivere a Roma grazie all’aiuto economico delle rispettive famiglie che ci avrebbero pagato l’affitto di casa e fornito una piccola somma di denaro per le spese extra. Da parte nostra promettemmo di prendere molto sul serio l’università e nel frattempo, se possibile, avremmo anche cercato un lavoretto per non gravare troppo sulle risorse finanziarie dei nostri genitori. Ma non era quello il momento adatto per pensare a certe cose. Prima di tutto ci attendevano i manicaretti della mamma di Alex, e poi era appena iniziata l’estate del dopo diploma e noi tutti volevamo
19 prodigarci per renderla indimenticabile. Di lì a tre giorni saremmo partiti per una nota località balneare dove Fabio aveva la fortuna di possedere una villetta. Oltre a combinare un macello (come poi puntualmente successe) avremmo anche saggiato le nostre capacità di convivenza sotto lo stesso tetto prima di imbarcarci nella “grande avventura”. Gli spaghetti della signora Nadia erano degni di figurare in una galleria d’arte moderna quale inconfutabile prova delle capacità manuali dell’essere umano. Ogni ingrediente era una nota che combinata con le altre dava vita a una sinfonia culinaria dalla bellezza celestiale. Quando cessammo di ringraziarla per il sol fatto di esistere, la nostra cuoca preferita fece scivolare la discussione sul nostro futuro non disdegnando però di riportare alla luce qualche nostra marachella. Ci conosceva da parecchi anni e parlava di noi come fossimo tutti suoi figli. «Ma vi siete dimenticati di quella volta, quando ero a un passo dal chiamare la guardia forestale? Ancora mi dispero se penso a quel praticello inglese che avete avuto il coraggio di distruggere, brutti piromani!» «Certo mamma!» intervenne Alex «se non sbaglio abitavamo ancora in quel condominio con un po’ di giardino attorno.» «Sì» si affrettò a precisare la signora Nadia «ma non penso ti ricordi anche del fatto che gli altri inquilini avevano votato tutti a favore dello sfratto esecutivo immediato!» «Va bene signora» dissi sorridendo «ma se non ricordo male il terrorista ecologico era proprio suo figlio. Per il mio ottavo compleanno avevo ricevuto in regalo il manuale delle giovani marmotte. Lo mostrai a loro e tutti quanti fummo d’accordo sul fatto che il capitolo più interessante fosse quello dedicato alla sopravvivenza nei boschi. Con l’immaginazione tipica dei bambini anche un giardino può sembrare la foresta amazzonica, e così ci ritrovammo a tentare di accendere un fuoco con un bastoncino di legno e una pietra.» «Ci saremmo sicuramente stancati mollando tutto» proseguì Mirko «prima che ciò avvenisse però, Alex ebbe la magnifica idea di usare l’alcool etilico e i fiammiferi con risultati ovviamente disastrosi.» «Eh no!» protestò il presunto incendiario «io sono stato l’esecutore materiale, però vi siete dimenticati di dire che eravamo tutti d’accordo!»
20 La sua espressione del viso a metà fra il comico e l’arrabbiato ci fece ridere tutti quanti poi, bicchieri alla mano, brindammo nuovamente ai nostri diplomi. Pranzi come questo non facevano altro che cementare in maniera ulteriore la nostra amicizia rendendoci ancora più inseparabili. In tutte, ma proprio in tutte, le istantanee della mia vita che tenevo in fondo al cuore, erano presenti quei quattro scalmanati. Forse un giorno avremmo intrapreso strade diverse, ma fino ad allora avremmo fatto di tutto per restare uniti. Poi, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a immaginare il mio futuro senza di loro. Dai giocattoli ai primi amori, dalle gite in motorino alle prime serate in discoteca, tutto ciò che si prova dai sei ai diciotto anni l’avevamo vissuto uno vicino all’altro. «Sarete anche cresciuti» sospirò la signora Nadia «ma io resto dell’avviso che voi cinque sotto lo stesso tetto non siate affidabili. A parte gli scherzi ragazzi, noi genitori vi stiamo assecondando perché abbiamo fiducia nelle vostre capacità. Comunque vada a finire, siamo sicuri che questa esperienza vi farà cambiare. Starà a voi e al vostro buonsenso decidere di cambiare in meglio o in peggio. Avete la fortuna di possedere delle famiglie che vi adorano e che farebbero ogni cosa per il vostro bene. Forse sarà perché vi ho visti crescere, in ogni caso giorno dopo giorno ringrazio Dio che Alex abbia degli amici come voi.» «E noi ringraziamo sempre suo figlio di avere una mamma che cucina bene come lei» disse Mirko buttandola sullo scherzo. Avevamo deciso di mettere al bando i discorsi seri, ci sarebbe stato tanto tempo per farli. «Guardi signora che quando torneremo a casa per la fine delle lezioni, rischierà di vedersi spuntare Alex con un occhio nero!» puntualizzò Franco «so che lei passa spesso sopra al fatto che è disordinatissimo, ma a Roma dovrà rigar dritto o saranno schiaffi!» «Mi auguro che almeno tu riuscirai a raddrizzarlo!» «Non credo» intervenne il padre di Alex «se non siamo riusciti a far nulla noi da quando è nato, dubito che in pochi mesi riuscirai a migliorarlo…» «Avete finito?» sbottò Alex «non vedo proprio l’ora di vederle all’opera, queste quattro casalinghe! Come se non lo sapessi che le vostre madri non vi fanno spostare nemmeno un bicchiere dentro casa!» bevve un sorso d’acqua e proseguì di slancio «se sapevo che andava a finire così non vi avrei mai invitato a pranzo! Poi, caro Franco, alla prima occasione utile mi è venuta voglia di farmi una bella chiacchierata con il tuo paparino…»
21 Continuammo a scherzare e prenderci in giro fino alle cinque del pomeriggio quando, dopo aver ringraziato e salutato i genitori di Alex, decidemmo di congedarci. Una volta tornato a casa mi buttai sul letto e accesi lo stereo. Avevo voglia di parlare un po’ con me stesso. La musica mi rilassava tantissimo, e sulle note della mia canzone preferita rividi al rallentatore i miei primi diciotto anni su questa terra. Ripensando a quanti traguardi avevo raggiunto, mi sembrava di aver vissuto un secolo. È proprio vero che il mondo, con il suo ritmo caotico e frenetico, non ti permette più di tanto di pensare. Dunque ben vengano questi momenti in cui uno decide di staccare la spina per riuscire a ricordare tutte le esperienze vissute e collocarle nella loro giusta posizione. Affondai la testa nel cuscino e, non sapendo neanche io il perché, risi fino alle lacrime. Paura, gioia, commozione, tristezza, ansia e un’enorme felicità si nascondevano tutte insieme dietro a quella risata all’apparenza ingenua.
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Non mi sono mai vergognato così tanto in vita mia. Accidenti a Fabio e alle sue previsioni assurde! Ma andiamo con ordine e vediamo di chiarire cosa successe. La sera prima di partire per le vacanze ci eravamo visti sotto casa di Mirko per caricare i bagagli sull’auto e sistemare gli ultimi dettagli. La mia macchina di allora non era certo una limousine anzi, perciò mi ero raccomandato con i miei amici di non portarsi troppa roba o non saremmo riusciti nemmeno a partire. Non l’avessi mai fatto! Tralasciando le cinque valigie che già da sole erano più che sufficienti a riempire bagagliaio e portapacchi, caricammo in ordine rigorosamente sparso: una sacca con racchettoni, maschere da sub e palloni vari; due borsoni pieni di generi alimentari donatici dalle nostre famiglie e un sacco d’altre cosette che prese singolarmente erano innocue ma tutte insieme facevano volume, eccome. Alla fine dopo innumerevoli tentativi (e altrettante parolacce da parte mia) riuscimmo a stipare tutto dentro e fuori quella cosa che una volta sembrava essere stata la mia automobile. A parte il guidatore, tutti gli altri passeggeri avrebbero avuto paia e paia di millimetri a disposizione per muoversi liberamente all’interno dell’abitacolo. In altre parole, e se non si era capito, eravamo più che stracarichi. La macchina, a causa dell’eccessivo peso, si era abbassata di qualche centimetro sulle sospensioni e ora, se vista da sotto, somigliava a un bolide con assetto sportivo. Nel complesso però aveva guadagnato in altezza grazie all’impiego del già citato portapacchi. Forse non avremmo fatto neanche un metro con quell’oggetto che ora assomigliava sempre più a un carro armato residuato dalla seconda guerra mondiale ma, se per puro caso, sgretolando ogni legge della meccanica e ridicolizzando i moti fisici sul movimento, ci fossimo spostati in avanti riuscendo infine a giungere a destinazione, restava da risolvere il problema forse più importante certo più drammatico: passare inosservati. Ora non voglio passare per una persona esagerata o comunque troppo vergognosa, ma vi posso giurare che anche io che ero il padrone
23 stentavo a intravedere, in quell’ammasso di lamiere e paccottiglie varie, una seppur minima parvenza di automobile. Tutta la merce era stata ancorata grazie a dei veri e propri mezzi di fortuna quali fil di ferro, corde di stendini ormai in disuso e perfino tre nostre vecchie cinture legate l’una all’altra con dei nodi non proprio inestricabili. Come a dire: se non tutto il carico dovesse arrivare a destinazione sicuramente avrà i suoi buoni motivi per congedarsi dal resto. Senza voler andar troppo oltre in questa descrizione penso si sia ormai capito che il risultato finale di tutte quelle traversie fosse perlomeno buffo. Ancora oggi non sono affatto sicuro che quel veicolo fosse abilitato a circolare in simili condizioni. Per non rischiare di far ridere anche i granelli di sabbia studiammo un orario di partenza e, cosa più importante, di arrivo tale da poterci favorire nella nostra opera di depistaggio delle altrui risate. Della serie: meno persone ci fossero state in giro, meglio sarebbe stato per noi. Da grande studioso di migrazione delle masse quale era Fabio, fu lui a individuare il periodo della giornata più propizio per il nostro approdo alla sua casa di villeggiatura. «Ci conviene arrivare verso le sette di mattina» disse con convinzione «a quell’ora è raro vedere gente in giro; i ragazzi sono da poco rientrati dalle discoteche e quindi dormono, e le famiglie con i bambini non hanno ancora iniziato i preparativi per scendere in spiaggia. Voi che ne dite?» «E che dobbiamo dire?» rispose Alex per tutti «sei tu quello che da dieci anni a questa parte passa le sue ferie lì, quindi penso che tu sia informato circa le abitudini dei tuoi vicini.» Convinti di aver ridotto al minimo o quasi il rischio di essere messi alla berlina, parcheggiammo il frutto delle nostre ansie nel garage di Mirko e ci demmo appuntamento alle quattro dell’indomani mattina, là dove ci stavamo lasciando. Quella notte riposai poco, un po’ per l’emozione e un po’ per paura di non riuscire a svegliarmi a quell’ora insolita. Quei pochi momenti di sonno vero che riuscii a concedermi rappresentarono nient’altro che un piccolo intermezzo onirico tra la sera precedente e le quattro e mezza della mattina successiva quando eravamo già lanciati, il che è tutto dire vista la bassa velocità di crociera che eravamo costretti a mantenere per non fondere il motore, verso le prime vacanze estive da diplomati. Le due ore abbondanti del tragitto trascorsero abbastanza velocemente così, fra un’imprecazione di Alex che non si sentiva più le gambe e un’altra di Franco costretto a viaggiare in una posizione da
24 contorsionista navigato, giungemmo alle porte del paese balneare. Fu allora che incominciarono a spuntare i primi dubbi. Imboccata la strada dalla quale dopo circa due chilometri era possibile intravedere la nostra residenza estiva sentimmo, dapprima confuse e poi via via sempre più nitide, le note di una banda musicale. Ci guardammo in faccia senza il coraggio di spiccicare una parola mentre il terrore cominciava a offuscarci i sensi poi, armatosi di coraggio, Fabio provò a rompere l’incantesimo che sembrava essersi impadronito delle nostre corde vocali. «Che giorno è oggi?» disse con voce tremante. «Mi pare sia ventinove, perché?» «Ahia…» «Che è successo? Parla, cosa diavolo te ne frega di che giorno sia?» lo attaccò Mirko. «A me niente… solo che sapete benissimo anche voi com’è fatta la gente di questi paesi: attaccata alle tradizioni, vive di turismo ed è anche molto religiosa…» «Sì, è qual è la densità media d’abitanti per chilometro quadrato? E la superficie è prevalentemente montuosa, pianeggiante o stile profilo laterale di un cammello? Qualora te lo sia già dimenticato ci sono qui io a ricordarti che hai preso il diploma con sessanta quindi, per qualche giorno, puoi anche mettere da parte il libro di geografia!» lo bloccai stizzito. «Insomma ci vuoi dire cosa cazzo sta succedendo?» gli domandò Alex. «Va bene ragazzi» rispose Fabio con voce timorosa «purtroppo oggi è la festa del patrono e, se non ricordo male, gli altri anni i festeggiamenti a quest’ora erano già iniziati.» Con l’ultimo briciolo di pazienza e prima di inchiodare la macchina per ammazzarlo di botte, ebbi la forza di formulargli l’ultima domanda. «E in che cosa consistono tali festeggiamenti?» «Ma niente!» cercò di minimizzare «la statua del Santo viene portata in processione per le vie del paese e dopo viene allestito uno spettacolo in riva al mare che si conclude in genere con un balletto folkloristico. Vi assicuro che è molto divertente, e poi ogni anno c’è sempre un sacco di gente degli altri paesi che si sveglia presto per venire qua.» Pure! Questa fu senz’altro la goccia che fece traboccare il vaso. «Ok ragazzi ormai la frittata è fatta!» intervenni rassegnato «lo tortureremo a tempo debito. Ora pensiamo ad andare avanti cercando il più possibile di rimanere vaghi e che Dio ce la mandi buona!»
25 In quei momenti giuravo a me stesso che, non appena fosse stato possibile, avrei controllato se fra migliaia di comuni italiani ce ne fosse stato anche soltanto un altro che festeggiava il Santo Patrono alle prime luci dell’alba. Andammo avanti fino a che la gente ai lati della strada non cominciò a essere parecchia. A quel punto scattò l’opera di mimetizzazione e, inforcati gli occhiali da sole, simulammo indifferenza a tutto spiano. Per loro era facile aggirare l’ostacolo facendo finta di dormire o, al limite, ponendosi alla ricerca di un qualcosa di inesistente all’interno della macchina, ma io che guidavo ero senza dubbio quello più a corto di nascondigli. Pensai d’essermela cavata, oltre che con i già citati occhiali da sole, grazie a una serie di colpetti di tosse strategici che mi permisero di abbassarmi nei momenti più critici. Tutto sommato andò meglio del previsto, anche se un gruppo di ragazzi ci gridò se per caso ci fossimo dimenticati lo spazzolino da denti e poi, naturalmente, scoppiarono a ridere. Tirammo un sospiro di sollievo quando, al centesimo indice puntato nella nostra direzione, arrivammo nei pressi della nostra abitazione. Scaricati in fretta e furia i trecentomila bagagli, indossammo al volo i nostri costumi da bagno decisi a scendere in spiaggia prima possibile. Complice questa nostra smania di correre a perdifiato verso l’estate, i complimenti e la visita guidata della casa di Fabio durarono meno di zero, ma comunque per un tempo sufficiente a farci accapigliare amichevolmente per la disposizione e relativa assegnazione dei posti letto. Facendo leva sulla mia discreta esperienza in merito, posso azzardarmi a dire che le risse fulminee sanno essere molto più devastanti di quelle lunghe o comunque meditate. Concentrare lo sfogo di un gruppo di animali in un insignificante lasso di tempo può avere delle conseguenze imprevedibili sull’esito dello scontro fisico. Sembra quasi che un istinto soprannaturale ti doni una forza erculea tanto energica quanto esplosiva e fulminea nel senso della limitata durata temporale della stessa. Colta nella foga del momento la quantità di schiaffi tirati in un minuto raggiunge picchi altissimi e oserei dire fuori dalla portata delle capacità di un normale essere umano. Guardate Franco ad esempio. Preso in un qualsiasi momento della sua vita poteva essere quasi uniformato a migliaia di altri ragazzi che come lui vivevano la loro adolescenza durante i mitici anni novanta. E in effetti nulla nel suo comportamento lasciava intendere l’enorme brutalità che era in grado di sfoderare durante i quaranta secondi scarsi di una delle tante, già chiamate in causa, risse fulminee. Le sue braccia pelose cominciavano a mulinare in
26 una maniera così veloce che sembravano moltiplicarsi a ogni giro intorno alle scapole. Potenza dell’immaginazione, illusione ottica o cosa? Eravamo pronti a scendere in spiaggia, quando proprio Franco si ricordò una cosa importantissima. «Ragazzi, allora abbiamo deciso di fargliela passare liscia?» La risposta fu unanime: «No.» Penso che Fabio si sentisse osservato quando, dopo aver chiuso l’ultima finestra, ci raggiunse alla porta d’ingresso. «Qualcosa non va ragazzi?» «No, noi stiamo bene» rispose Alex «quanto a te preparati a vivere nel terrore queste vacanze perché dopo la figuraccia che ci hai fatto fare stamattina la nostra vendetta sarà tanto tremenda quanto inaspettata.» «Andiamo, non starete prendendovela veramente con me?» disse Fabio stupito «o forse pensate che io mi sia divertito? E poi casomai l’unico ad aver fatto una figuraccia sono io visto che a voi non vi conosce nessuno!» «Guarda Fabio, da parte mia propongo di perdonarti solo ed esclusivamente perché ci stai ospitando in questa villetta fantastica nella quale sono sicuro combineremo un casino assurdo» tagliò corto Mirko cercando di porre fine alla discussione perché ansioso di scendere in spiaggia. «Ma sì dai!» lo seguimmo a malincuore «in fondo quale peggiore punizione di lavare i piatti da qui alla fine della vacanza?» «E se invece decido di buttarvi fuori di casa come pensate di passarla, la vacanza?» Dopo questa senz’altro efficace forma di persuasione occulta ci scambiammo qualche schiaffetto in allegria (Fabio prese quelli più forti) e scendemmo in spiaggia. In che razza di bel posto eravamo capitati! L’estate dona alle cose un aspetto splendido quasi facesse loro indossare l’abito delle grandi occasioni, ma la serie di villette a schiera incastonate in un tratto di costa famoso per la bellezza del suo mare, erano belle nella loro semplicità e in quel loro colore azzurrino che ben si sposava con le tinte pastello della stagione del sole. Il giardino indipendente che le separava l’una dalle altre, le faceva apparire come tante piccole oasi di felicità dove un comune gruppo di famiglie italiane passava le sue vacanze. I raggi del sole entravano in punta di piedi in ognuna di esse a illuminare piccoli particolari di quell’estate 1997 che per tutti noi aveva senza
27 dubbio un sapore speciale. Gli odori tipici della bella stagione erano invece gli stessi dell’anno passato nonostante avessi cambiato posto. Soprattutto il fresco profumo delle creme abbronzanti ha da sempre rappresentato per me un punto d’unione fra una vacanza estiva e l’altra. Non mi vergogno a svelarvi che ogniqualvolta mi tocca buttare un flacone vuoto d’olio solare vengo assalito dalla nostalgia consapevole di dover aspettare un altro lunghissimo anno prima di poter riassaporare le stesse sensazioni di libertà, gioia, spensieratezza che solo in quel determinato periodo ho modo di vivere con la giusta intensità. La spiaggia distava circa cinquecento metri da dove alloggiavamo e durante questo breve tragitto continuammo, a colpi di ciabatte e pallonate sulla schiena, la discussione solo in apparenza interrotta poco tempo prima. A quel punto, scontato come un bacio appassionato in un film strappalacrime, arrivò puntuale il mitico e inconfondibile domandone di Alex. «Ma a ragazze come siamo messi?» «Guarda, a parte una decina, tutte le altre villette vengono affittate nei mesi estivi quindi c’è un bel ricambio di gente di anno in anno. Per quello che posso dirti io» continuò Fabio «questo posto è sempre stato frequentato da ragazze carine al punto giusto.» «E tu quante ne hai castigate, vecchio porcellone?» intervenne Franco arrivando con prepotenza al succo del discorso. «Tu non ti preoccupare, pensate a darvi da fare voi piuttosto che da questo punto di vista io gioco in casa.» «Se proprio volete sapere quali sono le mie intenzioni» intervenni senza che gli altri mi avessero minimamente interpellato «penso che me ne starò buono buono a divertirmi senza entrare in paranoia per questo o quell’essere femminile.» «E noi dovremmo crederci?» «Contateci.» Alla luce di quanto successe di lì a poco, mai affermazione fu smentita con tanta facilità come questa mia sul gentil sesso. Stavamo giocando a pallone cercando di emulare i nostri idoli calcistici con scarsi risultati quando, mentre stavo andando a recuperare la sfera scagliata lontanissimo a causa della mia pessima coordinazione, vidi una ragazza che contrariamente alla mie previsioni mi fece entrare sul serio in paranoia. Bastò che si incrociassero gli sguardi per un solo istante affinché il cuore mi arrivasse in gola come quello di un bambino innamorato della maestra. Feci di tutto per scordarmi quel viso
28 angelico, ormai però ero con la testa fra le nuvole e i miei amici che mi conoscevano benissimo non tardarono ad accorgersene. «Pronto? Cercavo il signor Matteo meglio conosciuto come Mr Iononminnamoromai, è in casa?» «Piantatela ragazzi, possibile che dobbiate sempre rompere?» «Sempre amore mio!» mi prese in giro Mirko mandandomi un bacio con la mano. «E poi sarei io quello timido!» esclamò Fabio in segno di riscossa «scusami Matteo, sono dieci anni che vengo qui in vacanza o no? Se è qualcuna di mia conoscenza ti risparmi pure qualche figuraccia per conoscerla.» «Ma chi vi ha detto che ho adocchiato una?» finsi clamorosamente nell’ultimo tentativo di negare l’evidenza «se sono sempre stato con voi a giocare a pallone! Se cercate una scusa per prendermi per il culo perlomeno fate in modo che sia credibile!» «Sempre con noi a giocare eh? Allora sono forse stato io a spedire in orbita il pallone con una semi rovesciata salvo poi farlo ricadere una decina di chilometri più in là?» mi domandò Alex con una malcelata ironia. «Quale fra quel gruppo di ragazze che stanno giocando a pallavolo laggiù sta facendo palpitare il tuo cuoricino?» mi domandò Mirko cogliendo in pieno il motivo del mio essere sulle nuvole. «Eh va bene!» cedetti alla fine «siete stati proprio bravi a smascherarmi però il motivo per cui sono distratto non sta affatto giocando a pallavolo e nemmeno è visibile da questa postazione, siete contenti?» «Nient’affatto. Lo saremo soltanto quando ci avrai tracciato un identikit completo di questa Giulietta dello stabilimento dei Cigni, caro il mio Romeo!» «Sì e magari volete anche sapere la data di nascita. Ho solamente incrociato il suo sguardo per un paio di secondi, mentre mi ero abbassato a raccogliere il pallone.» «Ahi, ahi, ahi!» esclamò Alex «un attimo capace di far scoccare la fatidica scintilla a quanto vedo. Ragazzi, pensatela come vi pare, ma per me qui c’è abbastanza materiale per poter girare una puntata di Colpo di fulmine in riva al mare. Matteo, amico mio, posso chiederti un favore?» «Cos’altro vuoi prima che ti alzi le mani?» «Se Mirko va a prendere la telecamera che abbiamo portato, posso fare io Alessia Marcuzzi? Sai più che un neo diplomato mi sento un conduttore televisivo in erba!»
29 «Ma vaffanculo!» imprecai ridendo «possibile che tu riesca a diventare sempre più stupido con il passare del tempo?» «Niente è impossibile a questo mondo, ricordatelo!» Che matto Alex! Pensavo di conoscerlo bene eppure ogni volta sapeva trovare il modo di stupirmi con una delle sue tante sparate cretine oppure con il suo saper risolvere i nostri problemi semplicemente obbligandoci a ridere. Ma come c’insegnano i grandi comici del cinema, da Charlie Chaplin al nostrano Benigni, anche una risata può essere portatrice di messaggi importanti e principi universali. Ridere per non piangere o meglio raccontare eventi drammatici suscitando il classico riso amaro, davvero Alex era capace di fare anche tutto ciò? Quando morì il grande Ayrton Senna tutti noi non fummo capaci di spiccicare una parola di fronte a quelle immagini terribili, impegnati come eravamo a cacciare indietro insieme alle lacrime anche la cruda consapevolezza che se ne stava andando uno dei nostri idoli. Appassionato di motori come pochi, Alex è sempre stato un grandissimo ammiratore di Senna del quale teneva una foto in primo piano sulla sua scrivania con scritto sulla cornice “Troppo immenso x questo mondo!”. Tra tutti noi era senz’altro il più scosso in quegli attimi senza fine che precedettero la notizia della morte del pilota brasiliano eppure, anche in quell’occasione, se ne uscì con una battuta. «Giustizia è fatta! Ayrton non meritava di gareggiare con gli altri miseri mortali. Il gran premio che correrà lassù in cielo lo vedrà finalmente di fronte ad avversari degni di lui. E se è vero che in paradiso si diventa tutti più buoni, non ci sarà più un deficiente che gli taglierà la strada o che lo ostacolerà in modo irregolare nella sua trionfale corsa verso la bandiera a scacchi. Ma ve lo immaginate San Pietro ai box della scuderia del mitico Senna, tutto intento a comunicargli la migliore strategia per arrivare alla vittoria? Sarebbe o no un vero team divino?» Aveva gli occhi lucidi e parlava con una cadenza strana quasi da robot comunque, nonostante il suo cuore straripasse lacrime, trovò come al solito il modo di farci sorridere, quella volta sul serio mentre qualche lacrima ci rigava il viso.
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«Stasera cucino io!» annunciò un Franco quanto mai esultante «e state pur certi che mangerete pietanze degne delle angeliche mani della mamma di Alex!» «Sono contento della tua convinzione, anche se io mi accontenterei di mettere sotto i denti qualcosa di semplicemente commestibile» gli dissi in tutta sincerità. «Vedi di stare attento Franco!» lo ammonì Fabio «ti avverto che la guardia medica più vicina è a cinque chilometri da qui e nessuno di noi sarà in grado di guidare in preda a un principio di avvelenamento.» «Bene. Non avete fiducia in me? Vi farò cambiare idea a colpi di calorie e di portate gustosissime. A questo punto alzi la mano chi crede che fallirò!» Mi sembra inutile sottolineare che quattro braccia si levarono al cielo in perfetta sincronia tuttavia questo non bastò a farlo desistere. Per fortuna non finimmo sul serio alla guardia medica, ma la cosa cucinata da Franco sarebbe stata senza ombra di dubbio rifiutata anche da un cane in preda alla fame più nera. È mai possibile che dai dei comunissimi generi alimentari normalmente usati in tutte le famiglie, possa scaturire una miscela tossica spudoratamente spacciataci da Franco come purè strapazzato? Ma tant’è, al nostro amico il mix micidiale riuscì alla perfezione. Primo giorno di vacanza, prima cena casalinga andata in malora, primi soldi dei pochi a nostra disposizione che se ne andarono per la più classica delle pizze riparatrici di errori culinari. Ci vestimmo in men che non si dica e, affamati come lupi, ci dirigemmo verso la pizzeria più vicina proprio perché ansiosi di mangiare il prima possibile. Nonostante avessimo rischiato la lavanda gastrica, dopo essere entrato in quella pizzeria ringraziai Franco e i suoi intrugli pestilenziali. In quest’immensa biblioteca che è la vita, anche il più ferrato degli scienziati può trovare un libro capace di insegnargli ancora qualche cosa proprio quando pensava di non dover più meravigliarsi di nulla. Figuratevi io, abituato da sempre a dover inseguire una ragazza per mesi prima di riuscire a strapparle anche un semplice sorriso, mi
31 accorsi quella sera per la prima volta di come l’amore, ma sarebbe più giusto parlare di senso d’attrazione, possa bruciare innumerevoli tappe in un incontro tra un uomo e una donna. Via il batticuore, via le parole ripetute un milione di volte in testa prima di dirle a lei, via la paura di non piacerle, via la confidenza dei tuoi sentimenti all’amico del cuore messo sotto tortura per non farlo parlare, via tutto. Cancellate le notti passate a sognarla, svanite le paranoie da cuore infranto, disintegrati i fiumi d’inchiostro spesi per rendere omaggio alla sua bellezza celestiale. Distruzione, annientamento, soppressione. Tutto ciò e molto altro ancora, l’uragano Valentina si lasciò alle spalle dopo il suo fugace e intenso passaggio. E pensare che l’inizio non era stato proprio dei più incoraggianti. Una volta entrati nella pizzeria Fabio aveva lanciato uno sguardo perlustratore per tutta la sala alla ricerca di qualche faccia conosciuta e, dopo qualche secondo di smarrimento, già camminava spedito verso un tavolo abbastanza appartato gridando: «Ciao ragazzi, anche quest’anno follie e baldoria allo stabilimento dei Cigni?» «Cosa ci vuoi fare?» rispose un signore sulla cinquantina che aveva tutta l’aria di essere il capofamiglia «il fatto è che siamo sempre in cerca di nuove emozioni, ma preferiamo viverle in questi luoghi!» «Dite la verità» scherzò Fabio «sapevate che sarei tornato anche io e avete immediatamente deciso di annullare il già previsto viaggio alle Maldive.» «Casomai» intervenne una voce femminile fuori dal mio campo visivo «questo è stato uno dei principali motivi che ci ha fatto sul serio prendere in considerazione l’idea di cambiare. Tutto a posto cetriolone?» «Tutto bene Vale, e grazie per il paragone ortofrutticolo.» «E quel rimbambito di tuo padre come sta?» domandò il capofamiglia di cui sopra. «Se la passa abbastanza bene, anche se quest’anno ha deciso di prendersi le ferie a settembre probabilmente per evitare qualche figuraccia nei balli di gruppo. Così sono venuto con quattro miei amici per sfruttare a dovere il binomio casa libera - vacanze esagerate.» «…e figuracce assicurate!» intervenne in rima la ragazza che mi aveva fatto perdere la testa «hai visto Marzia? Questo è il ragazzo che stamattina era alla guida di quella cosa e cercava di nascondersi. Poi scusa eh? Come ti chiami?» «Matteo.»
32 «Ok, cosa cavolo ti nascondevi a fare visto che non conoscevi assolutamente nessuno?» «Be’ forse lo facevo per la paura di essere scoperto da due sconosciute che in un secondo tempo si sarebbero ricordate di me per la mia involontaria comicità!» «Sai che non ci avevo pensato? Comunque complimenti per la tempestività, non era affatto facile arrivare nel momento esatto in cui lo avete fatto voi.» «Penso proprio di sì» dissi rivolgendomi in cagnesco a Fabio. «Ora Matteo non è che io voglia buttarti giù ma, oltre a noi due, almeno altri duecentocinquanta ragazzi che probabilmente conoscerai durante questa vacanza si ricorderanno del tuo viso!» «E chi lo mette in dubbio? Ora però ti supplico di non infierire oltre, non tanto per me quanto perché se continui su questa strada puoi portarmi a commettere l’omicidio di un diplomato di fresco!» «So a chi ti riferisci…» mi rassicurò con un’espressione del viso che definire splendida è riduttivo «Fabio, ma è mai possibile che il tuo stato mentale sia peggiorato a tal punto da portarti a commettere queste furbate?» «Eccola là!» si arrabbiò «sentite un po’ Signori Infallibili, voi avete una memoria di ferro ma ai normali esseri umani ogni tanto è concesso di scordarsi qualcosa, o sto dicendo una cazzata?» «No, no, quale cazzata?» la famigerata ironia di Alex stava partorendo un’altra micidiale frecciata delle sue «quanto ci scommetti che anche questi due hanno la memoria corta?» «Ecco bravo, cerca di dirglielo tu» esclamò Fabio commettendo il madornale errore di sentirsi spalleggiato da Alex. «Per esempio la pensi come me sul fatto che tutti e due non si ricordano neanche lontanamente quando è stata l’ultima volta che hai fatto un discorso sensato, interrogazioni scolastiche a parte?» «In effetti non penso di ricordarmi questo particolare» intervenni prontamente. Alex era entrato in scena a modo suo e, ancora una volta, era subito risultato simpatico agli occhi di chi lo stava appena conoscendo. Incassato il colpo Fabio accusò uno sbandamento non da poco e, impegnato com’era nel cercare una risposta ad hoc, non si accorse che Alex era nel frattempo passato a fare le presentazioni di rito quasi fosse lui l’amico in comune della situazione. Per dovere di cronaca va comunque detto che in quei momenti non era Fabio l’unica persona
33 confusa. La mia mente era data in partenza dal binario due senza che mi fosse dato sapere la sua direzione. «Senti papà io e Marzia andiamo all’Hypnotica insieme a tutti gli altri. Se vedi passare Giulio e Vanessa digli che possono raggiungerci là.» «Okay Valentina, ma cerca di tornare prima che faccia giorno o questa volta giuro che chiamo la polizia!» «Ma se l’altra mattina sono tornata alle otto e ho dovuto quasi prenderti a calci per svegliarti» tagliò corto Valentina «piuttosto Fabio, voi avete in mente di bere una camomilla e andare a nanna o volete unirvi a noi?» «Se a loro va bene» le rispose «io avrei propria voglia di rivedere tutta quella banda di matti che frequenta l’Hypnotica.» Da parte nostra non si levò una sola parola di dissenso e fu in questo modo che prese ufficialmente il via l’estate 1997. Forse avrete già capito chi era Valentina. In caso contrario posso dirvi che era con lei che i miei amici tentarono quel giorno di rendermi protagonista di una puntata amatoriale di Colpo di fulmine. Il tempo di trangugiare una pizza in fretta e furia e già guidavo la macchina quasi in trance, mentre i miei amici si prendevano in giro l’uno con l’altro e chiedevano informazioni a Fabio circa il posto verso il quale eravamo diretti. I pensieri mi si accavallavano così furiosamente in testa, tanto che mi sembrava di non riuscire a stargli dietro. Valentina mi si era materializzata davanti in maniera così inattesa da non lasciarmi il tempo di capire che cosa stesse succedendo. E poi, nonostante non ci fosse proprio niente di che vantarsi (anzi!) andavo quasi fiero del fatto che fra tutti gli occupanti la mia macchina quella mattina, lei si fosse ricordata proprio di me. Poco importa se in quel momento gli altri si fossero ficcati sotto i sedili, qualcosa mi diceva che ero proprio io ad averla colpita. L’Hypnotica si trovava a circa dieci chilometri dalla pizzeria dalla quale eravamo partiti e quando arrivammo il parcheggio era già pieno di macchine. Da fuori si sentiva ovattata ma abbastanza riconoscibile una traccia di musica commerciale molto in voga quell’estate. Entrammo dopo una mezz’ora abbondante di fila, e ci rendemmo subito conto che le decine di macchine parcheggiate fuori erano poca cosa di fronte alla marea di ragazzi presenti all’interno del locale. La pista era una sorta di semicerchio stile anfiteatro con al centro la consolle e, cosa che notai solo prima d’andar via, i cubi sui quali ballavano le persone erano le varie lettere della parola Hypnotica. Una trovata originale che prima di allora non avevo visto in nessun altra discoteca.
34 Alle due in punto cessò la musica e si spensero completamente le luci, eccetto un faro blu elettrico che illuminava il vocalist. «Buonasera Hypnotica! Dimenticate di essere sul pianeta terra. Mettete da parte tutte le vostre inibizioni e preparate le vostre coronarie alla sconvolgente musica di Dj Space! Sta per iniziare un viaggio che vi porterà dritti nell’epicentro del divertimento… are you ready?» Urlo sovrumano e mani al cielo come risposta a questa domanda, dopodiché prese il via la serata. Centottanta battiti di musica assordante e magnifica si riversarono su di noi insieme a una marea di fumo bianco illuminato da luci stroboscopiche e raggi laser di ogni colore conosciuto. Restare fermi era molto difficile, non divertirsi praticamente impossibile. Spesi un patrimonio in consumazioni alcoliche e non mi resi conto che il tempo scivolava via in maniera fin troppo repentina, ma d’altronde questa era una diretta conseguenza del fatto che stavamo benissimo. Verso le cinque e un quarto le mie gambe cominciarono a reclamare un quanto mai meritato riposo e fu allora che mi accorsi che Valentina e la sua amica continuavano a ballare con una tale energia che sembrava fossero appena entrate in pista. Fabio e Mirko si stavano prendendo qualcosa al bar mentre Franco e quel pazzo di Alex si erano persi nei meandri della discoteca nello stesso momento in cui eravamo entrati. Se li conoscevo almeno un po’ stavano senz’altro combinando qualche casino. Quando li vidi emergere dall’alto di un cubo posto al centro della pista, il dj aveva da poco messo la Macarena. Dalla loro non perfetta sincronia nel seguire le mosse e il ritmo della canzone, capii che il tasso alcolico del loro organismo si era alzato di qualche punto sopra la media consentita. Il tempo di accendermi una sigaretta e spuntò Marzia a dirmi che ce ne stavamo andando. Stendo un velo pietoso sulle canzoni patriottiche che Franco e Alex intonarono sulla via del ritorno, anche perché non penso siano ripetibili gli improperi che un po’ tutti noi gli scaricammo addosso nel tentativo di riportarli alla calma. Il gruppo si assottigliò proprio per la perdita dei due cantanti che accompagnammo in pratica fin dentro al letto, prima di andare a prenderci un cornetto ripieno da gustare in riva al mare in compagnia di un’altra decina di ragazzi che, come noi, erano appena tornati dalla discoteca. Il sole stava sorgendo all’orizzonte e un venticello tiepido increspava appena la superficie del mare, provocandomi dei brividi di freddo leggeri ma fastidiosi. Ci sedemmo sulla spiaggia formando un cerchio e, fra un boccone e l’altro, i nostri discorsi si intersecarono in una sorta
35 di gomitolo immaginario che alla fine non riuscimmo a districare. Il diploma, l’estate, le ambizioni di tutti noi, e una serie prorompente di battute e domande reciproche ci permisero di far conoscenza in maniera abbastanza simpatica. Marzia si era appena diplomata come noi, mentre Valentina avrebbe sostenuto l’esame di maturità solamente l’anno venturo. Andammo a dormire che era giorno fatto proprio nel momento in cui lo stabilimento dei Cigni si preparava a un’altra giornata balneare. Il venticello leggero cedeva il passo ai primi raggi di un sole splendido, così come le nostre parole divenivano via via meno fitte mentre l’idea di abbandonarci al mondo dei sogni faceva capolino nei nostri pensieri.
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Buona parte delle esperienze vissute quell’estate mi accompagneranno per il resto della mia esistenza. Forse sotto forma di ricordi sbiaditi o di flash improvvisi, ma ci saranno. Vediamo di fare un po’ di chiarezza. Quella giornata fu speciale fin dalle prime ore del pomeriggio. Le disavventure iniziarono infatti verso le due quando Alex, io e un ragazzo del posto fummo scelti per procurarci la legna per il falò che avremmo fatto quella sera stessa. Andammo a prenderla da un contadino che aveva un pezzo di terra a una decina di minuti d’auto dal nostro stabilimento. «Andate da Mastro Ciliegia!» ci disse Fabio sorridendo «Mario abita qui da una vita e verrà con voi per indicarvi la strada.» Il suddetto Mastro Ciliegia era un signore grassoccio il quale più che zappando la terra, amava trascorrere il suo tempo sotto un pergolato a bere del buon vino rosso. Da qui il suo aspetto alquanto rubicondo e di conseguenza anche il suo soprannome. Volete sapere come andò a finire? Saremmo dovuti mancare al massimo un’oretta, invece ci videro tornare verso le sette di sera visibilmente ubriachi. Dopo aver caricato in macchina la legna che ci occorreva, il padrone di casa c’invitò ad assaggiare un bicchiere di quello buono prima di andarcene e, da uno, i bicchieri diventarono presto due poi tre e così via… Per fortuna avevo portato la macchina fotografica e prima che mi si annebbiasse la vista, riuscii a scattare qualche foto ricordo. Di una di queste, un primo piano di Alex con bandana in testa e un sorriso idiota stampato sulla faccia, Mirko, Fabio e Franco pretesero una copia a testa per il loro personalissimo album di quell’estate. Per smaltire quell’imprevista sbornia pomeridiana, Alex e io fummo costretti a passare venti minuti a testa bassa sotto la doccia. Il tempo di un’asciugata veloce e tornarono i tonfi al cuore. Un battito saltato ogni quattro/cinque all’incirca. Una sensazione simile a quella della fame ma che di fame non era. Lo stomaco vuoto e il cervello strapieno di pensieri. Valentina attentava alle mie coronarie in maniera del tutto inconsapevole. Non mi ero innamorato no. Sarebbe stato troppo
37 semplice. Ero semplicemente rincoglionito! Un fantoccio con la testa tra le nuvole e l’espressione assente… Non potevo andare avanti così! Quella sera avrei dovuto dirle qualcosa altrimenti sarei uscito fuori di testa. D’altronde, già in pochi giorni, avevo avuto modo di collezionare le mie tre o quattro figure di merda a suon di balbettii e dialoghi assurdi. In un modo o nell’altro, durante quel falò avrei scritto la parola fine a certi stati d’animo. Con o senza di lei, volevo godermi l’estate 1997. Ricordo il cuore che batteva all’impazzata e un leggero tremolio nella voce. Ricordo un vento caldo proveniente dal falò ancora acceso. Ricordo, come fosse ora, la voce di Raffaella Carrà che cantava Rumore, provenire da uno stereo portatile appoggiato su di un asciugamano. Ricordo infine, ed è dolcissimo e triste allo stesso tempo pensarci adesso, quanto era bello avere diciotto anni. Già, perché avere diciotto anni significava provare delle emozioni per la primissima volta o riuscire a sorprendersi ancora per le stesse. Significava continuare a credere nelle favole pur non credendo più a Babbo Natale. Significava (all’epoca a volte ancora succedeva…) rivivere una scena di un film nella vita di tutti i giorni. Il mare non dava alcun fastidio con quel suo sciabordio delle onde appena percepibile. I cartoni semivuoti della pizza a portar via stavano sparpagliati attorno al fuoco quasi fossero delle persone in carne e ossa, e dentro alle borse frigo sembrava fosse passato un uragano: impensabile trovare ancora qualcosa di alcolico da bere. Era agosto cazzo! Il mese più intenso, sconvolgente, travolgente e sensazionale di qualsiasi estate! Se tra giugno e luglio si era cominciato a scaldare i motori, adesso era giunta l’ora di fare sul serio soprattutto per chi, come noi, era reduce dagli esami di maturità. Erano anche le cinque del mattino e di superstiti attorno a quel fuoco non se ne contava neppure mezzo. Il prezzo da pagare a una serata durante la quale era successo veramente di tutto. In mezzo a quel casino di urla, risate, musica e schiamazzi vari, il mio sentimento per Valentina sembrava essersi messo in disparte. Se ne stava defilato in attesa di tornare a mandarmi in fibrillazione tutti i sensi. Avevo riso a crepapelle, preso parte a qualsiasi buffo gioco fosse stato organizzato, ma soprattutto avevo cercato con tutto me stesso di non pensare a lei. Avevo cercato di non guardarla negli occhi e di non perdermi in uno dei suoi tanti sorrisi. Lottavo furiosamente tra la voglia di divertirmi spensierato e l’ossessione di conquistarla pur non avendo
38 la benché minima idea di come riuscirci. Poi, come a volte succede, un destino dolce e meraviglioso venne in mio soccorso. Me ne stavo sdraiato sulla sabbia poco distante dal falò a fumare una sigaretta. Senza asciugamano, con il costume ancora umido e una maglietta tutta stropicciata che, a dire il vero, non ero neanche sicuro fosse la mia. Ero totalmente immerso nei miei pensieri e a oggi non me ne ricordo nemmeno uno. Forse maledicevo la mia timidezza che mi aveva impedito di dire più di due parole in fila a Valentina o forse, il che è più probabile, mi stavo limitando a smaltire tutta la vodka che avevo tracannato nel corso di quella serata. In ogni caso ricordo benissimo che a un certo punto sentii forte e chiara, senza possibilità di sbagliarmi, la sua voce. La voce di chi stava attentando alla mia sanità mentale. «Matteoooo! Che cosa ci fai ancora qui?» mi urlò in faccia sorridendo. In quel preciso istante mi si accorciò la vita di un paio d’anni. Un po’ perché mi fece letteralmente saltare in aria per lo spavento, e un po’ perché in quella frazione di secondo mentre trasalivo mi sono subito reso conto che fosse lei. Cacciai un urlo di spavento e sorpresa allo stesso tempo, dopodiché cercai di ritrovare subito una minima parvenza di lucidità fisica e mentale. «Ohi Valentina! Hai deciso di vedermi morto?» esclamai con voce ansimante. «E che sarà mai!» mi rispose con un’alzata di spalle «è stato solo uno scherzetto innocente!» «Si, talmente innocente che ho rischiato l’infarto!» «Vabbè dai, cambiamo discorso. Cosa ci fai ancora qua tutto solo?» «La verità? Non sono del tutto sicuro d’essere in grado di camminare…» «E ti credo! Buona la vodka al melone eh?» «Non me ne parlare che mi riprende a girare la testa fino al giorno del giudizio!» le risposi tenendomi una mano sulla fronte «tu piuttosto, come mai ancora in giro? Ti ho visto andare via con Marzia più di un’ora fa.» «Sì lo so. L’intenzione era quella di andare subito a dormire. Poi Marzia è voluta andare a far colazione e proprio mentre stavo aprendo la porta di casa, ho scoperto di non avere con me le chiavi. Dovrei averle lasciate dentro a un pacchetto di sigarette vuoto vicino allo stereo. Spero che con tutto questo macello non siano finite in mare!» «È probabile!» le dissi mentre mi mettevo seduto «controlla almeno ti togli il dubbio.»
39 «Eccole qua! Meno male altrimenti mio padre mi avrebbe ammazzato!» «Scampato pericolo allora. Senti piuttosto qui possiamo lasciare questo casino? Adesso non ho certo né la voglia né la forza di mettermi a raccogliere tutte queste cianfrusaglie.» «Tranquillo dai. Portiamo via solo lo stereo di quello scemo di Marco e diamo un’occhiata che non ci sia qualche altra cosa di valore oltre alle mie chiavi.» Non sapevo cos’altro dirle. Da una parte desideravo con tutto me stesso di fuggire da lei, dalla mia timidezza, dal mio imbarazzo e dal mio essere eternamente indeciso. Dall’altra però, desideravo tutt’altro. «Spazzatura, spazzatura e ancora spazzatura.» Sentivo la sua voce e mi sembrava provenisse da un’altra dimensione. Facevo finta di andare anche io alla ricerca di qualcosa su quella spiaggia anche se, in realtà, stavo solo cercando di lottare contro quel mio carattere di merda. «Aspetta, aspetta!» mi disse infine riportandomi sul pianeta terra «qui c’è qualcosa che è meglio portare via.» Non feci neanche in tempo a girarmi per domandarle che cosa avesse trovato, quando mi trovai completamente zuppo dalla testa ai piedi. Quella disgraziata aveva pensato bene di rovesciarmi addosso un secchio d’acqua che, solo poche ore prima, era ghiaccio nel quale avevamo messo in fresco alcune birre. «Ma porca puttana!» imprecai sorridendo prima di mettermi a correre per acchiapparla «se ti prendo ti rovino!» Valentina si mise a correre per sfuggire al mio desiderio di vendetta, ma si cacciò in trappola da sola puntando in direzione del mare. A quel punto poteva solo scegliere se venirmi incontro oppure gettarsi in acqua. In acqua però, ci finimmo entrambi. E gli istanti che seguirono quel tuffo inaspettato li annovero a tutt’oggi tra i più belli ed emozionanti della mia vita. Le sue mani appoggiate sui miei fianchi; il mio cervello all’improvviso privo di qualsiasi pensiero; la morbidezza delle sue labbra bagnate che sapevano di sale; il cuore che sembrava essersi arrestato. Ci baciammo. Così, senza preavviso. Senza avere avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo. So solo che mentre cercavamo di affogarci a vicenda, le nostre labbra si unirono appunto in un dolcissimo bacio. Un bacio che per tutte le emozioni che si portò con sé, mi sembrò essere il primo della mia vita. Me l’ero sognato in diecimila modi differenti e ora giungeva in quello più inaspettato. «Valentina io…»
40 «Sshh… non dire niente…» E io non dissi nulla. Uscimmo dall’acqua tenendoci per mano, mentre il mare continuava a non dare alcun fastidio, e tutto quanto attorno a noi sembrava si sforzasse per rendere indimenticabile quel nostro primo bacio. Presi la prima asciugamano che trovai sulla sabbia per appoggiarla sulle spalle di Valentina dopodiché l’abbracciai stretta stretta. Non stava ancora facendo giorno. Non sapevo che ora fosse, ma non me ne importava nulla. Desideravo soltanto vedere l’alba con lei avendo la splendida consapevolezza che, anche quando l’ultima bagliore notturno fosse sparito dal cielo, una piccola e dolce stellina dagli occhi neri sarebbe rimasta al mio fianco. Mi ricordo tante risate e prese in giro soprattutto nei miei confronti. Con crudeltà Valentina mi elencò ogni singola figura di merda che avevo fatto da quando la conoscevo. A modo mio ero comunque riuscito a trasmetterle i miei sentimenti. Poi l’alba arrivò sul serio. Tuttavia di fronte a quello spettacolo meraviglioso, desiderai con tutto me stesso che tornasse il buio per non dover dividere Valentina con il resto del mondo. «Andiamo a ninna?» mi domandò sottovoce. «Andiamo…» le risposi a malincuore, anche se ero distrutto dalla stanchezza. La lasciai sotto casa, ma portai con me il suo tenero profumo. Mi fece compagnia mentre tornavo verso la nostra villetta. Gli altri dormivano profondamente e non mi sentirono entrare. Mi buttai a peso morto sul letto e presi sonno all’istante con il cuore pieno di gioia ed esaltazione per quello che mi era successo nelle ultime ore, e con la speranza di non essermi sognato tutto. Se la memoria non mi ha giocato qualche brutto scherzo, le cose andarono più o meno in quel modo e per me ora è quasi buffo constatare come io sia riuscito, nel corso della mia vita, a maturare o semplicemente a cambiare in base all’esperienze, in tutto tranne che nelle faccende di cuore. Sì, insomma è normale che una persona con un po’ di sale in zucca sappia trarre degli insegnamenti dalla sua condotta di vita passata, invece per quanto mi riguardava nessuna ragazza fino ad allora era riuscita a far mutare il mio modo di pormi di fronte all’amore. Cosa fa un essere umano qualunque, quando gli piace una ragazza? Come minimo cerca di attrarre la sua attenzione e, se proprio non ha il coraggio di dichiararsi, perlomeno fa di tutto per mettere in mostra i suoi sentimenti anche senza puntare dritto alla meta. Io invece
41 mi comportavo nella maniera più irrazionale possibile finendo col danneggiarmi: più mi piaceva una ragazza e più cercavo di ignorarla ponendomi sulla difensiva. Questo lato del mio carattere non mi ha mai portato a nulla di buono sgretolando storie d’amore mai nate dunque ampiamente cariche di rimpianti. Rimpianti per quello che poteva essere e invece non sarà mai. Dio solo sa quante volte ho pensato di varcare quella maledetta porta senza riuscirci. Il mio eterno fermarmi sulla soglia era sempre lì a ricordarmi quanto io fossi debole e vigliacco. Ho sempre preferito sognare la vicinanza di una ragazza piuttosto che rischiare di perdere poche effimere certezze con l’entrata nel mondo del reale. Sarà questo il più grande difetto di chi è diventato abilissimo nel sognare? Certo è che a volte quando il sogno è troppo bello, non tutti sono disposti a svegliarsi. Poco importa se ci siano o meno possibilità che il sogno si realizzi, il terrore di scontrarsi con la realtà a volte è enorme per essere vinto solo con le proprie forze. Con Valentina tutto andò diversamente. The summer is magic intonava una canzone dance di qualche tempo fa. Contenitore d’esperienze meravigliose spesso vissute nel breve volgere di trenta giorni o giù di lì, l’estate assomiglia in effetti a uno di quei tanti cilindri da cui ancora oggi vengono estratte una moltitudine di cose da persone che per questo sono considerate dei maghi. In quel frammento infinitesimale di storia rappresentato dall’incontro tra me e Valentina, la parte del mago è stata senz’altro interpretata da quest’ultima che, con sapiente maestria, aveva saputo cavare dal suo personalissimo cilindro una storia d’amore tanto breve quanto intensa e meravigliosa. Ora sono qui a rivivere quei momenti e sto provando una gioia simile ad allora pur con un fondo di amarezza che spesso viaggia di pari passo con qualsiasi ricordo piacevole. Pur mancando di tutti quei momenti di routine che di solito caratterizzano le relazioni a medio e lungo termine, il nostro volerci bene è stato senz’altro importante proprio perché decollato sulle ali dello straordinario, e costretto a un brusco atterraggio forse per manifesta incapacità di uniformarsi alla folta schiera di normali storie d’amore che ogni giorno nascono e muoiono su questa terra. Durante il mese vissuto accanto a Valentina m’intestardivo nell’immaginare come sarebbe andata a finire, quando la splendida cornice dello stabilimento dei Cigni insieme al carico di sogni che di norma un’estate degna di tal nome si porta dietro fossero entrati a far parte dei ricordi, ma con scarsi
42 risultati. Chissà perché ma proprio non mi ci vedevo alle prese con le futili litigatine tipiche fra gli innamorati di lungo corso, così come non intendevo pensare a una qualsivoglia scenata di gelosia dal momento in cui la persona che mi piaceva era sempre vicina a me. Forse uno dei tanti studiosi che si arrovellano nel tentativo di risolvere i presunti problemi della nostra psiche avrebbe bollato questo mio stato d’ansia come conseguenza di un’alquanto strana fobia per tutto ciò che rientra nella normalità. Stavo diventando matto? Rigettavo la realtà come un novello Peter Pan alla ricerca della personale isola che non c’è o più semplicemente temevo di non sopravvivere all’impatto con il serioso mondo dell’università? Forse un po’ di tutto ciò ma dal mio punto di vista e secondo quel detto che più o meno afferma che ognuno di noi è il migliore medico di sé stesso, mi sentivo in preda a una tremenda, angosciante nonché singolare forma di gelosia. Geloso non di una persona in particolare bensì di un intero sistema che di lì a poco si sarebbe riappropriato di Valentina allontanandola da me in maniera lenta e inesorabile. Calato il sipario sull’estate 1997 Valentina sarebbe tornata nel suo mondo ai miei occhi inquietante perché sconosciuto. Gli amici, la scuola, il fantomatico ragazzo moro con gli occhi verdi della 5° F solo per qualche tempo accantonato nei pensieri di una ragazza che possedeva tutti i mezzi per poterlo conquistare, i consigli di chi l’avrebbe convinta a lasciar perdere una storia a distanza; tutto questo e molto di più tramava alle mie spalle. Questo genere di pensieri cominciarono a fare capolino quando furono trascorsi una decina di giorni da quel primo bacio. Dieci giorni durante i quali Matteo e Valentina riuscirono a non pensare a qualsiasi cosa andasse oltre l’immediato futuro concedendo abbondante spazio al divertimento e alla spensieratezza. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...