Cinque passi di rincorsa, Ernesto Giacomino

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In uscita il 30/11/2018 (14,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2018 (2,99 euro)

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Ernesto Giacomino

Cinque passi di rincorsa

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

CINQUE PASSI DI RINCORSA

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-251-5 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Ai caffè freddi, ai morsi, ai ventilatori di notte Ai profumi che insistono E a mia madre



“Siamo così intrappolati che qualsiasi via d’uscita riusciamo a immaginare è solo un’altra parte della trappola. Qualsiasi cosa vogliamo, siamo ammaestrati a volerla.” (Chuck Palahniuk, “Invisible Monster”)



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UNO

Racconto solo questo fatto, prima di morire. Una storia che comincia con Savannah il trans, ma che non è la sua storia. Non proprio almeno, giacché lei vi entra ed esce in un lampo come una porta sbattuta. Ma comincia con lei. Savannah il trans, ogni tanto intorno alle due di notte, si rintana in cantina a fumare il mio crack. Ha le chiavi perché è la badante di mia madre invalida. Mai e poi mai la vecchia ha notato “il pezzo in più” sotto la minigonna in lanetta. Figuriamoci… la crede femminissima e la chiama “Susanna”. Quella notte Savannah fa lo stesso, evita anche i trambusti dell’ascensore, scende silenziosa a piedi e si avvicina alla porta chiusa. Non così chiusa quella notte. Anzi. La maniglia la trova spanata, e c’è una fessura tra mura e lamiera da cui arriva una puzza da oltretomba. Qualcuno ci ha appena defecato in quella cantina. Savannah si affaccia d’uno spicchio e vede un morto. Un vecchio morto, la criniera stopposa da leone a fine carriera, la barba lunga l’intero collo. È sdraiato a occhi sbarrati su un letto alla buona, composto da un telaio di divano senza cuscini. Per seduta, un vecchio


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piumone rimboccato in un lenzuolo. Giusto per rendere l’idea dell’estrema eleganza del capezzale. *** Lei subito mi chiama al cellulare, è lì ad aspettarmi impietrita, il viso rigato dalle lacrime e il naso sporco. E io, frattanto. Io ho ancora una cameretta a ponte, di quelle con il letto incastrato in un buco al centro dell’armadio. Ce l’ho da ventisette anni, dentro ci vado un po’ stretto e sto a ginocchia rannicchiate. E quindi io, da ventisette anni, se svegliato così di soprassalto nel cuore della notte, ogni volta faccio un balzo di schiena e nell’alzarmi do una craniata al mobile pensile che mi aleggia sulla testa. «Ma che gente siete, tenete i morti in cantina?» mi starnazza all’orecchio la badante in astinenza. Con il tono però di chi è più seccata per l’imprevisto che per l’orrore della cosa. «Morti interi, dici? No. In genere li passiamo prima nel tritacarne industriale, quello che sta sulla mensola a sinistra.» Poi mi faccio quel filino più nervoso e alzo la voce: «Ma che puttanate vai cantando, Sava’? Ti ho detto che dopo aver fumato devi sparire, gli acidi te li devi svernare a casa tua.» Inevitabilmente dall’altra stanza arriva la voce di mia madre, che ha il sonno più leggero di un disoccupato con i debiti: «Chi èèèèè?» dice, mentre avvicina a sé la carrozzella che si


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impiglia nello scendiletto, facendo traballare il comodino che inclinandosi fa cadere a terra tre bomboniere e una cornice in silverplate. «Niente ma’, sono io» le urlo dalla parete «Savannah dice che c’è un cadavere in cantina. Tu ne sai niente?» «No.» «Allora mo’ scendo a vedere. Tu rimettiti a dormire, se mi serve una mano ti chiamo.» Esco sul pianerottolo, con il mio pigiama grigio topo che sembro un tappeto arrotolato pronto per la lavanderia. Per fortuna l’ascensore è al terrazzo, mentre lo chiamo e aspetto che arrivi ho il tempo di sonnecchiare per altri trenta secondi, rimanendo seduto per terra, puntellato con la schiena sulla ringhiera delle scale. Il pavimento è gelido e pregno d’umidità. Ma se non ricordo male ho le mutande di lana; a meno che ieri sera, mentre ero sbronzo, non ho infilato un pigiama sull’altro. *** Ventisette anni di craniate – non scherzo – alla lunga mi hanno scavato un solco in fronte. Sul lato destro che va dal sopracciglio all’attaccatura dei capelli, talmente profondo che quando sulla carta d’identità andavano indicati i segni particolari a me potevano scrivere: “fronte spaccata”. Oppure non potevano scriverlo. No. perché è una linea invisibile che conosco solo io. Per mostrarla a un chicchessia


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dell’anagrafe sarebbe servito spingergli per bene un dito da un’estremità all’altra. Non l’avrebbe vista, ma almeno sentita al tatto: una fenditura larga un micron di millimetro, però tanto profonda da far impressione. Fortuna che la pelle sopra ha fatto un buon lavoro. Un preludio all’unicità, tipo i trip di Sid Barrett, il gol di mano di Maradona o quella volta che Prost, già nel giro di ricognizione, scavalcò i cordoli e andò per trifogli. Roba esclusiva e irripetibile. Una fronte così, metti che suoni, è un glissato sporco di Jimi Hendrix sul manico mancino della sua Stratocaster. Il fatto è che quando ho mal di testa, lì ne sento di più. Mi sbatte, prude e pizzica. Come se una zanzara, anziché accontentarsi di pungermi, si allenasse pure a fare a cazzotti. Questa scena di me che esco di notte in pigiama, tirandomi dietro una cefalea, non a grappoli ma a rami interi, più questa mano sull’occhio, come se volessi calmare il dolore d’un solco in fronte, dovrebbe ispirare quel po’ di ragionevole compassione per i fatti che succederanno dopo. *** Poi, ok… il morto non è morto. Si era sdraiato lì, punto. Senza nemmeno accorgersi di Savannah. Quel fatto del cagarmi a terra invece lo ha fatto davvero. «Che ci fate qua, scusate?» chiedo. «Boh. Per strada faceva troppo freddo, allora sono entrato nel


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primo portone aperto» risponde lui. «Ma la cantina era chiusa.» «Dite? Che ne so, ho tirato la maniglia e s’è aperta pure quella. Posso stare per stanotte?» «No. Qua al condominio avrebbero da ridire. E voi sporcate pure, guardate qua. Bastava abbaiare e vi portavo ai giardinetti.» «Che sarà mai, ripulisco. Posso stare o no?» «Al massimo per la notte, guardate. Poi sparite, o chiamo i carabinieri e vi denuncio. A proposito, come vi chiamate?» «Io? E che ne so.» «Come sarebbe?» «Non me lo ricordo. Non mi ricordo niente. Mi sono svegliato all’ospedale, dovevo scappare e sono arrivato qua.» «E da cosa dovevate scappare, se non vi ricordate niente?» «Non proprio niente. Una cosa, una sola, me la ricordo bene. Ho ucciso uno.» «Uno chi?» «Non lo so. L’ho accoltellato e l’ho buttato da un palazzo. Va bene così?» «Ottimo, buonanotte.» Chiudo al meglio la porta rotta, lo lascio là a vaneggiare. Savannah ha fatto un malloppo di carta e segatura col grosso della merda, il resto lo ramazza con uno straccio bagnato. Va fuori, butta nel cassonetto, mi aspetta nell’ascensore. Una volta chiuse le porte lo blocca al piano. Non dovrei accontentarla adesso, ma sono un perfetto uomo di questo millennio. E di schiena, col sonno, non faccio distinzioni.


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DUE

Chiariamo. I carabinieri non li ho chiamati io, ma l’inquilino modello del piano di sotto. Andava a pesca, è passato a prendere gli attrezzi e gli è parso utile e garbato impicciarsi di affari altrui. Il barbone, tra l’altro, ha persino detto che sono stato io a dargli il permesso di dormire lì. Vengono a prenderlo mentre ancora sto dormendo, me lo dice mia madre, si avvicina al letto sulla carrozzella cigolante: «Achille! Tu dato permesso a uno vecchio sporco di dormire in nostra cantina?» Trent’anni d’Italia e non sentirli, mia mamma. Ancora sintassi e accento scricchiolante da mugnaia di Stalingrado. Ho un rivolo bruno di saliva e una palpebra ammaccata, mi volto che sembro il replicante di Blade Runner. «Eh sì. Perché?» «Dovevi dire prima a me. Io non creduto lui, e carabinieri hanno arrestato.» Salto dal letto, stavolta senza craniata. Mentre scendo, il pigiama mi si arriccia alle ginocchia. «Come arrestato? E che male stava facendo?» «Cioè non arrestato proprio. Portato a sua casa, non so dove.


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Tu però a me doveva avvisare.» «Ok, ok. Doveva avvisare.» Inutile perderci tempo, anni fa a mia madre è schizzato un trombo nel cervello e da allora si è creata un mondo tutto suo. Quel poco d’interazione logica che sembra mettere nei dialoghi è, per buoni tratti, pura illusione. La radiosveglia dice che ho mezz’ora per andare in ufficio. L’immagine del vecchio mi sfiorisce rapida dalla memoria, ho altre incombenze. Tipo un caffè doppio, per dire, che come ogni mattina non arriverà mai. *** In questa storia io ho ancora una macchina. Una Plymouth Voyager del ‘93, color “Coppa del Nonno” con una riga beige sulla fiancata. Una sola portiera posteriore, e per giunta scorrevole. Come fai a non chiamarli geni? Arrivo sotto l’ufficio, parcheggio, ed entro che stanno già salvando il mondo, chiusi in una stanza alle mie spalle. C’è il capo, Raoul Calcafante, la sua assistente Belinda; un avvocato, e un Assessore Regionale. Non che li veda attraverso le pareti, ovvio, è che a un certo punto gli porto il caffè e Raoul me li presenta. L’avvocato e l’Assessore, voglio dire. Belinda la conosco già. Lavora qui da due settimane. Succede che proprio lei esce a scroccarmi una sigaretta e fumiamo insieme, entrambi con un braccio infilato in uno


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spiraglio della finestra aperta. «Ah» legge un mio attestato di formazione appeso alla colonna «anche tu del ’77.» «Anche tu?» chiedo. «Yesss… io ottobre, però» fa un sorriso scemo e mi fa l’occhiolino «sei più vecchio di cinque mesi.» Poi guarda la stanza, questo salone d’attesa in cui, al di là del bancone, provo a tenere in ordine i conti tra una telefonata e un trillo di citofono. Nessuno gliel’ha chiesto, ma lei cerca di fare più luce. Preme l’interruttore dietro la porta, un clic a vuoto. È guasto. Vado all’imbocco del corridoio dove ce n’è un altro. Accendo, ci imbianchiamo di neon, ritorno sulla conversazione delle date di nascita eccetera. Non serve. Lei mi ricorda che ha una laurea in legge e tre concorsi falliti in magistratura, e rimette le distanze. «Raoul chiedeva se eri pronto per quel verbale di conciliazione alle officine Romilk. Oggi ci andiamo.» «Sono pronto da ieri. Dovevate andarci stamattina.» «È che c’è da fare stamattina. Sai chi c’è, lì dentro?» Me ne strafotto, cambio discorso. «Se alla Romilk non ci andate nemmeno oggi vi lascio la data in bianco. L’ho strappato già tre volte quel verbale.» Se ne strafotte anche lei. E continua il discorso: «Quei due, da soli, decidono quale fabbrica inquina e quale no in un’intera Regione. Se riusciamo a fargli sbloccare la costruzione del sansificio nella Val d’Agri recuperiamo almeno


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duecento assunzioni. Un bel colpo per il sindacato, no?» «Ah, certo. Quindi sul verbale ce la metto o no questa puttana di data?» Belinda s’avvampa dietro gli occhiali spessi, ha la testa di una Betty Boop gonfiata a segatura. Butta il mozzicone e fa un giro di tacco quindici. Poi torna nella sala vip. Alle undici mi chiama Savannah, è allarmatissima, solo tre parole e mi si mette un macigno sullo stomaco. Così mi alzo, spengo tutto e scendo in strada. A piedi, passo nevrotico, arrivo dai carabinieri. *** “Non so come mi chiamo, non mi ricordo niente, ho ucciso uno.” Cazzate. Non solo il vecchio si è fumato il mio crack, ma mi ha pure fregato la scorta. Savannah ha ficcato una mano sotto la scocca in similpelle del divano e non l’ha più trovata. L’appuntato scrive al computer col solo indice, poi maneggia con il mouse come se stesse afferrando cauto un riccio di mare. Arriva aria calda e un gracchiare di ventole. «Dite un vecchio? E che vecchio?» «Uno non più giovane.» «Giovano’, aspettate, guardate qui» si punta un dito al grugno molle e arriccia le palpebre «vedete? Mi sforzo pure, ma non riesco a ridere.» «Era così per dire. È che non me lo ricordo com’era fatto il


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vecchio. Quanti barboni avete raccattato stamattina in via Alighieri 25? Una trentina?» «Ah, un barbone. Allora nessuna casa, sta alla fondazione Samaria, li portiamo tutti là. Quando li troviamo vivi, si capisce.» «Lui ha detto che è scappato da un ospedale.» «Così ha detto? Boh. A noi non risulta nessuna denuncia.» «Ok. E dove si trova la Samaria?» «Dietro lo svincolo dell’autostrada, dov’era l’istituto agrario. Che, ci volete andare?» «Macché. Voglio aggiornarmi la cartina della città. A casa mia siamo fissati.» Esco e vedo il cielo che è diventato color catrame, si sentono tuoni dietro il profilo delle colline. Arrivo sotto l’ufficio, mi riprendo la macchina, parto sotto i primi schizzi di pioggia. Pochi secondi e per strada è già il caos. Per un buon tratto guido in coda, più che passo d’uomo è un passo d’uovo: paziente immobilismo in attesa della schiusa. Per dare un prozac all’isteria provo a calmarmi e cerco qualcosa da fischiettare. Esce a sorte “Liù” degli Alunni Del Sole, un motivetto anni ’70 su una benefattrice di piselli che stava a oltranza “sul letto caldo o su un divano”, e di certo non per una flebite o cos’altro. Reminescenze d’infanzia, che arrivano da una collezione di vinili di mia madre che resiste ancora in qualche vano alto dell’armadio a muro. Un pezzo che m’è girato per casa all’infinito a ogni ora, che fosse giorno, notte o l’aurora


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boreale, nel giradischi omaggio della Reader’s Digest. Vai con Liù che “si stendeva su di noi e ci dava un po’ di sé senza chiederci perché”. Mitica trombatrice di massa lei, e per giunta col dono del silenzio. Canzone, in definitiva, cui all’epoca riconoscevo il solo merito di farmi chiudere in bagno ed evocarmi le immagini adatte allo sviluppo di certe pratiche in solitaria. E però in effetti no, non tutto è svanito, qualcosa succede anche adesso. Fischiettando e ricordando, di colpo mi ritrovo a plasmare viso e corpo di questa misteriosa Liù sui tratti di Belinda. Me la disegno ballonzolante nel suo incedere da anatra isterica, poi sbrigativa nello sfilare il cappotto e rimanermi davanti in una qualche sottana fiorita. E ancora, dismessa anche questa, a metà fra sciatta e invitante in una nudità da foca monaca ma fornita. La vedo inforcare gli occhiali, con la montatura d’osso che le va appena al di sopra degli zigomi marcati, e gli occhi larghi a ballarci dietro come boe nel mare mosso. Segue un buio fulmineo, nuova scena, cambio inquadratura: eccola sul letto ora, che distesa su un fianco mi offre le spalle. La coda dei suoi capelli unti prende vita, serpeggia, diventa un segnale di senso unico che – mirando dritta allo spacco fra le natiche – è un chiaro nulla osta per una signora cavalcata. Poi però le viene da declamare un qualche codicillo dai suoi manuali di legge, e stop, storia mentale finita. E altrettanto mentalmente la spingo giù per le scale.


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*** La fondazione è un palazzo ormai cariato, con le gambe addentate da un vecchio incendio. Parecchi vetri rotti delle finestre sono tappezzati con il nastro adesivo. Parcheggio nello slargo, c’è più fango che strada. Sfrecciano a piedi ragazzini con la pettorina fluorescente. «Chi, Sirio?» dice subito uno che becco all’ingresso «c’è un soppalco sopra al dormitorio. Lo trovate là. Non si è mosso da quando è arrivato.» «Sirio? Si chiama così?» domando. «Non lo sappiamo come si chiama. Farfuglia, parla da solo, dice che ha perso la memoria. Il soprannome ci è venuto così, per il fatto che ha la testa fra le nuvole.» «Uh, che originali e divertenti. Se era storpio come lo chiamavate, Ironside?» Mi ficco in questo androne che puzza di piedi e cipolle, svolto un paio di corridoi, chiedo altre informazioni. Ci sono disperati che vagano o sostano a decine, un borbottio di televisore, rumori di stecche di calcio balilla. Urla, qualche lacrima, risate e un’eco ovunque che altrove – una chiesa, una scuola, un museo – farebbe atmosfera, ma qui sfonda le palle. Lo trovo alla fine. È seduto su una panca di griglia, la giacchetta attillata di panno, un maglione rosso col collo a dolcevita. Ha in mano uno strappo di stoffa e ci legge sopra.


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Mi siedo accanto a lui. «Magari non l’hai fatto apposta, ma mi sa che stanotte ti sei preso qualcosa di mio» dico. Lì per lì lui guarda crucciato, non ha capito chi sono. Poi gli vengo in mente e il suo sguardo muta espressione. «Scusatemi assai, nemmeno me n’ero accorto» mi porge lo strappo di stoffa «me lo sono appena trovato in tasca, non so come c’è finito. Tenete, riprendetevelo pure. Basta che mi ridate il biglietto, però.» Rimango di stucco, con in mano questo pezzo sfilaccioso di cotone verde, grande quanto un quarto di foglio di carta. Nel mezzo è cucita un’etichetta: “Manufatti Cortese”. Più in basso, scritta a mano con un pennarello rosso, la scritta “H2O”. Glielo ridò. «Questo non è mio, nonno. E non tengo1 nessun biglietto tuo. Quello che dico io è una busta di plastica bianca, era sotto la fodera del divano. Dentro c’erano dei… certe cose importanti, che mi servono subito.» «Ah no, buste non ne ho prese. La verità è che volevo mangiarmi certe melanzane sott’olio che tenevate nel mobile… ma non sono riuscito ad aprire il vasetto, il coperchio era stretto forte.» Ho i nervi prossimi a esplodere, mi trema un labbro. Se sta recitando lo fa bene, occorrerebbe un calcio nello stomaco per esorcizzarlo dal ruolo. 1

In dialetto campano “tenere” significa “avere”.


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Ma non posso pestarlo qui. «Perché non vieni fuori un attimo? Fa un bel fresco, ci rischiariamo le idee.» «E il biglietto me lo date?» «Ma quale biglietto?» chiedo spazientito. «Quello dove c’era scritto un indirizzo. Magari è casa mia.» «Io non l’ho proprio visto questo biglietto. Se vieni fuori ti ci porto io a casa. Che indirizzo c’era scritto?» «Non me lo ricordo. Era sul mio comodino all’ospedale. Prima di scappare ho avuto giusto il tempo di metterlo in tasca. Me lo volevo guardare dopo, con calma. Poi però sono arrivato nella vostra cantina, mi sono distratto e non l’ho più letto.» Mi viene un dubbio rapido, se davvero questo ha la testa così malmessa è difficile che abbia avuto arguzia e fegato di fregarmi la roba. Penso pure ai carabinieri. In fondo loro erano lì per recuperare un balordo, non altro. Scovare una busta di crack senza doverne dare conto a nessuno, sommano almeno tremila euro caduti perfettamente dal cielo. Ma no, macché, la Benemerita2, che vado a pensare. Anche se di tanto in tanto qualcuno la combina sporca anche lì dentro. Per il momento lo lascio lì e mi apposto fuori, masticando amaro. Prima o poi uscirà da solo e gli scuoierò la verità dritta dal pomo d’Adamo. 2

Termine che designa comunemente l’Arma dei Carabinieri.


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Nel frattempo mi chiama mia madre. È ora di pranzo e non sa aspettare. «Tu passa per cantina e riempie una bottiglia di vino, sì? Io andata, ma non riuscita a piegarmi fino sotto scaffale» dice. È una botta allo stomaco, sudo freddo. Mia madre non ci va da anni in cantina. «E perché sei scesa laggiù, scusa?» «A controllare cosa fatto barbone, stanotte. Susanna detto “niente, niente”, ma non era così. C’era puzza terribile, come di cacca, e io non potuto nemmeno aprire finestrella. E poi lui anche dimenticato là certe sue cose.» «Cose? Che cose?» «Boh, a me parso… sai questi che fanno collizione di pietre, no? Che fanno giri e giri in spiaggia a raccogliere… tante piccole pietre, tutte belline. Stavano in bustina di plastica, nascosta dentro divano.» Ecco, lo sapevo. Non sono parole, ma quintali di letame che mi seppelliscono vivo. Perché il più delle volte mia madre – si sarà capito – ha problemi seri a mettere d’accordo visioni e reazioni. Corro verso la macchina, scanso d’un palmo un carrello elevatore che scarica un camion. Entro e metto in moto. «Mamma per carità, che ne hai fatto? Non è roba nostra, va restituita.» «E io già fatto, mica scema. Su divano c’era biglietto con uno indirizzo, sicuramente sua casa, io dato tutto a portinaio per spedire là.»


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Ok, è finita, avrò la pressione a trecento. Il respiro mi si fa asmatico e mi sfonda il petto. Dall’altro capo del telefono sento invece una risata soffocata e il cigolio della carrozzella smossa. «Io immagina vecchio contento, quando arriva a casa e trova sua collizione, no?» *** Il portinaio mi guarda imperturbabile da sotto gli occhialini alla Cavour. Ha un maglione grigio, di lana riccia, impregnato di puzza di fritto. «Achi’, che t’incazzi? Tua mamma voleva buttare dieci euro di corriere espresso. Io invece ho pesato il pacchetto e ho visto che andava bene pure la posta ordinaria. Con il francobollo prioritario arriva comunque in un paio di giorni. Mi devo sentire in colpa perché vi ho fatto risparmiare sette o otto euro?» Gli fumo in faccia, con la sigaretta che mi trema fra le dita. No, non può essere. Non sta succedendo tutto a me. Non tutto oggi, almeno. Di certo adesso sbucherà fuori quello della candid camera, le comparse, gli assistenti, e giù applausi e un mio sospiro di sollievo che farà tremare il palazzo. Frattanto però ansimo. «Don Save’… voi mi state dicendo che di questa spedizione non abbiamo nessuna ricevuta?» chiedo. «No, ma… a che ti serve? Non credi che ce l’ho messo davvero


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quel francobollo?» «Don Save’, me ne fotto del francobollo. A me serve quell’indirizzo. Ditemi almeno che ve lo ricordate.» «Io? E chi l’ha letto. Tua mamma mi ha dato la busta già scritta, io ho solo affrancato e imbucato. Sta’ tranquillo, vedrai che lei l’indirizzo l’ha conservato.» “Infatti”, penso io “sto tranquillo”. Tranquillissimo. Collassato, quasi. Perché lei al telefono mi ha detto che quel biglietto con l’indirizzo “puzzava anche lui, e allora fatto tutti pizzittini e bruciato in camino”. *** «Ma tu l’hai letto, no? L’hai ricopiato, diamine, non mi dire che non lo ricordi.» «Aspetta, piano piano vedi che torna a mente. Comunque nome di città io già quasi ricorda, è una cosa come Cicciona, Grassona…» Fuori piove forte, in strada ulula a oltranza una sirena d’antifurto. L’imbottitura della poltrona mi fa da sabbie mobili, in cui a sfintere irritato affondo e annaspo di disperazione. Sono solo, senza compagnia nel sovrappensiero, come al solito. Oggetto accatastato e archiviato in questa casa, né grande né piccola, in cui si stipano comodi tutti i gas di scarico di una vita media. Anch’io come i libri, i piatti fondi e piani di ceramica


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vietrese, il pianoforte Rud Sohn scordato, le due pellicce di volpe o quasi, il cibo per cani di quando c’era un cane, la cyclette smontata di quando facevo cyclette. Il baule di fotoricordo, di quando avevo ricordi. Ironia della sorte, si dice per frasi fatte. In questa casa una mamma con i neuroni a spasso mi è sempre stata bene, per poter fare i miei porci comodi. Tirarmi in stanza puttane, fregarle i soldi, farmi di marijuana spacciando il cilum per un beccuccio dell’aerosol. E usare quella stronza di cantina ammuffita come magazzino per la roba. E adesso zac, la legge del contrappasso. Mi ammalo della stessa medicina con cui mi volevo curare. Ho tre giorni di tempo, nient’altro. Fra tre giorni esatti dovrò dare a Godzilla l’incasso più le dosi invendute di un carico di sessanta grammi di crack attualmente in viaggio verso l’ignoto. Inutile affliggersi, allora. Durerà poco. Fra tre giorni sarò serenamente, semplicemente, morto. Eppure… Tre giorni sono settantadue ore, che in effetti non è poco. Se riuscissi a recuperare cinquanta euro all’ora, per esempio, oltre a dare il malloppo a Godzilla potrei anche rifare la guarnizione della testata al Plymouth. Vado su internet. Ho solo un “collegamento logico” che è meno di niente. Se l’indirizzo è la casa di Sirio il barbone devo andare là. Un’altra cosa che so di lui è che reggeva in mano un pezzo di stoffa con su scritto “Manufatti Cortese” e “H2O”.


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Vado su Google ma sulla sigla H2O non trovo niente, a parte migliaia di link che rimandano alla formula dell’acqua. La verità è che non so nemmeno cosa cercare. Quello che mi fa ululare invece, è la “Manufatti Cortese”. È una sartoria industriale. È l’unico risultato della ricerca, per cui non c’è modo di equivocare. Situata in una città che non si chiama, come diceva mia madre, Cicciona o Grassona, ma qualcosa che in dialetto dà l’idea di un analogo problema di sovrappeso femminile. Chiatona, è il posto. Una spruzzata di chilometri da Taranto, duecentocinquanta da dove siedo adesso, tre ore scarse di macchina. Una volta preso Sirio alla fondazione Samaria e portato lì, nei paraggi di casa, magari ricorderà qualcosa o qualcuno lo riconoscerà. Giusto in tempo, forse, per pretendere dal postino quella collizione di pietre che mi salverà il culo.


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TRE

Dovevo morire tempo prima, sto morendo adesso, fa niente. Qualche giorno in più di vita mi dà modo di pensare a me stesso in modo diverso, o almeno di illudermi che sia così. Fatto sta che nel frattempo muore il mio capo, Raoul Calcafante. La telefonata macabra mi arriva quando sono quasi vicino alla fondazione Samaria per portare via Sirio il barbone. Ho provato già il giorno prima a farlo uscire, ma era al pronto soccorso e doveva passare la notte sotto osservazione. «Che gli è successo?» ho chiesto a uno di piantone. «Boh. A un certo punto si è fatto furioso come un toro infilzato dalle banderillas. Così, senza motivo. Ha dato un pugno in un vetro e si è tagliato una vena del polso. È spruzzato sangue ovunque, sembrava Spiderman che lanciava le ragnatele.» «Mi piacete assai per come trovate i soprannomi, davvero. Passo a prendermelo domani. Se è ancora vivo, ‘sto giro lo chiamiamo Lazzaro.» Altre dodici ore sprecate ad aspettare per le dimissioni, e ora c’è pure la notizia del Raoul massacrato. I carabinieri mi convocano sgarbati sul posto, il numero glielo ha dato Belinda, la sfigata segretaria segregata. Quella che sarà


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andata al lavoro anche di sabato per accelerare un’improbabile promozione. È già stata interrogata, ha detto che il cadavere lo ha trovato lei, nella sala d’attesa, non appena aperta la porta. Non si è nemmeno avvicinata più di tanto, è subito svenuta. In sostanza, i vicini hanno chiamato il 112 più per lei che per il morto. Avrà fatto un botto enorme allora. Intanto arrivo anch’io, dopo la telefonata ho fatto subito inversione allontanandomi dalla fondazione. Passerò dopo a prendere Sirio. È sconsigliabile andare sul luogo di un delitto con uno che da due giorni giura di aver ucciso un uomo. Come minimo ci accusano di preveggenza a delinquere. In realtà sembra che lo stimato sindacalista Raoul Calcafante sia morto per un incidente. L’hanno pestato a sangue, una di quelle lezioni sul come e quando farsi i fatti propri, tutto qua. Però sono arrivati anche colpi al costato, e lì non si doveva: da un mese buono Raoul scontava i postumi di una pleurite mal curata. Asfissia da pneumotorace traumatico, ipotizza a paroloni il medico legale. Una complicazione casuale, involuta. Quasi che, una volta preso l’assassino, ci sia solo da rimandarlo a casa con un buffetto sulla guancia: «Mi raccomando, la prossima volta stai più attento.» Lo Sherlock Holmes della situazione è il tale Capitano Passaturo. Gira in borghese e presentandosi fa un accenno di saluto militare. Ha il pizzetto rossiccio, e forse, sotto il berretto lercio da pescatore, lo sono anche i capelli.


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«Voi come mai non ci siete andato in ufficio stamattina?» mi chiede. «Il sabato siamo chiusi. Quella buffona ci sarà andata per farsi bella col padrone.» «Mhm… e dove siete stato, invece?» «A letto, per lo più. Mo’ proprio però ero uscito di casa per andare alla fondazione Samaria.» «Siete uno dei volontari?» «Una specie. Insieme ai guardiani aiuto a trovare nomi sfiziosi ai barboni che non se lo ricordano.» «E… sapete niente di chi può essere stato?» «Macché. Io in quest’ufficio ci volo basso, tengo a posto i conti e ordino le pizze. Per quello che mi pagano è pure troppo.» Intanto arriva un suo aiutante in divisa, gli si avvicina all’orecchio e bisbiglia qualcosa. Subito lo vedo togliersi il berretto e toccarsi con due dita la testa con i capelli a spazzola. «Va buo’3. Potete andare» mi dice. «Come… posso? Ma come funziona adesso? Devo tenermi disponibile, non posso lasciare la città e tutte quelle cose?» «No. Funziona che vi togliete dai piedi e fate quello che volete.» Chiaro che è distratto da altro, non gli interesso più. Difatti si volta, e tra il curioso e il professionale guarda oltre il nastro divisorio che ci separa dalla folla. C’è un brusio crescente, poi urla, qualcuno che picchia o sputa, e tutta una diffusa 3

Va bene.


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agitazione da linciaggio. Due carabinieri rigidi si fanno strada a gomitate, trascinando un ragazzo smunto e spilungone in tuta da lavoro. Quando lo fanno entrare nella volante, piegandogli la testa a manate, la gente è così delusa da quest’arresto fulmineo che si disperde in un niente. Rinunciando persino a quel “classico del repertorio” che è l’uscita in barella del morto. *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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