Con la mia valigia gialla

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STEFANIA BERGO

CON LA MIA VALIGIA GIALLA

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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata

CON LA MIA VALIGIA GIALLA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-515-1 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Aprile 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


Alla grande famiglia del Tamarindo.



Ringrazio l'ass. "Un ospedale per Tharaka" e tutti i miei compagni di viaggio che hanno reso indimenticabile quest'avventura.



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Ricordi Ricordo bene il giorno in cui sono partita. Il 22 dicembre 2004, un mercoledì. Ero in ritardo ma anche il mio treno lo era. Il destino voleva proprio che io partissi. Salii al volo, con la mia pesantissima valigia gialla, sbirciando appena tra la gente rimasta sul marciapiede della stazione. E incrociai gli occhi lucidi di mio papà che mi salutava. Il treno era pieno di gente, persone che tornavano a casa per Natale o che andavano da qualche parte, in posti dove c’era altra gente ad aspettarle. E sembravano tutti così feli‐ ci, così eleganti. Io no. Mi ero sistemata nel corridoio, seduta sulla mia valigia gialla, appoggiata al finestrino. Guardavo fuori, sforzandomi di ricordare come fossi arrivata fin lì. Appena venti giorni prima avevo trovato l’associazione “Un ospedale per Tharaka, Kenia” su internet. Mi era piaciuto il nome. Già, perché io avrei voluto andare in un ospedale. E proprio in Kenia. Non so perché, forse era solo il mio destino che si stava delineando, che mi stava portando nella giusta direzione senza che nemmeno me ne rendessi conto. Sape‐ vo solo che volevo scappare dal Natale, dalla gioia degli altri.


8 Ma andare semplicemente in vacanza era troppo facile e scontato. E poi avrei trovato altre famiglie, altra gente feli‐ ce, altre persone che si vogliono bene solo un mese all’anno perché ci si sente obbligati da un’entità superiore o, peggio ancora, dall’abitudine, dalla pubblicità che confeziona sen‐ timenti di plastica. Avevo telefonato ad almeno dieci associazioni. Ma c’erano sempre mille problemi: non ero un medico, avrei dovuto stare in Africa per non meno di sei mesi, fare dei corsi di preparazione, pagare una quota di iscrizione elevata. Ormai ero demoralizzata. Perché doveva essere così difficile fare qualcosa di buono? Poi, all’ultimo tentativo, dall’altra parte della cornetta trovai il sole. Antonia. L’entusiasmo della sua voce mi travolse subito. «Sì, vieni pure, abbiamo bisogno di giovani che abbiano voglia di fare…», mi disse al telefono. E poi c’era un’ala pediatrica da progettare quindi avevo an‐ che la possibilità di fare il mio lavoro. Perfetto! Nel giro di due giorni avevo il biglietto aereo tra le mani. Tutto così, d’istinto, come ho sempre vissuto la mia vita. Ecco com’ero arrivata fin lì, su quel treno. Mi sentivo sola. Ero quasi pentita di aver agito così impulsi‐ vamente. Avevo paura. Non sapevo cosa avrei trovato là, non conoscevo nessuno. Avevo incontrato un’unica volta, per circa dieci minuti, il dottor Giorgio e la signora Antonia. Ma allo stesso tempo ero determinata ad andare fino in fondo, forse anche per mettermi alla prova, per dimostrare


9 che ero in grado di cavarmela con le mie sole forze. Ho sempre detestato dipendere da qualcuno, soprattutto quando quel qualcuno non c’è mai al momento giusto. È vero, forse sono partita più per aiutare me stessa che gli altri. Ma, come mi aveva detto un prete a cui avevo parlato della mia voglia di partire per l’Africa come volontaria, non ci è chiesto di fare qualcosa esclusivamente per gli altri, non ci è chiesto di soffrire come dei santi per salvare vite altrui. Siamo modesti esseri umani. E se parte di quel bene che facciamo ci torna indietro non è una colpa e non toglie certo valore alla nostra scelta. Arrivai a Milano. Quanto pesava la mia valigia gialla. O forse era l’anima a pesare. All’aeroporto ancora gente indaffara‐ ta, felice, entusiasta, così lontana da me e dai miei pensieri. Feci le ultime telefonate prima di uscire dall’Italia, sperando forse che qualcuno mi chiedesse di non andarmene. Ma poi, finalmente, l’aereo decollò. Feci scalo a Londra un’intera notte. L’albergo era davvero lussuoso, assolutamente in contrasto con la mia destinazio‐ ne finale. Una volta lì, mi resi conto che ormai la mia avven‐ tura era decisamente e irreversibilmente iniziata. Ma non avevo ancora lo spirito giusto e avevo solo marginalmente intuito quanto sarebbe stato importante e liberatorio per me questo viaggio. ***


10 Sms del 22.12.04 ore 23.14 Sono solo all’inizio… e già mi sento sola… beh, forse xchè so‐ no in questa stanza d’albergo ultra lusso, a Londra, e sto guardando un film in spagnolo...magari domani, in una terra vera e calda come l’africa, mi sentirò meno sola….un abbrac‐ cio.


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Un arrivo inaspettato Londra‐Nairobi sono circa otto ore. Durante il viaggio ho dormito a lungo, mangiato dell’accettabile pesce speziato − che ho ordinato solo perché non ho capito in che cosa con‐ sistesse l’alternativa− sbirciato appena i film in programma‐ zione in lingua originale. Arrivo che è ormai sera. Una sera tiepida di fine dicembre. Evviva! Scendo dall’aereo annusando l’aria, tentando di car‐ pire subito il profumo dell’Africa. Ho la giacca a vento inver‐ nale legata ai fianchi. Qui non mi servirà, mi dico felice. Fac‐ cio la fila per il visto, cercando di cogliere almeno qualche parola di italiano attorno a me. Scorgo tra la folla un paio di ragazze dirette in qualche missione, a giudicare da come sono vestite e dalla chitarra logora che una di loro porta le‐ gata a tracolla con lo spago. Guardo l’impiegato che timbra la pagina del mio passaporto. Ecco, ora sono ufficialmente in Kenia. E ci sono arrivata da sola, penso con orgoglio. Mi sento persino più grande. Scendo le scale e aspetto di vede‐ re apparire la mia valigia gialla sul nastro trasportatore. E, nel frattempo, allungo lo sguardo oltre la vetrata, dove un capannello di africani, da cui spunta qualche viso pallido, at‐ tende i viaggiatori. Ritiro il mio bagaglio e mi avvio verso l’uscita. Chissà chi sarà venuto a prendermi, mi chiedo. Ma‐


12 gari proprio il dottor Giorgio… e se non lo riconosco? No dai, non deve essere difficile, quanti bianchi ci sono là fuori a quest’ora? Due, forse. Magari ha mandato un autista con un cartello con su scritto il mio nome o quello dell’ospedale. Passo in rassegna tutti i cartoncini tra le mani dei volti sorri‐ denti in attesa, sperando di leggervi il mio nome. Ma niente. Mi sistemo delusa in un angolo e mando un altro messaggio al cellulare di Giorgio. Ne ho già inviati due ma non ho avuto ancora alcuna risposta. Chissà se li ha ricevuti, mi chiedo. Sono sola, realizzo. Ed è sera. Sera a Nairobi. Ah, e sono una straniera. Una straniera che mette il naso fuori dal suo gu‐ scio per la prima volta, quindi del tutto impreparata, ine‐ sperta… imbranata, insomma. E nessuno è qui all’aeroporto ad aspettarmi. Nessun cartello con su scritto il mio nome. La mia unica informazione in caso di emergenza è di andare al Flora Hostel e aspettare che qualcuno venga a prendermi per portarmi finalmente a Matiri. Solo che a volte possono volerci anche giorni, come mi disse Giorgio quel pomeriggio quando lo conobbi alla stazione di Ferrara. Ok, niente panico. Compro una scheda telefonica locale e provo a chiamare Giorgio. Niente, non riesco a prendere la linea. Un uomo di colore – d’altra parte, l’unica non colorata sono io − mi si avvicina e mi chiede se ho bisogno di un taxi, assicurandomi che il suo è un servizio ufficiale e che quindi posso fidarmi. Probabilmente ha notato il mio disagio, il mio timore. Non mi ha nemmeno sfiorato l’idea che potessero esserci dei taxi non ufficiali, quanto sono ingenua. Non ho


13 comunque scelta, mi fido. Gli nomino l’ospedale St. Orsola nel Tharaka. «Ah, doctor Giorgio, yes...», mi dice. Bene, tiro un sospiro di sollievo. Forse ho trovato un amico. Ken − questo è il suo nome − trascina la mia pesante valigia gialla fino alla macchina e mi fa accomodare sui sedili poste‐ riori. Mi siedo abbracciando il mio zainetto. Stringo il cellula‐ re tra le mani in attesa di un messaggio e mi incollo al fine‐ strino cercando di vedere. Ma nel buio riesco a scorgere po‐ co. E così non mi accorgo che proprio adiacente all’aeroporto c’è un parco nazionale, il Nairobi Park. Arri‐ viamo in città e finalmente riesco a mettere a fuoco dove sono. Le luci illuminano la strada, i negozi. Dio, com’è diver‐ so qui, penso. I marciapiedi − marciapiedi? − di terra battuta, le enormi rotatorie con la gente coricata a terra, addormen‐ tata tra l’erba, gli alberi carichi di fiori e di marabù, gli agenti con i fucili a guardia dei supermercati notturni. Singolare che siano queste le prime cose che noto. Arriviamo all’ostello… che è chiuso per le vacanze di Nata‐ le. I guardiani al cancello non vogliono farmi entrare. Sfode‐ ro il mio inglese da scolaretta diligente e cerco di convincer‐ li. Posso dormire anche all’aperto se necessario, penso. Mi basta entrare nel cortile, avere almeno una barriera tra me e la notte di Nairobi. Mentre cerco di tradurre il concetto al guardiano che mi sembra più ragionevole, Ken mi rassicura, non mi lascerà sola fino a quando non riuscirò a entrare. E se ci volessero ore? Grandioso come inizio. Ok, niente panico.


14 Ora chiamo la signora Antonia in Italia, sperando che non stia già dormendo. «Antonia! Scusa l’ora tarda ma… sono a Nairobi e non riesco a contattare Giorgio… l’ostello è chiuso… che faccio?», sempli‐ ce no? Per almeno un’ora lei, Mauro e Ivana − vicepresidenti dell’associazione − cercano di chiamare Giorgio e allo stesso tempo si tengono aggiornati sui miei progressi con le guar‐ die al cancello per riferirli a mia madre che là, in vestaglia, a migliaia di chilometri da me, passeggia in preda al panico per il salotto con il telefono in mano, maledicendosi per a‐ vermi lasciato partire. Ma, diciamocelo, ha forse avuto scel‐ ta? L’unico risultato è che finalmente riescono ad avvisare Giorgio, che non sospettava minimamente che fossi arriva‐ ta… e forse si è pure dimenticato chi sono, penso. «Non ha ricevuto alcun messaggio, lui», mi dice Antonia, «for‐ se hai fatto il numero sbagliato… o più facilmente là non prende… a volte passano giorni prima che riusciamo a met‐ terci in contatto con lui» o forse semplicemente nessuno mi aveva detto di mettere il prefisso +254 davanti al numero te‐ lefonico, come ho scoperto più tardi! Ok, è tutto risolto, qualcuno verrà a prendermi… domani mattina, con la luce del giorno. Sì, perché ci sono circa quat‐ tro ore che separano Nairobi da Matiri. E nessuno viaggia di notte attraverso i villaggi sperduti in Africa. Se non un inco‐ sciente o qualcuno che abbia un bisogno disperato di rag‐ giungere qualche posto. La strada non è confortevole nel buio, può essere pericolosa. Possono esserci degli agguati,


15 dei falsi incidenti o ammalati che ti costringono a fermarti e poi esce dal bush, dai cespugli, qualcuno che ti spoglia di tutto. La mia situazione per il momento non cambia, quindi. Eppure mi sento stranamente tranquilla per tutto il tempo. Dovrei farmi prendere dallo sconforto, magari diventare i‐ sterica e cominciare a piangere, mi dico, chiedendomi per‐ ché riesca persino a godermi l’aria tiepida della notte e sor‐ ridere. E così comincio almeno a lamentarmi del trattamen‐ to riservatomi dai guardiani con il mio amico autista, tanto per fingere, almeno con me stessa, di essere un po’ preoc‐ cupata. Dopo qualche minuto, la madre superiora del con‐ vento, che ho fatto chiamare su suggerimento di Ken, viene a vedere che succede, seguita da un paio di ragazze. Le spiego chi sono, cosa sono venuta a fare in Africa. E lei mi accoglie a dormire in una delle celle destinate alle suore − o meglio, alle giovani, quasi tutte dall’America latina, che lì stanno studiando per diventare suore − dato che Flora, la madre responsabile dell’ostello, continua a rifiutarsi di farmi entrare. «Anche Maria e Giuseppe hanno cercato un posto dove an‐ dare a dormire quando stava per nascere Gesù… e nessuno li ha fatti entrare… tu sei come Maria, ma senza Giuseppe e senza Gesù!», dice in italiano una delle ragazze, ridendo. Seguo la madre superiora fino al convento. Entriamo. Mi in‐ dica una porta sulla mia sinistra. È una stanzetta minuscola, con un lettino appoggiato al muro, un lavandino con un pic‐ colo specchio, una sedia… e basta, non ci sta altro. A stento riesco a farci entrare la mia valigia gialla. Chiudo la porta e


16 mi ritrovo seduta sul letto, da sola. Mi lavo i denti e mi infilo ancora vestita sotto alle coperte. E nel buio della stanza sento tutto il calore che stavo cercando e per cui ho viaggia‐ to tanto. Il calore della vita pulita, semplice, essenziale. *** Sms del 23.12.04, ore 22.48 Sono arrivata! Stanotte dormo dalle suore, mi sa niente coca e havana!! Hei, stasera fa freschino, solo 25 gradi... chissà do‐ mani mattina! Baci. *** Mi sveglio molto presto. Rifaccio il letto e apro la finestra che dà sul giardino, notando le sbarre oltre il vetro. Voglio sentire l’aria, il profumo dell’Africa, rendermi conto, con la luce del giorno, di dove sono approdata. Avverto un’inaspettata sensazione di benessere e di compiacimento sentendo la temperatura mite, ripensando al freddo dell’inverno lasciato dietro di me. Faccio colazione con tutte le ragazze del convento. E la cosa che subito mi rapisce è il loro sorriso. Sorrisi bellissimi, come un mazzo di margherite rosse. Da quanto non faccio colazione in compagnia. Sono solita divorare una brioche in macchina, tra un semaforo e l’altro, e bere un asettico caffè alla macchinetta dell’ufficio, in velocità, mentre il telefono già mi chiama al mio lavoro prima ancora di connettere il cervello al resto del corpo. Qui,


17 invece, a seimila chilometri dalla mia realtà, c’è una tavola imbandita con marmellata, torta ancora tiepida preparata per il compleanno di una delle ragazze, caffè, latte caldo, frutta fresca, pane in cassetta, burro in barattolo. E ci sono volti sereni. Anime gioiose che chiacchierano. Voci. Doman‐ de e risposte. Risate. Quando mi siedo a tavola con loro, mi offrono una fetta di torta, chiamandomi Maria − già, la Ma‐ ria senza Gesù né Giuseppe, me n’ero scordata − e giustifi‐ cando la frivolezza della colazione tutt’altro che frugale con il mio inaspettato arrivo. «C’è il tuo autista», mi dice la madre superiora sorridendomi. Sembra quasi che lo conosca. Forse non sono la prima per‐ sona diretta a Matiri che viene ospitata qui, penso. Saluto le mie nuove amiche, promettendo di passare a salutarle pri‐ ma di tornare in Italia. Mi presento a Kithinji, l’autista man‐ dato da Giorgio, che sembra capire l’italiano e tollerare il mio inglese scadente con un sorriso, come se ci fosse abitu‐ ato. Fuori ci aspetta il suo matatu, un pulmino a nove posti con le porte scorrevoli. Salgo davanti e lui comincia già a chiacchierare mentre varchiamo il cancello dell’ostello. Sor‐ rido falsamente al guardiano, come a dire “hai visto? E tu che non volevi nemmeno farmi entrare, tiè” e poi mi sinto‐ nizzo su ciò che mi accade intorno.


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Finalmente l’Africa Con la luce del giorno finalmente riesco a godermi Nairobi e a rendermi subito conto che non mi piace del tutto. C’è qualcosa che non mi convince. È una città dall’apparenza occidentale, con alti grattaceli, alberghi e auto lussuose − tante auto, che portano i livelli di inquinamento sopra i limiti sopportabili, tenendo presente che tutti i rifiuti dell’occidente, auto non catalitiche comprese, finiscono sul mercato Africano − uomini d’affari, ragazzi e ragazze che siedono ai pub chiacchierando, ridendo e bevendo birra. Ma poi, magari proprio dietro a una Mercedes, si può vedere un carretto carico di stracci e immondizia spinto da bambini lo‐ gori e sporchi che hanno passato la giornata a rovistare tra i rifiuti e ora portano a casa il bottino. O capita di attraversare alcune zone, magari adiacenti alle ville lussuose degli amba‐ sciatori, tenute al sicuro dal filo spinato elettrificato, e vede‐ re i mercati locali, le bancarelle improvvisate con rami con‐ torti e i sacchi neri della spazzatura per ripararle dal sole, la gente che passeggia nel fango e compra la frutta per pochi scellini, i bambini che aspirano la colla e chiedono spiccioli a tutti i passanti. Si sente l’odore nauseante della frutta mar‐ cia gettata ai lati della strada. Si vedono vecchi nei loro abiti strappati, consumati dal tempo. E ogni edificio, dalla cata‐


19 pecchia al palazzo, ha le sbarre a porte e finestre. È questo che non mi piace, il contrasto eccessivo che salta subito agli occhi, l’idea di una città da cui ti devi proteggere. Ma ci sono anche alcuni aspetti che mi affascinano. I negozietti minu‐ scoli carichi di merce esposta, per esempio, un’infilata di bassi edifici variopinti che si posano su alte piattaforme in cemento per separarli dagli scoli ai lati della strada, rigagnoli di acqua e melma che emanano un olezzo tutt’altro che pia‐ cevole. Le signorine eleganti, con i tacchi alti, che disinvol‐ tamente saltano tra le pozzanghere. Le mamme che pas‐ seggiano nei loro vestiti colorati con i bambini legati sulla schiena. I matatu veloci che scivolano nel traffico colmi di viaggiatori stipati come sardine in una scatola di latta. Le sfumature della frutta e delle stoffe dei mercati rionali. Finalmente imbocchiamo la Thika Road, la strada che ci por‐ ta fuori Nairobi, in direzione nord. E uscendo dalla città, ve‐ do l’Africa. È amore a prima vista. Dio, quanto è bella questa terra così primitiva, onesta, vera. È una donna morbida, nu‐ da, stesa al sole. Profumata. Calda. È un chiacchiericcio di colori, di voci, di suoni, di canti. È un fiume che scorre pigro e poi improvvisamente si aggroviglia veloce attorno alle rocce. Ci sono circa duecento chilometri tra Nairobi e Matiri. E io me li sto assaporando fino all’ultimo respiro. Kithinji mi descrive il paesaggio mano a mano che avanziamo. Mi rac‐ conta delle usanze locali, di quello che coltivano, dei primi coloni che hanno costruito ponti e scuole. Attraversiamo vil‐ laggi distesi lungo la strada, spazi interminabili di natura grezza, le risaie di Mwea, che è anche la città degli asinelli,


20 Embu, spartana ma ordinata ed elegante − «very polite1», come dice kithinji − e i mercati della frutta, poco prima di Chuka, dove finisce la strada asfaltata. Chuka. Me ne innamoro subito, malgrado Kithinji mi dica che sia l’anticamera dell’inferno. È chiassosa, coloratissima, affollata. Il centro della città è una stazione di servizio. Di fronte, dall’altra parte della strada, svettano due interi piani di negozi. No, non negozi a due piani, ma due piani di chio‐ schi vivaci accessibili, al piano superiore, tramite un lungo terrazzo, impilati come libri in bilico su una scrivania troppo piena, ovvero, la stazione degli autobus. I matatu affollano lo spiazzo alla rinfusa, arrivando da Meru e da Nairobi come se avessero poi fretta di ripartire. Ma qui i matatu partono a persone, non a orario. Quando sono pieni, cioè. Ne noto al‐ cuni con delle barre sul tetto per accomodare i bagagli. E le capre, legate come pacchi, immobili, impaurite. Davanti alla pompa di benzina, c’è una piattaforma di un paio di metri quadrati su cui siedono dei ragazzini. Poco più che bambini, in realtà. Assolutamente bambini, realizzo. Stanno lì, acco‐ vacciati gli uni accanto agli altri, respirando le esalazioni del‐ la colla da piccole bottigliette trasparenti che tengono infila‐ te nella manica dei maglioni sporchi e strappati che indossa‐ no. Sono i bambini di strada, i bambini dimenticati. Anzi, quelli di cui non si conosce nemmeno l’esistenza, per lo più. Chiedo a Kithinji come possano procurarsi la colla. La rube‐ ranno, penso, o forse c’è qualcuno che la compra per loro. Invece no, entrano semplicemente in un negozio e la acqui‐ 1

Molto educata


21 stano, mi fa sapere. Al negoziante poco importa di vendere un’arma che consuma il cervello e il fegato a dei bambini, di essere complice di un lento omicidio. «It’s only a business2», aggiunge con semplicità. Magari fingono di pensare che la colla possa servire loro per riparare le scarpe, mi illudo. Kithinji scende a comprare qual‐ cosa da bere, lasciandomi chiusa in macchina per sicurezza, dice lui. E in effetti non appena entra nel piccolo bazar, il matatu viene circondato da donne che vogliono vendermi delle banane − banane piccole piccole, disposte come un ventaglio − ragazzini con gli occhi iniettati di sangue e l’aria allucinata di chi sta viaggiando con la mente, che mi chiedo‐ no qualche scellino per mangiare − scellini che poi invece spenderebbero per comprare altra colla… la colla non fa lo‐ ro sentire la fame, mi ha detto Kithinji, ecco perché la aspi‐ rano − uomini che vendono giornali e bibite. Niente di peri‐ coloso, comunque. Al massimo fastidioso. Imbocchiamo lo sterrato, l’ultimo tratto che ci separa da Matiri. Gli ultimi quaranta chilometri inerpicati tra i sassi. Il matatu comincia ad arrancare, ma sorprendentemente a‐ vanza. La strada è affollata. Gente che cammina, tanta gen‐ te che cammina. Persone che vanno da qualche parte o che camminano semplicemente perché è l’unica cosa che pos‐ sono fare. Bambini che spuntano ovunque dall’erba. Bambi‐ ni che ridono. Bambini. Belli come perle preziose. E poi una grande pianura, una grande pace. Montagne e colline che si innalzano qua e là, senza pretese, come increspature verdi 2

Sono solo affari


22 di una carta rossa. Provo un inaspettato senso di libertà guardando questi paesaggi, l’occhio spazia in ogni direzio‐ ne, senza limiti, come se vedesse per la prima volta. Resto senza fiato, incantata. Nel Tharaka, la regione che stiamo at‐ traversando, ci sono immense risaie, campi di frumento, pa‐ tate, fagioli. Un paesaggio quasi familiare per me, apparen‐ temente molto simile alle campagne venete, penso. Ma qui non ci sono case di mattoni. Ci sono capanne di fango e ar‐ busti, con tetti di lamiera che attirano i fulmini. Superiamo due fiumi, il Mara e il Mutonga. Bellissimi. Gonfi di pioggia per la stagione appena passata. Tutto prende vita lungo le loro sponde, la natura e le persone, che poi qui so‐ no la stessa cosa. Intravedo delle donne che lavano i panni e li stendono per terra o tra i rami ad asciugare. E dei bambini che fanno il bagno − insieme ai coccodrilli? In questi fiumi ci sono i coccodrilli, no? − e poi riempiono d’acqua immense taniche gialle, più grandi di loro, e se le caricano sulla schie‐ na assicurandole alla testa con una corda. E poi camminano, camminano ancora, camminano sempre.


23

Primi passi tra la polvere rossa Finalmente, a pomeriggio inoltrato, arriviamo a Matiri. La prima cosa che scorgo è proprio l’ospedale, il St. Orsola, che spunta nel niente. Un niente ricco di alberi, erba e terra rossa. Di fronte all’ospedale, dall’altra parte della strada, ci sono delle bancarelle improvvisate con assi di legno, rami, pietre e borse di plastica gialle e verdi come copertura. Ven‐ dono il pane, la frutta, i fagioli, le bibite, qualche vestito. Dietro ai chioschi sorge anche un albergo, che in realtà è una semplice capanna, solo un po’ più grande, con uno spa‐ zio antistante per i tavolini di legno e gli ombrelloni di paglia per la colazione. L’ospedale è stato costruito da un gruppo di italiani, diverse associazioni 3 dal nord al sud della penisola, che hanno deci‐ so di dare alle mamme un posto sicuro dove partorire. Prima di allora, infatti, c’era solo una piccola maternità, ma non c’era la possibilità di affrontare un cesareo d’emergenza. Oppure c’era il bush, la savana, dove le mamme partorivano 3

“Un ospedale per Tharaka – Kenia” onlus, Ferrara “Una mano tesa per Tharaka” onlus, Caserta Associazione Volontariato Insieme, Montebelluna Associazione Missionari Laici Consolata, Nervesa (TV) Associazione Italiana Soci Costruttori ong, Cassana (FE)


24 aiutate da altre donne, nelle capanne o sotto agli alberi. L’ospedale è stato inaugurato proprio quest’anno, a genna‐ io. E ora è diventato un presidio completo − l’unico della va‐ sta regione del Tharaka − con degenze per adulti e bambini, maternità, sala parto, sale operatorie, servizio di radiologia, sala gessi, ambulatori, laboratorio d’analisi. Un guardiano, o meglio il watchman come si dice qui, ci apre il cancello scorrevole ed entriamo con il matatu. Sono emo‐ zionata. A sinistra c’è una rampa polverosa che conduce all’ingresso principale dell’ospedale, mentre subito, sul da‐ vanti, si vede l’entrata del poliambulatorio, con una sala, an‐ zi, un corridoio d’attesa denso di pazienti. Proseguiamo, mantenendo la destra, per la casa dei volontari, mi dice Ki‐ thinji. Pochi metri più avanti scorgo il paradiso terrestre. La Casa del Tamarindo − così si chiama la casa dei volontari − si affaccia su una vallata in cui l’occhio affonda. Sembra senza fine, se non fosse per le delicate montagne laggiù in fondo, lontano lontano, ai confini del mondo. Solo natura prepo‐ tente, natura verde e rossa, natura fresca, dissetata dalla stagione delle piogge conclusasi il mese scorso. E l’azzurro intenso del cielo terso. Alla destra, fa da padrona al paesag‐ gio la Mungoni Forrest, un’alta collina ricoperta di folto vel‐ luto verde bosco, rigogliosa come l’Eden, quasi un braccio protettivo che raccoglie la casa e la separa dalla vastità per non farla sentire troppo piccola. Resto a bocca aperta per qualche istante, respirando a pieni polmoni senza nemmeno accorgermene, come se volessi depurarmi, cambiare l’aria stagnante dentro di me.


25 La casa del Tamarindo è un semicerchio. Prende il suo nome dall’enorme tamarindo cresciuto nel suo centro − beh, a pensarci bene, è più facile che la casa sia stata costruita at‐ torno al tamarindo, decisamente. Ci sono sei stanze da tre, quattro o cinque letti ciascuna con il bagno. Senza l’acqua calda, ovviamente. Una grande cucina al centro, sul retro, accessibile attraverso un’entrata che funge anche da salot‐ to. Ma il pezzo forte della casa è la pergola su cui si affaccia‐ no tutte le stanze. Al di sotto c’è un grande tavolo da pran‐ zo rettangolare con sedie e panchine di legno. Immagino subito di fare colazione qui, al tepore del mattino, guardan‐ do la vallata come primo spettacolo della giornata. La cola‐ zione deve durare ore così, penso. Oltre la pergola c’è uno spiazzo circolare rialzato che ora è in parte illuminato dal so‐ le. Pochi gradini e si scende sul prato antistante alla casa da cui sbuca il grande tamarindo con una folta chioma verde chiaro. Tra i suoi rami cinguettano centinaia di uccelli… al‐ meno a giudicare dal piacevole chiasso che fanno. La prima persona che conosco è Angela, una signora che da tempo vive in Africa e ora è qui a gestire la casa, come mi ha spiegato tra le altre cose Kithinji durante il viaggio. Devo ammettere che la prima impressione di lei non è buona. Mi tende la mano molliccia e mi squadra come se fossi l’ennesima ragazza con la puzza sotto il naso che viene nel villaggio sperduto solo per poter raccontare con orgoglio di essere stata volontaria in Africa. Ma a pensarci bene, forse lei guarda tutti allo stesso modo. Forse è lei quella con la puzza sotto il naso. E sono io a sentirmi giudicata così, in


26 questo momento. Senza tanti convenevoli, mi fa vedere su‐ bito la mia stanza, dove appoggiare le mie cose. «Starai con un’altra ragazza, Angela anche lei. È all’ospedale adesso. Lei dorme qui, nel letto matrimoniale. Tu ti puoi mettere lì», mi dice indicandomi un letto singolo addossato al muro, vicino alla porta del bagno. Sopra, c’è annodata una grande zanzariera bianca che pende dall’alto soffitto perli‐ nato. Sullo stesso lato, un piccolo armadio a due ante, tutto di legno. E una scrivania sotto la finestra, con un bicchiere pieno di fiori lilla. La mia compagna di stanza arriva dopo pochi minuti, men‐ tre sono seduta al tavolo, sotto la pergola, con Angela. Sale saltellando i gradini del terrazzo a semicerchio. Sorridendo. Indossa un paio di pinocchietti e un camice azzurro, di quelli che portano i medici. Mi saluta con l’entusiasmo di un caro amico, come se ci fossimo conosciute altrove, anni fa. «Ciao! Ben arrivata! Io sono Angela, divideremo la stanza...te l’ha già fatta vedere?», mi chiede indicando la signora Angela − la chiamerò così per distinguerla da lei, l’Angela simpatica − che si allontana. «Si, grazie…è bellissima!» rispondo con un’eccitazione che pare quasi esagerata. «Se non ti dispiace, io vorrei tenere il letto matrimoniale», continua mentre entra in cucina e si versa del succo di frutta in un bicchiere di vetro trasparente, segnato dal tempo. Ne versa uno anche a me. Ci sediamo qualche minuto a un piccolo tavolo rettangolare. Mentre sorseggio il mio succo d’ananas mi sbircio attorno. Davanti a me c’è una porta a


27 vetri che dà sul retro della casa, mentre la cucina è separata dal salottino d’ingresso da un’apertura − una finestra senza infisso − al di sotto della quale c’è un tavolo di legno scuro su cui posano una ciotola con il sale, una piccola tanica gialla e una bottiglia di vetro con dell’olio. Di fianco, c’è la cucina a gas, quattro fornelli logori con il forno. Sulla parete di fronte c’è il lavandino, sormontato dal mobile scola piatti, e un’apertura conduce in uno stanzino con due file di mensole alle pareti e ceste piene di frutta fresca e fagioli appoggiate a terra: la dispensa. Alle mie spalle ci sono una credenza e il frigorifero. «Da quanto sei qui?», le chiedo. «Qui solo da due settimane, ma è da quasi due mesi che so‐ no in giro per l’Africa», mi risponde addentando una banana piccola piccola che sembra un giocattolo. «Mi sono licenzia‐ ta e sono partita… non ce la facevo più a stare in quel nego‐ zio… ormai mi stava stretto tutto!» Quanto la capisco, penso, a tal punto che mi sembra che stia parlando di me. Solo che io sono chiusa in un ufficio. Ma la sostanza non cambia. Mi sta tutto stretto. Altrimenti non sarei qui ora, no? «Io torno all’ospedale, vieni con me?», mi chiede alzandosi, «così intanto ti dico alcune cose, giusto per non avere spia‐ cevoli sorprese», aggiunge ridendo. Eh no, le spiacevoli sorprese non le voglio proprio avere, non subito per lo meno, mi dico con un filo di ansia. La se‐ guo incuriosita. Non sono mai stata in un ospedale in Africa, li ho visti solo in televisione. Angela parla in fretta, mentre


28 percorriamo una stradina di sassi e terra rossa leggermente in salita. Mi dice subito alcune semplici regole. Oltre a con‐ trollare sempre di non avere scorpioni o scolopendre nelle scarpe o tra le lenzuola prima di andare a dormire, per pran‐ zo ognuno mangia quando ha un po’ di tempo, durante una pausa dal lavoro in ospedale. Ma per cena ci si aspetta tutti, anche fino alle dieci. Perché nelle grandi famiglie funziona così. Ci si racconta tutto quello che si vive durante la giorna‐ ta. Giorgio dice sempre qualche parola prima di mangiare. Può essere una riflessione, una lettura, il racconto di qualco‐ sa di così grande e unico che non si può fare a meno di con‐ dividere con gli altri, gli attimi intensi della giornata, di una realtà sempre così vera, cruda, incredibilmente bella ma a volte spietata. Mentre parliamo, entriamo all’ospedale attraverso una por‐ ta di ferro verniciato di verde e plastica trasparente. Ci tro‐ viamo in un corridoio. Davanti a noi c’è l’ingresso alla sala parto, com’è scritto sull’insegna. Angela estrae dalla tasca dei guanti di lattice e me li porge, sempre parlando. Io li prendo automaticamente, senza nemmeno chiedermi il per‐ ché. Proseguiamo verso destra. Mentre avanziamo, avverto subito un odore forte, nauseante. Solo più tardi riuscirò a definirlo come l’esalazione del disinfettante usato dalle pink − le donne delle pulizie − mescolata all’aroma del cibo − pre‐ valentemente riso, patate e fagioli − all’odore del sangue, a quello della pelle. Per ora è solo fetore e per distrarmi mi sforzo di restare concentrata su quello che sta dicendo An‐ gela.


29 Proseguiamo lungo il corridoio della degenza. Il soffitto è al‐ tissimo. Passiamo davanti a una stanza che si apre a sinistra, dove sostano alcuni infermieri. Uno di loro sta cercando di infilare un ago nel braccio di un bambino che strilla seduto sulle gambe alla sua mamma. Ora svengo, penso. Più avanti si incrocia un altro corridoio, perpendicolare. In fondo scor‐ go un numero indefinito di persone. In attesa, credo. Già, deve essere il corridoio d’attesa degli ambulatori che ho vi‐ sto dall’esterno arrivando. Lungo la corsia, su cui si aprono le stanze di degenza, incrocio bambini, insetti − oddio, e quello cos’è? − infermieri. Immagini talmente forti di soffe‐ renza composta da sentirmi male. Da voler scappare. Non so bene dove mettere le mani, dove camminare. Mi chiedo che ci faccio in questo posto che sembra dimenticato da Di‐ o. Cosa mi sono messa in testa? Accidenti a me e alla mia so‐ lita impulsività. Angela entra saltellando come Sbirulino in una delle stanze di degenza. «Muga!», grida ai bambini ricoverati con le loro mamme, mentre io cerco distrattamente di infilarmi i guanti. Ma ho le mani sudate e i guanti non entrano. Beh, forse non ne avrò bisogno, penso infine mettendomeli in tasca. I bambini urlano ridendo non appena la vedono. Le si getta‐ no letteralmente addosso, facendo a gara per essere presi in braccio. Realizzo subito che lei li conosce tutti per nome, per abitudini, non solo per patologie come spesso succede ai medici. Si gira verso di me, che sono rimasta sulla porta, e


30 me li presenta. Il primo è Kariuki, il sorriso con un bambino intorno. Avrà quattro o cinque anni, penso. «Lui è qui da un mese», mi spiega Angela, «si è ustionato rovesciandosi addosso la minestra bollente… è qui con la nonna perché la mamma lavora.» Capita, nei villaggi sperduti dell’Africa, che i bambini si u‐ stionino gravemente. I fornelli sono appoggiati per terra nelle capanne o sono semplicemente dei focolari al di sopra dei quali stanno appese le pentole di latta per cucinare il ri‐ so, il chai o le loro minestre. E basta un nulla a un bambino piccolo per mettersi in pericolo rovesciando i pentoloni o cadendo addirittura nel fuoco. Kariuki mi si avvicina e lei gli dice il mio nome, indicandomi. Lui mi guarda sorridendo come se gli avessero raccontato qualcosa di buffo. «Tepania», ripete storpiando il mio nome. Io gli sorrido di rimando, annuendo. In fondo, che conta come mi chiamo? Mi prende per mano, disinvolto, come se mi conoscesse da sempre. Mi guida lungo un altro corridoio. «Chukura», dice, indicando una stanza con la porta socchiu‐ sa. Angela spalanca la porta ed entra, sempre urlando e saltel‐ lando. Quanto si diverte, penso. Quanto vorrei essere anch’io così solare, entusiasmante, con i bambini. All’interno ci sono quattro piccoli pazienti con dei camici azzurri, seduti attorno a un piccolo tavolo insieme con una signora vestita di blu. È la loro maestra, rifletto vedendo i quaderni e i colori sul tavolo, e questa deve essere la scuola. La stanza è calda,


31 afosa. Qui l’odore è ancora più forte, più pungente. Angela dice qualcosa in quella che sembra la lingua locale e i bam‐ bini e la maestra scoppiano a ridere. Che bei sorrisi. Oltre i bendaggi, l’afa, l’odore insopportabile, avverto i sorrisi. Li sento fino in fondo all’anima. Anzi, dopo qualche istante è l’unica cosa che noto. «Lei è Mary, Mary per sempre», dice Angela ridendo − non fa altro che ridere, in effetti, è entusiasta di tutto, della vita, forse. Mary è stata operata al labbro. Ha una cicatrice che le parte da sotto il naso. È qui all’ospedale da sola, una donnina di sette anni. Angela giura di non aver mai visto qualcuno che la venisse a trovare, un genitore, una sorella, uno zio. Ha un sorriso buffo, con quella cicatrice e i denti grandi, penso sor‐ ridendo. «Non le piacciono le coccole, si vergogna quando provi a darle un bacino sulla guancia», mi avverte Angela. Beh, non credo che non le piacciano le coccole, a tutti piac‐ ciono le coccole, no? Forse è solo cresciuta troppo in fretta, mi ritrovo a pensare. «Questa è Miriam, è la più grande». Miriam ha una fasciatura alla gamba destra. «Un morso di serpente», mi spiega Angela, «come lei, Lucy», aggiunge indicando un’altra bambina. Lucy ha un bendaggio alla testa. Si capisce subito che ha bi‐ sogno di attenzioni, perché, contrariamente alle altre due, mi viene vicino e dopo una frazione di secondo mi abbrac‐ cia.


32 «I genitori l’hanno lasciata qui, sono andati a cercare i soldi per pagare il suo conto… due settimane fa». Chissà se torneranno, penso stringendola, avvertendo un’incrinatura nel cuore. «E lui è Saidi, colpito da un fulmine», aggiunge Angela, indi‐ cando un bambino esile, come se elencasse le menzioni di merito di un gruppo di giovani marmotte, «la mamma lavora sulla costa, non la vede da quando è stato ricoverato, due mesi fa... ma qui con lui c’è lo zio, è bravissimo!». La maestra si presenta da sola. «I’m Mary, I’m the teacher», dice con orgoglio indicando la sua classe. Mary è una signora che immagino coetanea di mia madre. Ma più probabilmente ha almeno dieci anni di meno. Forse è l’abito che non le dona o forse è la vita di qui che la invec‐ chia, penso. Come le nostre bisnonne che lavoravano nei campi e vestivano con grembiuli scuri che ne soffocavano la femminilità. Mentre scambiamo qualche chiacchiera − già mi prenoto qualche lezione d’inglese per poter sopravvivere durante le tre settimane di permanenza − Angela esce dalla scuola. Ritorna dopo dieci minuti, spingendo una sedia a ro‐ telle cigolante. Seduta sul logoro sedile coperto con un len‐ zuolo macchiato c’è una bambina esile dal volto dolcissimo. Sembra una piccola principessa, regale e delicata. È Faith. «Non cammina più, i medici pensano che sia qualche virus», dice Angela, «è qui con la nonna», aggiunge con un po’ di rabbia nella voce, come se volesse rimproverare, anche solo nominandola, la nonna.


33 Io mi abbasso per incrociare gli occhi di Faith che non solle‐ va la testa nemmeno quando gliela accarezzo piano. Mi guarda intimidita, come un uccellino nel nido in attesa di cu‐ re. «Muga», le dico sorridendo − è la prima parola di Kimeru che Angela mi ha insegnato, significa semplicemente ciao. Lei si copre la bocca sottile con una manina e ride. Ride di me. E io ne sono felice. Ci sediamo tutti attorno al tavolo e Angela vi posa al centro una scatola con delle perline di plastica, filo e un paio di for‐ bici con le punte arrotondate. Iniziamo a fare delle collani‐ ne. «Sono il regalo di Natale dei bambini alle loro mamme», mi spiega Angela. E quindi, dopo aver finito di infilare le perline, avvolgiamo le collanine nella carta di un vecchio giornale italiano. Senza fiocco. E poniamo i preziosi doni in un cestino di foglie di banano. Quando l’ultimo regalo è deposto nel cestino, Angela ripor‐ ta Faith in camera. Il suo dolce visino appare affaticato infat‐ ti, come se anche solo infilare delle perline l’avesse stancata fino allo stremo delle forze. Io rimango con gli altri bambini e Mary, che sistema il cestino in un armadio e poi tira fuori uno scatolone in cui si intravede qualcosa di luccicante. Ci avviamo verso l’ingresso del poliambulatorio. Sul davanti, c’è un prato in pendenza con qualche albero ancora troppo piccolo per fare ombra. Tra essi, un tamarindo minuto − non grande e folto come quello della casa dei volontari − adatto


34 allo scopo: fare un albero di Natale, un’altra bellissima idea di Angela. Certo, non è il convenzionale abete di plastica da decorare con le palline perfette e lucide come specchi, i fe‐ stoni dorati, la stella trasparente in cima e le luci intermit‐ tenti. No. È molto di più. La maestra appoggia lo scatolone tra l’erba e comincia a estrarre alcuni pezzetti di polistirolo − che sembrano recuperati da qualche imballaggio − che ieri i bambini hanno decorato con lustrini rossi e oro, e dei fiori di carta colorata i cui petali sono tenuti insieme con del filo di cotone blu. Iniziamo ad appendere tutto al tamarindo. I rami appena nati si flettono sotto il peso degli addobbi, dondo‐ lando piano, facendo luccicare i pezzetti di polistirolo sotto il sole. Da un libro per bambini ritaglio una stella gialla, sor‐ ridente − e questa è una mia idea… è incredibile come mi senta già a mio agio in tutto questo − e la posiziono sul ramo più alto. Ecco! *** Sms del 24.12.04 ore 18.22 Ciao! La mia prima giornata coi bambini è finita… abbiamo preparato i regali di Natale… quanta miseria... ma quanti sor‐ risi, sembrano mazzi di margherite rosse.... *** Ammirando il tamarindo di Natale, mi sento inaspettatamen‐ te serena. Eppure ogni simbolo natalizio mi ha sempre dato


35 il voltastomaco − beh, non è esatto, da bambina adoravo il Natale, non sono nata acida. Sono scappata dal Natale e lo ritrovo qui, ad aspettarmi sornione. Ma questo è l’originale, non la brutta copia, penso. Mi scopro a sorridere, come se avessi ritrovato la gioia della festa che avevo perso tra le pieghe del tempo. E mi rendo conto di aver fatto la scelta giusta, anche per me. Una lacrima mi solletica la guancia. La asciugo con il dorso della mano, sperando che nessuno se ne sia accorto. Ma io so che stavo per piangere di gioia.

Fine anteprima. Continua...


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