In uscita il 31/1/2019 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2019 ( ,99 euro)
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STEFANO GIOVANNELLI
CORREVA L’ANNO 1982
ZeroUnoUndici Edizioni
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CORREVA L’ANNO 1982 Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-267-6 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
PREFAZIONE
La coppia di ferro, di Gian Luigi Corinto Questa è una storia vera ed è capitata proprio a me e a Stefano. Eravamo molto giovani all’epoca e solo chi pensa male potrebbe chiedersi se è successo o non è successo. Eppure anche se non è successo sarebbe certamente potuto accadere, non solo da noi ma anche in altri paesi. E una cosa è certa, ci sono riscontri importanti. La vicenda si svolge in un tempo ben preciso ed è questo quello che conta. Da quel momento abbiamo bevuto e mangiato, in attesa che qualcuno si decidesse, finalmente, a dirci come sono andate veramente le cose. Non lo abbiamo mai saputo e ormai non importa più. I personaggi della storia sono invecchiati ma le trame e gli intrighi non sono cessati. Qualche giorno fa infatti una sagoma conosciuta ha lasciato il suo ufficio e camminato lungo la discesa all’ombra di vecchie querce. C’erano palazzi in stile neogotico e chiese in falso medievale lungo quella strada. L’uomo ha costeggiato circospetto l’edificio che ospita i pazzi, quello con un alto torrino sul lato destro, sormontato da una cupola a pagoda. Ha lasciato i figli alla tata che si è presa cura di loro dopo il suo divorzio dalla bellissima moglie negra che aveva preferito abbandonarlo e sparire in cerca di successo, oro e diamanti. Ha lasciato la casa foderata di legni pregiati che non fanno passare né suoni né rumori. Ha lasciato nel garage collegato direttamente al salone della casa le sue venti auto sportive ormai inutili. Il fatto è che l’Italia ha ancora bisogno di lui e non sa più di chi fidarsi, men che meno dell’uomo dai capelli rasati. Del resto, l’ultimo di cui ci siamo fidati si è rivelato una vera sventura. Il confronto sarà duro e c’è bisogno che
l’interesse della nazione sia in mani salde e sicure. Come al solito, non mancano né il coraggio né la fantasia; ma oltre alle mani servono i piedi però. L’uomo è entrato nel posto convenuto. « Non mi piace questa storia » « Effettivamente… » gli ha detto il compagno di mille avventure, Jean Polettì, che ama metter l’accento sulla i finale, così anche quando è scritto si capisce che il suo è un cognome francese. Jaco Pini è rimasto in silenzio, sorbisce di tanto in tanto un sorso del suo whisky preferito, roteando il liquido prezioso dentro la bocca. « Che cosa pensi di fare allora ? » ha chiesto alla fine il marsigliese « Non possiamo far finta di niente, c’è da salvare il mondo » I due compagni di mille battaglie si sono avviati all’aeroporto. Quando i tempi diventano cattivi, molti si affidano a falsi medici e cucinatori da strapazzo. Mangiano troppo per riempire il vuoto esistenziale, guardano troppa televisione, ascoltano musica pessima. I ristoranti di basso rango si riempiono di gente obesa. Sembra che stiano lottando contro un nemico invisibile, e intanto si tirano le torte in faccia, a volte pezzi di pizza e interi vassoi di cornetti alla crema. Una vera abbuffata di maleducazione. Mangiano dappertutto, nei negozi, in macchina, nei parchi, sui pullman, sui gradini delle chiese, poi vanno a correre per perdere peso. La febbre aumenta, dilaga nella popolazione come una peste. Gli anziani vengono abbandonati davanti alla televisione, le donne si curano con molte creme, gli uomini ben vestiti parcheggiano con disinvoltura, prendono i carrelli della spesa, sembrano normali, ma hanno molte cose da nascondere. Qualcuno dovrà pure intervenire e chiarire come stanno le cose. Jaco Pini e Jean Polettì sono saliti sulla scaletta dell’aereo, sanno che la partita è di massima importanza e che le forze schierate saranno di livello mondiale. Quando hanno raggiunto il gradino più alto Jaco si è fermato per guardarsi intorno. Dentro il petto
sentiva l’orgoglio di essere sé stesso e di servire ancora l’interesse della nazione. Jaco Pini è fermo nelle sue idee, Jean Polettì lo seguirebbe all’inferno, se fosse necessario. La coppia di ferro è pronta per entrare in azione. Buona lettura.
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CAPITOLO UNO – UN TORNEO DI BENEFICENZA
Sembrava una pallina irraggiungibile ma Bjorn Borg si allungò sulla sua destra con uno scatto folgorante e riuscì a incrociare un passante di diritto dall’angolazione impossibile. La pallina tagliò fuori la racchetta protesa del suo avversario e finì la sua corsa proprio sulla riga laterale del campo, tra le esplosioni di entusiasmo degli spettatori. Sul centrale di Montecarlo si stava giocando la finale di un torneo di beneficenza fortemente voluto dalla principessa Grace Kelly. Il torneo aveva naturalmente richiamato dai quattro angoli della terra ex giocatori, volti noti dello spettacolo e dello sport, uomini facoltosi, vip famosi e vip sconosciuti alle cronache mondane. Borg, vincitore di undici titoli del Grande Slam, tra cui cinque tornei di Wimbledon consecutivi, era ovviamente la stella del torneo, anche se giravano sempre più frequenti le voci su una sua crescente incapacità di gestire lo stress agonistico e sulla sua intenzione di ritirarsi per sempre dalle competizioni. Aveva infatti appena perso contro Yannick Noah nei quarti di finale del torneo ufficiale di Montecarlo e proprio quel torneo sarebbe stato l’unico che avrebbe giocato quell’anno. Correva infatti l’anno 1982, era un pomeriggio tiepido di primavera avanzata che faceva presagire già l’estate e il piccolo Stato sembrava vivere sospeso nell’atmosfera irreale delle favole a lieto fine, ma anche se nessuno sembrava accorgersene, come sempre, in quel pomeriggio il mondo stava cambiando radicalmente. L’anno prima, Ronald Reagan era diventato il quarantesimo Presidente degli Stati Uniti e aveva annunciato un programma di riduzione delle tasse e di tagli alla spesa pubblica che avrebbe
8 dato inizio a un periodo di liberismo la cui onda lunga avrebbe raggiunto l’Europa e tutto il mondo e sarebbe durata più di due decenni, fino alla crisi finanziaria del 2007. In quell’anno c’era stato anche un attentato a Sua Santità il Papa Giovanni Paolo Secondo, un evento che aveva scioccato l’opinione pubblica in tutto il mondo. Il Papa era stato colpito da pochi passi con un’arma da fuoco durante un’udienza in Piazza San Pietro: era stato ferito gravemente e aveva perduto moltissimo sangue ma fortunatamente si era salvato. I mezzi d’informazione e le reti spionistiche di tutti i paesi si erano scatenati alla ricerca delle coperture e dei mandanti senza riuscire però a chiarire completamente l’accaduto. Tuttavia, quell’attentato aveva segnato l’inizio di una serie di eventi che avrebbero portato, anni più tardi, a un cambiamento epocale: lo sgretolamento del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda. Anche in Italia era successo qualcosa di straordinario nel 1981, si era sgretolato il dominio della Democrazia Cristiana sulla politica italiana. Era stato infatti nominato, a trentacinque anni dalla nascita della Repubblica, il primo capo di governo non democristiano. Ma c’erano stati anche cambiamenti tecnologici che avrebbero fatto sentire i loro effetti nel tempo, provocando profondi cambiamenti sociali. Durante il 1981 l’IBM aveva presentato il primo personal computer, il Commodore 64, e in Italia erano nate le prime televisioni private su base locale. Un imprenditore immobiliare, Silvio Berlusconi, aveva continuato a diversificare le sue attività nel settore televisivo, consolidando un’emittente locale, Canale 5, e strappando alla rete pubblica nazionale la distribuzione della serie televisiva Dallas. Sull’onda del suo successo, nel gennaio del 1982, l’editore Rusconi aveva lanciato la prima rete televisiva nazionale privata, Italia 1, riunendo diciotto emittenti locali, seguita subito da Rete 4, costituita su iniziativa della Mondadori, collegando venticinque emittenti nazionali. Sulla scena mondiale, i riflettori si accendevano su nuovi personaggi e si spengevano su altri. A luglio si era celebrato il
9 matrimonio del secolo tra Carlo d’Inghilterra e quella che sarebbe diventata un’icona mondiale, la principessa Diana, mentre a maggio un’altra icona mondiale se ne era andata. A soli trentasei anni, era morto a Miami Bob Marley, un protagonista della musica rock che sarebbe diventata una vera e propria leggenda. E un crudele destino attendeva purtroppo la principessa Grace, che sarebbe morta inaspettatamente di lì a poco in un tragico incidente stradale. Ma in quel pomeriggio era ancora l’affascinante sovrana del Principato e sedeva, bellissima e inarrivabile, nella tribuna d’onore con accanto la prima figlia Carolina. La principessa Carolina era diventata la protagonista delle pagine della cronaca rosa dei giornali di tutto il mondo e la lista dei pretendenti alla sua mano si allungava ogni giorno, con in testa le più importanti famiglie reali in cerca di una moglie per i propri rampolli. Tra feste private, balli di beneficenza, eventi mondani, il bel mondo si affollava come sempre per le strade del piccolo principato: fiumi di soldi passavano di mano sui tavoli del Casinò, amori e passioni più o meno lecite fiorivano e sfiorivano mentre gli yacht degli uomini più ricchi della terra luccicavano languidamente nel porto e l’aria si riempiva del profumo dei fiori e del rombo prepotente delle auto sportive. E in quel pomeriggio la folla avevano riempito gli spalti del centrale per godersi i bagliori di classe di Bjorn Borg. Forse gli occhi dei tecnici più raffinati coglievano in lui una minore incisività dei colpi, annotavano le pause che si concedeva con più frequenza, ma la gente sugli spalti, quel pomeriggio, vedeva in lui ancora il fenomeno che aveva dominato il tennis mondiale dal 1974. La fascia in testa, i lunghi capelli biondi, la barbetta incolta, il passo leggermente claudicante, lo sguardo impassibile, Bjorn correva instancabile da un lato all’altro del campo, sfoderava sotto gli occhi di tutta la corte il suo leggendario rovescio a due mani e il suo pesantissimo diritto arrotato.
10 Tuttavia, il campione svedese sembrava incapace di prendere in mano decisamente la partita, anzi, dopo un primo set vinto per 64, aveva lasciato che il suo avversario, Jaco Pini, uno stilista e finanziere italiano, si prendesse il secondo set. Jaco Pini era il detentore del marchio JPS, Jaco Pini Soltanto, e in pochi anni aveva scalato dal nulla le graduatorie degli uomini più ricchi d’Europa. Alto e slanciato, i capelli castani vagamente mossi che si allontanavano dalla sua fronte in morbide onde, i folti baffoni biondi, Jaco Pini era un mistero. Aveva conquistato la scena della moda mondiale qualche anno prima, d’improvviso, con un’idea semplice nella sua genialità, la borsa da uomo, o meglio il borsello. Il suo prodotto aveva suscitato lo scherno dei più grandi guru dello stile, ma aveva invece conquistato rapidamente i consumatori di tutto il mondo. Gli uomini che da sempre combattevano con la difficoltà di riempire le proprie tasche con portafoglio, documenti, chiavi, occhiali, penne, appunti, sigarette, accendini, si erano letteralmente gettati sui borselli di Jaco. La domanda per i suoi modelli era stata una valanga inarrestabile alla quale Jaco aveva risposto sfoderando un modello dopo l’altro, arricchendoli di varianti ed eccentricità, aggiungendo gadget, preziosi inserti in pelle di coccodrillo, fibbie, ricami personalizzati. Dallo studio di Jaco erano uscite forme sempre più innovative, colorate, a volte audaci, a volte irridenti, ma mai banali e sempre un passo avanti alla competizione dei suoi molti emulatori. Dai borselli la fantasia di Jaco si era estesa rapidamente a tutti i prodotti della moda da uomo e da donna, dalle camicie alle scarpe, ai vestiti, ai cappelli e i foulard, non c’era indumento che Jaco non avesse interpretato e per cui il marchio JPS non significasse l’estrema frontiera dell’eleganza. Dalla moda, Jaco era poi passato alla finanza: si diceva che fosse in affari con gli sceicchi del Golfo e con i banchieri americani, che avesse acquistato quote di importanti banche d’affari, che stesse sviluppando un grande progetto immobiliare nel cuore di
11 New York. Tuttavia, nonostante la curiosità che destava, nonostante gli ossessivi inseguimenti e pedinamenti dei giornalisti, nessuno era riuscito a violare la barriera della sua discrezione, i contorni esatti della sua vita privata erano assolutamente sconosciuti. In quel momento, accolto da una grande ovazione, Borg riuscì finalmente a chiudere un lunghissimo scambio, mantenendo il servizio e portandosi sul 4-3. Jaco si sedette sulla sua panchina e si asciugò la fronte con cura. Scrutava senza parere la folla, alla ricerca del suo inseparabile compagno di avventure, Jean Polettì, ma non riusciva a vederlo. Basso e tarchiato, la testa una nuvola di riccioli, Jean Polettì era un italo francese di Marsiglia di origini arabe. Cresciuto nei vicoli del Panier, sempre pronto a beffarsi di tutto e di tutti, specialmente se si trattava di infilarsi sotto le gonne di una bella donna, Jean Polettì era il collaboratore fidato di Jaco, l’unico che potesse dire di conoscerlo davvero. Jaco era pronto a scommettere che in quel momento quello sfaccendato fosse in qualche morbida alcova in dolce compagnia. Si alzò per riprendere il gioco e fece scorrere lo sguardo sulla tribuna d’onore alle sue spalle. I suoi occhi profondi incrociarono quelli della principessa Carolina e ne colsero un improvviso fremito. Prese posto sul campo e si preparò alla battuta, ma prima di riprendere il gioco lanciò di nuovo uno sguardo verso la principessa scoprendo che aveva gli occhi fissi su di lui. Jaco gettò in alto la pallina e giocò un servizio talmente fulminante che Borg non fece nemmeno in tempo a muoversi. Nel silenzio del pubblico, giocò tre servizi vincenti consecutivi e chiuse rapidamente il suo turno di servizio pareggiando il numero dei giochi. In quel momento, nella folla, proprio di fianco a Jaco, apparve il viso di Jean Polettì. Aveva un’espressione eccitata e tutta la sua mimica facciale faceva trapelare il bisogno di parlare a Jaco con estrema urgenza. Jaco non lo aveva mai visto fare
12 versi così concitati, l’italo marsigliese continuava ad ammiccare insistentemente e le sue folte sopracciglia nere continuavano a inarcarsi sulla sua fronte nel loro segreto cenno d’intesa per segnalarsi a vicenda una questione della massima importanza. Approfittando della distrazione di Jaco, Borg si era portato intanto sul 40-0 nel nono gioco ma Jaco si disse che doveva chiudere alla svelta la partita. Cominciò a martellare Borg con colpi micidiali e traiettorie assassine che lo facevano correre da una parte all’altra del campo, ma lo svedese sembrava aver ritrovato la brillantezza dei giorni migliori e non cedeva. Jaco si risolse a usare il suo colpo segreto. Per cinque scambi di seguito colpì con forza e precisione la striscia bianca della rete, facendo in modo poi di far cadere la pallina proprio sotto la rete nel campo di Borg, rendendo impossibili i recuperi dello svedese e strappandogli il servizio. Dopo il quinto colpo il viso sempre impassibile di Borg sembrò tradire un leggero velo di emozione. Si avviò verso la panchina scuotendo la testa. Alla ripresa della partita, gli automatismi del suo gioco sembravano essersi inceppati e Jaco non ebbe difficoltà a tenere il servizio e a chiudere il set e l’incontro sul 6-4. La folla sugli spalti accolse l’ultimo punto con un boato, qualcuno gridò di disappunto per la sconfitta di Borg, altri gridarono di esultanza per la vittoria di Jaco. Diversi spettatori si riversarono sul terreno di gioco, attorniando i due protagonisti. Le donne si stringevano soprattutto attorno al vincitore, cercando di scambiare una parola con lui o di strappargli uno sguardo d’intesa. Jaco le lasciava fare, sorrideva con cortesia ma intanto cercava nella folla il viso di Jean Polettì. L’italo marsigliese si fece d’improvviso largo tra due giovani bionde e procaci, passando con nonchalance le braccia sulle loro spalle e ammiccando con le sopracciglia a Jaco. «È una questione della massima urgenza» scandì a fior di labbra, senza emettere alcun suono.
13 «Di che diavolo si tratta?» gli chiese Jaco nella stessa maniera. Da anni avevano imparato a comunicare così, leggendo i movimenti delle labbra dell’altro. «Massima urgenza» ripeté Jean guardando di sbieco una delle due ragazze e facendole l’occhiolino per distrarla. «Dammi almeno un indizio» disse Jaco cercando di divincolarsi da una signora ingioiellata che lo pressava troppo da vicino. «Non qui, non qui» insisté l’italo marsigliese. «Dove ci vediamo allora?» chiese Jaco mentre un’altra signora cercava di tirarlo verso di sé per baciarlo sulla guancia. «Al Pirata» Jean strinse a sé le due ragazze, mormorò qualcosa nel loro orecchio, loro si misero a ridere. «Dammi il tempo di cambiarmi» disse Jaco ma Jean era già sparito nella folla tirandosi dietro le due bionde. Jaco imprecò tra sé e iniziò a farsi strada verso gli spogliatoi quando la folla si aprì d’improvviso. La principessa Carolina, seguita da un piccolo corteo di dame di compagnia e di guardie del corpo, si fece strada fino a lui. Un lacchè dall’aria eccessivamente effeminata si fece avanti. «La principessa Carolina vorrebbe complimentarsi con lei per la sua partita» disse in un italiano dal forte accento francese, arrotando tutte le erre, cosa che irritava particolarmente Jaco. Fece un cenno con la testa e sorrise alla Principessa. «La principessa vorrebbe anche invitarla a festeggiare con un piccolo gruppo di amici» insisté il lacchè. Jaco esitò un attimo e la Principessa ne approfittò. «Ci vediamo al Pirata, so che è il suo locale preferito, l’aspetto» disse in un soffio vellutato prima di voltarsi con fare regale. Jaco rimase stupito a guardarla andarsene, seguita dal suo corteo multicolore. Nonostante la sua lunga esperienza, le donne trovavano sempre il modo di sorprenderlo. Entrò nello spogliatoio e si abbandonò al getto bollente della doccia. Ogni volta che vinceva una partita a tennis provava una sensazione di rivincita sulle frustrazioni della sua gioventù impostegli da
14 Raffaello, il figlio dei baroni Scammacca, presso la cui famiglia sua madre lavorava come cameriera e suo padre come uomo di fatica. Raffaello, che aveva la stessa età di Jaco, lo invitava spesso a giocare con lui, ma mentre Raffaello era sempre equipaggiato all’ultima moda, imponeva a Jaco di giocare con una vecchia racchetta scordata e per di più a piedi scalzi sulla terra rossa. Era così che Raffaello lo batteva regolarmente, nonostante gli sforzi di Jaco. Raffaello il biondo, Raffaello il bello, Raffaello che primeggiava a scuola e faceva il simpatico, Raffaello che aveva conquistato senza sforzo la ragazzina con i capelli rossi di cui Jaco era perdutamente innamorato e che aveva vergognosamente e inutilmente sperato di conquistare per tutti gli anni delle scuole medie. Chiuse la doccia, si sedette su una panca, si asciugò e cominciò a vestirsi. Dal corridoio arrivavano delle voci femminili. Tese l’orecchio per ascoltare quello che dicevano. «Vieni, deve essere qui, negli spogliatoi». «Mio Dio che imbarazzo». «Sbrighiamoci, entriamo prima che si rivesta». «Aspetta, fermati, e se ci rifiutasse?». «Dobbiamo tentare, è un’occasione unica, sai bene come io lo desideri». «Lo desidero anch’io, lo sai, è un uomo così affascinante è così misterioso». «È proprio questo il suo fascino, viene e va, appare nelle feste più esclusive, ma è sempre solo e inarrivabile, e poi scompare per settimane, per mesi, non si sa più niente di lui». «Non so se stiamo facendo la cosa giusta». «Ma dai, muoviti». «Forse ha una donna da qualche parte, un qualche legame». «E allora, se anche fosse?». «Non lo so». «Senti, ho incrociato appena i suoi occhi una volta, a una festa, e mi sono sentita svenire, andiamo su, non riesco a frenare la mia eccitazione, magari riusciamo a sorprenderlo sotto la doccia».
15 «Ti capisco, non mi ci far pensare. Anch’io ho incrociato una volta i suoi occhi e mi sono sentita nuda, avrei voluto saltargli addosso, mi ha preso lo stomaco, sarebbe bastato che mi facesse un gesto e sarei stata pronta a tutto, ma lui si è voltato e se n’è andato come se non esistessi». L’accensione del potente asciugacapelli di Borg nello spogliatoio accanto sommerse le voci delle due donne, ma Jaco aveva sentito abbastanza. Finì di vestirsi in fretta e furia e sgattaiolò fuori dalla porta posteriore. Non aveva certo l’intenzione di farsi braccare da due sgualdrinelle. Non gli piaceva essere cacciato, i tipi come lui volevano cacciare, gli piacevano le donne difficili, le donne ribelli. Più selvagge erano e più Jaco si sentiva attratto da loro, si sentiva sfidato a domarle, renderle docili, innamorate. Non aveva davvero tempo per le avventure facili, cercava la grande passione, l’amore con la A maiuscola ma purtroppo non lo aveva ancora trovato. Salì sulla sua Lamborghini gialla e partì a razzo.
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CAPITOLO DUE – IL PIRATA
Il Pirata era, a seconda delle ore del giorno, un bar, un piccolo ristorante o una discoteca sulla corniche di Montecarlo, annidato in un piccolo angolo della città che era stato risparmiato dalle speculazioni edilizie e dalla fame di cemento che aveva divorato il terreno della città stato, schiacciato da due grattacieli di appartamenti in cui ogni centimetro quadrato valeva oro. Si trovava proprio dietro la più famosa curva del più famoso circuito di Formula uno, la curva del gasometro, schermato da un boschetto di basse palme Washingtonian. Era stato costruito come sala da musica negli anni Trenta da un mercante greco appassionato di opera e aveva visto passare sul suo palcoscenico una serie di famosi cantanti che però non avevano garantito al proprietario l’atteso ritorno economico. Subito dopo la Seconda guerra mondiale il mercante aveva passato la mano a una coppia di omosessuali che lo avevano trasformato in un ristorante molto ricercato. Il ristorante aveva rapidamente guadagnato il favore della buona società monegasca, solleticata dall’aria trasgressiva che aleggiava nel locale. Ogni sera infatti il vecchio palcoscenico del locale si animava di spettacoli di grotesque e di spogliarello molto audaci per quel periodo e che oggi forse parrebbero molto casti. Un transessuale brasiliano divenne molto popolare con il suo numero di spogliarello che eseguiva in una gigantesca coppa di champagne. Nel business dei ristoranti la volubilità della clientela è tuttavia molto elevata e se il favore di un ristorante cresce rapidamente, basta un nonnulla perché la sua fama declini a vantaggio di altri. Così quando la relazione sentimentale tra uno dei proprietari e il transessuale brasiliano venne allo scoperto, l’altro proprietario non trovò di meglio che spararsi sul
17 palcoscenico durante il numero di spogliarello. Lo scandalo fu rapidamente messo a tacere, ma il ristorante perse il suo richiamo e finì per essere messo in vendita. Agli inizi degli anni ‘60, per ironia della sorte, il locale fu acquistato per poche lire da un altro mercante greco. Si trattava di uomo dal passato burrascoso che tutti chiamavano il Pirata. Correvano molte voci sul passato del Pirata, si diceva che fosse stato un vero pirata nei mari meridionali della Cina e che avesse fatto fortuna con il contrabbando tra Hong Kong e i porti cinesi. Il Pirata era stato capace di rilanciare il locale fino a farlo diventare uno dei ristoranti preferiti dal bel mondo che frequentava Montecarlo, al punto che in certe stagioni la lista di attesa era lunga due settimane. Negli anni, molti agenti immobiliari avevano cercato di persuadere il Pirata a vendere la proprietà per sviluppare i propri faraonici progetti, ma il Pirata aveva resistito e li aveva respinti uno dopo l’altro. Il locale era una bassa costruzione a pianta rettangolare con una facciata decorata da mosaici floreali come andavano di moda negli anni Trenta. La costruzione si allungava verso la scogliera a picco sul porto con una terrazza protetta da un vecchio glicine, un piccolo rettangolo sul quale generazioni di personaggi famosi e di nullafacenti avevano aspettato il tramonto del sole sorseggiando cocktail e champagne. Jaco parcheggiò la sua Lamborghini gialla tra la notissima Bentley rosa della Contessa Blanc e quella di un nullatenente italiano, attraversò la strada ed entrò nel locale. Era l’ora dell’aperitivo e c’era la solita piccola folla di attori famosi, attricette in cerca di visibilità, commercialisti, avvocati, evasori fiscali, ex dittatori africani, mafiosi e figli di mafiosi di vari paesi del mondo. Molti tavoli erano ancora vuoti ma si sarebbero presto riempiti, e la sala da ballo era deserta. Il DJ, nella sua scatola di vetro, suonava musiche di sottofondo a basso volume. Jaco si guardò intorno, sulla sinistra riconobbe Jean Paul Belmondo che stava giocando a carte con un paio di malavitosi di Marsiglia e un ricco americano; al bar c’era invece Alain Delon con una giovane
18 donna con la schiena nuda; sulla terrazza, protetti da grandi occhiali neri, c’erano i giovani gigolò in attesa della preda. Notò con soddisfazione che la maggior parte di loro portava l’ultimo modello degli occhiali di marca JPS appena uscito sul mercato. Il party della principessa Carolina era sul fondo del locale, schermato da una doppia fila di guardie del corpo. Di Jean Polettì nemmeno l’ombra. Represse un moto di stizza. Dopo tutta l’eccitazione di quel pomeriggio quel disgraziato non era all’appuntamento che lui stesso gli aveva dato. Probabilmente aveva ceduto al suo debole per le donne e chissà dove era andato a finire con quelle due bionde con cui si era allontanato dal campo da tennis. Jaco non vedeva l’ora di conoscere la questione urgente di cui voleva parlargli e si sentiva fremere in anticipazione, anche se temeva che si trattasse di una falsa urgenza. Conosceva bene Jean Polettì, era un uomo d’azione che si eccitava facilmente e non era nuovo a prendere fischi per fiaschi; tuttavia, al campo di tennis, era sembrato davvero molto turbato. Doveva aspettarlo, non c’era altro da fare. Jaco soppesò quale fosse il male minore, se farsi un bicchiere con Alain Delon e la sua compagna, raggiungere il tavolo di Jean Paul Belmondo e dei suoi amici e unirsi alla loro partita, oppure accettare l’invito a prendere parte al party della principessa. Alain Delon era molto noioso, ogni volta che Jaco lo incontrava, l’attore insisteva per farsi finanziare un film nel quale lanciare l’ultima delle sue tante fiamme. D’altra parte anche Jean Paul Belmondo finiva per annoiarlo, era un vecchio amico di Jean Polettì e finiva sempre per rievocare i soliti aneddoti della malavita marsigliese che ormai Jaco conosceva a memoria. Per quanto riguardava Carolina, Jaco provava una naturale e profonda riluttanza proletaria al mischiarsi con nobili e teste coronate. Si mosse allora verso il terrazzo, ma il lacchè della principessa lo aveva avvistato e si mosse subito verso di lui con il suo passo effemminato.
19 «Bravo, bravissimo, la principessa sarà proprio felicissima di vederla» lo apostrofò da lontano, arrotando le sue erre, ignaro di quanto questo infastidisse Jaco. Vedendo la smorfia di fastidio dello stilista, si affrettò a raggiungerlo. «La prego, non faccia così, mi segua» lo blandì prendendolo delicatamente per un gomito e guidandolo verso il party. Gli fece strada oltre la barriera delle guardie del corpo e lo condusse soddisfatto verso il tavolo della principessa. C’erano diversi giovani intorno al tavolo, uomini e donne, perlopiù rampolli di famiglie ricchissime, tutti allegri e su di giri, bevevano e ridevano e molti accolsero Jaco con un breve applauso facendogli posto accanto alla principessa. La conversazione riprese subito in una confusione di lingue, c’era chi parlava francese, chi parlava inglese, chi in tedesco, una vera babele di questioni futili, risate insulse e commenti sciocchi. Una contessina polacca chiese a Jaco quale era la sua origine e si stupì quando Jaco dichiarò di non essere anche lui un nobile, una giovane aristocratica inglese chiaramente sovrappeso cominciò a snocciolare una lista di nomi di persone che Jaco non aveva mai sentito nominare, cercando di trovare una qualche conoscenza comune, un giovane debosciato gli chiese invece se poteva mostrargli i suoi disegni per una collezione di abiti da uomo, infine una giornalista che si era infiltrata nel gruppo dei cortigiani della principessa tirò discretamente fuori un taccuino e cercò di estrarre qualche indiscrezione sui programmi d’affari di Jaco. Gli chiese se fossero vere le voci di un suo interesse per uno sviluppo immobiliare a Dubai ma Jaco tagliò corto, talmente corto che mentre la giornalista alzava gli occhi dal taccuino per registrare la risposta di Jaco, lui stava già ballando con Carolina. Il DJ li vide e non perse l’occasione per alzare il volume della musica e mandare in onda un repertorio di balli lenti e languidi. Jaco aveva reagito d’istinto, aveva portato la principessa a ballare soltanto per sottrarsi al chiacchiericcio insulso e invadente della sua corte, ma il corpo morbido della principessa cominciò a sollecitarlo più
20 di quanto si sarebbe aspettato. Lo stilista si rese conto con una certa sorpresa di non essere insensibile al dolce rollio dei fianchi coronati della sua compagna e la strinse più forte. La principessa si abbandonò a sua volta alle sensazioni proibite che il corpo virile di Jaco le trasmetteva. Jean Polettì intanto era arrivato al Pirata. Vide subito Jaco con la principessa in mezzo alla sala e capì che non poteva disturbarli. Jean Paul Belmondo gli fece cenno, chiamandolo al suo tavolo e invitandolo a giocare con loro. Non gli ci volle molto per capire che Jean Paul Belmondo e i suoi due compari stavano spennando l’americano ed erano arrivati al punto in cui probabilmente avevano bisogno di un’altra vittima per portare avanti la partita. Non potevano continuare a spolpare il povero americano e avevano bisogno di far girare un po’ la fortuna prima di piazzare la stangata finale. Jean Polettì fece buon viso a cattivo gioco e si sedette al tavolo, rassegnato a fare la vittima e avvolgendosi rapidamente nella nuvola di fumo di un sigaro cubano. I due malavitosi erano abbastanza bravi e le carte cominciarono a girare in favore dell’americano, un texano rubizzo con la camicia a quadri. Una mano dopo l’altra l’americano acquisiva confidenza nella sua buona sorte a spese degli altri, soprattutto di Jean Polettì. Il tempo passava e sulla pista Jaco e la Carolina continuavano a ballare stretti stretti, gli occhi dell’uno persi in quelli dell’altra. Altra gente si era aggiunta a loro, la musica del DJ era seducente e molte coppie avevano risposto al suo richiamo raggiungendo Jaco e la principessa sulla pista da ballo. Jean Polettì aveva già perso abbastanza e fece la mossa di lasciare il tavolo ma Jean Paul Belmondo lo fermò. «Aspetta Jean, non andare via subito, ripensavo a quando stavamo a Marsiglia, ti ricordi di quella volta che schiantammo quella vecchia DS contro il locale del Cassaro?». «Jean Paul, non ho tempo, devo andare». «Ma dai, non hai tempo per un vecchio amico? Resta seduto, non ti ricordi del Cassaro?».
21 «Il pizzaiolo del Panier? Certo che me lo ricordo, era il locale dove incontravamo la mala di Marsiglia». «Te lo ricordi quando la polizia fece irruzione nel locale e trovò il sindaco di Marsiglia con quelle due prostitute? Non ti ricordi che scandalo ci fu? Per poco non misero in mezzo anche me, e non ti ho mai raccontato come riuscii a starne fuori». Jean Polettì si rassegnò ad ascoltare Belmondo e nel frattempo i due malavitosi gli strapparono un altro paio di bigliettoni. Spense con rabbia il sigaro e, finita la storia del Cassaro, si disse che ne aveva abbastanza, non poteva più aspettare. Si scusò con i suoi compagni di gioco, affibbiò sulle spalle di Jean Paul Belmondo una pacca un po’ più forte del necessario e si allontanò verso il bar con fare deciso. Prese una ragazza con un abito indecente che era appollaiata su di uno sgabello del bar e la portò a ballare, guidandola abilmente verso Jaco e la principessa, evitando le altre coppie che erano sulla pedana. Girò un paio di volte intorno Jaco e Carolina, cercando di attirare l’attenzione di Jaco senza successo. L’amico sembrava non avere occhi che per la bella principessa. L’italo marsigliese si stava spazientendo e la sua indole focosa a lungo repressa prese il sopravvento. Nel passare vicino a Jaco gli fece un’entrata da dietro che mandò lungo disteso lui e la sua coronata compagna. Nella confusione che segui l’incidente, tra le guardie del corpo che erano accorse subito intorno alla coppia e la gente che si affollava sulla pedana per capire che cosa era successo, Jean Polettì riuscì a catturare lo sguardo di Jaco Pini e a parlargli nel loro linguaggio muto. «Ti stai debosciando con questa principessa». «Ma che cosa ti salta in mente, deficiente?» rispose Jaco. «Non ti ricordi che ti ho detto che abbiamo un’urgenza?». «Certo che me lo ricordo, sei te che sei arrivato tardi all’appuntamento». «Effettivamente» disse l’italo marsigliese in imbarazzo. «Tu e le tue avventure da strapazzo».
22 «Pensavo di metterci di meno, sai erano due ragazze focose, mi ci è voluto del tempo per soddisfarle». «Pensavo pensavo, guarda che cosa hai combinato!». Le guardie del corpo stavano portando la principessa che sembrava stordita verso un angolo riparato del ristorante. «Mi dispiace, ma non riuscivo a catturare la tua attenzione». «Vabbè, dimmi che cosa c’era di così importante?». Le sopracciglia dell’italo marsigliese saltarono tanto in alto che quasi raggiunsero la linea dei capelli sulla fronte. «Che vuoi dire?» chiese Jaco «Il codice di massima urgenza, interesse nazionale». «Da chi lo hai ricevuto?». «Dal Generale G» disse Jean Polettì guardandosi intorno con circospezione. «Il G?». «Il G». «Il G in persona?». «Il G in persona». Il riferimento al G trasmise un fremito a Jaco. Il Generale G era il generale dei servizi segreti italiani, da anni il grande capo di Jaco Pini e Jean Polettì. Dietro la facciata dell’uomo di mondo, Jaco era infatti un agente segreto, l’agente più segreto dei servizi segreti italiani, l’uomo dell’ultima risorsa. Aveva lavorato in tutti gli scenari del mondo, da Cuba all’Argentina dei colonnelli, dal Mozambico al Congo e all’IRAN e alcune delle sue avventure erano leggendarie. Aveva rubato i piani militari della Russia in Siria ed era sfuggito alla caccia del KGB raggiungendo l’Afghanistan e scalando il Khyber Pass su di una Vespa primavera per poi attraversare tutto il Pakistan travestito da santone Sikh. Una volta si era fatto perfino rinchiudere per alcuni mesi nelle prigioni Thailandesi per conquistare la confidenza di un trafficante di droga birmano e carpirgli i segreti della sua organizzazione. Non c’era impresa o avventura pericolosa di fronte alla quale Jaco si fosse mai tirato indietro. E ora il generale
23 G lo chiamava ancora una volta. Gettò uno sguardo malinconico in direzione della principessa riversa su un divano attorniata da una corona di cortigiani, chiedendosi se quella non avrebbe potuto essere l’occasione del grande amore, pensando a quello che avrebbe forse potuto sbocciare tra lui e la principessa, ma virilmente decise: il dovere lo chiamava, l’Italia aveva bisogno di lui e con l’Italia non si poteva scherzare. Gettò da lontano un bacio silenzioso alla principessa e marciando a testa alta si affrettò fuori dal locale. Il lacchè seguì la sua uscita con gli occhi di un cane bastonato.
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CAPITOLO TRE – IL GENERALE G
La Lamborghini gialla di Jaco Pini sfrecciava nella notte. La lancetta del contachilometri non scendeva mai sotto i duecento all’ora e Jean Polettì, che era un uomo d’azione ma non era, a dir la verità, un cuor di leone, fumava a pieni polmoni per la tensione. Jaco era silenzioso. Quando era alla guida diventava un tutt’uno con l’automobile, un automa perfettamente sincronizzato con la meccanica del veicolo. Mentre i suoi sensi erano assorbiti dalla guida, stava riflettendo sulle strane relazioni tra le donne e i generali. Quella notte aveva lasciato una donna per correre da un Generale, ma certamente erano stati molto più frequenti i casi in cui aveva lasciato i Generali per correre da una donna. D’altra parte però, si disse con un amaro sorriso, c’erano stati purtroppo anche casi in cui una donna aveva lasciato lui per correre da un Generale, e comunque il caso di gran lunga più comune tra lui, le donne e i Generali era quello dei Generali che lo avevano lasciato nei guai per correre dietro a una donna. «Attento, c’è un camion che viaggia a luci spente» non si trattenne Jean Polettì. Sapeva che dare consigli di guida a Jaco, addirittura invitarlo alla prudenza, era un grave errore, come dargli uno schiaffo in viso. Per tutta risposta, infatti, il motore della Lamborghini salì improvvisamente di giri, l’automobile schizzò di lato e balzò in avanti come un cavallo imbizzarrito. La strada di fronte a loro diventò appena una striscia sottile, luci e sagome sfrecciavano via accanto a loro come stelle filanti. «Hai preso le tessere?» chiese Jaco, gli occhi fissi sulla strada di fronte a loro. «Le ho prese tutte, per non sbagliare» rispose l’italo marsigliese. «Ne avremo bisogno presto credo» borbottò sotto i baffoni Jaco.
25 La luce intermittente blu di una pattuglia della polizia si accendeva e spengeva nel buio, in lontananza. Jaco rallentò e si accostò seguendo le indicazioni di un militare in assetto anti guerriglia. L’agente si avvicinò con circospezione, il mitra tenuto negligentemente a tracolla. «Eddove credevate di andare, ah? Minghia, credevate di essere su una pista di fommula uno? Favoriscano documendi e patente». «Jaco, non stare a questionare» disse Jean. «E chi questiona, l’Italia ha bisogno di noi, non c’è da perdere tempo. Passami la tessera per favore». «Aspetta, sto cercando quella giusta, si sono mescolate». «Sbrigati, l’agente si sta innervosendo». «Ecco, dagli questa». Jaco passò la tessera all’agente che cominciò a leggere. «Royal intelligence Service, Licence to Kill, Agente 007…. Eh ma chi volete babbiare, fesso mi volete fare?». Jaco sbiancò in volto e si girò verso Jean con aria sconsolata. «Ma possibile che confondi ancora le tessere?». «Ho sbagliato, sai, nella fretta, con tutte le tessere che abbiamo, ecco queste sono quelle giuste». «Ci scusi agente, ecco le tessere giuste, il mio amico le ha dato quella che avevamo preparato per un amico, uno scherzo». «Uno scherzo della minghia… vediamo chiste tessere ah?» L’agente prese le nuove tessere. «Ma siete i famosi agenti JP e JP?» domandò con un grande sorriso. «Subbito potevate dirlo, ah? Che emozione Madonna mia, che emozione, proprio a mia doveva capitare, ah? Un autografo mi potete fare a tutt’e due, ah?». Jaco e Jean scribacchiarono in fretta sul blocchetto delle multe che l’agente aveva passato loro e la Lamborghini riprese la strada con un rombo assordante, lasciandosi dietro il viso sorridente dell’agente. Erano ormai le prime luci dell’alba e i due agenti erano arrivati alle porte di Roma. Lasciarono l’autostrada e
26 presero il grande raccordo anulare su cui cominciava ad addensarsi il solito traffico della mattina. Entrarono in città da Corso Francia e scesero verso il Tevere. Davanti a Ponte Milvio c’era un assembramento di gente. «Che cosa fa tutta quella gente a quest’ora?» chiese Jaco. «Si prepara a protestare». «A quest’ora?». «Ogni ora è buona per protestare, e poi chi protesta prima ha più possibilità di essere ascoltato». «E per che cosa protestano?». «Oggi per una cosa, domani per un’altra, ci sono tanti motivi per protestare». Stavano scendendo sul lungotevere e i marciapiedi traboccavano di rifiuti ammucchiati intorno ai cassonetti. C’era nell’aria un vago odore di marcio. «Ma gli spazzini hanno smesso di lavorare a Roma? Sono in sciopero?» chiese ancora Jaco. «Ma no, saranno al circolo a chiacchierare di politica o di calcio». «E non puliscono le strade?». «Certo, ogni tanto». «Come sarebbe a dire ogni tanto, non è il loro mestiere?». «È il primo mestiere, ma si devono risparmiare per il secondo». «E che lavoro fanno?». «Un po’ di tutto, la maggior parte di loro fa il vigile urbano nei comuni vicini». Jaco girò a sinistra per attraversare il fiume ma aldilà del ponte la strada era occupata da un corteo con le bandiere al vento. Jaco represse un moto di stizza. «Un altro sciopero, ma possibile che la gente non abbia proprio niente altro da fare in questa città?» «Gira a sinistra Jaco, lasciali fare, non ti fare il sangue cattivo». Jaco risalì il Tevere, poi prese la Via Flaminia, attraversò Piazza del Popolo e scese per Via Ripetta fino all’ingresso segreto del Palazzo dei Forgiari, in via Buia. I due agenti scesero
27 rapidamente dalla Lamborghini e s’infilarono nell’ascensore segreto che li condusse al piano segreto dove c’erano le stanze segrete del Generale segreto, il mitico Generale G. Bussarono col loro codice segreto e il Generale aprì subito la porta. La stanza alle sue spalle era immersa nel buio, a parte il cono di luce che illuminava la scrivania. Sembrava che il Generale fosse in piedi da diverso tempo, forse non era nemmeno andato a dormire. Si diceva che dormisse pochissimo, che sapesse addormentarsi in ogni circostanza e a qualsiasi ora e che gli bastassero brevi periodi di sonno. In realtà, a dispetto dalla sua fama di spia, il generale aveva un aspetto molto comune, sembrava uno di quei nonni che s’incontrano ai giardinetti, seduti sulle panchine a sorvegliare i nipotini. Forse era proprio per questo suo aspetto innocuo che era riuscito a diventare quello che era, a complottare indifferentemente con la CIA e il KGB e a restare sulla breccia per tanti anni. «Finalmente siete arrivati, venite» disse quando vide i due agenti. «Volete bere qualcosa? Il solito Jaco?». «Il solito» rispose Jaco, il che voleva dire, a quell’ora del mattino, un Martini dry. «Anche per te, Jean?». «Io preferirei un caffè signor Generale, abbiamo viaggiato tutta la notte». «Mi dispiace, ma bisogna aspettare che entri in servizio il mio attendente per il caffè». Guardò l’ora. «Non sarà qui prima delle nove e mezzo, anzi oggi è lunedì e deve portare la figlia all’asilo, non sarà in ufficio prima delle dieci e mezzo». Il Generale porse il Martini dry a Jaco che lo trangugiò in una sola sorsata. «Sedetevi per favore, la situazione è molto delicata e molto complicata, francamente non riesco a capirci niente. Il quadro cambia continuamente, gli amici sembrano nemici e i nemici potrebbero essere amici». I due agenti guardavano sorpresi il Generale, non l’avevano mai visto così smarrito.
28 «L’Italia è in pericolo» continuò il Generale, «C’è una grande cospirazione in atto di cui non si conoscono i confini, potrebbe anche esserci un attentato, un gesto clamoroso, addirittura un tentativo di cambiare la guida…». S’interruppe e abbassò la voce fino a farla diventare a un sussurro. «Sentite, la verità è che non posso fidarmi più di nessuno, ho soltanto voi». «Ma come? I nostri servizi?» chiese Jaco. «Deviati» rispose il generale con una smorfia. «Una volta, due volte, non si sa più per chi lavorino». «Non è possibile, deviati anche gli agenti 126 e 127, i suoi agenti più fidati?». Il Generale scosse le spalle. «Loro no, non li vuole nessuno e comunque non hanno esperienza per questo tipo di lavoro». «E l’agente 130, l’agente 132?». «L’agente 130 pensa solo alla pensione ormai e ho ragione di ritenere che l’agente 132 faccia il doppio gioco». «Ma insomma, di che cosa si tratta?» sbottò Jaco che non stava più nella pelle per la curiosità. «Abbiamo ricevuto un messaggio segretissimo da una fonte che non ho motivo di dubitare». Ammiccò verso l’alto. «Una fonte molto in alto, capite vero?». I due agenti che non avevano capito niente dissero di sì, che avevano capito. «E che cosa dice questo messaggio?» chiese Jaco. «E chi lo sa? È cifrato, un nuovo codice di cui non abbiamo la chiave. L’unica parola che riusciamo a leggere è Papa, o forse Pipa». «I nostri esperti ci stanno lavorando?». «Macché, l’agente addetto alla cifra, il 131, è in malattia da un mese». «Un mese in malattia?». «È così, i dottori lo coprono e così tutta la macchina della criptografia è in mano al pivello di turno, l’agente Bertini, al
29 quale non è stato assegnato ancora il numero segreto per cui non è autorizzato a utilizzarla, capite in che guaio sono?». «Ma se il messaggio non è stato ancora decifrato, da dove viene tutta questa storia dell’Italia in pericolo?» interloquì Jean Polettì. Il Generale lo guardò come se volesse incenerirlo. «Polettì, mi meraviglio di lei. Se avessi aspettato di decifrare tutti i messaggi prima di preparare le mie contromosse sarei già morto da un pezzo. Guardate qui piuttosto». Aprì un faldone e cominciò a mostrare ai due agenti delle carte e delle foto. Jaco si concentrò sui documenti, erano rapporti di intercettazioni, scambi di informazioni con gli altri servizi segreti, foto scattate durante pedinamenti. L’Italo marsigliese non era molto portato per le analisi a tavolino e in queste situazioni era istintivamente pronto a distrarsi. Vide una copia della Gazzetta dello Sport su una poltrona e s’immerse nella lettura. C’erano le ultime notizie sulla preparazione ai Mondiali di calcio. Pareva che la Nazionale non andasse molto bene, le ultime partite amichevoli erano state piuttosto deludenti e le prestazioni della squadra non rispondevano alle aspettative dei tifosi. «Jean, lascia perdere quel giornale e vieni a darci una mano» lo redarguì Jaco. Jean Polettì ripiegò a malincuore la Gazzetta e si avvicinò al tavolino dove il Generale G e Jaco erano chini sui documenti. «Posso vedere il messaggio?» chiese. «Eccolo». L’Italo Marsigliese si concentrò sulla misteriosa sequenza di lettere. «Non si capisce se è papa o pipa» concluse. Il Generale si strinse nelle spalle. «Se fosse papa, con la P maiuscola…». «Pensi che sia possibile che si stia tramando un nuovo attentato al Papa?» chiese Jaco, improvvisamente all’erta. «Potremmo parlarne con quel tuo zio Cardinale?». «Posso fissare un appuntamento».
30 «Bene, se fosse davvero Papa la parola, potrebbe trattarsi di un nuovo attentato e questa volta potrebbe avere conseguenze disastrose per l’Italia, la Chiesa potrebbe abbandonare la città del Vaticano ritenendola insicura...». Jaco e il Generale si lanciarono in una serie di elucubrazioni, formulando e scartando ipotesi, costruendo scenari alternativi, pianificando mosse e contromosse contro sconosciuti avversari. Nel frattempo Jean Polettì istintivamente si distrasse di nuovo e si avvicinò alla finestra a guardare il riaccendersi della vita della città. Era esploso il mattino, una giornata luminosa, lustra e lucente come solo a Roma sono le giornate di primavera. Le strade si stavano riempiendo di automobili, tutti in strada per andare a un lavoro che poi, tra un cappuccino e l’altro, pochi avrebbero fatto. Tanta gente passava sotto le finestre del Palazzo dei Forgiari, ignari dei segreti che esso nascondeva. Passarono un paio di belle donne, strette nei primi vestiti estivi. Polettì ne seguì il lento ondeggiare delle anche, cercando di immaginare la biancheria intima che indossavano. La tensione nella stanza segreta era palpabile, il Generale G pensava, Jaco pensava e Jean continuava a guardare i passanti in via Buia. «Basta» ruppe il silenzio Jaco, «andiamo a casa mia a riposare un poco e a pianificare le prossime mosse». «Se questo caso non lo risolvete voi, non lo risolve nessuno» disse con un sospiro il Generale G. «Sono rimasto solo, non mi posso più fidare di nessuno. Tra chi fa il doppio lavoro, chi è malato, chi è proprio cretino non ho più nessuno. Posso fare affidamento solo su di voi, e mi raccomando, siate prudenti, sospendiamo tutti i contatti, a parte il canale per le emergenze». Si guardò intorno con circospezione. «Anche i muri hanno le orecchie e non si sa se siano orecchie amiche o orecchie nemiche». «Conti su di noi, Generale» rispose Jaco, «faremo il possibile e l’impossibile, anche se non abbiamo molto su cui lavorare».
31 «Per parte nostra continueremo a cercare di decifrare quel messaggio. Manderò gli agenti 126 e 127 a rintracciare segretamente l’agente 131. Abbiamo avuto una soffiata, pare che approfitti del periodo di malattia per lavorare come installatore elettrico nella ditta del cognato. Se abbiamo fortuna può darsi che riusciamo a trovarlo e a convincerlo a lavorare sul messaggio». Il Generale cedette a un momento di intensa emozione e strinse forte in un abbraccio prima Jaco e poi Jean. «Buona fortuna, ragazzi». Il suo viso era tornato la maschera di bonomia impenetrabile del mitico Generale G. I due J.P. scesero in silenzio, ognuno prigioniero dei propri pensieri. Salirono sulla Lamborghini gialla e sfrecciarono in barba a tutti i semafori verso la residenza di Jaco, sulla collina di Monte Mario, una villa di migliaia di metri quadri immersa nel verde dei pini romani. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
Capitolo Quattro – Gli affari di Jaco............................ 32 Capitolo Cinque – In Vaticano .................................... 42 Capitolo Sei – La spia Bulgara .................................... 49 Capitolo Sette – L’attentato ......................................... 58 Capitolo Otto – Rio de Janeiro..................................... 67 Capitolo Nove – I segreti della CIA ............................ 80 Capitolo Dieci – La Galleria L’Enfant ........................ 92 Capitolo Undici – The Podjet ...................................... 99 Capitolo Dodici – Grammatico, il Barbiere.............. 109 Capitolo Tredici – La resa dei conti........................... 122 Capitolo Quattordici – Il giorno X............................. 131 Capitolo Quindici – Il burattinaio .............................. 138 Epilogo ....................................................................... 151