Cronache di ordinarie battaglie

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In uscita il 30/11/2015 (14,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre '15 e inizio gennaio '16 (2,99 euro)

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ANDREA GABELLINI

CRONACHE DI ORDINARIE BATTAGLIE

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CRONACHE DI ORDINARIE BATTAGLIE Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-932-6 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Questo libro è opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale.


A Mary e Roberto silenziose guide



Perché il bello degli uomini è che non hanno mai perso… E tutto il resto è un puttanaio di puttanate Roberto Vecchioni



CRONACHE DI ORDINARIE BATTAGLIE

RACCONTI



LE CASE DI SOTTO



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Una volta io e i ragazzi decidemmo di scendere lungo il sentiero che passava dietro casa mia, una vecchia carrareccia che ostinatamente reclamava la sua presenza fra file di castagni e querce isolate. Si incuneava tortuosa e tormentata in campi lasciati incolti, che un tempo erano stati pascolo o prati a fieno. In passato quella via aveva collegato fra loro tutte le case del borgo, tra cui la nostra che era rimasta l’unica abitata tutto l’anno. Con il tempo era stata abbandonata a se stessa, sostituita da quella più ampia in cemento che tuttora s’inerpica nervosa, partendo dalla strada comunale che corre duecento metri più in basso, fino ad arrivare davanti al nostro giardino. Era stata una decisione di mio padre quella di vivere isolati su quel cucuzzolo, dove aveva restaurato un vecchio fienile facendone una casa accogliente e, a suo modo, decorosa. Non amava troppo le comodità mio padre, ci si scaldava con la stufa a legna nei mesi freddi e con il camino in quelli autunnali e primaverili, questo voleva dire tagliarla in tarda primavera e sistemarla in estate. Faceva tutto da solo, il suo piccolo hobby lo chiamava, e quando in paese, situato a qualche chilometro di distanza, tutti avevano oramai finito di riempire le proprie legnaie, lui sudava ancora sotto il sole di settembre. Io dal canto mio non ero molto propenso ad aiutarlo, anche se mi capitava ogni tanto di dargli una mano con i bacchetti più leggeri che riponevo distrattamente al loro posto, separati dai ciocchi più grandi. Ci poteva pure scappare qualche soldino.


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Quel giorno il motore della sua motosega ci accompagnò per un lungo tratto di quel cammino che come sempre percorremmo correndo e spingendoci reciprocamente. Lo riconoscevamo solo perché delineato da vecchi castagni disposti in fila, per il resto i cespugli che vi erano nati e che crescevano rigogliosi e disordinati lo rendevano irriconoscibile rispetto ai campi che si aprivano a suoi fianchi. Nessuno più aveva cura di quei posti e a mio padre dispiaceva, si sentiva in colpa per non avere tempo e soldi per farli tornare come una volta o come si immaginava fossero stati. «Guarda quel castagno», lo sentii dire un giorno, rivolto più a se stesso che a me, durante una delle nostre frequenti passeggiate nei boschi. «Lasciato seccare con sprezzo, come si farebbe con un vecchio abbandonato in un ospizio. Fosse stato mio quell’albero ora saremmo a raccoglierne i frutti. Ragazzo mio, io non farò quella fine, tu non lo permetterai, vero?» Risposi solo con un abbozzo di sorriso, non fui capace di trovare le parole adatte. Ero ancora piccolo all’epoca e, sebbene non vi fossi nato, mi sembrava di averci abitato da sempre in quei luoghi. Per lui invece vivere lì, dopo trent’anni passati in città, era stata una liberazione da quella “gabbia di cemento che stritola mente e corpo”. Come usava dire. Quella mattina fui il primo ad arrivare alle case di sotto e una volta raggiunto dai miei compagni ci sedemmo silenziosi sopra delle casse di frutta mezze marce, abbandonate sotto una vecchia e dondolante tettoia di legno che non si sapeva come potesse restare ancora al suo posto. Lo chiamavamo così quel gruppetto di case dai muri storti e i tetti incerti perché, in linea d’aria, era posto sotto la nostra, più o meno a metà percorso tra questa e l’inizio della strada in cemento. Anche quel giorno il piano era lo stesso. Luca si sarebbe avvicina-


13 to al vecchio e l’avrebbe distratto chiedendo di poter vedere ancora una volta le caprette nella stalla. Nel frattempo io e Mattia ne avremmo approfittato per andare a inserire una vecchia cassetta di musica punk nel suo stereo portatile, attaccato, come sempre, alla vecchia staccionata, per spararla poi a tutto volume prima di scappare via. Volevamo bene al vecchio Severino, ma l’idea di approfittare della sua ingenuità era una tentazione troppo forte per dei bambini come noi, con i primi peli scuri che iniziavano a colorare i nostri volti. Sapevamo benissimo che il vecchio avrebbe accolto Luca con il suo solito sorriso e, simulando goffamente una sorpresa che non c’era, avrebbe smesso per un momento di badare alle caprette per mostrarle con orgoglio. Le teneva rinchiuse, di giorno come di notte, in quella che tanto tempo fa era stata la cucina della sua abitazione. Severino aveva vissuto in quella casa gli anni più belli della sua vita, quando ancora la forza di uomo vigoroso scorreva nel suo corpo. Lo chiamavano “lo straniero” perché non era originario di quei posti, ma vi si era trasferito solo dopo aver sposato Clara, nata invece in un piccolo paese vicino. Conosceva a menadito ogni angolo del borgo, ogni campo, ogni sentiero, e chiamava gli alberi per nome. Se il vento spirava in un certo modo e da una certa direzione avrebbe potuto con sicurezza annunciare la pioggia un giorno prima che arrivasse. Era stato un bravo carpentiere e portava ancora i segni del sole “delle due” sul viso, ma erano segni che ne ingentilivano i tratti invece di deturparli. Le sue giornate a quei tempi iniziavano all’alba e finivano al tramonto, ma mai senza aver prima dato il fieno alle mucche, il pane alle galline, e, quando occorreva,


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l’acqua al suo piccolo orticello. Quello era il suo dopolavoro, il goccetto di vino e le chiacchiere del bar non facevano per lui, i suoi animali lo aspettavano e Clara non tollerava che arrivasse tardi a cena. Il conseguimento della pensione non aveva mutato le sue abitudini, bensì aveva più tempo per tener dietro alle sue cose, per ampliare l’orto, per comprare qualche capra. Era cambiato tutto, invece, quando Clara si era ammalata e si trovarono di colpo a vivere in città, in un bilocale che suo figlio era riuscito a trovare loro in affitto. Furono anni difficili, tra ambulatori, stanze d’ospedali, studi di primari, viaggi di speranza in cliniche lontane e costose, ma non tralasciò mai, se non per qualche giorno al massimo, il mondo dal quale era stato separato, lassù in montagna. Vi ci andava ogni qualvolta le condizioni della moglie lo consentivano, anche per ringraziare i vecchi amici che, quando non poteva, curavano le bestie per lui, mentre l’orto era oramai andato perduto. Pagava tutti, insisteva per farlo e non si piegava mai ai loro tentativi di fargli capire che non importava, non era abituato ad avere debiti, dipendere da qualcuno era per lui già un pesante macigno. Infine Clara guarì e sembrò un miracolo vista l’età, ma i miracoli non sono per tutti, e non c’erano miracoli per Severino. Suo figlio decise per loro che non sarebbero comunque tornati a vivere in montagna, che la mamma avrebbe potuto avere una ricaduta, che si era abituata ai nipoti e ai negozi sotto casa. Loro stessi avrebbero trovato giovamento nell’averli vicini in modo da concedersi un po’ di libertà dai figli. Severino ne prese atto, ma a modo suo. Aveva qualche risparmio, la sua pensione e la fermata della corriera giusto sotto casa, non


15 aveva bisogno d’altro. Non comunicò niente a nessuno della sua decisione; una mattina all’alba disse semplicemente che usciva e che sarebbe tornato per pranzo. Da allora lo fece ogni giorno, con qualunque tempo, portando con sé tutti gli acciacchi che il tempo gli stava elargendo. La corriera lo lasciava a circa mezz’ora di strada a piedi dalle case di sotto e lui raggiungeva il piccolo borgo sfidando la lunga salita, spingendo con entrambe le mani la sua vecchia Graziella. La caricava nel pullman e al manubrio attaccava buste piene di scatolette per gatti, perché alle capre si erano aggiunti pure loro. Inizialmente era stata solo una piccola micia vagabonda poi, nel giro di qualche mese, la famiglia si era allargata a dismisura. Le mucche invece le aveva vendute, ma solo dopo avere avuto l’assicurazione che non sarebbero state macellate. Li sfamava accarezzandoli tutti, i suoi gattini, contandoli uno per uno, e capitava spesso che i conti non tornassero, a rotazione qualcuno mancava sempre e succedeva spesso che i più piccoli o i più deboli e malati non tornassero più. Accuditi i mici entrava in cucina e salutava le sue capre, loro non avevano un nome, che si sappia, erano le sue capre e basta. Imprecava pulendo quella improvvisata stalla, vociando loro di stare ferme, che il fieno sarebbe arrivato solo se stavano buone. Ma il fieno arrivava sempre, che stessero buone o no. Quando Severino arrivava alle case di sotto se ne sarebbero potuti accorgere tutti se solo ci fosse stato qualcuno ad ascoltare il suo vocione. Ma quelle case, che facevano da anfiteatro al grande prato interno con al centro un immenso noce, erano disabitate da anni. Tutte le mattine attaccava alla staccionata, che lui stesso aveva eretto, una vecchia radio con mangianastri che era sintonizzata


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sempre sulla stessa frequenza. L’avventore che fosse passato di lì per caso si sarebbe gustato il singolare spettacolo di un vecchio ingobbito, sudato fradicio in qualunque condizione meteorologica, intento a togliere merda di capra da una cucina. Lo avrebbe sentito e visto sputare saliva, bestemmie e tenere parole nei confronti delle sue bestie con il sottofondo di musica tecno sparata a volume altissimo da una radiolina rossa che vibrava per lo sforzo. Io Severino l’ho conosciuto così, imprecazioni, sorrisi, carezze e musica tecno. Mi chiamava piccolino ed era felice che ogni tanto mi fermassi ad aiutarlo, ma voleva che stessi attento a non sporcarmi per non farmi rimproverare dalla mamma. Tendeva la mano per aiutarmi a oltrepassare i punti più viscidi e io l’afferravo volentieri, sicuro che in quel modo non sarei caduto. Un po’ mi vergognavo quando insieme ai miei amici gli organizzavamo quegli scherzi ingenui. Capitava sovente, prima di scappare via con gli altri, che mi fermassi a osservarlo nascondendomi dietro un albero. Dopo averlo visto avvicinarsi alla radio, togliere l’ennesima cassetta, riportare la radio in FM e riprendere a lavorare come se niente fosse ero tranquillo, sicuro che non avevamo esagerato. Non ancora per lo meno. Mio padre ogni tanto mi parlava di lui, ed erano allo stesso tempo parole affettuose e piene di rabbia. Mi raccontava che il vecchio aveva tutta la famiglia contro per via dei soldi che sperperava dietro a quelle capre, che non costituivano per lui nessuna fonte di lucro. Anche gli amici di vecchia data pensavano tutti che fosse uscito di cervello vedendolo in groppa alla bicicletta sotto la pioggia procedere in discesa sulla strada del ritorno fino alla fermata della corriera. Secondo lui non lo capivano, nessuno di loro; non comprendevano


17 che la città sarebbe stata la sua morte e a lui, che quella gabbia la conosceva bene, sarebbe stata destinata quella stessa fine se non ve ne fosse scappato. Non mancava mai di andare a trovare quel vecchio testardo almeno una volta al mese. Discorrevano di capre, delle stagioni che erano cambiate, dei gatti che sparivano e ricomparivano, di altri che non tornavano più, presi dal gelo o dalle volpi. Poi, quando si ripresentava a casa, mi portava sempre i saluti dalle case di sotto. «Cosa gli avete fatto oggi a Severino? Lo scherzo della cassetta?» mi chiese un giorno mentre cenavamo. Io risposi di sì e lui mi fece cenno di finire la carne e mi scompigliò i capelli con la mano. Una volta che ebbe finito di pulire i piatti, mi suggerì di non esagerare, che lo scherzo è bello quando dura poco. Quel gioco era già finito, solo che ancora non lo sapevamo. Il giorno dopo mio padre mi portò a scuola come tutti i lunedì, la domenica notte dormivo quasi sempre da lui, e passammo davanti alle case di sotto. Notai che la radiolina non era al suo posto quella mattina ma non gli detti importanza, vidi però un’ombra negli occhi di mio padre. Mi salutò come al solito davanti alla scuola, ma stavolta senza dirmi di stare attento alla strada prima di attraversare. Due giorni dopo ero di nuovo da lui per cena e mi disse il motivo per il quale quel lunedì non avevamo visto la radio appesa alla staccionata. Nel farlo gli scese una lacrima e tirò su con il naso mentre mi scaldava il brodo. L’ultimo ricordo di mio padre che piange l’avevo sepolto nella memoria, erano i giorni della separazione da mia madre. Mangiai la mia minestra tristemente e se ne accorse. Allora mi fe-


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ce l’occhiolino sorridendo e mi disse parole che ancora oggi non riesco a scordare. «Mi parlava spesso di te il vecchio Severino quando andavo a fargli visita giù alle case di sotto.» Mio padre si era alzato per riporre i piatti nel lavello della cucina e mi dava la schiena. «Che ti raccontava babbo?» gli chiesi temendo una risposta che mi avrebbe ancor più addolorato. «Sembra si divertisse come un matto nel far credere a tre bimbetti foruncolosi di riuscire a farsi beffe di lui mettendo di nascosto una cassetta di musica punk nel suo mangianastri. Ti risulta?» Nel farmi quella domanda si voltò verso di me con un sorriso burlone stampato sulle labbra. Io restai di sasso, ma mi sentii sollevato. «Quel vecchietto», continuò poi questa volta rivolto verso la finestra che dava sul giardino, «le conservava tutte quelle cassette e si premurava sempre di renderle al padre di uno di quei monelli.» Le trovai in camera mia sopra il letto e dopo trent’anni sono ancora lì, non le ho più ascoltate.


MARIÙ



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Non erano ancora le otto del mattino quando il professor Dal Pozzo attaccò la prima rampa di scale che portava all’ingresso della biblioteca. I gradini avevano un’alzata notevolmente più bassa rispetto a quelli della scuola dove lavorava e la pendenza pertanto era minima, tuttavia gli furono necessari quasi dieci minuti di passi lenti e compassati per conquistare il sesto piano. Lo raggiunse concedendosi qualche secondo di riposo in quasi tutti i pianerottoli, per riprendersi avidamente tutto il fiato che gli era uscito. Un tempo avrebbe impiegato non più di due minuti per fare quei piani, adesso quella salita gli sembrava infinita. Nonostante avesse da poco varcato la soglia dei quaranta, il suo aspetto trascurato e l’espressione spenta del viso lo facevano apparire come un uomo oramai vicino ai sessant’anni. Fu esattamente questo il pensiero del ragazzo delle pulizie quando se lo vide passare davanti con circospezione, la fronte cosparsa di sudore e il fiato corto. Il professore l’aveva superato senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Il giovane osservò quella bizzarra figura avviarsi ciondolando verso la porta a vetri che dall’ingresso conduceva alla prima sala di lettura, quella grande, dov’erano stati sistemati alcuni computer. Una volta superata, lo vide pulirsi distrattamente gli occhiali con la cravatta e poi voltarsi su se stesso, stavolta con inaspettata agilità, come a squadrare qualcosa che non c’era più. E così era. L’imponente porta di legno era stata sostituita tre anni prima per


22 far posto a quella in vetro, più leggera, moderna e funzionale, e il professore ne aveva nostalgia. L’aveva aperta e chiusa così tante volte quando era giovane e trascorreva intere giornate in biblioteca per preparare gli esami, che la considerava quasi un’amica. Aveva provato a opporsi alla sua rimozione ma alla fine si era arreso anche lui all’evidenza dei cardini che non ne sopportavano più il peso. Una volta attraversata la sala grande entrò in quella piccola, a essa adiacente, e per prima cosa si premurò di aprire le pesanti tende di tessuto assicurandole ai ganci laterali, permettendo così alla luce del giorno, ormai fatto, di entrare. Si procurò con bramosia tutti i quotidiani presenti e si mise a sedere occupando l’unico tavolo che, a quell’ora del mattino, godeva dell’illuminazione diretta dei raggi solari. Dopo una rapida scorsa alle notizie sportive il suo interesse passò ad articoli che trattavano di cultura e filosofia saltando a piè pari la cronaca e la politica. Erano, questi, argomenti che non l’avevano mai interessato e dei quali si stupiva che godessero di così tanto spazio. In quel modo, e da anni, il professor Federico Dal Pozzo, docente di letteratura presso il vicino istituto tecnico, passava i suoi giovedì mattina. Quel giorno di riposo gli consentiva un tuffo nel passato al quale non avrebbe rinunciato per niente al mondo. In quella stanza si era infatti prima diplomato e poi laureato, vi aveva conosciuto persone alle quali erano legati i ricordi più belli della sua giovinezza. In quella stanza, forse seduto sulla medesima sedia, si era anche innamorato per la prima e unica volta. Avevano entrambi sedici anni e frequentavano lo stesso corso di semiotica organizzato dalla biblioteca. Dal primo sguardo che, non


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visto, posò delicatamente sul suo esile corpo, amò tutto di lei, la sua semplicità, l’intelligenza che traspariva dallo sguardo, i suoi capelli castani raccolti sopra la testa, e quegli occhiali enormi che le riempivano il viso. Poi imparò ad amarne anche la voce. Sarebbe stato ore ad ascoltarla leggere poesie del Leopardi e degli altri grandi poeti del passato. I pochi minuti durante i quali aveva la possibilità di stare con lei, seduto tra i banchi del liceo, passavano sempre dannatamente veloci. La chiamavano tutti Mariù, come la ragazza di quella vecchia canzone. Si era più volte chiesto il perché di quel soprannome, ma quella sua curiosità era stata ogni volta sopraffatta dall’inguaribile timidezza che lo caratterizzava. Alla fine fu lei stessa a svelargli il mistero allorché, molti anni più tardi, si ritrovarono a insegnare nella medesima scuola di una lontana periferia. Lui aveva fatto tutto quello che era nelle sue possibilità per farsi assegnare una cattedra nel suo stesso istituto, ma dovette infine ringraziare il padre, al suo ultimo anno come dirigente scolastico prima della pensione, il quale, dopo mille insistenze, intercedette per lui. «Federico, questa tua scelta non la capisco. Hai la possibilità di insegnare a un passo da casa e invece mi stai facendo impazzire per farti lavorare a più di due ore di viaggio da qui, quattro compreso il ritorno. Benedetto ragazzo!» A Federico non importava, pur di rivederla dopo tanti anni ne avrebbe fatte anche il doppio. Si ritrovavano spesso in sala docenti dopo le lezioni e, dopo aver corretto i compiti degli alunni nelle loro rispettive materie, lei insegnava scienze, lui italiano, capitava che si fermassero una mezz’ora in più. Messi da parte quaderni e fogli a protocollo ricor-


24 davano con trasporto e malinconia i tempi in cui erano stati compagni di classe. «La cantavo tutti i giorni quella canzone», gli disse un pomeriggio sorseggiando una tazza di tè. «Pensa che avevo solo sei anni, ma la ricordavo a memoria. Sicuramente la conosci anche tu.» Iniziò a canticchiarne una strofa e la sua voce si diffuse nella stanza, leggera come l’aria fresca del mattino quando lentamente entra dalle finestre spalancate liberando gli ambienti dalla monotonia della notte. Terminato quel breve canto le furono necessari alcuni secondi per riprendere fiato, poi riprese il racconto. «E così per tutti sono diventata Mariù! Ormai Daniela mi chiama solo mia madre, ed è come se quel nome non mi appartenesse più. Sei rimasto deluso? Ti aspettavi chissà quali aneddoti, vero?» Non era deluso. Non aveva nemmeno ascoltato le sue parole. Nel fargli quella confidenza si era avvicinata delicatamente a lui e le loro guance si erano sfiorate per un breve ma infinito spazio di tempo. Quelle parole, pronunciate con un filo di voce, le aveva assaporate come lo si fa con una pietanza delicata e odorate alla stregua del più inebriante dei profumi. Non le aveva sentite ma semplicemente amate, come se fosse la prima volta che quel suono giungeva alle sue orecchie. Poco importa dell’anello che anche quel giorno portava al dito. Di sicuro non aveva pensato a lui in tutti quegli anni, ma in quel momento erano seduti l’uno a fianco dell’altra e lui poteva sentirne il respiro sulla pelle. Ben presto le loro strade si divisero di nuovo, stavolta per sempre, e lui restò con la voglia di sapere cosa celasse quel nomignolo. Quando tornò a lavorare in città prese a chiamare la piccola sala di lettura della biblioteca con quel nome, Mariù, e da quel giorno ne ebbe cura come se fosse casa sua.


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La luce del sole illuminava ormai l’intera stanza quando fecero il loro ingresso cinque ragazzi con dei pesanti zaini sulle spalle. Entrarono in fila indiana cercando di osservare un rigoroso silenzio e si diressero senza esitazione verso il tavolo dov’erano solitamente collocate le riviste musicali. Era evidente che non si trattava della prima volta che visitavano la biblioteca e la loro malcelata aria furtiva mista a eccitazione era il chiaro segno che avevano deciso di passare quella mattina lontano dai banchi di scuola. Questo almeno pensò di loro il professor Dal Pozzo, riconoscendoli a uno a uno essendo stati suoi allievi fino all’anno precedente, quando li vide confabulare tra di loro circa la collocazione che avrebbero preso sul tavolo. Si sentì a disagio, si trovava suo malgrado nella condizione di doverli smascherare quando invece i suoi canoni di insegnamento non contemplavano situazioni di quel genere. Per lui l’atto di bigiare la scuola era inconcepibile, l’equivalente al non mangiare, al non dormire, era insomma una situazione talmente illogica che non riusciva a spiegarsela e di conseguenza ad affrontare. Rimuginava su questo quando vide uno dei cinque amici, un capellone alto e magro, avvicinarsi al suo tavolo. Il disagio aumentò quando questi lo raggiunse e non seppe che altro fare se non dire con concitazione: «I giornali li ho presi io, ma sono tutti qui, ho finito adesso di leggerli, prendeteli pure.» «Buongiorno prof! Sapevamo che l’avremmo trovata qui. Noi come vede siamo tutti a quel tavolo, era talmente impegnato nelle sue letture che nemmeno ci ha visti entrare, vero?» «Ha visto ieri la Juve?» intervenne un secondo sopraggiunto nel frattempo insieme a tutti gli altri. «Che bastonata che hanno preso,


26 eh! Eros ha ragione, ci vuole fare compagnia? A noi farebbe piacere, però, anche se le potrà sembrare strano, siamo venuti qui per studiare, domani quella di matematica interroga e fra tutti non è che si vada poi bene.» Avrebbe voluto rifiutare quell’invito e l’avrebbe fatto con la consueta cortesia, ma la naturalezza e l’entusiasmo manifestati in quelle parole inaspettate lo convinsero ad accettare. Fu accolto al loro tavolo con un’autentica ovazione e da numerose pacche sulle spalle, come se si trattasse di un loro vecchio amico. Arrossì e chiese loro di fare più piano, che quello era un luogo di lettura e non un mercato. Mariù, illuminata dalla fulgida luce di uno splendido mattino di tarda primavera, fu quel giorno spettatrice divertita di un insolito spettacolo. Cinque studenti scapestrati e il loro vecchio professore di italiano parlarono di calcio e di Pratolini, di quanto fosse figa la ragazza nuova arrivata e di quel compito di storia copiato male. Discussero con fervore della recente occupazione da parte degli studenti e del nuovo preside, che era sin troppo severo. Scomparsa quella barriera trasparente che tante volte si interpone tra insegnante e allievo, caddero anche, da ambo le parti, tutte le più tipiche inibizioni. Furono per lui tre ore oltremodo vivaci, ma allo stesso tempo rilassanti, che volarono via in fretta. I ragazzi infine raccolsero la loro roba e salutarono il professore, non prima però di rivolgergli una calorosa supplica affinché convincesse la professoressa di “mate” a essere accondiscendente nei loro confronti, visto che: «Se oggi non abbiamo studiato è anche colpa sua!» Assicurò che avrebbe fatto del suo meglio ma che conveniva loro darci sotto con lo studio. «Non si sa mai.» Una volta rimasto solo si guardò attorno. Mariù era identica a tutti


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gli altri giorni, con gli imponenti scaffali pieni di vecchi libri e le spesse tende di tessuto color porpora che la facevano apparire ancor più piccola. Eppure gli sembrò cambiata, non più bella, non più grande, luminosa come in passato, ma diversa. D’istinto aprì le enormi finestre che davano sul cortile interno e dalla loro resistenza pensò che erano state chiuse per molto tempo, troppo. «Ci vuole più aria per questi ragazzi, aria fresca», disse a voce alta come per farsi sentire da qualcuno. Una folata di vento tiepido entrò nella stanza e smosse i giornali facendone volare uno che cadde ai suoi piedi. Lo raccolse e lo sistemò con cura vicino agli altri poi, indossato il suo vecchio cappotto consunto, si diresse verso l’uscita senza voltarsi. Quando fu sulla soglia il ragazzo che qualche ora prima aveva solo intravisto lo fermò con deferenza. «Signore, mi scusi. Le volevo solo dire che da oggi mi occupo io delle cose qui, ehm, insomma, se ha dei suggerimenti da proporre me li faccia sapere, farò il possibile per…» «La ringrazio», disse al giovane interrompendolo con gentilezza, «non mancherò di farle sapere, ma mi sembra che sia tutto perfetto così com’è. Non toccherei niente. Sebbene, a pensarci bene, una cosa ci sarebbe, se posso permettermi.» «Prego, mi dica pure», disse il ragazzo desideroso di potersi rendere utile. «Aprite le finestre più spesso, l’aria viziata non aiuta la lettura né lo studio. Buona giornata e grazie del pensiero.» Si pulì gli occhiali e si avviò verso le scale. “Forse anche un ascensore non guasterebbe”, pensò fra sé e sé. «Non sei d’accordo, Mariù?» ),1( $17(35,0$ &217,18$


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