In uscita il 30/6/2017 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2017 ( ,99 euro)
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CLAUDIO PAGANINI
DESTINI INCROCIATI
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DESTINI INCROCIATI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-112-9 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Giugno 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Un ringraziamento di cuore alla mia amica Simona e alle sue splendide foto che hanno ispirato la location e la trama di questo romanzo.
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PROLOGO
La notte in cui venni al mondo sembrava una notte come tante altre, una sera d’inizio settimana, pieno di nebbia e di sofferenza. Mia madre ha sempre raccontato che la mia nascita non era stata né facile né tantomeno indolore; il travaglio, iniziato la mattina, si era finalmente concluso allo scoccare della mezzanotte, tra l’ultimo gemito della mamma e un sospiro di sollievo di mio padre. Ero nato proprio quando le campane della vicina chiesa avevano cominciato a battere i primi rintocchi dell’ultima ora della giornata, di quel lunedì 30 aprile del 1982, nulla di strano se non fosse stato per un piccolo particolare: quella non era una notte come le altre, ma un evento tanto speciale quanto sinistro, capace di condizionare tutta la mia vita futura. Al momento, però, nessuno pensava a queste cose; mamma e papà erano felici della mia nascita mentre i dottori e le infermiere erano occupati a lavarmi e a fare i controlli di routine, soddisfatti che quel parto così impegnativo fosse finito nel migliore dei modi. Ero uno splendido maschietto di poco più di tre chili e strillavo come un ossesso mentre venivo passato di mano in mano fino al petto di mia madre. Nessuno poteva immaginare che altre forze erano all’opera in quella strana notte, entità che avrebbero fatto sentire la loro presenza a tempo debito, per uno scopo ben preciso, per un atto di tardiva giustizia. Mi chiamo Luca ma, per un perverso gioco cosmico, sono anche Agnese e questa è la nostra storia.
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CAPITOLO 1
Sambuco è una piccolissima cittadina a pochi chilometri da Cuneo fatto di case basse, di legno e pietra; qui la gente si conosce tutta per nome, un insieme di poche famiglie che resistono ancora allo spopolamento del loro meraviglioso paese, incastonato tra prati e montagne. Questo è il luogo dove i miei nonni hanno vissuto e così pure i nonni dei miei nonni, intere generazioni passate qui, a milleduecento metri sul livello di un mare che praticamente nessuno dei più anziani ha mai visto. Mio padre, impiegato di banca, e mia madre, postina del paese, abitano in una casetta a un piano che si affaccia sulla vallata sottostante in un panorama mozzafiato tra il verde dei boschi e il blu intenso del cielo ed è qui che sono arrivato io, il loro primogenito, dopo una breve permanenza nel reparto di ostetricia dell’ospedale di Cuneo. Tutto il paese mi aspettava con ansia, tutti i novantotto abitanti, contando anche quelli che non potendo farcela da soli, si erano fatti accompagnare sulla piazza del municipio e ora aspettavano l’arrivo di mio padre con il neonato e la neo mamma in una sorta di timoroso silenzio. Il sole di maggio scaldava l’aria rendendo quel primo pomeriggio così gradevole da non aver voglia di far altro che alzare il viso al cielo e godersi il tepore del sole; si sentiva solo il ronzare delle mosche e il cinguettio allegro degli uccelli che faceva da sfondo a qualche colpo di tosse e al vociare sommesso delle nonnine: gli sguardi di tutti erano fissi alla strada, a quella curva lontana da dove, a momenti, sarebbe spuntata la macchina rossa di mio padre, una Ford Mondeo di seconda mano. Ero la prima nascita in paese dopo tanti anni, quasi un miracolo nella lunga, lenta decadenza dei suoi residenti, una flebile speranza che la cittadina potesse continuare a sopravvivere all’incessante emorragia dei suoi abitanti, troppo vecchi o troppo stanchi della vita dura su quella montagna. Io, ignaro di tutto, ben avvolto nella mia copertina, dormivo beato tra le braccia di mia madre, all’oscuro delle sorprese e delle avversità che avrei dovuto affrontare negli anni a venire; dormivo e mangiavo, felice e curioso di ogni cosa che passava davanti ai miei occhi
8 celesti, come il cielo d’estate, come amava definirli mia nonna materna. Non ho naturalmente ricordi diretti dei miei primi anni, ma solo racconti e aneddoti che ripetevano i miei familiari e che confermavano la mia indole vivace e avventurosa, fin dai primi anni della mia vita. Non essendoci bimbi della mia età, l’inizio della mia infanzia era trascorsa davanti ai focolari degli anziani del paese, persone all’apparenza dure e poco socievoli, pronte però a raccontare storie meravigliose sul passato di quelle terre, leggende nate sulle pendici della stessa montagna che ogni mattina guardavo dalla finestra della mia cameretta. Ero a detta di tutti un bimbo speciale, attento e curioso, mai stanco di chiedere e ancor meno di ascoltare tutto ciò che gli anziani erano pronti a raccontare così volentieri; aneddoti dell’ultima guerra, combattuta nei boschi dietro il paese, dei tempi in cui, per arrivare in pianura, occorreva percorrere i tortuosi sentieri di montagna, perché non c’erano strade. Ma le storie che preferivo erano di tutt’altro genere, racconti antichi che si perdevano nelle pieghe della memoria, a metà tra verità e leggenda, di una terra che era stata la patria di personaggi avvolti da un alone di mistero e di superstizione: le masche. Fu verso i quattro anni che uno dei miei desideri più grandi cominciò ad avverarsi; non frequentavo l’asilo perché c’era troppa strada da fare e la compagnia di chi poteva badare a me non mancava di certo. Tutto il paese faceva a gara ad avermi, sia pure per poche ore, per giocare oppure per insegnarmi cose che altrimenti sarebbero andate perdute: filastrocche e fiabe, così ricche di verità misteriose e arcane, erano un valido sostituto a quelle classiche cui erano abituati i miei genitori, e i piccoli giochi manuali mi aiutavano a scoprire i segreti della natura che mi circondava. Questi divennero i miei passatempi preferiti nelle ore in cui mamma e papà erano assenti, attività che cominciavano a portare alla luce qualità che erano sopite dentro di me, nascoste così bene da esserne io stesso totalmente inconsapevole. Proprio queste peculiarità avevano attirato l’attenzione di una persona che fino a quel momento si era tenuta ai margini della mia breve e gioiosa vita; sapevo della sua esistenza dai racconti delle persone che mi erano vicine, restie a parlare di lei tranne in rare occasioni in cui il rispetto e il timore reverenziale diventava tangibile. Non ero mai riuscito ad approfondire l’argomento con nessuno e questo aveva acceso ancora di più la mia curiosità e la voglia di scoprire il perché di tutto quel silenzio; in un paesino così pic-
9 colo, non potevano esserci segreti ma, a quanto sembrava, questo faceva eccezione. La persona in questione era una signora molto anziana che viveva distante dal paese, dove il bosco cede il passo alla nuda roccia della montagna che ci sovrasta, il monte Bersaio; aveva sempre vissuto lì, da che se ne custodiva memoria, tanto che molti in paese asserivano che fosse ultracentenaria e dotata di strani poteri. «È una delle ultime masche della regione, la più vecchia e sicuramente la più potente…» sussurravano le vecchiette incalzate dalle mie insistenti domande; «è una sorta di strega, ma non come quelle delle favole, non cattiva e crudele: lei ci ha aiutato molte volte, specialmente nei momenti difficili, quando non c’erano medicine per curare le malattie o quando i pericoli e le guerre portavano lutti e dolori tra la popolazione.» Streghe e magia, mistero e curiosità, ingredienti che avrebbero stimolato la fantasia di qualunque bambino, sia in un paese così piccolo, sia in una grande città; l’educazione al rispetto verso le persone più grandi aveva agito da freno alla voglia pressante di saperne di più e questo sembrava dare sollievo agli individui che mi accudivano così amorevolmente. Tornai perciò volentieri alla mia unica preoccupazione, quella cioè di trovare sempre nuove avventure, nuove emozioni che accendevano la mia fantasia; le nonnine che conoscevo e con cui passavo così tanto tempo sapevano catturare la mia attenzione ognuna in modo diverso, per cui le mie giornate erano sempre diverse e spensierate. Tra loro, due in particolare sapevano catturare il mio interesse al punto che passavo tutto il tempo seduto ad ascoltarle; c’era nonna Adelaide, sempre affaccendata nei suoi lavori a maglia, che mi raccontava le storie dell’ultima guerra, di quando partigiani e tedeschi combattevano sulle pendici delle montagne dietro il paese, e nonna Anna che, invece, con il suo carattere dolce e mite era quella che accendeva di più la mia fantasia. Davanti al camino acceso, mentre preparava i suoi fantastici biscotti, la sua mente si perdeva nei racconti e nelle leggende tramandate da sua nonna, ma la cui origine si perdeva nella notte dei tempi. Nelle sue narrazioni, lente e piene di particolari, i boschi prendevano vita popolandosi di strane creature e di magia, di esseri incredibili che modellavano con le loro mani il legno e la pietra creando grotte e anfratti, rifugi e trappole per gli sprovveduti che si avventuravano incoscientemente nel loro reame. Mi diceva sempre che poco o nulla era rimasto di
10 quel popolo fatato, ma le loro gesta alimentavano ancora i racconti tramandati di padre in figlio mentre il loro antico sapere e la loro potente magia erano diventati i tesori più preziosi delle masche dei boschi. Lei era l’unica che mi parlava di queste cose e il suo modo di raccontare mi aveva convinto sempre di più che non erano solo storie inventate, buone solo come passatempo nelle lunghe sere d’inverno: lei credeva veramente a ciò che mi diceva, una sorta di indottrinamento involontario a una religione ormai perduta e che, poco a poco, diede i suoi frutti. Passavo ore ad ascoltare la sua voce calma, sognando a occhi aperti luoghi e tempi ormai troppo distanti, convinto che in quelle storie ci fosse molta più verità di quanto volessero farmi credere; percepivo tra le righe di quei racconti un rispetto e un timore reverenziale che sarebbe stato fuori luogo se quello che mi veniva narrato fosse stato solo frutto della sua fantasia o storie inventate allo scopo di farmi stare buono. Avevo, però, solo quattro anni e a quell’età nessuno poteva prendermi sul serio quando raccontavo delle cose strane che erano cominciate a succedermi, né le nonnine del paese, né tantomeno i miei genitori, contenti di vedermi felice nonostante non avessi amichetti con cui giocare.
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CAPITOLO 2
Sambuco non era un paese come tutti gli altri; me ne stavo rendendo conto giorno dopo giorno, in quei primi anni della mia infanzia, mettendo insieme tutte le informazioni che mi venivano elargite così generosamente dai suoi abitanti. Avevo scoperto, ad esempio, che il suo nome derivava sia dall’antica presenza di vasti boschi dell’omonimo albero, sia dal nome di un’antica arpa triangolare usata nelle cerimonie religiose. Il decano della parrocchia mi aveva raccontato più volte che anticamente si svolgevano veri e propri riti pagani nei boschi di sambuco alle pendici del monte Bersaio in cui veniva usato proprio quello strumento; lo stesso paese, anticamente, pare fosse un villaggio di sacerdoti celti che parlavano una lingua talmente diversa da qualsiasi idioma della regione da influenzare in modo significativo il nostro attuale dialetto: l’occitano. Il nostro decano altri non era che un vecchio prete ormai in pensione, venuto a passare gli ultimi anni della sua vita nella canonica della nostra piccola chiesetta; il vescovo era stato ben contento di esaudire il desiderio dell’anziano sacerdote, assicurando in questo modo una presenza ecclesiastica nella chiesa di un paese che altrimenti non avrebbe potuto avere un pastore stabile, viste le sue dimensioni. Padre Nicola era un vecchietto arzillo, secco come un ramo d’abete ma energico e dai mille interessi; aveva portato con sé un vecchio telescopio, una sorta di lungo cannocchiale d’ottone con cui si dilettava a guardare il cielo stellato nelle fredde notti d’inverno, ma non solo. Le sue osservazioni comprendevano anche le pareti scoscese dei monti che sovrastavano la sua piccola chiesetta, sempre alla ricerca di qualcosa che solo lui sapeva; non era raro, infatti, scorgerlo sul campanile, tradito dal riflesso dorato del suo grosso cannocchiale, intento a scrutare ogni singola roccia, ogni albero dei pochi e radi boschi che ancora resistevano alla violenza dell’uomo e delle intemperie, pietosa testimonianza di un passato rigoglioso e selvaggio.
12 Stranamente, era stato lui la fonte principale delle notizie che gli altri abitanti del paese erano così restii a darmi, nozioni che io carpivo facendo leva sulla sua inconfessata passione per le leggende di questa vallata. «Don Nicola, come mai trascorri le notti sul campanile a guardare il cielo?» gli chiesi un pomeriggio, mentre lo aiutavo a spolverare l’altare maggiore. All’inizio ebbi paura di aver fatto una domanda sbagliata; i suoi occhi si erano girati verso di me, come se stesse valutando se rispondere o meno, poi con una risatina compiaciuta aveva cominciato a mettermi al corrente dei suoi piccoli segreti. «Luca, non ti sembra di essere un po’ troppo piccolo per fare queste domande? Da chi hai saputo che di notte guardo il cielo dal campanile?» Ero un po’ intimorito da quel vecchio sacerdote che aveva risposto a una mia domanda con un’altra domanda; era così strano il suo riserbo se confrontato all’atteggiamento delle altre persone del paese, sempre pronte a esaudire ogni mio desiderio di conoscere ogni cosa. Lui invece era guardingo, prudente, quasi non riuscisse a capire se quelle innocenti domande fossero dettate dalla semplice curiosità o dal desiderio di ficcanasare nella sua vita privata, un nuovo mistero che alimentava la mia già fervida immaginazione. «Da nessuno don Nicola; a volte ti vedo dalla finestra della mia cameretta, quella che guarda verso la chiesa: la luna illumina il campanile e si vede benissimo se qualcuno si muove avanti e indietro. Perché rischi di congelarti tutto solo per guardare le stelle?» Questa volta il viso del vecchio prete s’illuminò in un sorriso compiaciuto; la mia risposta aveva fugato i dubbi che qualcuno stesse curiosando nelle sue faccende: non che ci fosse nulla di male, ma, probabilmente, era un atteggiamento che aveva notato in alcuni suoi parrocchiani e che trovava molto fastidioso e irritante. «Il cielo di notte è un miracolo di bellezza e di pace, una magia di luci e di colori, di forme e di movimento; ogni cosa è dove dev’essere in un’armonia così perfetta che solo il buon Dio poteva creare. Guardando quello spettacolo con il mio telescopio mi sento così vicino al Creatore da sentirmi sopraffatto dalla gioia e dall’ammirazione. Quando sarai più grande, se vorrai e se avrai il permesso dei tuoi genitori, potrei mostrarti tante cose da lasciarti a bocca aperta…»
13 «E di giorno? Cosa osservi di giorno quando guardi verso la montagna? Cerchi di vedere i caprioli e gli altri animali dei boschi?» Mi accorsi subito di aver fatto la domanda sbagliata; avevo solo quattro anni, ma ero un bambino molto perspicace e attento, e il cambiamento d’umore dell’anziano prete non passò inosservato ai miei giovani occhi: non si aspettava una domanda del genere e il coglierlo alla sprovvista lo aveva adombrato visibilmente. «Vai a giocare fuori dalla chiesa; non ho tempo da perdere con un bambino curioso e petulante come te.» Voleva sembrare burbero e sgarbato, ma il tono della sua voce tradiva le sue vere intenzioni; c’era un motivo per cui osservava così regolarmente le pendici delle nostre montagne, ma non aveva nessuna intenzione di rivelarlo, specialmente a un ragazzino così curioso e insistente. «Io so perché guardi sempre lassù in alto, so cosa cerchi…» Avevo detto quella frase quasi per sfida, per fargli capire che ero abbastanza grande da sapere cosa c’era intorno alla nostra cittadina, quali misteri si celavano tra le antiche rocce di quelle vallate. «Tu non sai un bel niente; sai solo infastidire e fare domande a tutti per il gusto di far perdere tempo alla gente per bene…» I suoi occhi continuavano a scrutarmi, neri come quelli dei corvi che svolazzavano intorno al campanile; stava aspettando la mia risposta, certo che me ne sarei andato a giocare altrove alla ricerca di un passatempo più divertente, ma rimase deluso: non mi spostai di un passo, sostenendo il suo sguardo con la forza e l’arroganza di un bambino più adulto, testardo e cocciuto come solo chi sa di aver ragione può esserlo. La testa girava mentre il cuore batteva all’impazzata nel mio petto; mi sarei messo a piangere se avessi potuto, ma non ero in grado neppure di gestire quella semplice emozione: dentro, nella profondità del mio animo ero convinto di sapere il motivo del suo grande interesse, anche se non riuscivo a comprendere come potessi conoscerlo. «Allora?» Il vecchio prete si era spazientito; probabilmente pensava di essere stato fin troppo indulgente con quel bambino perditempo: altre faccende più importanti lo aspettavano e quel piccolo saputello lo faceva irritare. Stava per andarsene quando si accorse del foglietto che gli stavo porgendo; era una semplice pagina di quaderno quadrettata su cui s’intravedevano linee e colori. «E questo cos’è?»
14 Non riuscivo a far uscire nessuna parola dalla mia gola, intimorito com’ero da quel vecchio prepotente; avevo preso dalla tasca dei pantaloni il disegno che avevo fatto quella stessa mattina e avevo allungato la mia manina verso di lui, sperando di non peggiorare ulteriormente la situazione: quel prete mi spaventava, ma, allo stesso tempo, mi attirava come una calamita, senza una ragione plausibile. Chiunque altro al mio posto sarebbe fuggito fuori dalla chiesa per non farci più ritorno, ma io ero come bloccato, sicuro che dietro quella parvenza di malagrazia ci fossero molte delle risposte che stavo cercando. Probabilmente era l’ambiente in cui ero vissuto ad avermi maturato più dei miei pochi anni, grazie alla costante compagnia di persone adulte che, ognuna a suo modo, mi avevano insegnato cose che nessun altro bambino della mia età avrebbe mai imparato; questa diversità risultava ancora più evidente in estate, quando Sambuco si popolava di villeggianti e dei relativi figli. Nonostante mamma e papà mi spingessero a fare amicizia con i nuovi arrivati, era difficile per me trovare qualcosa che mi legasse a loro, tranne forse i brevi momenti ludici sulla piazza del municipio o per le strette stradine del paese. Condividevo con loro la gioia dello stare insieme all’aria aperta, del correre e del giocare a nascondino o a rincorrerci, ma niente di più; non potevano comprendere quello che avevo imparato nelle lunghe giornate d’inverno, né tantomeno le sensazioni che provavo ogni volta che percorrevo un sentiero nei boschi o mi avvicinavo a qualche albero secolare contorto e nodoso, più simile a un guardiano che a un semplice arbusto. Avevo provato a raccontarlo ai miei nuovi amichetti, ma ero stato deriso, umiliato nelle cose che io ritenevo importanti e così avevo smesso, avevo chiuso quella parte della mia vita dentro di me, giurando a me stesso di non parlarne mai più con nessuno. Ma sentivo che quel sacerdote era diverso; per qualche strana ragione provavo il desiderio di raccontargli quella parte della mia vita che tenevo segreta, probabilmente frutto di tutti i racconti che avevo sentito, forse solo fantasie di un bambino troppo solo… o forse no. «Fammi vedere!» Il suo tono burbero non accennava ad addolcirsi, ma almeno avevo attirato la sua attenzione; quello che stringevo nella mia mano non era certo un capolavoro, ma era, secondo me, la prova che sapevo bene cosa lui stesse cercando con il suo cannocchiale. Probabilmente anche lui, come me, sapeva o almeno intuiva che c’era qualcosa nei boschi che ci circondavano, forze e creature che nessuno
15 riusciva a vedere ma che esistevano; a me apparivano nei sogni o ne sentivo la presenza durante le passeggiate, una sorta di brivido improvviso che scendeva lungo la schiena, una strana sensazione di essere osservato, di non essere solo: la notte prima li avevo sognati e, appena sveglio, avevo cercato di disegnarli cosĂŹ come mi erano apparsi in sogno. Ora ero lĂŹ, ad attendere il sarcasmo di un vecchio prete alle prese con un bambino saccente e petulante, anche se nel mio cuore speravo con tutte le mie forze che capisse quello che stava guardando su quel foglio spiegazzato e scarabocchiato e mi gratificasse con un sorriso.
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CAPITOLO 3
Era un semplice pezzo di carta, strappato probabilmente da un quaderno a quadretti, sgualcito e rovinato in alcuni punti dall’uso insistente della gomma da cancellare, ciò nonostante capace di attirare l’attenzione dell’anziano sacerdote al punto da dimenticarsi totalmente di me. Lo avevo visto prendere con malagrazia quello che gli porgevo, ultimo atto di accondiscendenza prima di mandarmi via, e guardarlo con malcelata irritazione mentre il suo viso cambiava repentinamente espressione; gli occhi si erano spalancati dallo stupore mentre le labbra si erano socchiuse, come se dovessero pronunciare una muta esclamazione di sorpresa. Aveva osservato a lungo il mio disegno, girandolo e rigirandolo, passando il dito nodoso sulle linee e sulle cancellature come per seguirne meglio i contorni e gli sviluppi; lo aveva appoggiato su un vecchio leggio, troppo in alto perché io potessi vederlo e lo stava studiando con attenzione, dimentico della mia presenza e di tutto ciò che lo circondava: ogni tanto lo vedevo annuire pensieroso oppure sorridere compiaciuto, ma non riuscivo a capirne il motivo, poi, improvvisamente, sembrò tornare cosciente del mondo che lo circondava e cominciò a fissarmi con palese stupore. «Lo hai fatto tu questo?» mi disse cercando di mantenere un tono calmo e tranquillizzante; le sue mani tremavano visibilmente mentre reggeva il mio disegno. Cercai di annuire in mancanza della voce che si rifiutava di uscire dalla mia gola, rimpiangendo di non essere andato via quando ne avevo ancora l’opportunità; avevo attirato l’attenzione del sacerdote, ma non avevo ancora ben chiaro se questo fosse un bene oppure un male per me. Avevo disegnato sulla pagina di un vecchio quaderno la mattina precedente, appena svegliato, quando il ricordo del sogno appena fatto era ancora vivido nella mia mente; avevo preso in mano la matita e, dopo alcune incertezze, il disegno aveva preso forma quasi da solo, preciso nel più piccolo dettaglio, come se la mano che si muoveva leggera sul foglio non fosse la mia. Nel sogno, camminavo verso una piccola radura proprio di fronte a una ripida parete rocciosa, a
17 mezza costa del monte che sovrastava il paese; riuscivo a vederlo in basso, lontano, piccolo come fosse una miniatura del presepe. C’erano alberi tutt’intorno a me, per lo più sambuchi, bianchi e carichi di fiori profumati; mi ero avvicinato a uno dei rami più bassi e ne stavo ammirando il grappolo di fiori candidi che lo adornava: erano tantissimi, raggruppati uno vicino all’altro tanto da formare una sorta di bouquet. Ogni singolo fiorellino era un piccolo capolavoro di candida simmetria; cinque o sei petali coronati da altrettanti pistilli che dal centro del fiore si allargavano verso l’esterno, piccole antenne che richiamavano a sé gli insetti impollinatori. C’era un gran silenzio, rotto solo dal cinguettio degli uccelli e dal ronzare delle api; l’aria frizzante, ma non fredda, dava una piacevole sensazione di benessere mentre il sole, caldo, accendeva i colori circostanti rendendoli brillanti. La parete al limitare della radura era spoglia, di pietra scura, venata e stratificata in modo da creare linee diagonali che dal basso salivano verso la vetta a perdita d’occhio, non liscia e uniforme ma piena di anfratti e sporgenze. La luce del sole creava strani giochi d’ombre tanto che non riuscivo a capire se quella che avevo di fronte fosse l’entrata di una grotta oppure solida roccia modellata in modo assai stravagante. Non ricordavo com’ero riuscito ad arrivare fin lì, né tantomeno che sentiero avevo seguito per uscire dal paese; sembrava che il mio sogno fosse iniziato al margine del bosco, senza un prima e, probabilmente, senza un dopo. Ero solo, fatto alquanto strano poiché non mi era permesso allontanarmi dal paese senza essere accompagnato da un adulto e in qualche modo ero cosciente di stare sognando; mi avvicinai con cautela all’ingresso dell’antro e solo quando fui davanti alla nuda roccia mi accorsi di aver avuto ragione: proprio di fronte a me si era materializzata un’apertura, una larga fenditura praticamente invisibile e nascosta dall’ombra del costone che la sovrastava. Non avevo paura né tantomeno timore che potesse accadermi qualcosa di male, solo un’irrefrenabile curiosità di esplorare quel luogo e una stranissima sensazione di essere osservato, come se ci fosse qualcun altro in quel luogo che non voleva essere visto. «Chi sei?» avevo gridato nel sogno. «So che c’è qualcuno qui, fatti vedere…» Non c’era più alcun rumore nella radura e anche gli uccellini avevano smesso di cantare al suono della mia voce; provavo una sgradevole sen-
18 sazione di disagio, come se mi trovassi in quel luogo senza averne il permesso e l’unico desiderio che riuscivo a esprimere era quello di potermi svegliare subito nel mio lettino. «Perché gridi in questo modo? Nessuno ti ha insegnato un po’ di educazione?» La voce era apparsa all’improvviso, proprio dietro di me; avevo paura a voltarmi, ma non potei fare a meno di cercare con lo sguardo il punto da dove era scaturito quel suono improvviso. Seduta su un tronco caduto, poco distante da me, una figura femminile mi stava osservando; ero certo di non aver notato nessuno quando mi ero affacciato ai margini della radura, ma, contro ogni evidenza, lei era là. Non avrei saputo darle un’età precisa, una persona anziana di sicuro, ma dal portamento energico e dallo sguardo vivo, penetrante; mi stava osservando severa, come se l’avessi disturbata, come se fossi piombato in casa sua senza essere invitato. «Mi scusi, non volevo gridare, ma… mi sentivo osservato…» balbettai cercando una scusa; mi sentivo ferito da quel rimprovero, anche se non capivo bene il perché dato che ero certo di sognare, ma le parole di quella donna avevano scatenato in me emozioni contrastanti. «Non fa nulla… non sono abituata a tutto questo rumore; avvicinati Luca, ti stavo aspettando.» Non mi chiesi sul momento come facesse a sapere il mio nome né tantomeno come facesse ad attendere la mia visita, dal momento che ero certo di stare dormendo nella mia cameretta; osservavo quell’anziana signora, così diversa dalle nonnine che ero abituato a frequentare, con una crescente curiosità: teneva in mano un grappolo di fiori di sambuco, candidi e profumati e li stava osservando con attenzione, come per sincerarsi che fossero tutti integri, tutti perfettamente sbocciati. Rimasi in piedi vicino a lei a lungo, cercando di capire cosa stesse cercando, impaziente di cogliere il senso di quello strano sogno, così vivido e realistico da sembrare vero. «Il sambuco è una pianta sacra a molte religioni proprio perché è dedicata agli esseri dell’altro mondo; la sua anima cava concentra e indirizza l’energia degli spiriti e delle forze della Natura, protegge i viandanti nei loro lunghi viaggi ed è fonte preziosa per medicamenti di ogni genere…». Sembrava parlasse più a sé stessa che a me, tutta presa da quei piccoli fiori che teneva delicatamente sul palmo della mano; poi, come se si
19 fosse accorta solo in quel momento della mia presenza, tese la sua mano verso di me invitandomi ad avvicinarmi. «Sai chi sono io?» mi chiese appoggiando con cura i fiori sull’erba; un accenno di sorriso era apparso sul suo viso, addolcendolo quel tanto da cancellare quella parvenza di autoritaria severità: nonostante ne fossi intimorito mi sedetti accanto a lei, accennando con la testa a un timido diniego. «Nessuno in paese ti ha mai parlato di me? Nemmeno tutte quelle vecchiette con cui passi così tanto tempo?» Nuovamente il cenno negativo della mia testa le diede conferma che realmente ero all’oscuro di chi lei fosse. «Vedi Lilith come sanno essere ingrate le genti mortali, quanta riconoscenza nel momento del bisogno e quanto oblio subito dopo…» “Ma con chi sta parlando” mi domandavo mentre cercavo di vedere oltre la figura seduta della vecchia signora; il tronco appariva desolatamente vuoto e così pure il prato circostante, come se stesse parlando a sé stessa o a qualche figura immaginaria. Non mi sentivo in pericolo, ma non vedevo l’ora di svegliarmi da quello strano sogno, di allontanarmi da tutte quelle cose che non riuscivo a capire ma che stranamente mi attiravano come una falena intorno a una lanterna. «Le nonnine mi hanno raccontato di una signora che abita sulla montagna, una persona così vecchia da non sapere quanti anni abbia, una strega potente che ha aiutato in passato gli abitanti del paese, ma che preferisce non essere disturbata. Nutrono un profondo rispetto per quella persona, ma anche una sorta di timore per i poteri che possiede; dicono che, probabilmente, è l’ultima e la più potente strega rimasta, una masca dei boschi.» «Hai sentito Lilith, si ricordano ancora di me dopo tutto…» Ora il suo viso era illuminato da un largo sorriso, come se le mie parole le avessero fatto un enorme piacere; non sembrava più nemmeno così vecchia né così spaventosa, tanto che mi avvicinai ancora di più a lei. «Chi sei? Come ti chiami?» La sua reazione mi colse alla sprovvista: una risata, argentea come il rumore dei ruscelli di montagna, riempì l’imbarazzante silenzio di prima, stemperando la tensione e facendo svanire i miei timori come fumo al vento. Sembrava sinceramente divertita, come se finora avesse giocato con me, divertendosi a prendermi in giro con un’aria di finta scontrosità.
20 «Io sono una strega, probabilmente una delle poche rimaste in questo mondo che cerca di negare anche la nostra esistenza, ma non di quelle che credi tu; dimentica tutto quello che ti hanno raccontato su di noi, che siamo persone malvagie che fanno filtri e incantesimi per far del male alle persone, che adorano le Tenebre e servono i demoni e il loro padrone infernale: io sono una masca e non servo nessuno tranne la Grande Madre, l’energia che regola e governa tutto ciò che ci circonda. Tu sei un bambino diverso dagli altri, lo sei sempre stato fin dalla nascita, avvenuta in una notte altrettanto speciale, unica nel suo genere: la notte di Valpurga. Ti è stato dato un dono prezioso proprio da una di noi, ma non è né il luogo né il momento per riempirti la testa di cose a cui poi dovrai pensare; ci vedremo di nuovo e piano piano avrai tutte le risposte alle tue infinite domande: accetta per il momento questo mio regalo, indispensabile perché tu comprenda appieno ciò che ti circonda, per capire che quello che vedi è solo una piccola parte di quello che c’è realmente.» La testa mi girava; non riuscivo più a capire nulla di quello che mi stava dicendo, preso da un turbine di emozioni che mi stava profondamente turbando e confondendo. La vidi prendere uno dei piccoli fiori che aveva appoggiato a terra; lo scelse con cura in mezzo agli altri, come se da ciò dipendesse la riuscita di quello che era in procinto di fare e me lo pose sulla fronte: le sue labbra si muovevano rapide, come se stesse intonando una muta preghiera, gli occhi chiusi in un’espressione di estrema concentrazione. Quando ritirò le dita dalla mia fronte, il piccolo fiorellino bianco era svanito, d’incanto. Sul momento non mi parve un gran gioco di magia; nonno Enrico sapeva fare giochetti migliori di quello, ma la serietà che leggevo sul volto della masca mi portava a credere che quello non era stato un trucco, che era solo l’inizio di qualcosa di più grande, di magico. «Lilith sarà la tua guida d’ora in avanti; ti aiuterà a capire cosa ti sta succedendo e ti guiderà da me ogni volta che vorrai vedermi o che verrai chiamato. Non fare parola con nessuno di quello che hai visto e sentito o che vedrai e sentirai in futuro; nessuno crederebbe alle tue parole, tantomeno coloro che ti sono più vicini: loro sono semplicemente persone, esseri cui è stato negato il tuo dono per il loro stesso bene.» «Lilith? Io non conosco nessuno che si chiami così; anche prima l’hai nominata senza che ci fosse nessuno vicino a noi…»
21 Non avevo fatto in tempo a finire la frase che qualcuno si era materializzato all’improvviso, seduto dietro la strega, qualcuno che prima non c’era; se ne stava comodamente a gambe incrociate, piccola, quasi minuta nel suo vestito color delle foglie in primavera. Aveva due occhi grandi, luminosi e un sorriso dolce da fanciulla tanto da sembrare giovane quanto me, otto o dieci anni al massimo; qualcosa nel suo aspetto e nel modo in cui mi osservava mi portava a pensare che non fosse una vera e propria ragazza, bensì una di quelle creature che avevo visto nei libri di fiabe, un folletto o una fata forse. «Lei è una driade, una ninfa dei boschi appartenente al Piccolo Popolo, i Sidhe; il suo nome come già sai è Lilith ed è la prima cosa dell’Altromondo che ti è stato concesso di vedere e non sarà certo l’ultima. Ora andate, si è fatto tardi e tra poco avrai modo di pensare a tutto quello che ci siamo detti, appena ti sveglierai nel tuo lettino. Arrivederci Luca, d’ora in avanti nulla sarà più come prima, vedrai.» L’eco delle sue parole era ancora vivido nella mia mente quando, aprendo gli occhi, avevo scoperto con gran sollievo di essere nel mio letto, al sicuro dentro casa. Fuori, le prime luci dell’alba erano ancora lontane; era troppo presto per scendere in cucina o per andare a svegliare i miei genitori anche solo per dirgli del mio sogno: dovevo attendere che la notte si tramutasse in mattina e solo allora, forse, avrei potuto raccontare la mia incredibile nottata. “Cosa posso fare nel frattempo?” mi stavo chiedendo mentre, seduto sul letto, cercavo il modo d’ingannare il tempo. Avevo preso il quaderno che tenevo sulla scrivania, quello su cui disegnavo ogni cosa che mi passava per la mente; ero diventato piuttosto bravo, grazie al troppo tempo libero che dovevo impegnare in qualche modo e a una sorta di dote innata che ora poteva tornarmi utile per fissare le immagini che erano ancora vivide nella mia memoria. Usando matita e gomma avevo tracciato a grandi linee il luogo dove avevo incontrato la masca, quella radura piena di alberi con la parete rocciosa e la piccola grotta da un lato. Disegnare l’anziana fu molto più difficile del previsto e comportò un numero impressionante di tentativi e di cancellature. «Perché non disegni anche me?» Quel suono improvviso mi aveva fatto sobbalzare sul letto. Non mi ero accorto di essere in compagnia, tutto preso dal mio disegno; non mi aspettavo che ci fosse qualcuno con me nella mia cameretta, men che meno la ninfa conosciuta sulla montagna,
22 seduta tranquillamente sulla scrivania, proprio di fronte a me. Aveva lunghi capelli scuri, del colore della buccia delle castagne, che le scendevano sulle spalle, tenuti insieme da una piccola coroncina di fiori bianchi, quasi certamente di sambuco; il suo vestito, lungo fino alle ginocchia, era dello stesso colore di quando l’avevo sognata, un verde chiaro come le foglie più giovani degli alberi. «Lilith, ma come… come mai sei qui? Allora non sei solo un sogno, nulla è stato un sogno vero?» «No, nulla di quello che hai vissuto si può lontanamente paragonare a un sogno; hai conosciuto una delle streghe più potenti che siano mai esistite e hai ricevuto il dono di poter vedere ciò che gli altri non possono nemmeno immaginare; c’è un altro universo intorno a noi, impalpabile, il più delle volte invisibile, che ci avvolge e ci avviluppa in una sorta di eterea nebbia, popolato da tutte quelle creature che erroneamente si crede appartengano solo al mondo della fantasia: tu hai la facoltà di poterlo vedere, di interagire con esso, di scegliere come e quando farne parte.» «Come posso usare questo dono? Come posso riuscire a vedere tutte quelle cose che sono invisibili agli altri? Cosa c’è nell’Altromondo?» La sua risata bloccò momentaneamente la raffica di domande con cui, involontariamente, l’avevo investita; era molto simile a quella della masca, schietta e squillante, gioiosa e innocente. «Calma, ogni cosa a suo tempo; vedrai gli appartenenti al Piccolo Popolo quando sarai pronto e, cosa più importante, quando loro vorranno farsi vedere da te; non devi avere fretta né essere impaziente: hai molto tempo davanti a te e tantissime cose da imparare.»
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CAPITOLO 4
Avevo iniziato a disegnare sotto lo sguardo attento di Lilith; ero abbastanza bravo per la mia età, ma i consigli della ninfa furono preziosi. Lentamente tutti i particolari trovarono il giusto collocamento all’interno dell’immagine che avevo in mente; colori, sfumature e forme divennero chiari man mano che le trasferivo sul foglio e la piccola fata sembrava guidare la mia mano nei punti più difficili, specialmente quando le tonalità dei colori non riuscivano a dare il senso esatto delle proporzioni. Infine, quasi senza accorgermene, quello che avevo sognato era tutto lì, un risultato che mi aveva lasciato a bocca aperta; stentavo a credere di essere stato io a fare il piccolo capolavoro che tenevo tra le mani, troppo bello e preciso per un bambino di quasi cinque anni. Lo piegai con cura, timoroso di rovinarlo e, dopo aver ringraziato la mia nuova amica, scesi in cucina a fare colazione; il sole era sorto già da tempo e ora splendeva in cielo promettendo una giornata calda e piena di luce. «Sei in ritardo dormiglione; come fai a dormire così tanto solo il buon Dio lo sa…» Mia madre aveva quasi finito di fare le faccende domestiche e attendeva solo il mio risveglio per salire al piano di sopra a occuparsi delle camere da letto; mi sentivo un po’ colpevole di aver fatto così tardi, ma l’euforia per aver compiuto quella piccola impresa mi fece schizzare fuori casa ancora prima che mamma potesse protestare ancora. Alla mia età era difficile, se non impossibile, mantenere il segreto su quello che avevo visto e sentito sulla montagna, anche se nessuno mi aveva imposto di farlo; capivo da solo che sarebbe stato meglio che il rapporto che si era creato tra me e la vecchia signora rimanesse un fatto privato, ma l’euforia dell’avventura appena vissuta non mi permetteva di essere prudente, tanto che non vedevo l’ora di dirlo a qualcuno. Trovai Lilith seduta sul bordo della fontana, sul lato della piazza della chiesa che si affaccia sul fondovalle; era un posto che mi aveva sempre affascinato e dove passavo molto del mio tempo libero. Da lì si poteva
24 vedere la strada che collegava tutti i paesini della vallata a Cuneo, un serpente nero che seguiva i contorni delle montagne per poi scomparire all’improvviso dopo un’ultima, stretta curva e, naturalmente, l’intero panorama delle montagne circostanti con le loro alternanze di rocce nude e fitti boschi. Mi stava aspettando, il viso serio, la testa leggermente inclinata da un lato, come se stesse cercando di capire le mie intenzioni; la poca gente che attraversava la piazza le passava accanto senza degnarla di uno sguardo e questo, in un primo momento, mi stupì. «Perché quella faccia?» mi disse venendomi incontro; era visibilmente divertita dalla mia espressione perplessa, quasi fosse ormai abituata all’effetto che la sua invisibilità verso i comuni mortali produceva su chi possedeva invece il dono. «Shhhh, non dire nulla e chiudi quella bocca; non vorrai mica che pensino che sei strano vero?» Si stava prendendo gioco di me, questo era chiaro; l’indice sulle labbra e il riso trattenuto a stento mi davano una chiara idea della mia espressione del momento. Faticai non poco a far finta di nulla mentre mi appoggiavo alla ringhiera, ultimo confine tra l’asfalto e il vuoto. «Sono così buffo?» le chiesi dopo essermi accertato che nessuno mi guardava. Avrei dovuto imparare alla svelta a gestire questa nuova situazione, cercando di riconoscere quello che potevo osservare io e quello che invece vedevano gli altri. «Sì, un po’, come tutti quelli che vedono per la prima volta qualcuno del Piccolo Popolo e non si rendono conto che sono gli unici a essere in grado di farlo. Non ti preoccupare, imparerai presto, ma per il momento… sì, sei molto buffo.» Era quasi impossibile pensare che la risata che sentivo provenire dalla mia piccola amica potessi udirla solo io; mi ero voltato, sperando che le persone ferme vicino a me non ci stessero osservando, curiose di scoprire l’origine di quel suono così chiaro e limpido alle mie orecchie. Nessuno badava a noi o meglio, nessuno mi stava osservando incuriosito e questo, oltre a essere un’ulteriore prova della veridicità delle parole della ninfa, mi fece tirare un sospiro di sollievo. «Visto? Che cosa ti avevo detto? La maga ti aveva suggerito di fidarti di me, non ricordi? La prima cosa che dovrai imparare è fare finta di nulla davanti alle persone e, allo stesso tempo, interagire con l’Altromondo in maniera il più possibile naturale. Il mondo è pieno di
25 persone che dice di vederci, ma nella maggior parte dei casi fanno tutti finta, per un motivo o per l’altro…» Non la stavo più a sentire; un’altra cosa aveva attirato la mia attenzione, una figura ferma sulla porta della chiesa: mi stava guardando con insistenza, come se stesse cercando di capire chi fossi o cosa stessi facendo appoggiato alla fontana. Era un uomo alto, molto magro, vestito con un abito nero, lungo fino ai piedi, vecchio e consumato, come quello che usavano una volta i preti di campagna. Era entrato in chiesa dopo avermi fatto un breve cenno, come a invitarmi a seguirlo. «Dove vai? Che cosa hai visto ora?» la voce di Lilith sembrava preoccupata; aveva perso il suo solito tono allegro e canzonatorio tradendo, per la prima volta, un accenno d’inquietudine. «Quell’uomo, quello vestito da prete, sulle scale della chiesa; mi ha fatto un cenno ed è sparito…» «Aspetta Luca, non puoi correre dietro a chiunque vedi; a volte è meglio essere prudenti con le cose che non conosci… aspettami!» Chiedere a un bambino di essere prudente e di aspettare era come sperare che l’acqua non scorresse più in discesa; avevo già varcato la soglia della chiesa quando Lilith mi raggiunse, troppo tardi per tornare indietro. «Ma cosa ti prende? Non bisogna mai essere così avventati con gli esseri dell’Altromondo, mai; anche lì alcune creature sono buone, altre malvagie e altre infine non si curano minimamente di quello che succede su questo piano dell’esistenza: devi essere prudente perché ciò che fai su uno dei due mondi, influenza inevitabilmente anche l’altro.» «Scusami, non so che cosa mi sia preso, ma sentivo il bisogno di seguire quel sacerdote…» Era proprio quello che stava succedendo ora; la figura si stava materializzando sulla soglia del sagrato, all’ombra di una delle grandi colonne che reggono il frontale della chiesa. Dapprima non ero riuscito a vederlo bene, ma poi, man mano che continuavo a fissarlo, aveva preso forma e consistenza; le vesti logore, consunte dall’uso e dal tempo e di un nero ormai sbiadito, lo coprivano dal collo alle caviglie e sembrava realmente sorpreso che lo stessi osservando: forse, però, la sua era solo un’espressione di speranza, come se aspettasse da troppo tempo questo momento.
26 Mi girai verso il fondovalle, come se stessi ammirando per l’ennesima volta quel panorama che ormai conoscevo a memoria; in quel modo potevo comunicare con la ninfa senza essere preso per matto. «Quello che ho visto poco fa, cos’era?» Avevo già intuito la risposta, ma ero un po’ timoroso di ricevere una conferma. «Era uno spirito, l’essenza vitale di una persona ormai defunta; ce ne sono molte tutt’intorno a noi e credo che saranno gli esseri più comuni che avrai occasione d’incontrare. Dopo morti, rimangono negli stessi luoghi per molto tempo, per cercare di terminare le cose rimaste in sospeso; alcuni hanno ancora una missione da portare a termine, altri attendono qualcuno che li possa aiutare, altri sono qui per espiare le colpe commesse in vita. A differenza dei secondi, questi ultimi sono i più infidi e pericolosi; non si faranno scrupolo a chiederti aiuto, incuranti del fatto che potrebbero mettere a repentaglio la tua incolumità: imploreranno, ti lusingheranno promettendo qualsiasi cosa tu possa desiderare in cambio del tuo sostegno e della tua cooperazione. Non fidarti mai di loro perché il loro unico obiettivo è il loro bene, non il tuo.» Avevo appena visto un fantasma e, per qualche strana ragione, non ne ero spaventato, bensì attratto; una parte di me cercava di tirarsi indietro, di tornare alla rassicurante vita di prima, l’altra invece era eccitata da tutte quelle novità, propensa a credere che quello fosse l’inizio della vita a cui, fin dalla nascita, ero destinato. Avevo la sensazione che c’era qualcosa di speciale nella mia nascita, qualcosa che nessuno mi aveva ancora detto e che io intendevo scoprire. «Devo vedere di nuovo la masca; ho tante cose da chiederle e alcune risposte non possono più attendere.» «Ti porterò da lei stanotte, mentre starai dormendo; è il modo più rapido e sicuro, almeno per il momento.» «Grazie Lilith…» Cercai di sorriderle con affetto, soffocando l’impeto di abbracciarla; lei sembrò accorgersi dello sforzo che facevo per apparire normale e approvò con un cenno del capo. «Stai imparando in fretta» sorrise compiaciuta mentre appoggiava la sua mano sopra la mia. Alzai lo sguardo, dimentico del motivo iniziale della discussione; lo spirito era ancora lì, come in attesa che mi decidessi a fare qualcosa: continuava a fissarmi e a sorridere, come se stesse cercando di convincermi di non aver alcun timore. Poi, facendo svolazzare le ampie vesti, entrò deciso in chiesa.
27 L’impulso di seguirlo fu più forte di qualsiasi prudenza o timore; sentivo che quell’essere era lì per me, che poteva avere alcune delle risposte che cercavo oppure sapeva dove avrei potuto trovarle: senz’altro indugio mi alzai deciso a seguirlo. «Vieni!» Non attesi di scoprire se la fata mi seguiva, né mi voltai indietro per accertarmene; in un attimo ero sulla soglia della chiesa e, dopo essermi fatto il segno della croce, entrai. C’è un odore caratteristico che accomuna ogni chiesetta di paese, fatto di fumo di candele, di polvere e di umidità; i rumori che rimbalzano di parete in parete, distorcendosi e amplificandosi, e quel senso di intimità, di solitudine, un misto di speranze e preghiere: erano le sensazioni che avevo sempre provato quando varcavo quella soglia, quando cercavo nel silenzio quella pace che la mia anima tanto agognava. Sembrava impossibile che un bambino così piccolo potesse aver bisogno di quiete, ma da sempre un senso d’inquietudine e d’incompletezza aveva accompagnato ogni istante della mia vita. Forse era per quello che ero così curioso, così incline a domandare spiegazioni per qualsiasi cosa, un tentativo infantile di scoprire cosa mi tormentasse veramente. E ora ero lì, inseguendo uno spettro in compagnia di una ninfa mentre una masca cercava di istruirmi e proteggermi in vista di un futuro denso di decisioni importanti; le cose, invece di semplificarsi, parevano complicarsi sempre di più. La navata centrale era deserta, come pure i due altari laterali dedicati a Santa Lucia e a S. Francesco; i miei passi risuonavano cupi sui marmi del pavimento rompendo quel silenzio ovattato. Dov’era finito lo spettro? Perché invitarmi a entrare per poi sparire in questo modo? Feci il rapido giro del colonnato dirigendomi verso la sacrestia; era un piccolo locale a destra dell’altare, adibito alla conservazione dei paramenti sacri e di tutti quegli oggetti che servivano per le varie funzioni religiose; vi ero entrato molte volte in compagnia della perpetua della parrocchia, una signora gentile che si occupava di mantenere pulita ed efficiente la nostra piccola chiesa. L’avevo aiutata molte volte a lucidare i calici e gli ostensori, un lavoro delicato adatto alle mie piccole manine e lei, per ringraziarmi, mi riempiva le tasche di mentine colorate. Anche questa stanza era vuota, ma sentivo del rumore proprio dietro la porta che dava sulla scala del campanile. Don Nicola era lì, nel ripostiglio ai piedi della scaletta, intento a riporre il suo vecchio telescopio d’ottone, lucido e senza neppure un graffio; la
28 figura incorporea alla sua sinistra mi stava osservando benevola mentre Lilith, seria come non l’avevo mai vista, si frapponeva tra me e l’anziano sacerdote. «Lui può aiutarti a capire; non aver paura dei suoi modi o delle sue cattive maniere: ha sofferto tanto per la cecità della Chiesa nei confronti dei fenomeni che ci circondano ed è stato più volte punito per aver creduto che la verità vada ben oltre i dogmi imposti. Come me lui ha studiato le antiche leggende, cercando nei miti delle nostre terre le conferme e le prove che avvaloravano le sue tesi, anche quando queste andavano contro i dettami della nostra stessa religione. Lo hanno relegato a morire in questo piccolo paese non come premio per il suo lungo servizio, ma come punizione per la sua eresia. Io ero come lui, in un’epoca dove i dettami della Chiesa di Roma erano l’unica verità accettata e professata: chiunque cercasse altrove le risposte doveva subirne le conseguenze…» Successe qualcosa al vecchio prete che mi parlava, qualcosa che mi rattristò profondamente e che m’invogliò ad ascoltarlo con maggiore attenzione; due grosse lagrime si formarono agli angoli di quegli occhi infossati, dolenti, e presero a scorrere sulle sue scarne gote con una lentezza esasperante: anche Lilith si era fatta da parte, stupita dal fenomeno e ora entrambi guardavamo a quel fantasma con un misto di comprensione e dolore. «Non ho mai visto un’anima defunta piangere» aveva sussurrato la ninfa mentre mi prendeva la mano; eravamo entrambi in attesa che terminasse il suo racconto, mentre l’ignaro diacono ci voltava le spalle, tutto preso dalle sue faccende. «Non riuscii ad avere il coraggio di portare avanti le mie idee, di difendere i fedeli del mio gregge, accusati di professare le eresie a cui io stesso credevo; non mossi un dito quando furono giudicati e condannati, troppo vigliacco per espormi in prima persona. Perdonami Agnese, perdona questo umile pastore che ha tradito la tua fiducia e quella delle tue sorelle, perdonami…» Quel nome era stato come una scarica elettrica direttamente nel cervello; non sapevo ancora il perché, ma aveva scatenato una serie di sensazioni strane, una sorta di ricordi seppelliti troppo in profondità, ma che lottavano per tornare in superficie. “Agnese…” sussurrai tra me e me mentre lo spettro implorante svaniva.
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CAPITOLO 5
«Io so perché guardi sempre lassù in alto, so cosa cerchi…» La frase mi era uscita di colpo, quasi involontariamente: me ne ero pentito nel momento stesso in cui avevo sentito la mia voce pronunciarla. “Ma che cavolo stai dicendo” avevo pensato mentre gli occhi della mia ninfa si dilatavano dalla paura. Avevo agito d’impulso, spinto in quella direzione dalle parole e dalle lacrime di quell’anima tormentata dalla colpa, ma ora non ero per nulla sicuro di aver fatto la cosa giusta; stavo parlando con un ministro della chiesa di cose che non c’entravano nulla con la nostra religione, anzi ne mettevano in dubbio alcuni dei fondamenti più importanti. «Ma ti sei ammattito? Allora non hai capito proprio nulla di quello che ti ho detto finora; andiamo via, subito!» Lilith sembrava impazzita e stava facendo di tutto per portarmi via, mentre gli occhi di don Nicola erano fissi nei miei, piccoli, scuri, per nulla benevoli nei miei confronti, come se le mie parole avessero toccato un argomento segreto, proibito. Cercai di sostenere il suo sguardo il più a lungo possibile e, infine, anche la mia effimera compagna desistette dal trascinarmi fuori dalla stanza; ormai non si poteva tornare indietro e l’unica via di salvezza era proseguire sulla strada intrapresa. «Tu non sai un bel niente; sai solo infastidire e fare domande a tutti per il gusto di far perdere tempo alla gente per bene…» L’anziano prete stava cercando di fornirmi una scappatoia per rimangiarmi quello che avevo appena detto, un modo per finire quella conversazione pericolosa per entrambi; avevo una gran voglia di cogliere l’occasione e fuggire il più lontano possibile, ma c’era qualcosa dentro di me che me lo impediva, una voce così flebile che a stento riuscivo a percepire. «Andiamo via, subito! Chiedi scusa e prometti che non farai mai più il maleducato in questo modo e usciamo di qui: forse riusciamo ancora a cavarcela senza troppi danni.»
30 «NO!» L’esclamazione uscì da sola, con rabbia, con una voce troppo sottile perché fosse la mia; ne rimasi sorpreso quasi quanto Lilith che di colpo lasciò la mia mano e scomparve. «No cosa?» Il vecchio sacerdote era sul punto di diventare sgarbato, convinto più che mai di perdere solo tempo prezioso dietro a un bambino capriccioso e petulante. «Vai a giocare da un’altra parte; io ho da fare e non ho tempo da perdere con te.» Avevo le lacrime agli occhi; mai nessuno mi aveva trattato in quel modo e se non fossi stato convinto che quello che stavo per fare era di vitale importanza, avrei desistito all’istante. Presi dalla tasca il foglio ben piegato che custodivo così gelosamente e glielo porsi: la mia mano tremava mentre si stendeva verso quell’uomo orribile, ma, nonostante questo, rimasi in attesa che lui lo prendesse. «Fammi vedere!» Il suo tono burbero non accennava ad addolcirsi, ma almeno avevo attirato la sua attenzione; prese il mio disegno quasi strappandomelo dalle dita, lo aperse e cominciò a guardarlo. Il cambiamento d’espressione del suo viso sembrò quasi un miracolo; le linee del viso si distesero in una sorta di muta sorpresa, mentre gli occhi si spalancavano, accendendosi d’interesse e di meraviglia. Lo aveva osservato da ogni angolazione, spostandosi verso la finestra per avere più luce, passando le dita tremanti sui colori e sulle sfumature, sulle figure così ben disegnate e sulle cancellature, come per seguirne meglio i contorni e gli sviluppi; lo aveva appoggiato su un vecchio leggio, dimentico della mia presenza e di tutto ciò che lo circondava: ogni tanto lo vedevo annuire pensieroso oppure sorridere compiaciuto poi, improvvisamente, sembrò tornare cosciente del mondo che lo circondava e cominciò a fissarmi con palese stupore. «Tu hai fatto… questo?» Mi aveva intimorito al punto di non riuscire neppure a parlare; feci un timido cenno con il capo rimanendo in attesa degli sviluppi: lo vedevo titubante, come se non riuscisse a credere che un bambino così piccolo potesse fare un disegno così bello e accurato. «Chi è questa donna? Una del paese? Non mi sembra di conoscerla…» Non so se ero più spaventato dal cambiamento d’atteggiamento dell’anziano prete o dal palese tentativo di mettere alla prova quello che dicevo; si capiva subito che quella domanda era un trabocchetto, di quelli nemmeno tanto nascosti.
31 «Lei è la masca che vive sulla collina, quella che inutilmente cerchi di trovare con il tuo cannocchiale; lei sa dei tuoi tentativi e si burla di te nascondendosi ai tuoi occhi.» Non volevo prenderlo in giro, tutt’altro, ma tutta quella strana situazione mi sembrava così buffa che piano piano cominciai a ridacchiare. Lilith non era più ricomparsa, lasciandomi da solo a cavarmela; “tu hai combinato il guaio, tu cercherai di rimediarlo” mi pareva sentirla sussurrare al mio orecchio, decisa a non darmi né una mano né un suggerimento che mi aiutasse a uscire dal ginepraio che io stesso avevo creato. «E lei? Lei chi è?» Il dito ossuto del sacerdote era fisso sulla figura esile della mia ninfa; l’aveva studiata a lungo, minuziosamente, quasi volesse impararne a memoria l’aspetto, ogni singolo tratto che la descriveva. «Lei… lei è una mia amica, una persona che ho conosciuto…» «Conosciuto dove?» Il vecchio prete si era fatto più pressante, più curioso, quasi avesse abbandonato l’idea che lo stessi prendendo in giro; cercava in tutti i modi di avere da me delle certezze, la sicurezza che quello che raccontavo era la verità e non la fantasia di un bambino annoiato. «L’ho conosciuta… l’ho conosciuta in sogno.» La risposta venne fuori di botto, quasi come una sfida; io stavo dicendo la verità, ma se don Nicola non voleva credermi, beh peggio per lui. Ci fu un lungo silenzio dopo la mia affermazione, quasi come se l’anziano prelato stesse meditando su quello che aveva appena sentito. «Vieni con me, ma se dirai a qualcuno quello che ti mostrerò, te ne farò pentire amaramente.» La minaccia, invece di spaventarmi, fece l’effetto opposto; il parroco mi credeva e aveva anche lui un segreto che stava per condividere con me: forse l’anima in pena dell’Altromondo aveva visto giusto nel chiedermi di aiutarlo. La stanza era piccola, poco più di un ripostiglio, ingombra all’inverosimile di libri e fogli sparsi alla rinfusa; eravamo dovuti scendere sotto la navata utilizzando un passaggio che si apriva proprio dietro l’altare maggiore, una sorta di nicchia celata dietro il piccolo organo: probabilmente era stata inutilizzata per anni, ma il vecchio prelato l’aveva trasformata nel suo nascondiglio personale. C’erano carte molto vecchie, ingiallite dal tempo e dall’uso, raccolte con cura in fascicoli e catalogate secondo un metodo che solo lui conosceva, foto e disegni che ritraevano persone dall’aria strana, a volte sfocate a tal punto che a
32 fatica se ne riconosceva il soggetto, e libri, tanti libri l’uno sull’altro in modo da formare colonne molto più alte di me. Ne ero talmente affascinato da rimanere a bocca aperta; non ne capivo bene il motivo, ma sentivo che tutta quella roba era in qualche modo legata alle mie esperienze con la masca e Lilith, che le cose che stavo vivendo non erano frutto delle mie fantasie, ma un modo diverso di intendere la realtà che ci circonda, più profondo. «Non stare lì impalato, entra e chiudi bene la porta. Sei sicuro che non ti vengano a cercare, vero?» Il suono burbero della sua voce mi riportò immediatamente alla realtà: non capivo perché si rivolgesse a me in quel modo, ma capivo che, in fondo, sembrava più spaventato di me, quasi temesse che le sue teorie potessero trovare conferme proprio nel bambino che aveva di fronte. «Devo essere a casa prima che tramonti il sole, ma fino a quell’ora posso stare fuori senza che nessuno si preoccupi; lo sanno che non mi allontano mai dal paese…» «Bene, bene… questo è il mio rifugio, il posto dove raccolgo il frutto delle mie ricerche non proprio ortodosse. Il fatto di essere un sacerdote pone più dubbi che certezze, specie se hai una mente aperta, curiosa e pronta ad analizzare tutto quello che la fede impone come dogma. Io ho sempre sospettato che ci fosse molto di più di quello che comunemente si crede: manifestazioni, strani eventi che esistono da sempre e che si trovano in tutte le culture, nelle leggende e nelle credenze popolari in tutto il mondo, ma che nessuno ha mai spiegato o confutato con fatti certi. Ho passato la mia vita a cercare prove, a studiare in ogni modo possibile queste storie fantastiche, ma ho sempre avuto pochi mezzi e il fardello che la mia vocazione mi imponeva: la Chiesa non vede di buon occhio chi si occupa di queste cose senza averne avuto l’incarico e io ho dovuto farlo di nascosto, come tutti i miei confratelli, come è sempre successo da che la Chiesa cattolica ha negato l’esistenza stessa di questi fenomeni attribuendoli al demonio e ai suoi seguaci. Tu sei il primo, dopo tanti anni, che ha riacceso la speranza in questo povero vecchio; un bambino e un disegno che hanno ravvivato la scintilla della curiosità in questa mente che si era ormai rassegnata…» Non riuscivo a capire cosa stesse dicendo; non ne sapevo quasi nulla di ciò che la Chiesa voleva o impediva e ancora meno di leggende e storie antiche: conoscevo solo le storie che mi raccontavano i vecchietti del paese e sapevo che non erano frutto delle loro fantasie, perché avevo
33 visto di persona che i personaggi descritti esistevano davvero. Mi sembrava tutto talmente naturale che facevo fatica a comprendere i dubbi e le incertezze di don Nicola tanto che rimasi in silenzio aspettando che finisse di parlare. «Voglio mostrarti una cosa, una fotografia molto vecchia, ma importantissima alla luce di quello che mi hai mostrato: guarda…» Mi porse un piccolo cartoncino ingiallito, conservato in una bustina di plastica trasparente; era una foto in bianco e nero che ritraeva un gruppo di donne sedute sulle panche della chiesa, proprio davanti all’altare. Erano vestite in modo buffo, con ampie gonne e cuffiette bianche sulla testa; sembravano in posa per un evento importante, sorridenti e attente a rimanere immobili; a stento si riuscivano a distinguere i volti, ma in una di loro c’era qualcosa che mi ricordava una persona che avevo conosciuto di recente. «Questa è stata scattata nel 1886, in occasione del completamento del campanile; era venuto un fotografo da Torino per immortalare la cerimonia e, naturalmente, le benefattrici della parrocchia: la fotografia è molto sgranata, ma guarda quest’altra e capirai meglio cosa voglio mostrarti.» La foto successiva era un po’ più grande e meglio conservata della precedente. C’erano di nuovo un gruppo di donne, più numerose e vestite in modo diverso; le cuffiette candide erano state sostituite da piccoli cappellini e anche le vesti sembravano uscite da uno di quei film che piacevano tanto a nonna Adelaide. «Questa è stata scattata durante la consegna delle tre campane che suonano ancora oggi sul campanile; erano state ricavate fondendo i cannoni del 2° reggimento alpini, alla fine della prima guerra mondiale, come ringraziamento della vittoria e di essere tornati a casa sani e salvi. È datata 4 novembre 1920 e ritrae un gruppo di donne del paese mentre ascoltano la santa messa in occasione della benedizione delle campane. Non noti nulla di strano in queste due foto?» Avevo già capito cosa intendesse mostrarmi; avevo riconosciuto la masca nella prima foto e ora la ritrovavo nella seconda, identica, quasi ringiovanita, accanto a un’altra signora anch’ella presente nella prima foto. Don Nicola aveva messo il mio disegno accanto alle fotografie e indicava con il dito il volto della signora che avevo ritratto così bene. Anche se avevo solo cinque anni capivo benissimo che quello che avevo davanti era impossibile, che non poteva esistere una persona che non
34 invecchiava nonostante fossero passati più di cento anni, figuriamoci addirittura due. «Magari sono due persone che si somigliano, forse sono parenti…» Era una spiegazione che non reggeva a un esame più attento; la grossa lente d’ingrandimento che stava usando l’anziano sacerdote rivelava particolari a prima vista invisibili, come la forma particolare di un orecchio o dei due nei posizionati sull’angolo destro del mento, tutti indizi presenti in entrambe le foto e, cosa ancora più strana, sul mio disegno. «Guarda qui ora, dietro questa colonna; è un particolare piccolissimo, quasi invisibile, cui non sono riuscito mai a dare un senso, fino a oggi almeno, fino a quando non mi hai portato quello che hai disegnato.» Anche usando la lente, si vedeva appena qualcosa che spuntava da dietro una delle colonne della navata, una forma vagamente tonda con sopra qualcosa; “fiori” pensai improvvisamente, mentre il volto della mia ninfa diventava chiaro nella mia mente: era Lilith che faceva capolino dietro il pilastro oppure qualcuna come lei, una creatura dell’Altromondo che assisteva insieme alla masca alla funzione religiosa di quel giorno così lontano. «Vedo che anche tu hai capito.» Lo aveva detto con un filo di voce, emozionato, mentre il dito magro, tremante, indicava la ninfa del disegno e la sua coroncina di fiori di sambuco. «È una ninfa dei boschi, un essere che vive da sempre tra gli alberi delle nostre montagne; se ne ha notizia già dalle prime popolazioni che abitavano queste vallate, descritte nelle leggende popolari come entità benevole, capricciose e timide. Pochissimi possono dire di averle viste e ancora meno sono le persone che realmente le hanno incontrate; tu sei uno di questi vero?» «Quella che conosco io si chiama Lilith e vive insieme alla signora della foto, su, verso la cima della nostra montagna, o almeno così credo.» Mi sentivo confuso, intontito; avevo cercato risposte alle mie domande e ora che stavo per averle ne ero quasi spaventato. «Devo andare, non vorrei che qualcuno si preoccupasse di me non vedendomi in giro…» Volevo uscire di lì al più presto per cercare di capire quello che avevo visto e sentito, per cercare Lilith e chiedere a lei spiegazioni; mi sentivo quasi soffocare da quell’ambiente così piccolo, angusto, dall’odore di polvere e di muffa, ma, forse più di tutto, da quelle risposte che inconsciamente già conoscevo.
35 «Certamente, ti riaccompagno in chiesa; mi raccomando non una parola con nessuno di quello che ci siamo detti: nessuno capirebbe una cosa del genere e ti vieterebbero di tornare a trovarmi. Lo farai vero?» «Non dirò nulla e tornerò a trovarla, lo prometto.» Furono le ultime parole che pronunciai prima di varcare la soglia della chiesa.
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CAPITOLO 6
Il sole stava ormai sfiorando le cime delle colline a ovest; non mi ero attardato troppo, ma poco dopo sarebbe stato buio e io dovevo affrettarmi a tornare a casa. Era quasi un sollievo allontanarmi dalla piazza della chiesa, da tutto quello che avevo visto e sentito; mi sentivo cambiato, maturato, più conscio delle mie potenzialità e dello strano mondo che mi circondava. Proprio questa consapevolezza mi suggeriva di sforzarmi di comportarmi da quel bambino curioso e monello che ero sempre stato, per non far capire a nessuno quali strani cambiamenti stavano avvenendo dentro di me, nel mio cervello e nella mia anima. Lilith doveva essere proprio arrabbiata perché nonostante tutti gli sforzi per chiamarla, non si fece vedere per tutta la sera; cenai con i miei genitori raccontando loro di don Nicola e del suo telescopio, magnificando i suoi racconti sulla luna e le stelle, ma facendo molta attenzione a omettere tutto ciò che riguardava il nostro piccolo segreto. Poi, una volta nell’intimità della mia cameretta, cercai di addormentarmi in modo da potermi ritrovare nuovamente nella radura, davanti alla grotta della masca. Il tempo passava lento, scandito dal grido delle civette e degli altri animali notturni; non solo non riuscivo a prendere sonno, ma una strana inquietudine si stava insinuando dentro di me; non ero più così sicuro di aver fatto la cosa giusta dando ascolto a quell’anima tormentata che avevo visto in chiesa. Sapevo di essere ancora troppo inesperto per poter capire cosa si poteva e cosa non si doveva fare, ma ero stato talmente preso dall’euforia di quell’incredibile novità, di scoprire che esisteva tutto un mondo che altri non potevano neanche immaginare, da esserne totalmente ammaliato e stordito; forse avrei dovuto dare ascolto alla ninfa piuttosto che decidere di testa mia, ma vedere quello spettro così disperato mi aveva stretto il cuore in una morsa di compassione così forte da desiderare solo di poterlo aiutare. Ma il fattore determinante che aveva giocato a suo favore era stato il fatto che sembrava quasi che mi conoscesse o che almeno si scusasse con me per qualcosa che aveva
37 commesso. Poi quel nome, Agnese, pronunciato con tanto dolore da sentire dentro di me qualcosa che si spezzava, come un penoso ricordo profondamente sepolto che voleva riaffiorare prepotentemente alla memoria; chi era Agnese e perché avevo l’impressione di conoscerla? «Mi compiaccio Luca; la consapevolezza dei propri errori è il primo passo per non commetterli più…» Ero così assorto nei miei pensieri da non essermi accorto che lentamente ero scivolato in un sonno profondo e, grazie a questo, ora mi trovavo seduto sul tronco davanti alla grotta della masca. «Dov’è Lilith? È ancora tanto arrabbiata con me? Le ho disubbidito oggi in paese, ma non volevo darle dei dispiaceri con il mio comportamento: vorrei tanto chiederle scusa, ma non sono più riuscito né a chiamarla né a vederla da nessuna parte.» «Le ninfe dei boschi sanno essere dolci, ma allo stesso tempo sono capricciose e irascibili; non ti preoccupare troppo, le passerà e tornerà a sorriderti come prima. Avresti però dovuto darle ascolto perché gli insegnamenti della tua ninfa sono molto preziosi e possono davvero aiutarti a capire il senso di tutto quello che ti sta accadendo e lo scopo per cui queste cose accadono proprio a te.» «Oggi ho visto delle fotografie; erano molto vecchie, ma in tutte c’eri tu e un’altra signora: il parroco ha detto che non era possibile che voi foste presenti a entrambe le cerimonie eppure era evidente che eravate lì. Eri proprio tu? In chiesa?» «Sì, ero io e l’altra signora era la mia amica più cara, l’ultima che mi era rimasta, quasi una sorella; c’era un tempo in cui scendevamo spesso in paese, chiamate ogni qual volta qualcuno aveva bisogno del nostro aiuto e dei nostri consigli: anche il parroco apprezzava i nostri servigi riconoscendo che non avevamo nulla a che fare con il demonio o con il male in generale, tanto da volerci presenti alle cerimonie più importanti proprio perché pregassimo a modo nostro in favore del paese e dei suoi abitanti. Poi i tempi sono cambiati e sempre meno gente ha chiesto il nostro aiuto, tanto che oggi solo pochi si ricordano di noi e della nostra presenza in questi luoghi.» Avevo ascoltato con attenzione e solo ora mi accorgevo di non essere sorpreso del fatto che la persona che avevo di fronte fosse incredibilmente vecchia, nonostante l’aspetto e le apparenze. «Come si chiama la tua amica e come mai non l’ho ancora incontrata? Vive da un’altra parte?»
38 Mi pentii subito di aver fatto quella domanda; gli occhi della maga si erano immediatamente velati mentre un’espressione di profonda tristezza aveva alterato i suoi lineamenti, prima sorridenti. «Si chiamava Arianna e anche lei, come me, aveva vissuto a lungo in questi luoghi. Il potere derivato dall’Altromondo ci consente di vivere tanto, forse troppo a lungo, ma non ci mette al riparo da tutti gli inconvenienti che una vita così lunga ci riserva; vieni con me, voglio leggerti una cosa.» «E tu? Tu come…» «Oh scusami; non sono più abituata a sentirmi chiamare per nome che quasi faccio fatica io stessa a ricordarlo: ho dovuto cambiarlo molte volte per non far capire alla gente normale che non potevo invecchiare, ma il nome con cui sono stata battezzata è Adele.» L’entrata della grotta era molto più ampia e spaziosa di quello che si poteva immaginare dall’esterno; il soffitto alto era stranamente liscio, adorno di piccole sfere che mandavano un chiarore soffuso ma sufficiente a illuminare totalmente l’ambiente: era arredato con mobili di legno massiccio finemente cesellati, come quelli che si vedono nelle poche botteghe ancora rimaste degli artigiani intagliatori. Un grande camino forniva il calore necessario a mantenere un tepore molto gradevole in tutta la sala mentre altre aperture facevano intuire l’esistenza di altre stanze oltre a quella in cui ci trovavamo; mi fece cenno di accomodarmi sul grosso divano di fronte al focolare mentre lei prendeva dalla libreria poco distante un grosso volume. Sapevo perfettamente di non essere realmente lì, ma tutte le sensazioni che provavo mi suggerivano il contrario; tutto era fin troppo reale, dagli odori alle sensazioni che provavo, dal calore sulla pelle ai rumori che si riuscivano a percepire, emozioni così forti e contrastanti da confondermi dissolvendo ogni più piccola certezza. «Sai cos’è questo? No? Beh, immaginavo che non ne avessi mai visto uno, ma credevo che almeno le storie che ti avevano raccontato in paese comprendessero anche una cosa così importante e preziosa come questa.» Quello che mi stava mostrando era un grosso libro rilegato con una pelle scura, molto spessa; era composto di un numero impressionante di pagine e, stranamente, al contrario dei normali libri che conoscevo, aveva impresso dei simboli e delle scritte su entrambe le copertine.
39 «Davvero non sai di che cosa si tratta?» Sembrava divertirsi della mia ignoranza, ma sospettavo che ci fosse dell’altro oltre quelle semplici e ovvie domande; lo pose sulle nostre ginocchia in modo che potessi vederlo bene e, allo stesso tempo, avere un contatto fisico con quel grosso libro. «Sai già leggere?» Era più un’affermazione che una domanda e mi vergognai ad ammettere di non saperlo ancora fare; sarei andato a scuola solo l’anno successivo e nessuno mi aveva insegnato ancora nulla. Guardai mortificato la maga, temendo che quell’impedimento ponesse fine alla mia visita in casa sua, ma lei sembrò non accorgersi del mio disagio e lentamente passò le dita sul disegno impresso a fuoco sulla prima copertina. «Ognuna di noi possiede un libro come questo; qui raccogliamo tutto il sapere accumulato nel corso della nostra vita e lo conserviamo per chi prenderà il nostro posto, perché nulla vada perduto o dimenticato. Questo cuoio con cui è rilegato è molto antico e continuerà a custodire il nostro sapere ancora per moltissimi anni, senza consumarsi né rompersi; i simboli che vedi e le scritte su entrambe le facciate sono state impresse a fuoco seguendo un rituale talmente antico che più nessuno ricorda da dove provenga. Si chiama Grimorio ed è composto di due parti: il libro delle ombre, dove trascriviamo le formule magiche, i sortilegi e tutte le esperienze mistiche avute durante la nostra vita, e il libro specchio, una sorta di diario dove trascriviamo tutto quello che reputiamo utile e importante, dalle notizie sulle persone che incontriamo, siano esse umane o dell’Altromondo, alle sensazioni, le gioie e le pene di una vita così lunga e intensa. Questo è il Grimorio di Arianna.» Ero molto confuso, ma per nulla intimorito dalle cose che stavo ascoltando; c’era un senso di attesa nelle parole di Adele, una sorta di paziente aspettativa che queste suscitassero in me una reazione, una risposta anche inconscia alle cose che mi venivano rivelate. Le emozioni che provavo erano tante, non tutte comprensibili o confrontabili con qualcosa di conosciuto; da un lato la curiosità aveva creato una sorta di dipendenza psicologica nei confronti della masca e delle cose che diceva, una specie di fame insaziabile di notizie che, intuivo, riguardavano me, il mio passato e, principalmente, il mio futuro. Non era un caso che la sua attenzione si fosse posata su un bambino come tanti altri, almeno di questo ne ero sicuro, come ero certo che non fosse una semplice coincidenza il fatto di riuscire a vedere cose che altri non vedevano o che mi
40 sentissi così maturo nonostante i miei cinque anni. Il libro pesava sulle mie ginocchia, ma la pressione che esercitava non era fastidiosa ma confortante, come una coperta calda nelle notti fredde d’inverno. Appoggiai la mano sul simbolo impresso nel cuoio; era un cerchio con all’interno una stella a cinque punte, con il vertice rivolto verso l’alto, come se stesse indicando il cielo; il bordo della circonferenza era tutto lavorato in modo da sembrare concavo, una specie di scudo al cui interno la stella si intrecciava con una falce di luna, anch’essa orientata verso l’alto. «È molto bello…» riuscii a dire sottovoce, mentre ondate di sensazioni sconosciute mi assalivano portando la mia anima lontano, come in balia di un mare in tempesta. «Sì…» annuì la maga, «molto bello e molto potente; ora che l’hai toccato, il legame che vi unisce si è finalmente stabilito e, d’ora in avanti, più nulla e nessuno potrà spezzarlo…» Udivo appena il suono della sua voce; qualcun altro stava parlando alle mie orecchie, con un timbro più sottile, acuto: aprii quasi senza accorgermene il libro e la voce divenne chiara e del tutto comprensibile. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD