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LUCA POGGI
DI STELLA IN STELLA
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Di Stella in Stella Copyright Š 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2011 Luca Poggi ISBN: 978-88-6307-xxx-x In copertina: Immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
Il messaggio
1. «Be’» disse Zed osservando i grandi cancelli rugginosi, ormai immobili. Il black-out riguardava l’intera installazione; solo i computer della sala controllo erano ancora in grado di funzionare, per quel che serviva. Da qualche parte dabbasso c’era un vetusto generatore a gasolio, forse racimolato da un ferrivecchi, acquistato per un nulla e di capacità non lontane dal suo valore commerciale. Il resto del fabbricato sarebbe stato comunque al buio, se non fosse che erano ancora le tre di un pomeriggio estivo, limpido e sonnacchioso come di consueto. L’edificio era stato abbandonato da molti anni, solo una minima porzione era ancora operativa; troppo costosi il vecchio progetto, le attrezzature, il personale al completo e la gestione generale. Restavano le infrastrutture: il fabbricato in sé, certo, ma anche l’area cintata tappezzata di ricevitori radio di tutte le dimensioni, di alcuni ricevitori ottici - qualche modesta parabola di due metri - e l’ampio parcheggio quasi inutilizzato, dove al momento riposavano soltanto l’agile sportiva di Sesia e il camperone usato di Zed. Sesia era una ragazza del quarto anno esperta in telecomunicazioni, mentre Zed era il matematico della situazione. Entrambi erano lì per un semplicissimo motivo: acquisire dei crediti universitari. Da quando il centro di ricerca era stato dismesso, erano rimasti solo gli studenti volontari delle varie facoltà a portare avanti quella sottospecie di piano B dell’ambizioso ma vetusto SETI. Troppi soldi spesi in decenni di infruttuosa ricerca di forme di vita extraterrestre, scrutando il cielo con strumenti prima discreti, poi buoni, quindi ottimi; divennero anche eccellenti, a un certo punto, per poi tornare ottimi, dopodiché buoni e dopo ancora discreti, finendo col ridursi negli ultimi anni a pochi rilevatori di scarsa qualità e nessuna speranza di successo: il mondo non intendeva più portare avanti un’idea romantica ma di nessuna utilità pratica. «Dovrò scavalcare il cancello, stasera, per tornare a casa» osservò
meditabonda Sesia, valutando a spanne l’altezza del fitto reticolato che cingeva l’intera area. Si trovavano all’ultimo piano del fabbricato, una specie di torre di controllo piena di inutili finestroni. Zed veniva lì per studiare, era fantastico potersi muovere liberamente in tutto quello spazio; lui, che viveva in un frusto appartamentino di città, già al limite di quel che potevano permettersi le sue finanze malconce di borsista in bolletta. Sesia invece era ricca di famiglia; non aveva bisogno di crediti aggiuntivi, ma amava quel posto pieno di vecchi sogni e il barlume di speranza che ancora consentiva di immaginare un universo in cui l’uomo non fosse solo. E sa Dio quanto ci fosse bisogno di nuovi stimoli; la civiltà umana era stanca. Aveva raggiunto un equilibrio con l’ambiente, finalmente; non distruggeva più, non inquinava. C’era cibo sufficiente per tutti, e l’energia non era un problema; quando si erano esaurite le ultime scorte di petrolio, erano così tante le fonti di energia alternative e pulite, che la cosa non rappresentò un problema. Ma non esistevano più i viaggi spaziali, ritenuti non necessari, e la frenesia della ricerca che aveva caratterizzato i secoli passati. L’umanità aveva raggiunto una noiosissima pace interiore. «Che dici» fece Zed guardando fuori, fissandosi un brufolo dal riflesso sul vetro «chiamiamo qualcuno?» Sesia lo osservò un attimo senza espressione. Non lo aveva ancora inquadrato, benché fosse già la terza volta che le toccava il turno del fine settimana con lui. Sapeva solo che era in gamba con i numeri e che viveva da solo; la sua famiglia si era disgregata a seguito del divorzio tra i genitori, che aveva assunto toni anche brutali. Zed era abbastanza maturo, ma covava ancora dentro di sé una tale amarezza da rendere impossibile parlare con lui degli argomenti legati agli affetti familiari e ai rapporti emotivi con le altre persone. «Perché?» disse poi la ragazza, alzando una spalla «non verrà nessuno comunque, qualunque cosa ci sia da riparare. Oggi sono tutti al mare.» «Lavoreremo sotto tono allora» concluse Zed. “Lo facciamo sempre” pensò Sesia, guardando la selva di antenne mal tenute sotto di loro. Zed cavò un libro dallo zaino e si mise a leggere con attenzione. Sesia sorrise senza allegria; venti minuti, erano venti minuti che Zed non controllava i monitor. «Non ti frega niente» concluse piattamente. Zed alzò gli occhi senza capire. «Non posso farci molto» disse lui.
«Non intendevo questo. È il motivo per cui siamo qui. Ricercare segnali dallo spazio. Ti interessa solo il prossimo esame.» Zed socchiuse gli occhi, sulle difensive. L’aveva capito da un pezzo che la ragazza era un’idealista convinta. Aveva sempre cercato di evitare confronti verbali; mai prendere di punta una sognatrice. «Non… è vero» inventò «la verità è che non ci facciamo granché, quaggiù. I sistemi lavorano per conto loro, acquisiscono dati e li rimbalzano in rete verso i centri di calcolo delle università. Siamo solo dei piantoni. Se ci fosse un segnale interessante lo rileverebbero dozzine di altri computer.» Zed omise di specificare che di segnali interessanti non se ne parlava da parecchio tempo, e che quando c’erano stati si erano sempre rivelati una gran delusione: trasmissioni da aerei in difficoltà, radioamatori chiacchieroni, disturbi o rumori di fondo per fenomeni atmosferici terrestri, brillamenti solari, moti di particelle cariche in campi magnetici prossimi o remoti, sorgenti naturali lontanissime come quasar e pulsar; persino alcuni scherzi… il programma aveva accumulato un bel po’ di segnali spazzatura, che comunque avevano richiesto un certo lavoro di analisi perché se ne escludesse il valore. Sesia lo fissò, pensando se concedergli o meno il beneficio del dubbio. «Non oggi» puntualizzò poi «con il black-out non siamo più in rete. Riceviamo solo noi.» Zed rimase colpito per un attimo. Non c’aveva pensato. Lasciò perdere il libro e si alzò in piedi. Sentiva di aver perso dei punti. «D’accordo» disse «vado a vedere se il generatore elettrico funziona come dovrebbe. È un pezzo che non lo controlla nessuno.» Aveva ragione, l’ultimo black-out risaliva a sette anni prima. Tutti gli strumenti venivano controllati periodicamente dai ragazzi e quando necessario riparati, spesso con mezzi di fortuna e mettendo mano ai conti personali, dato che di finanziamenti esterni non se ne parlava proprio. Sesia seguì con lo sguardo il giovane che si allontanava, poi dette un’occhiata a tutti i monitor della torre. Era una giornata di calma piatta, un tipico sabato estivo. L’indomani la base forse non sarebbe stata operativa; un paio di studenti di fisica si erano offerti di dare una lucidata alle infrastrutture e qualche dito di grasso alle rotaie di corsa delle parabole. Un’operazione di pulizia necessaria a prevenire problemi futuri, e poi quei due dovevano rimediare il brutto voto all’esame di Meccanica Ondulatoria. Ma non c’era da contarci troppo, in fondo; era il terzo fine settimana consecutivo che quel luminoso proposito veniva disatteso.
Fu allora che sul computer di Zed comparve l’indicazione di preallarme: una scritta rossa in campo nero che diceva semplicemente “ricezione dati” cui seguì un’incomprensibile sfilza di bip periodici, quasi un cicalino, e l’indicazione dell’origine, potenza e frequenza del segnale.
2. Zed rientrò alcuni minuti più tardi, rosso in faccia; aveva fatto le scale di buon passo. «Il generatore arranca, ma funziona» disse Zed osservando la ragazza che controllava il suo monitor. «Buono a sapersi» disse lei «abbiamo una trasmissione.» Zed gonfiò le guance. Poteva essere una scocciatura non da poco. Avrebbero dovuto identificarla, prima di potersene andare da lì. A volte ci voleva un bel po’. «È sicuramente terrestre» aggiunse Sesia «è ad alta energia. Non certo quello che ci si aspetta dopo un viaggio di miliardi di chilometri. Sequenza di impulsi identici.» “Meno male” pensò Zed. Sedette accanto a Sesia e dette un’occhiata allo schermo. C’era un grafico dinamico che mostrava un’alternanza di picchi intercalati a silenzio completo. Zed corrucciò la fronte. «Viene da una parabola ottica. Ricevitore laser» osservò. «Che strano» disse Sesia «è la prima volta che capita, nel programma.» «Per quel che ne sappiamo noi» la corresse Zed. Sesia lo guardò per un attimo, poi si concentrò sul monitor. «Già. Vediamo che roba è» disse la ragazza. Volò sulla tastiera e individuò il rilevatore che leggeva il segnale. «Roba vecchia. Un’anticaglia» disse poi «magari è in avaria.» «Magari no» disse Zed «puntane un altro nella stessa direzione, vediamo se riceve il medesimo segnale.» «D’accordo» assentì Sesia, cliccando sulla mappa della base; aveva una vista simulata dall’alto dell’intero parco di rilevatori. Ne scelse uno identico a quello logorroico e impostò gli stessi parametri di puntamento. La seconda parabola non dette segni di vita. «Visto?» disse Sesia «è un’avaria. Non c’è nessun segnale, la parabola
deve averne avuto abbastanza ed è schiattata. Si deve essere innescata un’oscillazione da rumore bianco.» Zed non voleva demordere. «Proviamo con un’altra parabola.» Sesia lo guardò un attimo sbuffando, poi selezionò un altro rilevatore e lo puntò come i primi due. Anche questo non restituiva segnale. La ragazza doveva avere ragione. Il bip regolare degli impulsi continuava a susseguirsi senza sosta. «Che dici, lo spegnamo?» propose Zed. La prospettiva di sorbirsi quel suono per ore non era divertente; il protocollo del programma non prevedeva di spegnere un apparecchio che dava segnale, anche se palesemente in avaria. Sesia lo osservò con la stessa aria infelice: pensava la medesima cosa. «Telefonerò a Derris. Sentiamo che dice» concluse poi, rianimandosi. Derris era il professore loro responsabile. Se lui autorizzava lo spegnimento, com’era ragionevole fare, erano a posto. Sesia prese un elenco dalla scrivania e cominciò a cercare il telefono del professore. Zed intanto dava un’occhiata distratta allo schermo, percorso dal tracciato in perenne movimento. «Non risponde» disse Sesia con la cornetta penzolante dalle mani «sarà andato al mare coi figli. Proverò sul cellulare.» «Be’» farfugliò Zed «mentre aspettiamo facciamo una prova. Sposterò un po’ l’antenna, giusto per vedere come si comporta. Magari una scossetta mette fine al bip una volta per tutte. Ho un sacco da studiare, oggi.» Diteggiò sulla tastiera e fece spostare di pochi gradi l’asse di puntamento: il bip scomparve. «Ce l’hai fatta!» esclamò Sesia. Poi assunse un’aria perplessa «che cavolo era, allora, uno strano contatto?» Zed le lesse nel pensiero e riposizionò l’antenna come prima. Il bip ricomparve. «Uhm» mugugnò Zed. Fece di nuovo la prova: spostò l’antenna e la riposizionò. Il segnale sparì e riapparve come prima; era una questione di frazioni di grado, come se la parabola ricevesse un fascio ottico talmente direttivo che bastava il minimo spostamento per perderlo. «Ovviamente non ha senso» commentò Sesia «non è possibile che il ricevitore sia posizionato proprio nella maniera giusta per afferrare la trasmissione. È stato orientato più o meno a caso. » Zed sbuffò. «Chi non ha testa…» disse, avviandosi alla rampa di scale che portavano
dabbasso «vado a vedere da vicino. Seguimi da quassù.» Il ragazzo discese fino a piano terra e uscì nell’aria calda del pomeriggio; girò attorno al fabbricato e iniziò a camminare tra i rilevatori, piccoli e grandi, che adornavano il grande appezzamento sabbioso che circondava l’edificio. Quando Zed raggiunse la parabola giusta si soffermò a guardarla, come se potesse risolvere i suoi dubbi solo fissandola. Sembrava a posto, anche se un po’ sporchetta; le girò intorno lentamente, poi di nuovo, e ancora, a beneficio della compagna in cima alla torre. Sesia osservava la reazione del ricevitore dal proprio monitor. Zed fu tentato di aprire lo scatolotto che conteneva le schede elettroniche dell’apparato, ma non si era portato strumenti e la sua maglietta cominciava a inzupparsi di sudore; decise di tornare al fresco della sua postazione. Fece dietrofront e con un bel sospiro si sottrasse al sole impietoso, imboccando le scale per raggiungere Sesia. La ragazza lo accolse con un’espressione imbronciata. Non ce l’aveva con lui, ma con la strumentazione. «Sembra proprio una trasmissione» concluse «quando sei passato davanti alla parabola il segnale è sparito, è tornato quando l’hai oltrepassata.» «Perché gli altri ricevitori non lo rilevano?» disse Zed, sedendosi accanto a Sesia. «Laser. Luce coerente in fascio stretto» meditò Sesia. «Balle!» disse Zed «chi invierebbe un raggio così stretto da renderne impossibile la rilevazione? Ed è un segnale forte, l’hai detto tu.» Sesia fissò il ragazzo di sottecchi. «Una specie di… scherzo?» tentò. «Già.» La ragazza si animò. «Se è così, vediamo se sono stati abbastanza furbi, questi buontemponi.» Sesia analizzò l’orientamento della parabola e proiettò sullo schermo il più verosimile punto di origine del segnale. Una zona di spazio quasi vuota e poco promettente si parò innanzi agli occhi dei due studenti; un’ulteriore analisi, e apparve chiaro che non c’erano sistemi stellari prossimi e papabili. Occorreva andare moltissimi anni luce in là, tanti da rendere un po’ assurda l’ipotesi di un segnale così ben foggiato. «Forse da un’astronave…» scherzò Zed. Sesia lo guardò per un attimo con malcelato fastidio. «Siamo scienziati, sant’Iddio…» accennò; poi si rese conto che Zed la stava solo punzecchiando. Sesia ridacchiò.
«D’accordo. Un aereo, un elicottero? A che scopo inviarci un raggio laser? Certi scherzetti costerebbero parecchio.» Zed si ravviò i capelli con energia. «Se per te va bene, facciamo così. Tu ti metti al telefono e chiami le basi aeree civili e militari cercando di scoprire qualcosa su quel che si muove sopra di noi, io analizzo un po’ questo segnale. Ci siamo limitati a guardare un bel grafico, finora.» «Bene.» Sesia corse a fare un giro di telefonate. Zed prese il segnale e iniziò a sottoporlo ai filtri più semplici per individuarne le caratteristiche fisiche; sarebbe stato lavoro di Sesia, ma si stava divertendo. Quando la ragazza tornò aveva già visto quel che gli interessava. «Non dovrebbe esserci niente di niente, sopra di noi» concluse Sesia «tu che mi dici?» Zed sorrise. «Sequenza di impulsi rapidi e identici, alternati a una lunga pausa di silenzio. Ogni impulso è in realtà un’ondulazione che va dalla più lunga ricevibile dalla parabola, cresce gradualmente in frequenza, e arriva alla frequenza più alta che il rilevatore è in grado di recepire.» «Il silenzio non è silenzio» concluse Sesia. «Che vuoi dire?» «Che nell’intervallo in cui la parabola non dà segnale la trasmissione c’è, ma al di là delle nostre capacità di rilevazione. La trasmissione è una sweeppata in banda larga. Come a dire: facciamo un grande fuoco, così siamo sicuri che qualcuno ci vede.» «Ma i laser non lavorano a una frequenza fissa?» domandò Zed, che sapeva poco dell’argomento. «I nostri sì» disse Sesia. «Non raccolgo la battuta» disse Zed «che ne pensi, veramente?» «Non ci sono satelliti, lassù. I militari sono stati gentili; e comunque non è certo una trasmissione di qualche utilità per o da aeromobili.» Zed si staccò dal computer, si alzò in piedi e si piazzò davanti ai finestroni della torre; spirava un venticello scontroso che sollevava refoli di sabbia tutt’intorno al fabbricato. I vetri vibravano lievemente. Il cielo era di un azzurro spento, attraversato da una pallida lanugine di nubi stracciate; in un angolo la Luna occhieggiava, fioca. Zed socchiuse gli occhi. «Sesia.» «Sì?» «Visualizza la porzione di cielo da cui sembra provenire il segnale.»
Sesia fece ripartire il programma; si ripresentò sul monitor lo stesso quadrato scuro, scevro di stelle. «Ora mettici anche tutti gli altri corpi del sistema solare.» Sesia obbedì, incuriosita dal tono del ragazzo; sullo schermo apparvero delle macchiette circolari in più. Giove splendeva nell’angolo di destra, un puntino piccolo e lucido, ovviamente invisibile nel cielo reale a causa della luminosità del sole, ma ben delineato in simulazione. E poi apparve la Luna, al centro dello schermo, piuttosto grande e intera. Sesia fischiò con toni bassi. «Buona idea, Zed» commentò. Il punto di partenza del segnale era una macchiolina lampeggiante su uno degli oceani rocciosi del satellite terrestre. «Ah» si limitò a fare Zed. «Naturalmente non vuol dire nulla» disse Sesia «può essere una casualità prospettica. Quel che sappiamo è che il segnale proviene da un punto lungo la retta ideale che unisce quel punto sulla Luna al ricevitore.» «Proveniva.» «Cosa?» chiese Sesia. «Proveniva» disse Zed con voce incolore «non riceviamo più nulla, adesso.» Aveva ragione, il suo monitor mostrava una linea continua piatta. «Non dirmelo. Non ci credo» disse Sesia; la ragazza si dette da fare. Cercò di modificare l’orientamento della parabola in misura minuscola, gradualmente, agendo a distanza sui piccoli motori che ne garantivano il movimento. Il segnale tornò, forte e chiaro. Zed aveva già capito benissimo; era un matematico e il suo computer conteneva tutti i dati astronomici che gli servivano. Calcolò velocità e direzione di spostamento della superficie lunare, stimò l’orientamento che la parabola avrebbe dovuto avere in quel momento e nei minuti successivi per intercettare un raggio laser filiforme proveniente proprio dal quel punto. I dati tornavano con le modifiche appena apportate da Sesia a tentoni sulla posizione della parabola. «Accidenti!» esclamò Zed «il raggio punta sempre sulla parabola, ma la sorgente si sposta esattamente come fa la Luna. Una cosa dannatamente precisa, direi. Ho, ehm, un programmino di inseguimento lunare, qua dentro; lo trasmetto agli attuatori della parabola, se non altro non perderemo il segnale.» Funzionò. Passarono i minuti, i due ragazzi continuarono a ricevere
correttamente, senza alcun disturbo. Nessuno parlò per un po’; erano entrambi leggermente storditi dalla strana situazione, incerti sul come interpretarla e con poca voglia di far brutte figure con ipotesi bislacche. Sesia fissò il monitor. «Il segnale. Sta cambiando.» Aveva ragione: la sequenza di impulsi aveva la stessa cadenza, ma gli impulsi erano più brevi. «Le frequenze» disse Zed «la trasmissione sta riducendo la banda, lentamente. Come se qualcuno ci volesse condurre per mano verso un’unica frequenza.» «Già. Dopo il grande fuoco, la luce di una piccola torcia, più sfuggente ma adatta a trasmettere informazioni complesse.» I due ragazzi si guardarono. «Che stiamo dicendo?» sbottò Sesia sorridendo. «Sì. Ridicolo. Ci comportiamo come…» «È uno scherzo» disse Sesia, decisa «ben fatto, certo. Abbastanza spettacolare. Resta da capire di chi e perché.» «Vogliono ridicolizzare il programma» disse Zed. «Immagina se ci attaccassimo ai telefoni e rendessimo nota la cosa. Due ragazzini… direbbero. Attrezzature costose, in mano a due ragazzini.» «Magari è un test» propose Sesia «una di quelle cose psicologiche. Come quando fingevano di voler lanciare testate nucleari su altri paesi, per vedere se i soldati incaricati del lancio ubbidivano all’ordine.» I due sedettero in silenzio per un momento. Sesia aggrondò la fronte in modo grazioso. «Analizziamo i fatti. O ciò che sembrano i fatti.» «D’accordo» approvò Zed, strofinandosi le tempie con energia «prima di tutto, il segnale. Privo di contenuto informativo, a larga banda, così da essere rilevato. Sta cambiando, anche adesso la banda si restringe, a quanto pare nel campo di funzionamento della parabola.» «Sì. E la provenienza. Secondo i nostri dati, sembra certo venga dalla Luna. È forte, molto direttivo, e preciso. Non viene da aeromobili noti, ed è comunque molto diverso da tutto quel che viene usato normalmente sulla Terra. Questo ci porta a qualcosa?» «Un momento. Non proviene dallo spazio profondo, non ha a che fare con extraterrestri. O è uno scherzo, o è un test.» «Bene» concordò Sesia «sarebbe una sfida interessante, ma c’è il rischio di una magra figura.» «Se restassimo solo noi, avresti ragione» disse Zed, rilassandosi «direi che è il momento di chiamare i rinforzi.»
«Cosa?» «Gli altri ragazzi del programma. Coinvolgiamoli. Qualche cervello in più non fa male. E poi… non voglio essere additato come il solo deficiente a essere caduto nella trappola di qualche furbacchione.» «Buona idea!» disse Sesia «non li conosco tutti, ma ci deve essere un elenco con i numeri di telefono. Solo, non sono sicura che verranno. È sabato, il mare…» Zed rise. «Verranno. Dì loro della trasmissione, tieniti sul vago. Voi ragazze siete specializzate in questo.» Sesia preferì non commentare e cercò la lista degli iscritti al programma sui file nel computer. Fu semplice. Fece due stampe dell’elenco, ne dette una a Zed e gli porse un telefono. «In due faremo prima» suggerì. Zed le strizzò l’occhio e compose il primo numero. «A me le ragazze, a te i ragazzi» disse. Appoggiò i calcagni sulla scrivania, subito imitato da Sesia. L’ora successiva fu soprattutto fatta di chiacchiere.
3. «Escursione lineare. Se continua così sparirà» disse Frei. Era un ragazzotto bene in carne, rosso in faccia, dall’espressione disincantata. Non era molto contento di stare lì, ma Sesia sapeva gridare molto forte. «Che vuoi dire?» chiese Zed. Il ragazzo era lievemente infastidito; Frei fissava il suo monitor dannatamente da vicino assumendo l’aria insopportabile del gran saccente. «Il segnale. La banda si stringe proporzionalmente al tempo. A ogni secondo che passa ne sparisce una fetta di ampiezza costante.» Zed si dette dello stupido. Ridusse le dimensioni della finestra che mostrava il segnale nel suo spettro in frequenza: un insieme di righe che popolavano lo schermo, come gli alberi di una fitta foresta. Una foresta in lento ma evidente disboscamento ai bordi. Zed attivò il programma di prospezione astronomica; la nuova finestra mostrava l’orizzonte e un cielo gremito di stelle. La Luna occhieggiava
con la sua piccola falce, non lontana dalla curvatura oscura della Terra. In basso a destra nella finestra si mostrava l’ora attuale; Zed andò avanti nel tempo, facendo muovere rapidamente gli astri, sinché la Luna, in graduale declino, non intaccò l’orizzonte terrestre. Frei non era rimasto a guardare; si era cavato di tasca una calcolatrice non appena Zed aveva attivato il programma, aveva fatto una stima della velocità di riduzione della banda e aveva calcolato il tempo che avrebbe impiegato, a quel ritmo, per estinguersi del tutto. Sommò quel tempo all’ora attuale e mostrò il risultato a Zed senza commenti. «Il segnale si esaurisce in concomitanza del tramonto della Luna. Carino» disse Zed «qualunque cosa significhi.» Sesia arricciò le labbra; aveva sentito anche lei. «Non ha senso» disse Delia. Era una ragazzona dall’aspetto semplice e muscolare; superava in altezza la maggior parte dei maschi di sua conoscenza, la sua voce era vagamente tenorile. Stava appollaiata sulla spalla di Sesia, sollecitando il sistema nervoso della ragazza così come faceva Frei con Zed. «Che vuoi dire?» fece Abigail, svegliandosi dal suo apparente sonno letargico; lei era una studentessa di sociologia, poco interessata a quel segnale, ma affascinata dalle reazioni dei suoi compagni a un evento sollecitante come quello. Aveva un taccuino sempre in mano e stava cercando di tracciare i profili preliminari dei ragazzi lì attorno. Stava in posizione defilata, come ogni buon osservatore che non vuole alterare la scena in studio con la sua stessa presenza. Delia la osservò meditabonda, quindi lasciò la postazione di Sesia (che esplose in un sospiro di sollievo) per sedersi a una consolle inutilizzata. «Un segnale che compare e sparisce gradualmente senza comunicare nulla» disse poi «scherzo o no che sia, sembra un evento che non porta da nessuna parte.» «E dove dovrebbe portare, allora?» chiese Abigail. «Oltre quello a cui ci ha condotto adesso» intervenne Zed «“ehi, ci sono” - ha detto finora - “lo vedi, vengo proprio dalla Luna. Ora che lei tramonta, tramonto anch’io”. Dice qualcosa, sì, ma è incompleto. Non ce ne facciamo di nulla, se sparirà per sempre. Ci porremo delle domande che poi dimenticheremo.» «Stai dicendo che non sparirà?» disse Delia. «Lo farà senz’altro, fra un po’. Ma domattina la Luna sorge ancora.» Ci fu un attimo di silenzio. «Il segnale riprenderà domattina» concluse Sesia «ma non lo stesso di
oggi. La riduzione della banda… la trasmittente ci indica su quale frequenza ha intenzione di comunicare domani. Sta lentamente convergendo sulla portante che utilizzerà.» «Portante» ripeté Abigail «presupponi una modulazione. Insomma, un contenuto informativo. Un vero messaggio.» La ragazza prese rapidamente degli appunti, annotando qualcosa su Sesia, un soggetto alquanto interessante. Sesia approvò con espressione prudente. «Sì. Di qualunque natura sarà. Scherzo… o altro. Qualcuno vuole che ci teniamo pronti a registrare e analizzare.» Abigail resistette alla tentazione di ulteriori domande; Sesia stava già osservando la penna intenta a immortalare i suoi commenti con la fronte corrucciata. Meglio non farle sospettare di essere oggetto di studio, le persone reagivano sempre male quando lo scoprivano. La Luna si stava avvicinando lentamente all’orizzonte. «Se Sesia ha ragione, dobbiamo solo annotare la frequenza residua e predisporci per riceverla e studiarla» osservò Zed «se il black-out continua, e non vedo perché non dovrebbe, dobbiamo spegnere gli strumenti che non servono. Ripulire il ricevitore e fare una piccola revisione dell’hardware. Assicurarci che il generatore elettrico abbia carburante sufficiente. Preparare un buon programma di inseguimento lunare per la giornata di domani. Predisporre gli strumenti software per estrarre le modulanti dalla portante. Dovrebbe essere un’operazione facile, elementare.» «Cosa te lo fa pensare?» chiese Delia. «Perché è elementare il modo di gestire i segnali da parte di chi trasmette. È sofisticato solo il modo per farli arrivare fino a noi. Potremmo persino riuscire a decodificare i dati noi stessi.» Sesia guardò il compagno, divertita. «È un suggerimento, questo? Fare tutto da soli?» disse. «Perché no?» interloquì Frei «domani è domenica. Tu proveresti a chiamare qui uno dei nostri professori? Ci mangerebbero vivi. E poi, forse da noi si vuole questo, che ce la caviamo da soli.» «Che vuoi dire?» fece Abigail. «Rifletti. C’è un black-out, cosa che non succede da sette anni. C’è un messaggio. Nel fine settimana. E non viene dallo spazio profondo.» «Stai dicendo che la cosa è premeditata? Black-out incluso?» «Perché no?» «Sarebbe un test perfetto» osservò piano Abigail, affascinata e compiaciuta.
«Era anche una nostra idea» disse Sesia «ma un test per cosa? Per noi, per il programma?» Frei si strinse nelle spalle. «C’è qualcosa da mangiare, qui dentro?» disse. Zed sorrise e accennò a uno stanzino adiacente. «Cucinotto» rispose «nel frigo non c’è granché. Nel mio camper ho roba secca. Possiamo mettere insieme una cena e una colazione per tutti, se necessario. Se qualcuno di noi se ne tornasse a casa sua le cose andrebbero meglio.» Abigail sbuffò, divertita. «Ci avete chiamato voi. E poi, chi vuoi che vada? La cosa si sta facendo intrigante.» «Abigail ha ragione» affermò con sicurezza Sesia «resteremo tutti. A proposito, Zed; quanti posti letto ha il tuo camper?»
4. Sesia aveva visto giusto, ma solo fino a un certo punto. Poco prima che la Luna tramontasse oltre l’orizzonte, il segnale divenne tricromatico: tre singole frequenze di trasmissione, continue, che non cessarono finché la Luna non scomparve. Quello fu il tacito via per tutti i ragazzi, che si dedicarono a un’attività frenetica che si protrasse fino a sera: manutenzioni e progetti per affrontare quanto avrebbe potuto succedere l’indomani. Si suddivisero i compiti con solerzia, mentre una irritata Abigail fu segregata nel cucinotto a inventarsi un’improbabile cena soddisfacente per tutti. In realtà era evidente a chiunque che lei li stava tenendo d’occhio, studiando le loro reazioni con malcelata impudenza. Ci fu chi pensò che la ragazza facesse parte di quella sottile macchinazione, ma il sospetto non fu palesato. L’ultima cosa che serviva era un’ipotesi insinuante che agitasse gli animi, disturbando la sottile eccitazione che pervadeva un po’ tutti. A sera inoltrata ognuno andò a coricarsi in buon ordine; il camper di Zed era il dormitorio comune. Zed, però, preferì dormicchiare nell’edificio, disgustato dal pigia pigia in un veicolo che per lui significava libertà e meravigliosa solitudine. Il ragazzo, per puro scrupolo, si procurò una tanica e fece man bassa del gasolio ecologico dei veicoli disposti in buon ordine in un parcheggio
improvvisamente affollato. Quindi andò a dormire, pieno di aspettativa per l’indomani. Temette di non riuscire ad addormentarsi, tanto era eccitato, ma cadde in un sonno da cui solo i vigorosi scrolloni di Sesia seppero destarlo.
5. «Sono sveglio. Sono sveglio» biascicò Zed. Sesia lo spintonava malamente. «Russi di brutto, lo sai?» disse lei. «Non è problema tuo. Mica dobbiamo sposarci» la rassicurò Zed. «Sempre così, di prima mattina?» chiese la ragazza ridendo; porse una tazza di caffè e latte fumante che Zed guardò con un sopracciglio alzato. Il giovane si issò sui gomiti e si divincolò dall’abbraccio dell’angusta poltroncina su cui aveva dormito. Rintuzzò sul nascere una risposta sferzante; non capita a tutti di vedersi servire la colazione a letto da una con il caratterino di Sesia. Zed accostò la tazza alle labbra: deliziosamente bollente. «Immagino tu voglia qualcosa» indovinò Zed, leggermente caustico. Prima che la caffeina entrasse in circolo, il suo umore mattutino era sempre pessimo. Si trovavano in una stanzetta adiacente alla sala principale, che a Zed, abituato a dormire nell’intimità di pochi metri quadri, sembrava senz’altro più adeguata alle sue necessità; oltre la porta si sentivano bisbigliare diverse voci. «Malfidato» commentò Sesia «ma stavolta hai ragione. Voglio che ti alzi e ti metta al lavoro.» «Tutto qui? L’avrei fatto comunque.» «Intendo subito.» «Umff. Cos’è successo? La Luna…» «È per Abigail. Sta facendo innervosire tutti. Fa domande innocenti, ma poi ti scruta prendendo appunti. Gli altri hanno quasi esaurito la pazienza. Ora tocca a te.» «Pazienza? Non so cosa sia, la mattina. E il black-out?» «C’è ancora.» «Non ti pare strano?» «No, se è colpa di un guasto nell’edificio o sulla linea qui vicino.»
«D’accordo.» Zed si stiracchiò, bevve il tazzone d’un fiato e lasciò la poltroncina. Entrò nella sala controllo con gli occhi gonfi e notò distrattamente che tutti gli altri si erano scelti una postazione; l’aria era piuttosto pesante, Abigail era in piedi, stava rileggendo i suoi appunti mentre gli altri se ne stavano a labbra strette evitando di guardarla. «‘giorno» borbottò Zed, andando a sedersi alla sua consolle. Abigail si rianimò. «Ah! Zed… vero?» disse la ragazza, impugnando la penna con convinzione «che ne pensi…» Zed la interruppe con un gesto vago della mano. «Le domande di prima mattina mi irritano» osservò «Abigail… vero? Prendi una sedia e mettiti accanto a me. Può darsi che più in là ci sarai molto utile. Al momento, limitati a tenere il becco chiuso.» La ragazza ciondolò il blocco notes a bocca aperta: non era abituata a essere trattata ruvidamente. Fece per ribattere qualcosa, poi vide l’espressione di Zed e cambiò idea. Si sedette accanto a lui, ma non troppo vicino. Qualcuno soffocò un risolino. Zed guardò l’ora sul computer e avviò il programma astronomico. «Mancano dodici minuti al levarsi della Luna.» «Siamo pronti» disse Frei «per quanto possibile.» «Già» confermò Delia. Il suo computer aveva una decina di finestre già aperte; erano alcuni programmi di analisi dei segnali, ma soprattutto software di diagnostica dell’hardware del centro; Delia aveva una specializzazione in meccanica ed era decisamente in gamba con macchine e motori. «Ho ricontrollato il ricevitore ottico, stamani» aggiunse la ragazza «funziona come si deve.» Zed guardò fuori. Era ancora buio, l’alba non era così vicina. Assegnò mentalmente un punto di merito alla compagna. «Delia ha sott’occhio gli organi di movimento» aggiunse Sesia «controllerà periodicamente gli spostamenti della parabola per rendere massimo il livello di segnale. Non si sa mai, con quell’anticaglia.» Zed avviò gli applicativi che gli interessavano; mentre attendeva i tempi necessari all’attivazione del sistema si alzò e strascicò i piedi in cucina. Doveva mettere qualcosa di solido sotto i denti. Abigail lo seguì con aria indispettita; si era ripresa dal rimbrotto ed era tutt’altro che conciliante. «Aspetta un momento, tu» disse rapidamente, affiancandosi a Zed. Lui
ignorò l’espressione pugnace e le batté sulla spalla come a un vecchio amico. Entrarono insieme in cucina. «Brava che mi hai raggiunto» disse Zed «credo che avrò presto bisogno di te.» Abigail rimase per un attimo interdetta. «Gli altri non lo sanno ancora» disse Zed «credo che il segnale sia… autentico. Niente test. Niente scherzo.» Questo fu abbastanza da distrarre Abigail. La ragazza contorse le mani dall’irritazione; aveva lasciato il taccuino sulla scrivania, ma non voleva perdersi la sparata del giovane. «È una sensazione» spiegò Zed «qui, alla bocca dello stomaco. Sapevo che sarebbe successo, prima o poi, e che sarei stato presente. Ho fatto un sacco di sogni premonitori, e mi sono successe delle cose, ultimamente… certi non vi avrebbero dato importanza, ma io sono sempre attento ai segni del divino che ci vuol comunicare un messaggio. E ora mi sento pronto per affrontare la cosa. Ma non abbiamo il tempo per parlarne ora. Solo, tieni conto che ci sarà da persuadere tutti. Una con la tua preparazione può essere utile. È un evento sociologico, questo.» Abigail annuì lentamente; Zed era un individuo disturbato e meritava un intero capitolo del suo taccuino. «Che pensi di fare? Tenterai di convincerli?» disse Abigail; aveva escluso sé stessa, da buon osservatore di quell’evento clinico. «Niente affatto. Farò il contrario. Sono persone intelligenti. Lascerò che siano loro stessi ad arrivarci. Farò da bastian contrario. Con qualche mascherata spintarella nella giusta direzione.» Soffocando un sorriso, il giovane tornò al suo posto sgranocchiando dei crackers; Abigail lo precedette e afferrò il notes prendendo a sbirciarlo con la coda dell’occhio. Sesia notò l’improvvisa tensione di Abigail, che stava vicinissimo a Zed, e alzò un sopracciglio alla volta di quest’ultimo; il ragazzo si strinse nelle spalle con mal celato divertimento. Sesia le doveva un grosso favore. «Quattro minuti» disse Frei. Un certo chiarore cominciò a intravedersi all’orizzonte; non era ancora la superficie lunare, ma il piccolo alone luminoso che la precedeva. «Potenza zero. Nessun segnale» disse Delia. Zed fece un macello sulla scrivania, riempiendo tutto di bruscolini untuosi. Abigail, disgustata, soffiò su tavolo e tastiera per disperderli. Ora si cominciava a vedere uno spicchietto di Luna; parte di essa, sul lato oscuro, aveva già superato l’orizzonte, e il programma astronomico ne mostrava i dettagli sui computer della sala controllo. Nella realtà, le forme
in ombra erano poco più di una tenue pellicola nerastra sul tessuto sfumato del cielo. Il tempo era scaduto. Tutti guardavano i monitor, in attesa. «Ecco il segnale» disse Delia inespressiva «tricromatico. Le frequenze di ieri. Stiamo registrando. Potenza di saturazione.» «Che sarebbe a dire?» chiese Abigail. Delia si volse verso di lei. «Che il segnale è più forte di quello che il ricevitore è in grado di registrare. Hardware del cavolo, ma questo abbiamo.» «Ed è molto grave?» «Dipende. Non ci può essere ambiguità dei segnali, nessuna confusione tra loro e con altri segnali di origine diversa. Diamine, questi si sovrappongono a ogni cosa. Ma se sono modulati in ampiezza il contenuto informativo è irrimediabilmente perduto.» Sesia dette un’occhiata al monitor; ognuno aveva la possibilità di analizzare la trasmissione, ma la cognizione maggiore era la sua; fece qualche studio preliminare. Le tre frequenze erano stabilissime. Questo aiutava a eliminare il rumore spazzatura; ma non c’era verso di ridurre il picco di tensione al ricevitore. I sensori erano semplicemente inzuppati di forme d’onda. Sesia diminuì il guadagno dell’amplificatore per quanto poté, poi applicò dei filtri passabanda assai stretti a cavallo di ciascuna delle tre frequenze: il risultato furono tre sinusoidi perfette, depurate delle armoniche di ordine superiore. «I segnali. Non sono modulati» concluse Sesia. «Be’, per forza, li hai strizzati per benino…» obiettò Frei. «No, non intendo dire che l’ho constatato adesso. È che è logico che non lo siano.» «Sarebbe a dire?» chiese Zed. «Chiunque invierebbe una sola portante variamente modulata. Debole in potenza. Qui abbiamo un cannone che ci spara addosso. Tre ondulazioni pure e massicce. Tre.» «Ma nessun contenuto informativo. Utili come tre fucilate» obiettò di nuovo Frei. Nessuno fece in tempo a rispondergli: i segnali sparirono. «Arriva il bello» mormorò Zed. Abigail si voltò a guardarlo, assorta. Gli altri la imitarono. I computer tacquero per pochi istanti; poi ricomparve il solo segnale a frequenza minore, un brevissimo bip alternato a un ancor più effimero silenzio. Sesia aveva già associato a ogni ondulazione un segnale audio
diverso; ora la ragazza aggredì la tastiera. «Arriva a pacchetti, separati da una breve assenza segnale» disse Sesia. La sequenza durò un bel po’; nessuno aveva da commentare la cosa, il suono stesso era così regolare da non richiedere interpretazioni. Poi vi fu l’ultima sequenza, un insieme di quattro bip separati dagli altri da un silenzio maggiore, e con un suono più acuto. Poi, il silenzio. «Interessante» disse Zed analizzando la registrazione «ottanta pacchetti isofrequenza, poi quattro pacchetti a frequenza maggiore, uguali fra loro.» Non era finita: i segnali tornarono. Ripartì la solita successione di bip, identica alla precedente; tutti ascoltavano con attenzione, ma alla lunga Frei si annoiò e prese ad armeggiare col suo computer. Delia lanciò una diagnostica generale su tutti i sistemi, Abigail cercò di interloquire con Zed, che però con un gestaccio la mise subito a tacere. Sesia, come Zed, era rimasta a rimuginare su quanto stava accadendo: si sentiva responsabile, quella cosa accadeva proprio quando era il suo turno di lavoro al centro. La successione di segnali era di nuovo terminata. «Uguale a prima» commentò Frei. «No» disse Zed «gli ultimi quattro pacchetti non erano del tutto uguali ai precedenti. Stavolta l’ultimo di questi era alla frequenza intermedia delle tre.» «Che significa?» disse Delia. «Potrebbe… ma no, ora dovrebbe esserci un’altra sequenza.» Zed aveva ragione. Dopo qualche secondo ripartì la sequela di bip. Stavolta quando la lunga pletora di impulsi ebbe termine, Zed si distese sulla sedia, sorridendo. «Ancora ottanta pacchetti. Poi subito altri quattro, stavolta i primi tre alla frequenza maggiore, l’ultimo a quella minore. Scommetto che la prossima sarà fatta di altri ottanta pacchetti, più gli ultimi quattro composti così: i primi due alla frequenza alta, il terzo a quella intermedia e l’ultimo di nuovo alta.» Frei lo scrutò, ma non disse nulla; Sesia fece lo stesso, ma cercò di capire cosa intendeva dire Zed e si dedicò a giocherellare con carta e penna per un paio di minuti, mentre un’ulteriore sequenza prendeva l’avvio. Terminò quasi simultaneamente alla trasmissione. Zed aveva avuto ragione, su quei quattro pacchetti finali. Sesia alzò la testa, sbirciando i propri scarabocchi, pressoché illeggibili anche a lei stessa. «Matematica ternaria?» disse Sesia, guardando Zed. «Sì» disse il ragazzo «una stringa di ottanta bit ternari. Tre frequenze, una
per lo zero, l’intermedia per l’uno e l’ultima, la più alta, per il due. Poi quattro bit, un numero ternario: un contatore decrescente, credo. Con quattro bit ternari si fa proprio il numero ottanta in decimale. In ternario, è 2222; quattro frequenze alte, contenuto nella prima trasmissione. Poi è venuto il 2221, quindi il 2220, infine il 2212. Sono i numeri dall’ottanta al 77, in decimale.» «Quindi, ci dobbiamo aspettare ottanta sequenze. Cioè, finché il contatore arriva a zero.» «Penso di sì. Ottanta sequenze di ottanta bit informativi ciascuna. Una matrice quadrata.» «Secondo te, allora, finora ci è stato inviato solo un insieme di zeri, tutti pacchetti a frequenza minore, cioè, nelle sequenze degli ottanta bit ricevute. Bel contenuto informativo» disse Frei. Zed sorrise. «Nei disegni sono più gli spazi vuoti» commentò. «Disegni?» fece Delia. «La maniera più diretta di comunicare» osservò Abigail «anni fa, nel 1974, fu fatto un tentativo simbolico di inviare un messaggio verso altri mondi. Per celebrare un consistente ampliamento del radiotelescopio da 305 metri di Arecibo, un messaggio in codice di 1.679 bit fu trasmesso verso l’ammasso globulare M13, distante da noi circa 25.000 anni luce. La sequenza di 0 e 1 che costituiva il messaggio era una matrice 23 × 73 che conteneva alcuni dati sulla nostra posizione nel sistema solare, la figura stilizzata di un essere umano, formule chimiche e il contorno del radiotelescopio stesso. La matrice 23 × 73 fu scelta perché sia 23 che 73 sono numeri primi. Si presumeva che questo fatto avrebbe aiutato un ipotetico ascoltatore alieno a riconoscere la struttura a matrice.» Tutti la guardarono, sbalorditi. «Be’, cavolo» disse Frei ammirato «come sai queste cose? Credevo che ti interessasse solo analizzare la testa delle persone.» «Per lo più, è così» ammise la ragazza arrossendo «ma questa è la nostra storia. Quella del SETI. Ed è anche il modo in cui certi scienziati vedevano il possibile approccio verso altre civiltà. Che cosa ci fate quaggiù, se non sapete nemmeno questo?» “Siamo tutti a caccia di crediti” pensò Zed. Ma non lo disse. Evidentemente le più oneste, lì dentro, erano Abigail e Sesia. «Non ci resta che aspettare tutte le ottanta sequenze» disse Zed «se qualcuno di voi vuol fare qualcosa di utile, suggerisco di imbastire un programmino che porti su monitor la matrice 80×80 usando simboli diversi per lo zero, l’uno e il due. Agganciate il programmino ai segnali in
arrivo; meglio, a un file che si riempia coi segnali digitalizzati in sequenze di bit. Io preparo un foglio di calcolo con la conversione da matematica ternaria a decimale, e viceversa.» «Quel programma di grafica è mio» disse Frei. Si mise immediatamente a lavorarci su. Nessuno si sognò di eccepire. «Uhm» osservò Sesia, con un certo dispiacere «pare che qui il mio aiuto serva a poco. Sono dei segnali così semplici che serve ben poca elaborazione.» «Già» approvò Zed, avviando il foglio di calcolo «e pure ridondanti. Avrebbero potuto inviare informazioni in modo più efficiente. Ma forse è ragionevole sia così. L’importante è la chiarezza, le inutili complicazioni servono solo a rendere tutto più difficile. Scommetto che le nostre trasmissioni del ‘74 sono state più cervellotiche.» I dati stavano continuando ad arrivare, e accelerarono, anche; come se chi trasmetteva, supposto che ormai al centro tutto fosse stato predisposto per un’ottima ricezione, si sentisse ormai libero di risparmiar tempo abbreviando impulsi e pause. Sul monitor di Frei si formò rapidamente la matrice 80×80 del messaggio. Le trasmissioni cessarono per alcuni minuti. I ragazzi si raggrupparono intorno al computer di Frei, che si sentiva spintonato da tutte le direzioni. «Sembra che tu abbia indovinato, dopotutto, Zed» ammise Frei osservando lo schermo compiaciuto. «Che carino» osservò Abigail. «Un dannato test» disse Zed piattamente, alitando sulla spalla di Frei. «Uhm. Cosa te lo fa credere?» disse Sesia; Zed la guardò, ma la ragazza ostentò un’espressione indifferente. «D’accordo. Frei, facci una stampa della schermata, per favore» suggerì Zed. Frei accese la stampante vicino al suo computer e stampò diverse copie; quindi le distribuì ai presenti. «Così ognuno può stare al proprio posto» spiegò. Gli altri presero la propria copia e tornarono a sedersi. Si misero a scrutare le carte con attenzione…
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«Uhm» intervenne Sesia, sforzandosi di contenere l’eccitazione «interpretiamolo un po’. L’omino accanto alla Terra, il presunto alienuccio a fianco della Luna… segno che il messaggio lo manda lui, e sopra di lui… un pianeta che si distingue tra gli altri, in un sistema solare stilizzato. Il suo mondo di provenienza.» «Somiglia al messaggio che abbiamo inviato tanti anni fa, a bordo di una sonda» disse Abigail «c’era la Terra che spiccava in quel modo, e vicino la rappresentazione del nostro veicolo spaziale. C’era anche la doppia elica del DNA.» «Già. Che cavolata» osservò Frei «come se tutto l’universo vivente dovesse funzionare nella stessa maniera.» «Non solo» disse Abigail «fu inviato anche un disco inciso con i suoni della Terra, e musiche. Anche una canzone rock dei Rolling Stones.» «Di chi?» chiese Frei. «Un vecchio complesso rock. Canzone sguaiata e orribile.» «Altra cavolata» commentò Frei. «Uhm…» fece Sesia «Zed, ancora devi dirci cosa ti rende sicuro che questo sia un test.» «D’accordo» disse Zed; il ragazzo impugnò con forza il suo foglio e prese a scarabocchiavi sopra «prima di tutto, non è privo di un certo fascino e una certa congruenza, lo ammetto. Matematica ternaria. Accanto alla Luna e alla Terra ci sono i numeri che indicano qualcosa. Ho fatto qualche prova: sono i diametri equatoriali. Perché ce li hanno riportati? Due ragioni: una per identificare i due corpi celesti con certezza, l’altra per darci la loro unità di misura.» «Come sarebbe?» interloquì Delia. «Se avessero fornito solo il diametro della Terra, avrei ottenuto 164.000 circa, in decimale. Un numero che non mi dice granché. Ma con il diametro della Luna, che viene indicato come 44.600 circa, posso ricavarmi il loro rapporto, 3.68. L’esatto rapporto tra i diametri Terra Luna. Una buona conferma.» «Ma avrebbero potuto farne a meno, vero?» intervenne Abigail. «Voglio dire… è abbastanza evidente che si parla della Terra e della Luna. Siamo raffigurati noi e anche la trasmissione. Per darci la loro unità di misura bastava il diametro terrestre; 164.000 fratto 12.800, si ottengono i… chilotrimetri equivalenti a un chilometro. Circa… 13 chilotrimetri per ogni nostro chilometro.» «Sì» confermò Zed, guardando la ragazza per un lungo momento. Era più sveglia di quel che pensava «ma lascia che finisca, per favore.» Abigail fece una faccia contrita, ma si vedeva dal sorrisetto che non lo era
affatto. «La trasmissione… è raffigurata? Che vuoi dire?» chiese Delia. «La striscia verticale che unisce la Terra alla Luna» rispose distrattamente Zed «comunque, stavo dicendo… le distanze. Una volta noto il rapporto tra chilotrimetri - come li ha chiamati Abigail - e chilometri, possiamo calcolare la distanza della loro stella dal nostro sistema. È il numero ternario posto tra la raffigurazione del loro sole e la Luna. Ho fatto il conto. Sono 366 anni luce circa.» Zed fece una sosta, scribacchiando sul foglio. Sesia sorrideva. «Sei parecchio lanciato. Non ti fermerai adesso» disse. Zed ricambiò il sorriso. «D’accordo. Vedete quella specie di grande occhio nella parte superiore, con un sacco di… pupille, e due figurette in piccolo all’interno, in basso a destra? Sotto c’è un lungo numero in matematica ternaria. Equivale a 90.000 anni luce circa.» «Il diametro della Via Lattea. La nostra galassia» asserì Frei. «Giusto.» «E le due figure siamo sempre noi, rimpiccioliti, con i presunti extraterrestri. In posizione decentrata nella galassia, come in effetti sappiamo di essere.» «Giusto di nuovo.» «E le… pupille?» chiese Sesia. L’aveva capito benissimo, ma voleva che fosse Zed a dirlo. «Le altre civiltà intelligenti della galassia, presumo» ammise Zed «le semplici stelle sono rappresentate con un tondino, quelle dove alberga una civiltà con un quadratino pieno: l’intelligenza è più importante. Ho contato questi quadratini, sono 32. Un totale di 34 specie intelligenti, in prevalenza distribuite presso il centro della galassia, com’è logico che sia. Più stelle, più probabilità di vita.» «Bene» disse Delia, interrompendo l’improvviso silenzio «tutto coerente. Perché dovrebbe essere un falso?» Zed sbuffò. «Alieni che trasmettono dalla Luna? Con il loro mondo che dista centinaia di anni luce da qui? Prima vengono fino alla Luna coprendo il 99,99999% della distanza e più, e poi si fermano lì invece di scendere direttamente in mezzo a noi? Per dirci cosa, poi, che non siamo soli nell’universo? Bellissimo. Si sono incomodati parecchio, solo per questo! E non dimenticate che abbiamo cercato di contattare il professor Derris, ma non lo abbiamo trovato. O non si è fatto trovare, dico io. E questo black-out. Casuale? Non possiamo scambiare i dati con nessuno, dovremo gestire la
cosa da soli. È un test, datemi retta. E non mi sorprende affatto.» Delia si sporse verso di lui. «No?» chiese, stupita. «No. Potrebbe essere una sorta di compitino accademico, ma la mia idea preferita è un’altra; è un pezzo che il programma sta sull’orlo del precipizio. Ragioni economiche. In fondo serve a poco, da un punto di vista pratico, diciamocelo. Se poi si dimostrasse che noi altri non sappiamo neanche gestire la cosa… be’, i detrattori avrebbero una ragione in più per chiuderci i cancelli definitivamente.» Sesia fissava Zed con evidente acredine, rossa in volto; aveva detto cose sensate, il ragazzo, ma che non le piacevano affatto. Frei percepì l’umore di Sesia, che stava per intervenire con la ben nota acidità, e fece per anticiparla. Ma Zed non aveva ancora finito. «Rasoio di Occam» aggiunse «se due diverse spiegazioni giustificano un fenomeno, deve essere scelta quella più semplice. Cos’è più semplice, pensare a un messaggio alieno o a un test di qualche tipo?» Sesia bolliva, ma Frei non le permise di parlare. «Almeno adesso sappiamo che dobbiamo fare» esclamò Frei. «Che cosa?» chiese Delia. «Dobbiamo trattare il messaggio come autentico. Se lo è davvero, è ovvio che è la scelta giusta. Se invece è un test, è di nuovo la scelta giusta. Dobbiamo studiarcelo per bene, senza prenderlo sottogamba, mostrando le nostre capacità di analisi ed equilibrio. Niente “al lupo al lupo!” ma neanche menefreghismo.» Tutti approvarono, e questo zittì Sesia. Da quel momento avrebbero supposto che il messaggio fosse genuino, a meno che in seguito non fosse accaduto qualcosa che confutasse tale pensiero. Abigail guardò Zed con malcelata ammirazione. Stava davvero portando quei ragazzi nella direzione che voleva; prendere la trasmissione dannatamente sul serio. Lei e Zed si scambiarono un sorriso d’intesa. Zed si pentì un po’; la stava prendendo in giro. Ma gli altri erano in pace, Abigail gli si era accostata ancora, affascinata dai suoi modi e intenti. Scriveva sul taccuino a velocità frenetica; sbirciò anche la stampa del messaggio che Zed aveva in mano, piena di appunti scrivacchiati alla meno peggio…
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«È tutto quello che ci viene in mente, sul messaggio?» chiese Sesia, guardandosi attorno. Frei lo osservava sullo schermo, mentre Zed rifletteva: aveva una mentalità matematica, con tutto quel che comportava in termini di pregi e difetti. Abigail aveva voglia di aggiungere del suo, ma l’ostilità sottile con cui era considerata da tutti, a parte Zed, la indussero a stringere le labbra: sarebbe stato meglio rimanere una neutra osservatrice, e ci provò, ma qualcosa dentro di lei fece forza per uscire. «N-niente» cominciò «a parte che ci propongono una risposta.» La guardarono tutti. Frei lasciò le proprie faccende e per la prima volta fissò a lungo Abigail. «E come diavolo…» accennò. «Mentalità. Voi vedete logica e numeri, io intenzioni ed emozioni. Deformazione professionale, si potrebbe dire.» «E da dove ti viene questa fantastica deduzione?» disse Frei, che si era ripreso. «Vedete la linea che unisce verticalmente la Terra alla Luna? Rappresenta la trasmissione, ma è bidirezionale.» Come avevano fatto a non notarlo! Le linee, parallele, erano due. Una dalla Luna alla Terra, l’altra dalla Terra alla Luna, evidentemente. «Ma una risposta a cosa? Non c’è nessuna domanda, nel messaggio. O c’è?» chiese Delia. «No. Non una domanda vera e propria, forse» disse Sesia «forse vogliono solo sapere se siamo interessati.» Zed fece un versaccio. «Ma certo» disse acido «”siamo in tanti bravi ragazzi, quassù. Vi fa piacere parlare con noi?”» Sesia lo scrutò con sguardo mortalmente serio. «E c’è un’altra cosa» disse Abigail, fissando con preoccupazione Zed «è talmente ovvia che nessuno l’ha detta, ma le implicazioni…» Zed incrociò le braccia; stava cominciando a irritarlo, Abigail. «Sanno come siamo fatti» disse lei. Frei spalancò la bocca. Che idioti. Tutti avevano guardato l’omino sul disegno, nessuno aveva commentato la cosa. «Il che significa che sono davvero qui» concluse Sesia a denti stretti «e questo avvalora l’ipotesi di Abigail: comunicazione bidirezionale. Sarebbe impossibile se loro fossero ad anni luce di distanza.» Si fece silenzio nella stanza. Una certa emozione pervadeva tutti; anche se sapevano che era tutta una
messa in scena - doveva esserlo - la cosa si stava facendo fin troppo stuzzicante. Frei sorrise sul verde. «Un test dannatamente buono» commentò «non dobbiamo solo gestire il messaggio, ma possiamo anche rispondere.» «Non pensateci nemmeno!» ammonì Delia «è al di fuori di ogni protocollo del programma. Non ne abbiamo l’autorità, voglio dire…» «Delia ha ragione, naturalmente» osservò Zed «e poi, rispondere a cosa?» Il ragazzo sbirciò Sesia per vedere come avrebbe reagito al suo intervento, ma sorprendentemente la giovane lo fissava entusiasta. «Zed, sei un genio» asserì con solennità «ma certo. Non hanno ancora posto la domanda, o formulato la proposta, o… quello che è. Perché ci saranno altre trasmissioni.» La questione sollevò un ulteriore scambio di idee che durò un paio di minuti. Poi non vi fu il tempo per ulteriori considerazioni; dalla parabola nel piazzale, in lievissimo movimento, giunsero nuovi segnali. Il bip si fece frenetico. Sullo schermo di Frei, che con arguta previdenza aveva già tutto predisposto, si aprì una nuova finestra che iniziò a riempirsi di puntini, cerchietti e quadratini pieni. La trasmissione non durò che pochi minuti; i ragazzi rimasero a osservare il disegno che si formava poco a poco. Nessuno aveva voglia di commentare, tutti si limitarono ad aspettare che il messaggio si concludesse.
6. Lo schermo era colmo di simboli. La seconda trasmissione si era conclusa. I ragazzi guardavano in silenzio la sequenza di caratteri, il cui significato, almeno in parte, era evidente a tutti. Nessuno volle azzardare un giudizio, ma era evidente come la seconda parte del messaggio non fosse così incoraggiante. «Una minaccia bella e buona» esplose Frei. Stampò la videata nelle copie necessarie e le distribuì ai presenti. Zed fece subito dei calcoli e riportò i risultati sul suo foglio…
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«Tu che ne dici, Zed?» domandò Abigail. Il giovane la guardò con intensità per un attimo, poi crollò il capo. «Non ci sono che due numeri. Anzi, uno, ripetuto due volte.» Zed mostrò ad Abigail il proprio appunto «non che questo aggiunga qualcosa alla sostanza del messaggio.» «Una distanza di 183 anni luce. La metà della distanza tra la Terra e il pianeta di origine degli alieni» osservò la ragazza. «D’accordo» disse Delia «qualcuno vuole azzardare una spiegazione completa?» Tutti si guardarono roteando gli occhi, immobili. Zed si schiarì la voce. «Mi limiterò a constatare l’ovvio» annunciò freddamente. Non aveva intenzione di trarre conclusioni, solo avviare la discussione «guardate il vostro foglio. Dall’alto in basso. Prima di tutto, un’indicazione cronologica. Loro si sarebbero evoluti in un pianeta che pullulava di vita. I viventi sono i quadratini intorno al pianeta. All’inizio loro sono solo uno dei tanti quadratini. Da sinistra a destra, i quadratini diminuiscono: man mano che diventavano più forti e potenti, evolvendosi fin a ciò che sono oggi, distruggevano la vita sul pianeta, sinché non rimasero che poche specie. Sotto, abbiamo una situazione dinamica: noi e loro siamo sempre più vicini. Finché stiamo abbastanza lontani, tutto bene. Ma quando siamo troppo vicini, moriamo entrambi. Quelle figure a pallini a fianco dei due esseri molto vicini tra loro sono proprio quegli stessi due, ma in posizione sdraiata. Sono a pallini e non a quadratini pieni perché non sono altro che cadaveri. Sotto, c’è una specie di V con due quadratini pieni a fianco. Riproduce più in piccolo la figura di sopra, quella dell’omino e l’alienuccio che si avvicinano e muoiono. Ricordate l’altro disegno? Nella galassia gli altri popoli erano indicati con quadratini pieni. Be’, li ritroviamo qui. Significa che se anche due qualsiasi di questi popoli si avvicinano, finiscono entrambi defunti. Sotto ancora, la soluzione. In poche parole: stiamo lontani. La linea a tondini verticale indica separazione. Loro ci suggeriscono di limitare la nostra zona di influenza a metà della distanza tra i nostri soli. Sotto ancora, c’è l’indicazione di quanti altri popoli devono reciprocamente evitarsi. Sono 9. Evidentemente gli altri 23 non hanno questo problema.» Abigail rise e applaudì con gran lena. «Bravissimo, Zed. Una descrizione che non avrebbe potuto essere più esaustiva e al contempo così priva di informazioni utili a comprendere il vero scopo del messaggio.» «Lo scopo? Non è il mio campo» disse Zed asciutto «se vuoi dei dati te li do. Oltre non vado.»
Frei aspettò che Zed aggiungesse qualcosa, ma il giovane non ne aveva alcuna intenzione. «La tua opinione, Sesia?» disse infine Frei, scoraggiato. La ragazza si strinse nelle spalle. Non aveva proprio voglia di parlare. «Chi vogliamo prendere in giro?» disse Zed «la persona più adatta a esprimere opinioni è Abigail, in questo caso. Perché qualcuno non glielo chiede? O forse ho a che fare con un gruppo di marmocchi?» «Zed, che ti fa pensare…» cominciò Abigail. «Tu provaci» esortò Zed. «D’accordo» disse la ragazza, contemplando il disegno che aveva in mano. Si prese qualche secondo per riflettere, poi iniziò a parlare lentamente, improvvisando, con la fronte increspata da una ruga di tensione. «Il loro popolo si è evoluto così come hanno fatto gli umani, attraverso una lunga lotta per la sopravvivenza con le altre specie. Questo li ha reso pericolosi, aggressivi. Man mano che aumentavano le loro capacità divenendo lentamente quel che sono oggi, distruggevano la vita sul loro pianeta. Ma… notate l’ultima immagine in alto, quella con la figura aliena completa? I quadratini sono aumentati, rispetto all’immagine che la precede. Allo stesso tempo, si è definita meglio la testa dell’alienuccio. Non credo sia un caso. Significa: abbiamo fatto un casino sul nostro pianeta, perché così abbiamo imparato a fare in millenni di evoluzione. Ma poi abbiamo messo giudizio, in parte abbiamo rimediato. Tuttavia siamo sempre pericolosi. Se vi avvicinate a noi potremmo arrivare a distruggerci a vicenda. Vedete le figure a pallini sdraiate, l’omino e l’alienuccio? Sono morti, sì, e disposti testa contro testa. Significa un confronto fisico, si sono eliminati a vicenda. C’è un’altra cosa da notare. La morte coglie entrambi se gli uomini si avvicinano, ma non il contrario. Nel disegno è l’uomo che si avvicina, l’alienuccio resta fermo. Ma se accadesse l’opposto? Se fosse l’alieno ad andare dall’uomo, che accadrebbe? Il messaggio non lo dice esplicitamente.» «Vuoi dire, che in qualche altro modo lo dice?» chiese Zed. Abigail si carezzò i capelli, con un gesto inconsapevole. Era molto concentrata. «Vedete dove sta l’immagine dell’uomo e dell’alieno che si avvicinano? Tutta da un lato, l’altro lato è vuoto. Uno spreco di spazio, per una trasmissione così ricca di sostanza. L’immagine sotto, invece, è centrata. Sono gli altri esseri intelligenti; non si distingue chi incontra chi, quei 9 popoli come si incontrano si menano. Noi e loro, invece, non è detto. Se noi andiamo da loro, un macello. Forse hanno un’irrefrenabile istinto per la difesa del nido e ne sono consapevoli. Se loro vengono da noi, può
succedere di tutto: saremmo tutti noi insieme a scrivere sulla parte vuota del foglio. Credo che sia per questo che il primo messaggio mostrava una comunicazione bidirezionale. È questa la loro domanda: noi umani vogliamo la scelta prudente, quella della reciproca distanza, o vogliamo provare a scrivere sul lato in bianco?» Rimasero tutti in silenzio per un bel po’. Chissà perché, le parole di Abigail continuavano a risuonare nella testa dei ragazzi. Poi, gradualmente, ognuno si rianimò, immerso sempre nei propri pensieri. Frei fece alcune prove funzionali sul suo computer. Sesia verificò che tutti i dati fossero stati immagazzinati nelle memorie di massa. Delia lanciò una diagnostica dei sistemi di sua competenza. Zed si alzò per andare in cucina a prendersi da bere. Passando davanti ad Abigail le strizzò l’occhio. «Sei in gamba, Abigail» mormorò. Fu in quel momento che accadde qualcosa. Una nuova trasmissione, diversa dalle precedenti due: una sequenza di dodici bit, un silenzio di un paio di secondi, poi altri dodici bit. Per Zed fu elementare capire cosa fosse; se lo aspettava, persino. Gli altri si misero a berciare, ma lui era concentrato sui suoni. “Un conteggio alla rovescia in ternario”, pensò. Sorseggiò un bicchier d’acqua e tornò alla sua postazione.
7. «Sant’Iddio, sono veramente trasmissioni dalla Luna!» esclamò Sesia. Zed scuoteva la testa; ce ne voleva per convincerlo. «Senti, lo stiamo pensando tutti, anche se nessuno lo dice» riprese la ragazza «il messaggio è credibile.» Zed borbottò un commento irriferibile e incrociò le braccia. Avevano appena pranzato, se pochi crackers potevano dirsi pranzo, e vivevano il primo momento di quiete da quando avevano richiamato al centro gli altri ragazzi. Stavano seduti loro due da soli, nella stanzina dove aveva dormito Zed la notte precedente. Il ragazzo si era ritirato lì per starsene in santa pace per alcuni minuti, non era abituato alla cagnara del gruppo.
Si era salvato per non più di un quarto d’ora, poi si era fatta viva Sesia. La ragazza alzò una mano e dimenò il pollice. «Prima di tutto, la trasmissione viene secondo la direttrice Terra - Luna. Può anche essere un veicolo nell’atmosfera, ma i militari negano. Noi non lo rileviamo. Una messa in scena costosetta ed elaborata, non trovi?» Sesia protese l’indice verso il naso di Zed. «Secondo, è tutto molto… ragionevole. Persino la matematica ternaria. Di solito ci si aspetterebbe la binaria, è la più semplice e dovrebbe essere universale. Ma quell’esserino del disegno ha tre estremità, due arti a punta e una coda, o quel che è. Noi abbiamo dieci dita e usiamo matematica decimale.» «E no, per il primo punto non saprei, ma questo non te lo passo. Il disegno è troppo piccolo e stilizzato. Magari hanno… potrebbero avere venti tentacolini per braccio… l’omino non aveva neanche le mani.» Sesia non si lasciò scoraggiare. «Terzo» disse, e agitò il medio assai più a lungo del necessario «se questo è un test, non è molto difficile sapere qual è il comportamento giusto.» «Che sarebbe?» «Non fare nulla» sentenziò Sesia «non possiamo parlare con il nostro responsabile, siamo costretti a lavorare in autonomia. Non abbiamo altra scelta. Comunque, nel caso, dobbiamo anche decidere abbastanza in fretta; la Luna tramonta tra cinque ore e mezza, insieme al segnale. E non seguiranno altri messaggi.» Zed alzò gli occhi. «Così lo sai anche tu.» «Tutti lo sanno. Non è difficile. Ci arriva un count down, un contatore che si decrementa di uno ogni tre secondi circa. Otto bit ternari che partono da 22222222, cioè 6560 in decimale, di certo per arrivare a 00000000. Per un totale di circa 20000 secondi, cioè cinque ore e mezzo. Giusto il tempo per arrivare al tramonto della Luna. È il tempo che ci concedono per rispondere.» Gli occhi di Sesia brillavano di una luce inquietante. Aveva pronunciato le ultime parole con troppa enfasi. «Rispondere?» disse Zed cauto «la scelta giusta è non fare nulla, l’hai detto tu.» «Precisamente!» esclamò la ragazza «è per questo che è quella sbagliata!» Zed espirò con difficoltà. La logica femminile gli era sempre risultata ostica. Sesia increspò la fronte. «Zuccone. Ma non capisci che sarebbe un test troppo facile? Per questo non può essere un dannato test!»
«Per quanto facile, tu saresti sul punto di fallirlo» osservò pacatamente il giovane. «E va bene. E allora ti dirò che voglio rispondere, d’accordo? Cristo, c’è chi farebbe carte false per essere al nostro posto, in questo momento. Ho sempre desiderato esserci.» «Ci butteranno fuori. Quaggiù chiuderanno tutto a chiave o realizzeranno un magnifico canile. Per una scelta irrazionale e sbagliata.» «Se è sbagliata, chi se ne frega!» «Eh?» «Non hai mai fatto qualcosa perché dovevi farla, anche se non avrebbe mai potuto funzionare? È una cosa che devi a te stesso. Forse c’è una microspia di qualche saccente psicologo che ci osserva grattandosi la barba, o forse c’è una civiltà diversa che ci contatta per la prima volta e ti dice: “ehi, che si fa, decidi tu”.» Sesia tirò fuori la lingua e ripeté tutti gli osceni versacci che aveva visto fare a sua sorella più piccola. «Questo per lo psicologo, se c’è. E se c’è me ne frego. Ma se non c’è, ci pensi? Cos’è una figuraccia davanti alla prospettiva che abbiamo qui?» “La prospettiva di perdere tutti i miei crediti” pensò Zed. Ma non lo disse. «Di questo avete parlato di là, mentre non c’ero? Non vi si può lasciar soli cinque minuti. E scommetto che anche gli altri sono d’accordo. Buttiamoci a mare da soli.» «La metti sul drammatico.» «Senti. Se è un test, rispondere è un errore. Se è un messaggio vero, rispondere è un grosso errore. Ci sono solo dei ragazzini, di là!» «Be’, anche di qua» disse Sesia sorridendo. Zed non si lasciò distrarre. «Anch’io conosco qualcosa della nostra storia» affermò con sicurezza «so per esempio che quando mandarono quel messaggio nello spazio, ci fu molta gente che criticò la cosa, e a ragione. Dare le nostre coordinate, dire chi siamo… e se la razza che raccoglieva la sonda era ostile?» «Loro hanno già tutte queste informazioni.» «Quello che intendo dire è: cosa ti fa pensare che ci spetti questa responsabilità?» Sesia si alzò in piedi e andò alla finestra. Fuori c’era un vento fastidioso che disegnava riccioli di polvere sul terreno. La ragazza appoggiò una mano sui vetri, assunse un’aria seria e determinata. «Cosa ti fa credere che spetti a qualcuno, Zed? Non esiste persona pronta
per questo. È meglio uno scienziato, o una casalinga con la licenza elementare? Allo scienziato spetta studiare il messaggio, certo, ma nella casalinga può esserci quel calore necessario a produrre la risposta giusta. Vedo lo scienziato che fa il calcolo delle probabilità che la cosa vada male, le trova troppo elevate e svicola. Pufff, niente risposta, niente di niente, dopo tanti decenni di attesa. Vedo la casalinga che dice: non so cosa sei, ma sei il benvenuto, accomodati in cucina… ehi, attento, ho dato la cera. Sei bruttarello, con quelle antenne e i dentoni sporgenti, ma anch’io non sono granché… così grassa, le mani sformate dal lavoro… in fondo mi somigli.» Zed la guardò con stolida fissità. «Mi prendi in giro?» «Nient’affatto. Be’, un poco. Zed, là fuori forse ci sono davvero tante civiltà, e alcune si guardano in cagnesco. Non vorresti spingere l’uomo a dare un contributo a cambiare le cose? Serviremmo a qualcosa, con la nostra esperienza nel campo dell’ostilità. Magari ci farebbe anche bene. Sempre meglio che continuare a prenderci a male parole sulle strade all’ora di punta, non trovi?» Zed la stava osservando con evidente preoccupazione. «Smettila» disse Sesia ridendo «lo so cosa fai. Mi valuti, cerchi di capire se ho perso la testa o sono ancora la solita collega adorabile e capace. Smettila di ragionare, metti da parte la matematica e usa il cuore, per una volta. Lasciati andare.» La ragazza gli dette un pugno sulla spalla e uscì dalla stanza. Zed fece per alzarsi, ma poi sedette ancora, gli occhi socchiusi, pensando al calcolo delle probabilità; se avesse avuto abbastanza dati avrebbe potuto fare una valutazione dei rischi, nel caso il messaggio fosse autentico. Ma in assenza di tutte le informazioni funzionava meglio una mente come quella di Abigail. O di Sesia, forse. Zed prese il posto di Sesia alla finestra, inseguendo i moti imprevedibili e disarticolati delle sabbie. Lasciati andare. Certo. Aveva un bel dire, Sesia. Secondo la propria esperienza, invece, quello era il modo migliore per combinare disastri. Suo padre si era lasciato andare alla violenza per frustrazione e miseria; sua madre si era lasciata andare alle lusinghe di altri uomini ipertestosteronici. Suo fratello si era lasciato andare del tutto, dopo la loro separazione, percorrendo la china di abbandono e disperazione che l’aveva condotto a un inarrestabile nichilismo. Lasciarsi andare era l’ultima cosa da fare.
Per questo Zed aveva scelto la matematica: i numeri non mentivano, erano affidabili, asettici. Quantificavano. E quando una cosa l’avevi misurata la conoscevi, non potevi perderne il controllo. Zed lo sapeva: aveva perseguito il controllo su tutte le cose della sua vita, sempre. Questo aveva un po’ escluso le persone, che per lui erano pianeti vaganti dall’orbita volubile e irregolare. Ma non importava. Era la sua vita, era libero di scegliersela come credeva. Bastava a sé stesso. Lasciarsi andare. Che sciocchezza. Zed continuò a guardare là fuori, concentrandosi sui rabbuffi del vento con una smorfia amara e inconsapevole.
8. Frei entrò senza bussare, facendo sobbalzare Zed; il ragazzo era ancora alla finestra, cercando di valutare il da farsi. Era in minoranza, lo sapeva; eppure non ne capiva completamente il perché. «Zed, ancora qui? Datti una mossa, c’è Derris al telefono.» «Derris?» balbettò Zed, preso di sorpresa. Frei lo trascinò per una manica di là, davanti ad Abigail, che teneva la cornetta in mano. «Vuole parlare con te» sussurrò Abigail «ha chiamato lui. Vuole sapere perché i nostri computer non sono in rete.» «Il black-out…» mormorò Zed tra sé, prendendo la cornetta. «Non ne sa nulla» disse Sesia, accanto a lui. Zed alzò l’apparecchio. «Signore?» disse. «Zed!» disse un Derris alquanto irritato «che diavolo succede lì dentro? Perché continuano a chiamarmi per dirmi che i vostri computer sono morti?» «Mi spiace, signore» disse Zed con calma «ma qui abbiamo un black-out. Abbiamo provato a chiamarla, diverse volte, ma il suo cellulare non voleva saperne.» Dall’altra parte del filo vi fu un meditabondo silenzio. «Eh? Ah» fece Derris, in imbarazzo «mi spiace. È colpa mia. Due volte. Ho cambiato numero senza aggiornare la vostra agenda. E ho dimenticato di avvertirvi che c’è una dispersione verso terra da qualche parte,
nell’impianto elettrico del bagno. All’inizio era intermittente, ma andava peggiorando già da ieri. Se sezionate quella porzione di impianto, il resto riprende a funzionare.» Sesia aveva sentito tutto; sparì in cerca del quadro elettrico. Delia accese le luci della sala, anche se era giorno; tremolavano, non completamente accese. Il generatore d’emergenza aveva grossi limiti. D’improvviso le luci si accesero tutte riprendendo l’abituale fulgore. «Sesia ha sistemato» disse Delia. Spense di nuovo le luci. «Fatto, professore» esclamò Zed «ora è tutto a posto.» «Bravi. Mi scuso di nuovo, non so dove ho la testa. Come stanno andando le cose laggiù, Zed?» Tutti, che avevano seguito intenti la conversazione, fissarono il giovane con interesse. Zed capiva il perché; se c’era da informare qualcuno di ciò che stava succedendo, quello era il momento. Zed ciondolava la cornetta tra le mani. L’ipotesi di un test si era un poco affievolita. Il black-out era genuino, e Derris non era stato rintracciabile perché era un emerito scimunito, com’era universalmente risaputo. Non gli avrebbero dato la supervisione del progetto meno ambito dell’università, altrimenti. «Abbiamo ricevuto una trasmissione» disse inespressivo Zed. Sesia batté forte una mano sul tavolo, in preda a un evidente disappunto. «La stiamo analizzando» aggiunse Zed «il solito falso allarme domenicale, immagino.» Sesia spalancò gli occhi. «Continuate così» concluse Derris «adesso il mio numero l’avete. Vi spiace riportarlo sull’agenda, per favore? Buon lavoro.» Il professore e Zed agganciarono contemporaneamente. «Ah!» urlò Sesia con entusiasmo. «Non farti prendere da certe idee» disse cupamente Zed «della trasmissione gliel’ho detto. Ma sono un zuccone. Non è colpa mia se ci metto più tempo del necessario a decrittarla.» «E adesso che si fa?» fece Delia. «Si risponde» disse Frei «o no?» «O no» asserì Zed «almeno non ancora. Ora che siamo in rete, voglio fare un controllo.» Il ragazzo si mise al computer e si collegò al sito della Nasa. Gli altri lo attorniarono osservando lo schermo in silenzio. Scorse i database delle vecchie missioni, con i dettagli delle operazioni, i test effettuati sul satellite e i luoghi visitati. Roba abbastanza vecchia. Zed ripescò l’immagine della Luna, con l’indicazione dell’ipotetico punto
della superficie da cui sembrava provenire il messaggio. «Ecco» disse Zed «proprio qui, all’origine del segnale, in una delle ultime missioni gli astronauti hanno lasciato un riflettore multifaccia. È una specie di parabola, realizzata con materiali antipolvere. Ne avevano lasciate altre, prima di quella. Erano state usate per misurare con esattezza la distanza Terra - Luna. Un raggio laser trasmesso dalla Terra, il rimbalzo sul riflettore e il ritorno a Terra. Misurando il tempo intercorso e conoscendo la velocità della luce… spazio uguale a velocità per tempo. Un esperimento abbastanza inutile. Avevi ragione, Sesia, la trasmissione viene dalla Luna.» Sesia non appariva per niente contenta. «Già» disse «ma parte da un qualche punto della Terra, no? Addio alla tesi aliena.» «Davvero?» fece Zed, guardingo «non lo so. Chiunque sia, è molto più in gamba di qualsiasi scienziato di cui sappia. Hai idea di cosa significhi convogliare un raggio strettissimo sulla nostra parabola dopo un balzo e un rimbalzo di 380.000 chilometri, senza sbavature, tenendo conto del moto di rivoluzione lunare? Colpire il punto esatto del riflettore, per dare il giusto angolo. Il punto esatto.» «Come ci sei arrivato? Al riflettore, intendo» chiese Frei. Zed si strinse nelle spalle. «Quando Abigail ci ha detto della doppia linea che unisce Terra e Luna, nel primo messaggio… lei ha suggerito che una linea indicasse la trasmissione dalla Luna, e l’altra un invito a trasmettere la nostra risposta verso la Luna. Già. Ma loro hanno platealmente espresso questo invito con il conteggio alla rovescia, perché ribadire in modo tanto sottile? E poi, come avremmo dovuto rispondere? Non abbiamo laser, qui, o attrezzature in grado di trasmettere con la necessaria potenza. Siamo ridotti all’osso. Possiamo trasmettere quelle tre frequenze, o altre tre, se ci comoda, purché realizziamo un circuito con tre oscillatori elementari interfacciati al computer. Ma la nostra trasmissione sarebbe debole, omnidirezionale, rilevabile solo da strumenti buoni e nei paraggi. Questi qui conoscono bene le nostre possibilità e vi si sono adattati. Adesso saranno in ascolto nell’intera banda trasmissibile. Qui vicino.» «Vicino?» fece Frei, spaventato. «I due raggi nel disegno sono paralleli. Forse non a caso. Punti di partenza e di arrivo adiacenti.» Sesia incrociò le braccia e lo guardò sorniona. «Eh no, per quel che hai detto prima non saprei, ma questo non te lo passo. Il disegno è troppo piccolo e stilizzato. Magari hanno… potrebbero
essere a migliaia di chilometri di distanza, data l’esiguità della scala.» Zed rise. «D’accordo. Un punto per te. Ma non sono a chilometri di distanza. Riguardiamo il disegno del secondo messaggio. Vedete in alto, come sono indicati i viventi? Sono quadratini immersi nei tondini. Uno strato massiccio di tondini, rispetto alle dimensioni del corpo roccioso del pianeta, dove si muovono tutti gli esseri. Per me i tondini non rappresentano semplicemente l’atmosfera. Quello è un mondo coperto dagli oceani. I nostri interlocutori sono creature acquatiche, probabilmente.» «E quale posto migliore del nostro mare?» dedusse Sesia. «Sì. È verosimile. Siamo vicini alla costa, e il mare è già profondo a poche centinaia di metri dalla riva. Un posto ottimo per nascondersi. Sulla terraferma c’è troppa gente, rischierebbero di farsi scoprire prima del tempo.» «Insomma, sono qui» disse Frei. «Ammesso che esistano» puntualizzò Zed. «Oh, andiamo!» fece Sesia. «Uno scherzo del genere sarebbe troppo, certo, ma l’idea del test non è del tutto esclusa» disse Zed. «Un po’ di sano scetticismo non ha mai fatto male, se non impedisce l’azione» sentenziò Frei. «E l’azione sarebbe…» «Inviare una risposta.» «Ne ero più che certo» fece Zed «che tipo di risposta avete in mente? “Venite a trovarci che vi troverete bene!” Qualcosa del genere?» «Uh, no» mormorò Abigail «venite a trovarci. Punto.» «Lo sai che non basta» osservò Zed. «Perché non dovrebbe bastare?» chiese Delia. Abigail si volse verso di lei. «Zed ha ragione. Dobbiamo far loro capire che abbiamo compreso i rischi dell’incontro, come loro hanno tentato di spiegare nel secondo messaggio. E che siamo disposti a correrli. Deve essere un invito consapevole. Altrimenti non verranno.» Iniziò una fervida discussione, in cui prevaleva a tratti l’una o l’altra proposta; Zed si disinteressò presto della cosa è cominciò a fare giochi al computer. Sesia lo teneva d’occhio, ogni tanto gli lanciava uno sguardo fulminante. Dopo un po’ anche lei si estraniò dalla contesa, che assunse toni anche aspri.
Zed ogni tanto alzava la testa, seguiva qualche discorso e poi si assentava di nuovo; Sesia si avvicinò al suo orecchio. «Scommetto che lo sai, come fare» bisbigliò la ragazza «la casalinga grassa, con le mani sformate dal lavoro, sa cosa vuole, ma non sa come ottenerlo. Prendi i suoi sentimenti e impacchettali per lei.» Zed scosse la testa e continuò con le sue faccende. «No. Vedo un solo modo, secondo logica. Non vi piacerebbe, soprattutto a Frei.» «Cos’è, che non mi piacerebbe?» saltò su Frei, che sentendo il suo nome divenne più consapevole anche delle altre parole pronunciate da Zed. «Hai l’orecchio buono, tu» constatò Sesia ridacchiando. «Iperacusia. Dono di famiglia» ammise Frei «in compenso non ho mai potuto frequentare discoteche, il rumore mi avrebbe fatto impazzire. Allora, cos’è che non mi piace?» «Chiedilo a Zed. A me non vuol dirlo.» Frei si volse al compagno. «D’accordo» disse Zed di malavoglia «avete considerato come sia… riservato, questo messaggio?» «Cosa intendi, con riservato?» domandò Sesia. «È rivolto a noi, non all’intera umanità. Questi esseri avrebbero potuto introdursi in tutte le frequenze, comunicare al mondo. Invece fanno come farebbe una specie estremamente lontana dalla Terra. Trasmissione a un centro di ricerca. E pure scalcinato. Perché?» Abigail si illuminò. «Vogliono una reazione personale. Se contattassero l’intera razza umana, questa dovrebbe essere molto prudente, il rischio potrebbe riguardare la distruzione totale della propria specie. Così, invece, ci chiedono un minor senso di responsabilità. Rischiamo solo del nostro. Non ci chiedono scelte a nome dell’umanità. Qui non è l’uomo che rischia la pelle, solo noi. Ci stanno rendendo le cose più facili.» «Sì» disse Zed «credo anche che se avessi inviato i dati in rete se ne sarebbero accorti e avrebbero rinunciato. Troppo pericoloso affrontare il mondo intero. Per tutti quanti. Vogliono solo fare un cauto passetto. Ma l’intenzione è buona, credo.» Sesia gli sorrise apertamente. «Alla fine ci credi» gli disse. Zed storse la bocca, infastidito. «Prendo la cosa in seria considerazione.» «Ci credi» ripeté Sesia. «Dopo la telefonata di Derris e quel riflettore lunare… sì, è l’ipotesi
numero uno, secondo logica.» Era quanto di più vicino all’assenso Zed fosse disposto a concedere, Sesia lo capiva benissimo. «E, sempre secondo logica» insisté Sesia «quale dovrebbe essere il nostro, di passetto?» «Il verbo dovere è fuori luogo. Qui è questione di volere. Volete rispondere? D’accordo. Fatelo secondo le loro regole. Prendete in mano il foglio del secondo messaggio e dite quello che sentite secondo il loro modo di esprimersi. Vedrete che c’è un solo modo per elaborare un invito.» «Stai facendo il misterioso da un po’. Perché non ce lo dici tu, il modo?» chiese Delia. «Non voglio questa responsabilità. Se lo dico e vi adeguate, poi sarà mia la colpa di quel che succederà dopo. Provate, che vi costa. È facile.» «Non dirà altro, è ovvio» disse Sesia con convinzione «facciamo come dice lui, prendiamo quelle stampe.» Ubbidirono tutti e sedettero ciascuno al proprio posto. Riguardarono le figure della seconda sequenza: prima, il pianeta degli alieni che si spopola mentre loro acquisiscono potere, poi la nascita di una coscienza che li spinge a prendersi più cura del loro mondo. Quindi l’omino che si avvicina ed entrambi gli esseri sdraiati, morti. Infine il suggerimento di stare lontani, ognuno nella propria porzione di galassia, soli ma al sicuro. «Be’, credo che se ammettessimo anche noi le nostre colpe verso la Terra e la sua biosfera, male non farebbe» disse Sesia. «Già» fece Abigail «una sequenza come la loro, e quando l’omino è perfettamente formato, col capo sulle spalle, un ritorno della vita, com’è realmente successo.» «Direi che è andata» apprezzò Frei «passiamo all’omino che si avvicina all’alieno, e finiscono morti entrambi. Immagino dovremmo dire che non succederà così.» «Proponiamo l’avvicinamento dell’alienuccio all’omino, ma senza cadaveri» disse Delia «che ci mettiamo, un omino e un alienuccio affiancati? Magari, per mano?» «Sssì» disse Abigail, incerta «romantico. Ma dov’è la nostra accettazione consapevole del rischio? Dobbiamo mostrare che comprendiamo il pericolo e che siamo disposti a correrlo. Che siamo decisi affinché i nostri ospiti non subiscano alcun male. Non è l’invito di un allegro imbecille che vuole fare ciao ciao. La cosa è importante, diamo loro un valore. Abbiamo paura, ma anche il coraggio di fare le cose come si deve. Li difenderemo anche da noi stessi, anche da sé stessi.»
«Che vorrebbe dire, questo?» chiese Frei. «Che siamo pronti anche a morire, pur di non far loro del male» disse Delia. La guardarono tutti. Frei spalancò gli occhi, raccapricciato. Zed rise. «Te l’avevo detto che non ti sarebbe piaciuto» disse.
9. Iniziò una discussione interminabile e confusa. Frei insisteva che non occorreva arrivare a tanto, che non c’era davvero il rischio di far cadaveri; ma Sesia lo rimbeccava di continuo, per la sua tronfia ignoranza, così tipica dell’uomo innanzi al diverso. La storia umana era costellata di eventi del genere, pur rimanendo nella stretta cerchia dell’orizzonte terrestre. Fioccarono paternali e schiamazzi da ogni lato. Il tempo passava. Il conto alla rovescia divorava i minuti senza che ancora si fosse arrivati a granché. Alla fine Frei sorprese tutti i presenti e mise una mano sulla spalla di Zed. «Mi avete convinto, ragazzi» disse «il rischio c’è. Credo che mi schiererò dalla parte del nostro amico Zed.» «Che sarebbe…» fece Sesia. «Quella di chi ci tiene alla pelle. Non rispondiamo al messaggio.» Zed afferrò quella mano che gli pesava sulla clavicola e l’appoggiò sul tavolo; per poco Frei non cadde. «Ti sbagli, Frei» mormorò Zed «tu non sei con me, perché io non sono con te. Io voglio inviare una risposta.» Tacquero tutti. Zed diteggiò sul suo computer, accompagnato dal silenzio altrui; il ragazzo si guardò intorno, poi si allontanò dallo schermo appoggiando le spalle allo schienale della sedia. Frei era a bocca aperta. «C’hai ripensato. Voglio sapere perché» disse. «È semplice» rispose Zed «siete in quattro a voler trasmettere. Una grande maggioranza. Forse avete ragione voi, non pretendo che le mie siano le idee giuste.» «Una piccola maggioranza» puntualizzò Frei «ho cambiato idea, rammenti?»
«Solo per paura. Non per una prudenza ragionata. È pura fifa.» «Ehi!» si risentì Frei. «Lascia perdere. È la verità» fece Sesia sbuffando «e tu Zed, questa balla della maggioranza te la puoi tenere. Non sei un conformista, hai una grande opinione di te e pensi di avere ragione finché qualcuno non ti dimostra il contrario.» Risero tutti, anche Zed. «Va bene» ammise il ragazzo «ho ripensato con calma all’intera faccenda, e ho una convinzione e un paio di incertezze. La convinzione, che è anche ovvia: sono interessati a noi, sono qui. Desiderano che rispondiamo; non è una cosa del tipo: “dimmi qualcosa, altrimenti… chi se ne frega”. Sono qui. Dopo miliardi di chilometri di viaggio. Dà un’idea di quanto ci tengano, no? E sono pronti a tornarsene a casa buoni buoni, se non rispondiamo. Piuttosto… retti, direi. Le incertezze: una è… matematica, diciamo, e la terrò per me, al momento; l’altra è questa storia del rischio. Voi dite che siamo consapevoli ma vogliamo incontrarci comunque, e bla bla bla… bravissimi. Ma siamo consapevoli davvero? Secondo logica, dove mai sarà tutto questo rischio? Due razze intelligenti si incontrano, sanno della difficoltà di comunicare; con un po’ di pazienza, la si può risolvere. Ma un incontro pacifico, anche senza dirsi nulla, sarebbe già un successo. Una roba facile, diremmo.» «Mi sfugge il punto» disse Delia. «Il punto è che il messaggio ricevuto dice che non è così facile» intervenne Abigail «ricordi? Se noi andiamo da loro, morti entrambi. Però, Zed, non mi pare così misterioso. Avevo suggerito la teoria della difesa del nido quasi patologica…» Zed sventolò le mani, come a dissipare l’ipotesi della ragazza. «Forse, Abigail. Ma gli altri nove popoli della galassia? Nove su trentadue che non possono incontrarsi sennò ci scappa il morto? Una percentuale notevole.» Abigail rimase in silenzio, dubbiosa. «Non vedo dove porti questo discorso» considerò Frei. «Neanch’io» ammise Zed «però non posso fare a meno di pensarci. Tutto mi dice che un problema c’è, e non ho intenzione di lasciarvi da soli ad affrontarlo, soprattutto se Frei si tira indietro. A meno che rinsaviate e lasciamo perdere tutti quanti.» Le ragazze fissarono i due ragazzi con la tipica, irragionevole e incontrastabile cocciutaggine femminile. Zed sorrise. «Lo sapevo. Quindi, sono con voi.» «Anacronisticamente galante. Forse leggermente offensivo» fece Delia.
«Sono fregato, allora» disse Frei, con filosofia «se ci sta Zed devo starci anch’io.» «Non necessariamente» osservò Sesia «puoi prendere l’auto e tornartene a casa, nessuno te ne vorrà.» «E lasciarvi da sole davanti a… questo?» mugugnò Frei. «Due veri cavalieri. Siamo fortunate» scherzò Abigail. I ragazzi si schiarirono la gola. «Ehm» fece Frei «torniamo al messaggio, piuttosto. L’abbiamo concordato, mi sembra: l’evoluzione dell’uomo che prende coscienza, l’incontro in cui almeno loro non muoiono.» «Per star dietro alla struttura del messaggio» aggiunse Sesia «anche se è ingenuo, da parte mia, vorrei esprime il desiderio che anche gli altri popoli, tutti, possano incontrarsi senza barriere.» «Tombola!» esclamò inaspettatamente Zed. Si voltarono tutti. Il giovane mandò in stampa un file del suo computer e distribuì le copie ai compagni… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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«Porca miseria.» osservò Frei. «L’avevo detto che non era difficile» disse Zed «abbiamo pensato esattamente la stessa cosa.» I ragazzi contemplarono il lavoro di Zed; non era al computer per fare giochi, allora. Mentre discutevano, aveva messo su file il disegno del messaggio che, secondo lui, e secondo loro dopo, avrebbero potuto inviare come risposta. «Punto per punto» disse Sesia soddisfatta. Si guardarono tutti, contenti. Sapevano cosa trasmettere, finalmente.
10. Un computer, il forno a microonde di cucina, un cellulare e un vetusto distributore di merendine dismesso giacevano sbudellati sul pavimento, in un angolo della stanza in cima alla torre del centro. Frei e Delia avevano cannibalizzato tutti i componenti elettronici utili allo scopo, li stavano assemblando su una piastra millefori lavorando di saldatore e pinzette. Zed stava digitalizzando il messaggio, definendo la sequenza di segnali che l’avrebbero codificato. Sesia lavorava quasi in parallelo a Zed: non appena il ragazzo aveva concluso una stringa di bit, Abigail la dettava a Sesia che la inseriva in un file finale, dal quale il software di trasmissione avrebbe provveduto a pescare i dati per l’invio all’interfaccia. L’interfaccia era connessa al computer di Sesia, ed era ciò su cui stava lavorando Frei. Questa doveva prendere la sequenza di coppie di bit trasmesse in simultanea dal computer per comandare o meno la trasmissione di un segnale analogico, selezionandolo tra i tre possibili. A ogni combinazione dei due bit corrispondeva un’azione: 00 non trasmettere, 01 trasmetti frequenza bassa, 10 trasmetti frequenza media, 11 trasmetti frequenza alta. L’interfaccia poteva così attivare il canale analogico per il tempo stabilito. Scelto il canale, questo e solo questo doveva produrre una serie di onde monocromatiche, poi amplificate dallo stadio finale e trasmesse tramite un’antenna improvvisata. Delia, impegnata nel dispositivo terminale, si affannava a cercare nello spicinìo di schede elettroniche che aveva innanzi i componenti passivi che avrebbero sintetizzato le tre frequenze degli alieni. Era come un gioco a incastro, lungo e frustrante. Avevano discusso parecchio sulla necessità o meno di inviare lo stesso
tipo di segnale che avevano ricevuto. Anche se Zed non lo riteneva necessario, gli altri pensarono fosse importante riuscire a produrre le stesse frequenze; non era detto che Zed avesse sempre ragione. La qual cosa, con riluttanza, era stata ammessa dallo stesso Zed. Lavorarono a lungo e in silenzio. Quando ebbero finito testarono il sistema. Non appena accesero l’amplificatore analogico si sparse nell’aria la puzza di componente bruciato. Delia tolse l’alimentazione e arrossì da capo a piedi. «Scusate, colpa mia» disse. Buttò l’elemento accartocciato e ne prese un altro uguale. Frei la aiutò a saldarlo e poi riaccesero. «Fate dei test con gli oscilloscopi, a bassa potenza» suggerì Zed «tanto Sesia sta ancora lavorando sui file di prova.» Sesia stava completando tre file di prova, ognuno contenente le stesse sequenze di bit. Con ognuno si sarebbe trasmessa una sequenza a lunghezza d’onda fissa; era anche un modo per dire a chi fosse in ascolto: “ehi, tieniti pronto a ricevere questi segnali, perché finite le prove faremo sul serio”. Ci vollero alcuni minuti, ma lavorando insieme alla fine le cose parvero funzionare. «Prova di test a bassa frequenza» disse Sesia. «Bene. Seguo i segnali sull’oscilloscopio» disse Frei. «Attivo una parabola là sotto» fece Delia, lavorando alacremente alla sua consolle «vediamo se trasmettiamo davvero, la parabola dovrebbe ricevere i nostri segnali.» Si guardarono tutti. Sesia premette Invio sulla propria tastiera. Sul monitor di Delia arrivarono i pacchetti previsti, 6400, ovvero 80x80, la dimensione della matrice quadrata dei dati con cui gli alieni avevano comunicato le loro informazioni. Nella sala ci fu uno scoppio di giubilo. «Se li abbiamo ricevuti noi, l’hanno fatto anche loro» constatò Frei, ancora applaudendo. «Andiamo avanti» disse Abigail. Fu trasmessa la seconda sequenza a lunghezza d’onda intermedia, e poi la terza, a maggior energia. Delia analizzò la qualità dei pacchetti ricevuti e si dimostrò soddisfatta. Erano segnali deboli, ma non troppo, specialmente per chi sapeva cosa cercare e aveva strumenti buoni per farlo. Avevano concluso le schermaglie, adesso toccava al vero messaggio.
«Ripensamenti?» chiese Sesia, col dito su Invio. Con quel piccolo atto avrebbero trasmesso il disegno di Zed. «Be’…» accennò Frei; ma si vedeva che scherzava. Il dito calò sul tasto. La parabola ripeté fedelmente il messaggio completo sul monitor di Delia.
11. «Immagino non ci resti che aspettare» disse Sesia, sbocconcellando l’ultimo biscotto della dispensa. «Già» fece Zed. «Nel frattempo? Non sono un patito delle attese» disse Frei. I tre erano in cucina, avevano tentato un’incursione in ogni stipetto del locale, sperando di aver dimenticato qualcosa di commestibile dalle ultime visite che, uno alla volta, i ragazzi avevano effettuato più o meno di soppiatto. Lo stomaco di Frei rumoreggiò. «Anche il mio stomaco è d’accordo» aggiunse il giovane. «Come sei prosaico. Sembra che tu non ti renda conto di cosa sta per accadere» disse Sesia sorridendo. «Il fatto che non mi senta sdilinquito nell’animo non significa che non sappia stimare la portata della cosa. Le altre due, piuttosto.» Sesia lo fissò, stupita. «Chi, Delia e Abigail?» chiese. «Diamine, Frei. Sei ingiusto» lo rimproverò Zed «Abigail ha avuto un bel po’ di buone idee, qui. Un complemento essenziale per noi tecnici.» «Delia, allora» insisté Frei «è una sempliciotta. Un meccanico.» «Cristo, Frei, ma come ragioni?» obiettò Sesia «sei proprio un fisico teorico, tu. Le specialità che hanno vagamente a che fare con la manualità sono spazzatura.» «Per me non sa neanche di essere qui» mormorò Frei. Sesia rise, suo malgrado. «Non è vero» aggiunse rapidamente «è solo che non si fa prendere dalla strizza, come qualcuno di mia conoscenza.» «Tzè!» esplose Frei, infastidito «comunque, è anche possibile che non accada nulla.» Sesia lo osservò per capire se diceva sul serio.
«Che non vengano, dici?» «Certo. Magari si accontentano di saperci interessati. O magari adorano i nostri oceani, il loro è troppo inquinato e puzza… che ne so; sono qui perché hanno semplicemente traslocato, considerano la nostra presenza un male necessario e valutano se farci fuori o no.» Sesia annaspò a bocca spalancata. «Lo pensi davvero?» «Ovviamente no» interloquì Zed «è un’ipotesi illogica. Non ci avrebbero contattato. È che sentirsi dare del codardo da una ragazza è troppo per noi maschietti.» «Va bene, va bene. Chiedo scusa» disse Sesia chiudendo il discorso. Abigail entrò in cucina, quasi colpendo Zed con la porta. «Non dovrebbe succedere qualcosa?» osservò, guardando gli altri tre «abbiamo trasmesso da mezz’ora.» Anche lei era nervosa. «Il tempo di venire qui, forse» disse Zed «senza che tutto il resto del pianeta lo sappia. Devono oltrepassare la linea costiera piena di bagnanti.» «Delia che dice?» chiese Frei. «Niente» rispose Abigail «è lì tranquilla a controllare i suoi strumenti. Non so come faccia.» Frei guardò Sesia e Zed con espressione eloquente. Zed gli dette una spinta lieve di bacino. Abigail si morse un labbro. I suoi occhi registravano con attenzione il comportamento dei ragazzi; era un’occasione unica per studiare le dinamiche del gruppo. Avrebbe voluto avere con sé carta e penna, ma si era dimenticata il taccuino sul tavolo. Era la terza volta che le succedeva, avrebbe dovuto cominciare a viaggiare con gli appunti infilati nella gonna. «Non dovremmo… prepararci?» chiese dopo un attimo. «Vorrei tanto sapere come» considerò Zed «la sola cosa a cui riesco a pensare è una massiccia dose di tranquillanti.» «Fantastico» disse divertita Sesia «il primo contatto tra umani drogati e alieni. Forse anche loro si sono fatti, non credete?» «Forse» rimuginò Frei «ma in realtà non abbiamo bisogno di ausili chimici. Dopo l’esame di algebra superiore sono pronto a tutte le esperienze.» Si zittirono tutti; per un attimo era sembrato che qualcuno li chiamasse. Dovevano essersi sbagliati. Frei riprese a cianciare, ma stavolta fu interrotto da un richiamo ben udibile. «…ehi, ragazzi…»
La voce era quella di Delia. Con calma tornarono ai loro posti. «Il tempo peggiora» disse la ragazza. Forse anche lei aveva voglia di conversare. «Non dovrebbe» disse Sesia gentilmente «ho visto le previsioni: sole pieno.» Ma Delia aveva ragione; una vasta area là fuori era in ombra, coperta da un’improvvisa coltre di nubi invisibili, là in alto. «Meglio, se piove» disse Zed. Ma sì, che parlassero pure del tempo, avrebbe allentato la tensione. «Un po’ d’acqua metterebbe un freno a questa dannata sabbia. S’infila dappertutto.» «Non credo che pioverà» disse serafica Delia «non ho mai visto delle nubi a punta.» Guardarono tutti dove indicava la ragazza. Ai margini della vasta zona in ombra, il profilo del fronte nuvoloso si stagliava contro il suolo. Un profilo ispido e irregolare, con aggetti e slanci anomali di penombre acuminate. Gli occhi di tutti cercarono nel cielo, ma le nuvole dovevano essere quasi allo zenit e per quanto la torre fosse piena di finestre il tetto impediva di guardare all’insù. Zed impallidì visibilmente. «Sono arrivati» disse. «Su una nuvola» lo schernì Frei. «Non ci sono nuvole. È qualcos’altro.» «La loro nave, allora» disse Frei quasi balbettando, e ciononostante con una punta di ironia; gli sembrava di vivere uno dei peggiori classici della fantascienza. «Non ci sono navi» disse Zed «non c’è niente sopra di noi. Sono dietro alla torre, coprono la luce del sole.» Il sole stava calando, era quasi la fine del pomeriggio; c’erano ancora un paio d’ore di luce. «Un’automobilona» fece Frei, incapace di mantenersi serio per l’agitazione. «Smetti di fare l’imbecille» ordinò Sesia «se sono dietro alla torre… è il lato verso il mare. Dovrei vederli dal bagno.» La finestra del bagno dava proprio a ovest. Sesia si diresse a passo deciso verso la porta; lei li avrebbe visti per primi. «No, aspetta Sesia…» disse Zed con una nota di urgenza. «Aspetto col cavolo. È una vita…» «Sesia, devo dirti una cosa…» insistette Zed.
Ma la ragazza era già andata. Gli altri sentirono muoversi le tapparelle che in quell’ora del giorno tenevano sempre giù per impedire al caldo di entrare. I quattro rimasero a guardarsi, aspettando la reazione di Sesia. Attesero qualche minuto, poi si avvicinarono alla porta del bagno. Zed bussò con prudenza. «Sesia?» fece Abigail. Nessuna risposta. Appoggiarono le orecchie all’uscio chiuso. Si sentiva un rumore umidiccio e cavernoso. «Che succede, lì dentro?» chiese Delia a voce alta. «Sta vomitando» constatò Abigail. Si guardarono di nuovo. «Sesia, accidenti, tutto bene?» disse Zed, quasi urlando. Stava quasi per aprire la porta quando la maniglia si mosse e una Sesia stravolta uscì barcollando; Abigail fece per entrare nel bagno, ma Sesia le sbarrò il passo, chiuse la porta a due mandate e si mise la chiave in tasca. Zed la prese per mano e la portò alla consolle più vicina; la ragazza si lasciò guidare docilmente, fissando Zed come se non lo riconoscesse. Erano tutti intorno a lei. «Calmati» disse Delia, ponendole le mani sulle spalle. Sesia le afferrò i polsi con forza. «Armi» mormorò «ne abbiamo… bisogno.» «Sesia…» cominciò Zed. «No!» gridò Sesia, la voce irriconoscibile «armi! L’esercito… dobbiamo colpire, prima che lo facciano loro!» La ragazza vomitò di nuovo, ma ormai aveva svuotato lo stomaco. Un rivolo acido denso come colla le colò dalle labbra e si acciambellò sull’impiantito. Frei era diventato cereo; con un gesto improvviso infilò la mano nella tasca di Sesia e ne estrasse la chiave. Zed gli si mise davanti. «Aspetta» disse il giovane «non è questo il modo di affrontare la cosa.» Frei lo ignorò e corse verso il bagno; la tensione gli fece rigare tutta la porta, prima che riuscisse a infilare la toppa. Il ragazzo spalancò la porta e corse alla finestra. Un urlo acutissimo, quasi femminile, rimbalzò nelle pareti della stanza, poi nulla. Rimasero tutti immobili per alcuni secondi, poi Zed si diresse lentamente verso il bagno. «Zed» fece Abigail.
«Non preoccuparti» disse Zed «voglio solo aiutare Frei. Guarderò con mezz’occhio.» Zed entrò e richiuse la porta dietro di sé. Trascorsero tre minuti di angoscia, poi la porta del bagno si aprì e ne uscì uno Zed pallido e tremante. «Appena uno sguardo…» balbettò «uno sguardo solo…» Il giovane si strascicò per la stanza e andò a sedersi accanto a Sesia. L’amica lo guardò, riscuotendosi leggermente; gli affibbiò un’occhiata di compatimento, incapace di parlare. «Come… sta Frei?» chiese Abigail, incerta. La porta del bagno era aperta, laggiù, ma era un richiamo cui lei non avrebbe risposto. Zed sollevò la testa; stava reagendo, lentamente. «Svenuto. L’ho lasciato lì.» «E tu, come stai?» «Come… un idiota.» «Cosa c’è, la fuori?» Inaspettatamente Zed sorrise. «Il dubbio di cui non vi ho parlato» rispose. «Parlacene adesso» invitò Delia. «Parlare, sì. Parlare… mi distrae» disse Zed. «Appunto. Forza Zed» incitò Abigail. Zed chinò il capo cercando di riprendersi. «Il dubbio… matematico. Quando ho ricavato la loro unità di misura. Ho calcolato l’equivalente di un chilometro in chilotrimetri, o come diavolo li abbiamo chiamati. Non era la conversione corretta, però. Mi sono lasciato fuorviare dalle parole di Abigail.» Zed si stava riavendo; sollevò il capo, si stropicciò gli occhi, mise tutta la sua concentrazione in quel che stava dicendo. La cosa là fuori… doveva dimenticarla, al momento. «L’unità di lunghezza che ci si confà è il metro, non trovi? Voglio dire, perché il metro è lungo quanto è lungo? Perché è più o meno delle nostre stesse dimensioni; un neonato è lungo mezzo metro, un adulto quasi due. E se invece vogliamo usare il piede, il pollice, le braccia… sempre misure di una parte del nostro corpo. Così, anche loro avranno usato il proprio metro, come unità, non un suo multiplo. I nostri mille metri non equivalgono ai 13 chilotrimetri, come avevo detto, ma a 13 trimetri. Rigirando il discorso, il trimetro equivale a circa 77 metri terrestri.» Avevano capito. «Grossi» sussurrò Abigail, come se potessero sentirla.
«Sì.» «Non solo» indovinò Abigail. «Diversi» disse raucamente Zed «era questo, il pericolo. Ora lo so. Troppo alieni. Non riesco neanche a dar loro una forma. Tutto in loro grida anormalità. È terribile. Eppure ho guardato appena. Una parte di me è scossa dall’orrore. Comprendo Sesia. È difficile pensare a loro come a esseri benevoli. Eppure dobbiamo.» Sesia aveva ascoltato attentamente Zed; il colore le stava tornando sulle guance. «Zed… ha ragione» mormorò, mentre grosse lacrime le scorrevano sulle guance «secondo ragione, sono amici. Dobbiamo incontrarli, li abbiamo invitati noi. Ma io, semplicemente, non posso. Ho aspettato tanto, e ora non posso. Non potrei stare peggio.» La ragazza crollò il capo sul petto; sentiva di aver fallito il sogno di una vita. Zed non disse nulla, ma capiva; Abigail e Delia guardarono i due poveretti con inquietudine, poi si scambiarono uno sguardo d’intesa. «Lasciate che provi io» disse Delia con decisione «Abigail, meglio se rimani con loro. Ci serve una che mantenga il controllo, se anche io faccio come Frei. Il che non è escluso.» Abigail annuì; Delia avanzò verso il bagno, seguita dallo sguardo degli altri. Zed avrebbe voluto fermarla, ma comprendeva che era necessario tentare. Delia entrò nella stanzina e chiuse la porta dietro di sé. Non si sentì alcun suono per alcuni minuti, poi la porta si riaprì; Delia apparve sulla soglia con una postura rigida e una smorfia sul volto che non era un sorriso. La ragazza camminò con passo impettito verso la sedia più vicina e si lasciò cadere, appoggiando le spalle sullo schienale. Fece per dire qualcosa, ma ci ripensò. Aveva la fronte aggrondata. «Bruttini» disse alla fine, con voce ferma. Come se il parlarne avesse sciolto un nodo, riprese a sorridere serenamente. «Li ho guardati molto, molto bene. Bruttini. Ma anch’io non sono granché. I ragazzi non mi hanno mai apprezzata molto.» Gli altri scoppiarono in una risata liberatoria. «Be’» disse Zed, risollevato «sembra che il nostro campione sia Delia. Te la senti di andare da loro?» Delia si strinse nelle spalle. «Certo. Che devo dire, o fare?» chiese la ragazza, con una punta d’ansia. «Proprio niente» disse Zed «non sei tenuta a fare niente. Stai solo calma.
Con quello che sappiamo ora, un incontro amichevole è già un enorme successo.» Delia assentì, sollevata. All’improvviso si sentì uno squillo forte e familiare: il campanello d’ingresso. Scoppiarono tutti a ridere, tanto appariva paradossale: alieni che ti vengono a trovare e suonano il campanello. Roba da matti. Delia si lisciò lentamente l’abito, a lungo, come fosse una cosa importante, poi si diresse alle scale e scese silenziosamente fino a piano terra. Zed, Sesia e Abigail rimasero da soli; dall’esterno non si udiva alcun suono, tranne il fischio discontinuo del vento. Il sole cominciava a calare; la calura del giorno scemava. Nessuno pensò di muoversi, lì nel centro, tranne Frei; il ragazzo si stava riprendendo. Pasticciò rumorosamente nel bagno, batté un paio di sonore craniate qua e là e uscì dalla stanzetta a occhi chiusi, avanzando come uno zombie. Poi richiuse bene la porta dietro di sé e raggiunse una sedia vicino ad Abigail. Solo allora si concesse un’alzata di palpebre. Nessuno disse nulla, ma Frei capì comunque: Delia mancava. Trascorse un altro quarto d’ora, poi sentirono sbattere il portone d’ingresso del centro. L’ombra scura là fuori si attenuò e poi sparì, lasciando il colore dorato e uniforme della sera. Uno scalpiccio sulle scale e Delia fu con loro. Aveva un sorriso incredibile. Tutti si alzarono per abbracciarla. Il primo fu Frei.
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