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Bi
Book
E-book in due lingue
Traduzioni IBRIDE
Oltre che in versione a stampa, questo romanzo è disponibile anche in versione ebook BILINGUA, ossia in DUE lingue nello stesso ebook. I BiBook potranno contenere, oltre alla versione italiana originale, la versione tradotta in modalità IBRIDA, in attesa di correzione, oppure la versione tradotta definitiva.
Le traduzioni IBRIDE sono realizzate con traduttori automatici altamente professionali, ma pur sempre “automatici”. Ciò significa che le Ibride sono traduzioni che necessitano di una “sistemata”.
Chiunque conosca bene la lingua straniera di riferimento può proporsi come editor per la correzione della versione Ibrida: la versione definitiva così ottenuta verrà sostituita a quella ibrida e l’editor potrà guadagnare la sua quota sulle vendite dell’ebook. Maggiori info su ZEd Lab. Le traduzioni Ibride consentono l’intervento di editing anche a coloro che non conoscono la lingua originale in cui è stato scritto il romanzo, quindi per proporsi come editor non è necessario essere “traduttori”, ma solo conoscere molto bene la lingua proposta nell’ebook in versione ibrida.
Traduzioni DEFINITIVE
Nel momento in cui si rende disponibile una traduzione in versione definitiva, ossia un’ibrida sottoposta a editing, questa viene sostituita alla versione ibrida nell’ebook, che conterrà quindi la versione in lingua originale e la versione tradotta, definitiva.
Il prezzo dell’ebook sarà sempre e comunque pari a quello della sola versione in lingua originale.
AUDIOLIBRI
Tutti gli ebook ZEd Lab sono anche realizzati in versione AUDIO, alcuni con voce umana, altri con sintetizzatore vocale (soprattutto le versioni tradotte).
Gli audiolibri realizzati con sintetizzatore vocale sono proposti gratuitamente per tutti, mentre quelli con voce umana sono offerti in omaggio con l’ebook, scaricabili dall’ultima pagina. Non è disponibile la versione audio delle traduzioni ibride. Accedi all’archivio audio gratuito
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GIAMPIETRO STOCCO
DOLLY
www.0111edizioni.com
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DOLLY Copyright Š 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-466-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Novembre 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
Inspiral Carpets, This is how it feels, Mute Records, 1990 (p.35) Britney Spears, My Prerogative, Jive Records, 2004 (p.105) Jamelia, Superstar, Parlophone, 2004 (p.112) Eamon, Fuck, Jive Records, 2003 (pp.112-114) Siouxsie and the Banshees, Cascade. Polydor Records, 1982 (p.115) Abba, The winner takes it all, Epic Records, 1980 (pp.130-144)
Forse non ti sarebbe piaciuto, ma di sicuro avresti accolto la dedicacol tuo sorriso ironico. Addio a te, per quarant’anni mio padre lieve.
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Zitta, non fiatare, non deve accorgersi che vivi ancora, che quel maledetto foulard ti stringe troppo sugli occhi e ti ha fatto venire l’emicrania del secolo. E del resto, adesso, cosa te ne frega? Immagini come flash abbagliano la tua memoria. Tu in auto diretta al lavoro, come tutti i giorni la mano destra sul volante, la sinistra a penzolare fuori del finestrino. Ma chi cazzo è ‘sto deficiente che ti taglia la strada? Una mano decorata da un massiccio anello d’oro spunta e appoggia il lampeggiante sul tetto della macchina, un’Alfa 156 grigia metallizzata. Infine la portiera si apre. Un tipo in giacca si estrae fuori dall’abitacolo. È alto, rasato a zero e porta un ridicolo pizzetto. Viene a piedi verso di te. Allampanato e sgraziato, una vera penolla scivertâ, come direbbe tua nonna. “Un marabù, ecco a cosa assomiglia.” Ma chi è? Cazzo, ma è lui. Allora è della polizia. Ma che hai fatto? Andavi troppo forte? Miracolosamente, la Sopraelevata si decongestiona sulla corsia di destra, dove lui ti ha fatto fermare, mentre a sinistra sfilano lente le auto dei curiosi. Ti accendi una sigaretta. Chinandosi cerimonioso come un trampoliere, lui si affaccia al tuo finestrino. Un volto impersonale, pressoché glabro, a parte quella assurda barbetta. Occhi piccoli, neri e freddi. Si volta in continuazione a destra e a sinistra. I ricordi si fanno sempre più precisi, man mano che i flashback si incastrano l’uno sull’altro come in un montaggio cinematografico. Ed eccoti recitare per te stessa e per la tua sanità mentale. «Chi è lei?» «La signorina Luciana Orengo?» Una voce bassa, con in fondo una nota melodiosa. Quasi un sussurro, eppure perfettamente udibile sopra il frastuono urbano. Lo vedi arricciare il naso al fumo della siga, e infine riesci a balbettare. «Co…cosa vuole da me?» «Deve seguirmi in Questura. Adesso.» «Ma come sarebbe? Senta, sono giorni che mi sta dietro. Poteva dirmelo subito. Io non mi muovo di qui.» Ti fissi le dita che tamburellano sul volante. Sei abbarbicata allo sterzo come a un amante ritroso. Cadesse il mondo, non lascerai quell’abitacolo.
8 Lui sospira, alza lo sguardo al cielo. Poi il primo colpo, un manrovescio tanto violento quanto discreto, il bruciore che ti esplode sul volto cambia del tutto la tua prospettiva. Adesso sei fuori del tuo corpo, una spettatrice terrorizzata che valuta l’ampiezza dell’arco che la tua testa compie in seguito all’impatto, finendo per sbattere dolorosamente contro il finestrino opposto. La sigaretta vola via, chissà dove. Sei talmente esterrefatta da non riuscire a capire se lo stordimento sia effetto della sorpresa o dell’improvvisa violenza. Ti vedi, tramortita sui sedili, e vedi lui tirarti fuori di peso dalla tua macchina gridando “Sta male, sta male!”. È forte; ti trascina, imbambolata e dolente, dentro a quella maledetta Alfa 156. Lì fuori nessuno, ma proprio nessuno, ha fatto una piega. Un malore sulla Sopraelevata intasata dal traffico, succede alle volte nei giorni appiccicosi di maccaia. Finito lo spettacolo, i curiosi accelerano di nuovo, andandosene per la loro strada. Solo che non è stata la polizia a prelevarti. Te ne accorgi quando, di nuovo dentro al tuo corpo, ti risvegli da un sonno comatoso. «Ehi, dico, ma… cazzo, mi hai spaccato il labbro!» Sciak. Un nuovo colpo. Un altro manrovescio in pieno viso. Dato con indifferenza, ma con tutta la forza, usando malevolmente la massa e gli spigoli dell’anello. Dopo il labbro, ti spacca anche la pelle delicata dello zigomo sinistro. Odi appena, stavolta, l’Alfa accostare. “Deve avere abbandonato la Sopraelevata” pensi istupidita dalle botte. Lui parla di nuovo. Con una mano da orco regge il volante, e con l’altra ti artiglia il braccio sinistro. Te lo circonda completamente con le lunghe dita. «Fai silenzio» intima, sempre sussurrando e sottolineando l’ordine con un pugno cattivo, sferrato nelle costole con la nocca del medio sporgente, per far male. Ti senti gridare, di dolore e di protesta. Non riesci proprio a capire come puoi essere finita in un incubo simile. E c’è altro, a ben vedere, che è assolutamente incomprensibile. «Ma p… perché? Perché io?» ti senti infine farfugliare, mentre il sangue ti cola sul viso e sul colletto della camicia. Lui molla il tuo braccio per pulirti le guance con un kleenex. Ha un’aria curiosamente assorta, come se si stesse prendendo cura di una cosa. «Perché? Non siete tutte uguali?» sussurra infine, rimettendo entrambe le mani sul volante. Come fa a sapere che non tenterai di fuggire? Lo sente, forse, lo capisce in qualche contorta maniera belluina - perché di una belva deve trattarsi - che, stordita come sei, non ci hai nemmeno pensato a scappare, nell’assurda speranza che ti stia portando dove l’equivoco sarà senz’altro chiarito?
9 Finalmente, dopo forse mezz’ora, vi fermate. Lui ti trascina come un sacco di stracci verso un capannone industriale basso e di colore bianco e giallo. Appena il tempo di distinguerne le forme tozze e squadrate, poi lui ti lega, e ti cala sugli occhi quel maledetto foulard. Pochi, affrettati passi, una porta che si apre con fragore metallico, e sei scagliata in avanti come fossi un fuscello. Ti senti impattare con la spalla e una mano contro una superficie di cemento dura e irregolare. L’attesa è cominciata, e con l’attesa cominci a sentire con chiarezza ogni dolore. Quanto tempo? Due ore? Mezza giornata? In realtà ti sembra di averci passato una vita su quel pavimento umido e scabro quando, improvvisamente, senti che la porta si sta riaprendo.
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Alza gli occhi lentamente verso l’immagine riflessa nello specchio. “No. Nonono. Non così. Adesso, sguardo di nuovo in basso, e uno-e due-e tre-e quattro.” Pian piano, il ciuffo di capelli sulla fronte si apre come un sipario e scopre lineamenti resi duri dalla concentrazione. È davvero questa la sua faccia? “No. Ho mosso gli occhi, cazzo. Che cazzo mi guardo a fare? Daccapo. E uno-e due-e tre-e quattro.” Così. Ora viene il difficile. Con un movimento lento e controllato solleva il bilama blu all’altezza della guancia destra. Il mosaico di cicatrici sulla faccia lo proclama: per un malato di DOC, radersi può essere un esercizio estenuante. “Già. Vallo a dire al mio analista.” Comincia a respirare con ritmo più rilassato. “Calma, adesso.” Com’è che gli hanno insegnato? Ah, sì. Bisogna dare del tu al mostro. “Buongiorno, mister DOC. Signor Disturbo Ossessivo Compulsivo, com’è che funzioni? Già. La paura.” Paura che succeda qualcosa di brutto. Di tanto brutto da non poter essere sopportato. Di così brutto da esorcizzare con formule magiche. O con litanie. “Su la testa, giù la testa. Rasoio parallelo alla guancia, attenti, e… cazzo. Lo sapevo, cazzo.” La piccola fitta di dolore arriva puntuale. In un unico movimento fluido della mano sinistra, appoggia il batuffolo di cotone che teneva già pronto e imbevuto d’alcool sopra l’ennesimo taglio che si è procurato. “O che mi sono voluto procurare?” Negli ultimi tempi gli capita sempre più di frequente. La mano e il polso destri si irrigidiscono fino a tremare. Insorgono contro la ripetizione del rito. Ma non può evitarlo. Oppure sì? Ha letto una volta che l’autolesionismo va di pari passo con le compulsioni ossessive. Che serve sia per cercare di interrompere il circolo vizioso, sia per punire se stessi. Si guarda ancora allo specchio. La sua vita è fatta di cazzate che gli scivolano lungo il cervello come questo filo di sangue lungo la guancia. “Basta, ho deciso. Mi compro un rasoio elettrico.”
11 Ma poi, se non usa la lametta, cosa succederà? Cazzo, cosa c’è di così brutto che sta cercando di evitare? Continua a scrutarsi la faccia e si concede una misurata insurrezione interiore. Perché succede proprio a lui? Per quanto si sforzi, non riesce a spiegarselo. Cinque anni di DOC conclamato e adesso è solo in questo tugurio al secondo piano, alle Grazie. Giulia, lei se n’è andata un anno prima, schiantata dal peso delle sue paure. Paura di ammalarsi, paura che lei lo lasciasse, da ultimo perfino paura di uscire in strada. Troppa paranoia per una solida trentenne americana. La sua mente concreta ha valutato a fondo le due alternative: o lui o la sopravvivenza, e non ha avuto incertezze. Se lei non c’è più, di cosa ha paura allora, chiede di nuovo alla faccia pallida che lo guarda dallo specchio. Di tutto, gli rimanda ottuso e implacabile il volto striato di sangue e cicatrici. E di nuovo, come ogni giorno, monta l’altra fissazione: vedere l’immagine riflessa squagliarsi in un impasto casuale di peli e carne. Sciocca carne indifferente, estranea allo spirito ferito che la tormenta. Carne che, tuttavia, vive di una sua bizzarra, odiosa autonomia. Coi polpastrelli, cauto, saggia la consistenza di questo volto. È l’inizio di quel rito mattutino che poi diventa un frenetico sfregarsi. Consistenza di gomma ed escrescenze rugose, crosticine di sangue e pori dilatati. L’alienazione è parte del disturbo, non dice così l’analista? Avverte intanto l’abituale nodo salire alla gola. Che senso ha vivere così? “Che prigione è, questa che mi sono scelto?” Un sospiro, un altro sguardo allo specchio, a trovare occhi stanchi e apatici. E se si stesse immaginando tutto, compresa la malattia e tutta questa vita? Se tutto fosse un incubo? Una congiura ai suoi danni? Il trillo del telefono risuona come un gong. Per qualche istante è libero. Si precipita in sala, plana sul divano liso e afferra la cornetta. «Pronto?» «Esposito?» «Dottesio.» «Sei ancora in grado di intendere e di volere, allora. Ascolta…» «Giorgio, vieni al sodo, perché stamattina io, proprio…» «Va bene, Luca. Devi essere in via Fillak tra venti minuti, il capo non sente ragioni.» «Ma…» «Niente ma. Ne abbiamo trovata un’altra.» Click. Di nuovo il silenzio, nel buio ovattato del salotto, appena due fili di luce, dal bagno e attraverso le gelosie chiuse. “Uno, due, tre quattro, cinque, sei, sette… sei più uno, sessantuno, il mio anno di nascita.” Con estrema lentezza Luca riaggancia il ricevitore. Al sette il microfono ripo-
12 sa sulla forcella. Esposito sente umido sulla faccia e con il dorso della mano spazza via due lacrime.
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È già mezzogiorno, ma il cielo è cupo come all’imbrunire. È una di quelle giornate di settembre in cui su Genova sembra appeso il diluvio universale. Nuvole nere avvolgono i monti in spire malevole, titanici serpenti scuri si avviluppano intorno alle colline, pronti a strangolarle. L’acqua che minaccia, ma non si decide a venire giù. In lontananza, il ponte autostradale più che fare da sfondo incombe sulla scena del delitto. I due piloni ricordano le minacciose corna di un colossale demone alieno. E a Luca, via Fillak sembra davvero un altro mondo. Normalmente deserto, il triste stradone che fu operaio e che attraversa il quartiere di Certosa ora rigurgita di gente. Attirati dalle auto e dai lampeggianti della polizia, i pochi passanti si sono coagulati in un capannello che si arricchisce a ogni istante di curiosi. L’orgogliosa dignità proletaria trasformata in bovina morbosità borghese. Luca sorride. Anni prima, da queste parti, avresti incontrato solo operai col berretto tirato indietro e i polmoni marci. Adesso, quando si vede passare qualcuno, si tratta sempre di gente anonima che si affretta verso casa e la soapopera preferita. Sull’identità di quel quartiere il tempo si è divertito a far cadere un diluvio di melassa. Impossibile districarsi per capire cosa sia diventato. “O forse” pensa Esposito “non è poi così difficile.” Basta distrarsi dalla massa e guardare i volti. Volti su cui il desiderio di conoscere i dettagli di una storia eccitante fa a pugni con l’abulia di una vita di routine: auto acquistate a rate, canali satellitari porno. Facce su cui si legge la brama di spiare le forme della donna nuda che hanno trovato morta… facce di gente comune. Anonime e… Gommose. Scacciando il pensiero fisso, Luca si fa largo tra borbottii tanto risentiti quanto incomprensibili, rigurgiti d’aglio puro e zaffate alcoliche, afrori di spezie senegalesi e bicchieri di mate, fino ad affacciarsi all’area di rispetto creata dai colleghi intorno al corpo riverso sul marciapiede. A ridosso di questa si agitano una decina tra operatori televisivi e giornalisti isterici. Questi ultimi brandiscono i microfoni come fossero le spade laser di Guerre Stellari. Ignorandoli, Luca avanza. Tre lunghi passi che ai più sembrarono sicuri e spavaldi, ma che in realtà servono solo a mettere ciascun piede su una diversa lastra di cemento. Alla fine Luca solleva il nastro bianco e rosso.
14 «È la terza in tre settimane» lo aggiorna Dottesio senza voltarsi, lo sguardo fisso sul cadavere «ormai ne ammazza una ogni sette giorni precisi.» Scuote la massiccia testa come un pupazzo a molla. «Stesso modo di procedere?» chiede Luca, affascinato dal movimento ritmico. «Maledettamente uguale. Chiama da una cabina pubblica e poi molla il corpo nelle vicinanze» senza smettere di fissare il cadavere, Dottesio indica il vicino incrocio «scordati le impronte.» «E lei com’è, stavolta?» «Guarda tu stesso.» Luca si avvicina. “Carina, la ragazza.” Del resto, non lo erano tutte? Come le altre, completamente nuda, e completamente depilata. Il corpo giace come se stesse prendendo il sole, una gamba appena piegata di lato, l’altra distesa a terra. La postura rilassata contrasta con i segni di una violenza che appare risalire a qualche giorno prima. Il volto è ancora tumefatto, labbra e uno zigomo spaccati, lividi sulle costole in via di guarigione, il colore marrone tendente ormai al verdastro. Gli occhi, anche i suoi, innaturalmente azzurri, aperti e girati verso i due poliziotti, rimandano l’ultimo sguardo, di odio e disperazione insieme. Oppure lo sguardo vitreo di una bambola rotta? Dipende da come la si osserva. «Come l’ha uccisa?» chiede Luca con un filo di voce. «Soffocata. Con un sacchetto di plastica. Questo.» La mano inguantata di lattice, Dottesio porge l’oggetto. Luca lo studia per un attimo, poi torna a fissare il collega. «E?» insiste schiarendosi la voce. «Sì, ha lavato anche lei» annuisce Dottesio. A dispetto della bassa statura, i lineamenti marcati e la faccia lunga lo fanno assomigliare assurdamente a un cavallo. Un pony, placido e paziente. «L’ha pulita con scrupolo, usando quasi di sicuro una pietra pomice. Secondo la scientifica ha strofinato ogni singolo lembo di pelle. Ha anche usato della crema per ammorbidire le croste delle vecchie ferite. L’ha truccata, vedi? Sono sicuro che sotto allo strato di fondotinta troveremo le petecchie da soffocamento. Eccole, guarda, sono lì, vedi? Visibili negli occhi, nonostante le lenti.» «Anche lei, dunque?» chiede Luca. Guarda quelle lenti colorate. «Ormai è la sua firma» risponde Dottesio «ma la cosa più malata è che il bastardo l’ha completamente depilata. Ricorrendo a una ceretta, probabilmente. Il corpo è liscio come il sedere di un neonato.» Sempre più simile a un cavallo costernato, Dottesio scuote la testa. Luca si
15 gira. Il cadavere reclama ancora la sua attenzione. Quegli occhi, un muto rimprovero a chi non è riuscito a salvarle la vita. Si sorprende a sovrapporre a quel volto di morta un’altra faccia. “Giulia… nonono.” Cede alla sua schiavitù e comincia a contare, sulla punta delle dita delle mani e muovendo quelle dei piedi. “Settesettesette. Sessantuno il numero magico. Sei più uno. Quali sono i multipli di sette? Sette volte sette, quarantanove, sìsìsì. Arrivo all’anulare della mano sinistra. Il dito dell’anello. E Giulia è salva.” Luca sogghigna. Dunque l’ossessione segue fedele le origini etniche e sociali. Un meridionale malato di DOC non può evitare di infilarci dentro il matrimonio. O la sua è solo superstizione? Sempre terronate sono, si ripete. Torna a chiedersi come mai ancora gli interessi la sorte di Giulia. Dottesio interrompe il suo rimuginare. «Esposito!» nitrisce il pony «che cosa stai facendo?» «Niente. Sgranchisco le mani. Fa freddo qui» risponde Luca diminuendo l’ampiezza dei movimenti delle dita. «Ma di che freddo parli?» il collega lo studia sospettoso «stai prendendo le tue medicine, vero?» «Tutte e due.» Luca sorride amaro e si fruga in tasca, sente al tatto il familiare profilo dei blister di Zoloft e Xanax. Sillaba sottovoce i nomi dei due prodotti, e ride tra sé del loro suono. È come invocare degli alieni. Già. Gli alieni che, con alterne fortune, si occupano del mostro che gli condiziona la vita. «Lo sai che al capo non piacciono i drogati, Esposito» puntualizza sottovoce Dottesio, per non farsi sentire dai colleghi della Scientifica. Sono tutti presi dall’esame del cadavere, ma non per questo meno interessati ai pettegolezzi. «Quand’è che ti decidi a tornare al centro di igiene mentale?» insiste il pony, premuroso «e poi, è più venuto nessuno per aiutarti con le faccende di casa?» Dottesio agita generico una mano. Per lui, felicemente sposato da trent’anni e con due figli grandi, l’unica ossessione è arrivare a fine mese con lo stipendio. Tuttavia, rispetto ai problemi di Luca, non manca di un assurdo tatto, anche se gli sono assolutamente incomprensibili. Forse è per questo che a volte gliene parla con cura, come fossero oggetti fragili. Altre volte, come in questo caso, Dottesio ha la delicatezza di un mastodonte. «Lo farò, Giorgio, dai. Non parliamone adesso.» Luca si sforza di non gridare, ma la voce esce comunque strozzata e quasi tremante. «Va bene, ma tu sembri sempre più uno zombi!» si preoccupa Dottesio «e quei giochini con le mani, tipo prestigiatore? Cazzo, amico, sei proprio fuo-
16 ri.» Improvvisamente dal gruppo degli agenti della scientifica si stacca una figura snella in abiti borghesi. Una donna piccola e bruna, che indossa un leggero giubbetto di pelle. La brevilinea sagoma risplende d’energia nel continuo succedersi di sole estivo e fitta ombra proiettata dalle nuvole temporalesche. «Chi è quella? Non l’ho mai vista prima» bofonchia Luca strizzando gli occhi. «Quella lì? Si chiama Raffaella Pastorino, è una nuova» Dottesio sospira «ha lavorato col RIS. È arrivata quando tu eri ancora in malattia. Occhio, è una scassacazzi. Secondo lei siamo tutti un branco di incompetenti.» «Vedremo» taglia corto Luca con un gesto della mano, sollevando l’altra a rispondere al saluto della Pastorino che si sta avvicinando a lunghi passi elastici.
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Il vento comincia a spirare a libeccio e i capelli turbinano davanti al volto della donna. Luca sente odore di pioggia imminente e si stringe nelle spalle, rabbrividendo per l’umidità e la vicinanza fisica dell’estranea. «Tu sei Luca Esposito, vero? Non abbiamo ancora avuto modo di presentarci. Sono Raffaella Pastorino.» Il donnino tende di scatto una mano piccola e asciutta. La stretta è sorprendentemente forte. «Parlavamo di te giusto adesso col viceispettore Dottesio» risponde Luca con un mezzo sorriso. Si immerge per qualche istante in iridi nere come l’inferno, poi si tuffa in una scollatura che tradisce rotondità rassicuranti, lattee e levigate. Il contrasto lo turba. «Posso immaginare!» esclama la donna con un filo d’ironia «sembra che io debba imparare ancora molto dalla polizia genovese, neh?» Dottesio sbuffa apertamente. «Da come parli, direi che questa città non ti sia così estranea.» Luca incrocia le braccia sul petto, studiando il gioco dei capelli sul volto della Pastorino, mentre lei lotta contro il vento per fissarsi un paio di ciocche dietro alle orecchie. «È vero, sono nata a Genova e ci ho vissuto fino a diciotto anni. Poi mi sono laureata a Bologna. Medicina. E nel frattempo mi sono arruolata in polizia» si sfrega il naso, da sotto in su «ho collaborato un paio d’anni coi carabinieri…» «…il RIS, lo so» fa Luca portandosi due dita al viso. La Pastorino lo fissa. Lui si accorge subito che gli occhi della donna si spostano con interesse dall’uno all’altro dei piccoli cerotti che gli costellano il volto. «Stai bene, adesso?» chiede la donna inclinando la testa da un lato «quando sono tornata a Genova, eri in malattia.» «Sì, grazie, adesso sono a posto» taglia corto Luca «e ora vogliamo parlare di quello che hai riscontrato sul corpo?» «Venite con me, allora.» Sbuffando, Raffaella Pastorino rinuncia infine ad aggiustarsi i capelli. Si acconcia una coda di cavallo corvina e se la infila nell’apertura posteriore di un
18 berrettino nero da carabiniere cavato dalla tasca dei jeans. Ne incurva con un gesto esperto la piatta visiera e, precedendo di qualche passo gli altri due poliziotti, raggiunge di nuovo la scena del delitto. Luca si trova suo malgrado a fissarle il sedere, piccolo e rotondo, fasciato strettamente dal denim. Giunta vicino al cadavere, la Pastorino si accuccia con un movimento elastico che esalta ancora di più le sue forme. «Eccola qui. Uguale a tutte le altre, a prima vista.» «Come sarebbe, a prima vista?» brontola Dottesio, gli occhi per un attimo al cielo dall’esasperazione. «Perché di lei sappiamo molto di più che delle altre.» «Cosa sappiamo, Pastorino?» Luca stringe le mani dietro alla schiena, e comincia a contare sulle dita, appoggiandosi alternativamente su una gamba e sull’altra. Quella donna innervosisce anche lui. «È una prostituta albanese.» Raffaella Pastorino si gira soddisfatta verso i suoi interlocutori. Un sorriso le accende il volto per qualche secondo, poi, come se avesse capito che l’atteso applauso non arriverà, le torna in faccia l’espressione concentrata di prima. «Ce lo dice - lo vedete? - quel tatuaggio sull’interno della caviglia destra…» Esposito si china con un gesto lungo e cerimonioso. In realtà sta cercando di fissarsi la punta delle scarpe e nient’altro, pena la ripetizione del gesto. Si sforza di rimanere lucido. «MC54» legge sulla carne della morta, un tratto inciso in maniera sommaria, come si fa in carcere «abbiamo qualche idea su questa cosa?» «Oh, sì» risponde la Pastorino con un nuovo, smagliante sorriso. Ha denti inverosimilmente bianchi, come quelli delle modelle ricostruite in computergrafica. «Questa poverina fa parte di un “lotto” di disgraziate scoperto un mese fa mentre era di passaggio in Emilia-Romagna. Lavoravo ancora a Parma, e i colleghi di Bologna mi raccontarono di un centinaio circa di prostitute albanesi fermate ad agosto tra Cattolica e Rimini. Tutte con questi tatuaggi alfanumerici. Il gruppo più consistente, quello contrassegnato con MC, circa sessanta ragazze, era destinato a Genova.» «Insomma, che vuol dire MC?» chiede spazientito Dottesio. «Dovresti arrivarci da solo…» sorride ancora la Pastorino «ma posso darti un aiutino: come si dice ‘strafatto’ in genovese? «Cazzo, Meglit Curri!» esclama Luca alzandosi di scatto e quasi perde l’equilibrio. «Il boss del Ponente?» replica incredulo Dottesio «il narcotrafficante?» «Già. E lo sfruttatore di puttane. E il caporacket dei locali notturni di Sam-
19 pierdarena. Quello che appena due anni fa se ne andava in giro per la Fiumara in t-shirt rossa con l’aquila albanese nera. Un vero terrone.» Luca sorride cupo al riaffiorare del proprio razzismo. «Quindi il nostro signor Curri deve sapere chi è la signorina numero 54, giusto?» chiede Dottesio. «Non necessariamente» puntualizza la Pastorino stringendosi nelle spalle «ma c’è qualche possibilità che un gruppo organizzato come quello di Meglit Curri gestisca anche i passaporti delle sue prostitute e ne conosca direttamente anche qualcuna. Secondo me vale la pena provare.» «Dottesio?» «Prima di andare a trovare Curri, Luca, bisogna che ti porti dal capo. Diciamo che muore dalla voglia di parlarti.»
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«Tre donne uccise in tre settimane, e a ogni nuovo omicidio quel figlio di puttana ne rapisce un’altra. Non è un essere umano, è una catena di montaggio!» Pippo Lo Presti cala senza sforzo apparente il massiccio pugno sul piano della scrivania. L’antico legno rimbomba e un paio di faldoni scivolano sul pavimento, sparpagliandosi. Il capo della Squadra Mobile di Genova getta uno sguardo alle proprie spalle. Incrocia altri occhi che sorridono da una foto ingiallita: quelli di Giovanni Falcone. L’istantanea ha la cornice sbeccata. Lui, Lo Presti, si vanta di averla usata una volta per insegnare le buone maniere a un mafioso. Magari avesse potuto fare lo stesso con quello sporco assassino di donne. Gliela avrebbe ridotta in briciole, su quella testa marcia che doveva avere. Già. Una testa marcia, ma fottutamente razionale. Lo Presti si tira la giacca sullo stomaco ormai prominente. «C’è qualcuno qui che abbia una buona notizia da dare alla stampa?» riprende, sempre più imbufalito «magari tu, Esposito? Eh?» «Capo, Luca non sta ancora bene…» interviene Dottesio, alzandosi dalla sua sedia e mettendo avanti le mani. «E tu cosa c’entri? Fai rispondere il tuo amico, no? Esposito? Pianeta terra a ispettore Esposito! Rispondimi, cazzo!» Un altro violento pugno sulla scrivania. Dottesio torna a sedersi. Lo Presti fissa Esposito che pare riscuotersi dai suoi pensieri e accavalla le gambe. «Ha telefonato anche stavolta?» gli domanda Luca all’improvviso. Senza dire una parola, Lo Presti fa slittare la sua sedia all’indietro e schiaccia il pulsante d’avvio di un vecchio e massiccio registratore Revox. Si odono scariche, come da una radiotrasmittente, poi, come se il microfono venisse accostato un poco alla volta, prima in sottofondo, e quindi in primo piano, salgono i lamenti e i singhiozzi di una donna. «Aiuto… aiutatemi… vi prego!» Solo una manciata di parole, che si spezzano di nuovo in singhiozzi. Poi più nulla. «Per la quarta volta, nessun’altra voce se non quella della vittima, per la quarta volta il numero risulta non rintracciabile. Sappiamo solo che non si tratta di un cellulare. Ci sa fare, il bastardo.» Lo Presti unisce le mani davanti al volto, tentando di lottare contro la frustra-
21 zione. «Non c’è motivo di pensare che la prossima vittima sia diversa dalle altre» osserva Luca agitandosi sulla sedia. «Il nostro uomo» aggiunge dopo una pausa «sequestra donne senza apparenti aspetti in comune, salvo l’età, tutte intorno ai trent’anni. Prima le picchia, poi le cura, quasi amorevolmente, e infine le uccide. È a quel punto che parte la vera ossessione.» Come se avesse pronunciato una parola magica, Luca si muove sulla sedia, cambiando posizione. Lo Presti lo guarda dimenarsi come una biscia e un vago senso di nausea gli sale alla gola. Lo scruta, mentre gli occhi di Esposito si fanno vitrei e poi pian piano riprendono vita. «È come se le volesse tutte uguali!» esclama infine Luca «le deterge e le depila accuratamente, cancellando ogni traccia. Infine, impianta loro delle lenti a contatto azzurre, come queste.» Cava fuori dalla tasca una scatola, mostrandola ai suoi colleghi. Poi la posa sul margine sinistro della scrivania di Lo Presti. «Le vuole trasformare tutte in bambole» aggiunge asciutto. Lo Presti avverte una vibrazione ritmica; Esposito ha ripreso con il suo caratteristico dondolio di gamba. Un vizio snervante, finché non si scopriva che i movimenti seguivano un preciso schema numerico e si arrivava alla necessaria conclusione: Esposito era pazzo. Lo Presti fissa ancora Luca che tamburella con le dita sopra il ginocchio in movimento. A uno sguardo superficiale sembra impazienza. A ben guardare, ci si accorge invece che sta contando. Due serie diverse nello stesso tempo. “Come cazzo fa?” Lo Presti alza gli occhi, rassegnato. «Sì, sì va bene» sbotta «è già la terza volta che vediamo ripetersi questi… rituali.» Sottolinea l’ultima parola a uso e consumo di Esposito, ma questi non batte ciglio. «Adesso però abbiamo qualche idea su dove abbia trovato questa roba?» Mentre fa cenno verso la confezione di lenti a contatto, il capo della polizia si accorge che la rabbia sta cedendo il passo allo scoraggiamento. Male. Molto male. Meglio uno sbirro incazzato che uno sbirro rassegnato. Il pensiero lo scuote e torna a prestare attenzione a Esposito, che intanto ha ripreso a parlare. «No. Cioè, sì» dice Luca scrollando le spalle «in qualsiasi negozio di cosmetici, tanto per fare un esempio. Una confezione con dentro tre coppie di lenti costa poco meno di venti euro. Per quello che ne sappiamo, con cento euro potrebbe avere pianificato una strage. Però…»
22 «Per quello che ne sappiamo, Esposito?» interrompe Lo Presti cercando di camuffare l’ira che torna a montare. «Per quello che ne sai tu che dovresti condurre l’indagine!» esplode infine «e invece te ne stai barricato in casa a fare… cosa fai, perdio?» «Come ti dicevo, capo, Luca non se la passa bene al momento» interviene Dottesio sgranando un po’ gli occhi sporgenti. «Io me ne frego dei suoi problemi, hai capito, Dottesio?» esclama Lo Presti, ora furibondo «e adesso esci!» Mentre il viceispettore richiude in silenzio la porta dietro di sé, Lo Presti si rivolge a Luca. «Se non ti funziona la testa, Esposito, io sono il primo a chiedere che tu te ne vada in aspettativa. Sarai anche stato un investigatore coi controcazzi, accademia, seminari a Quantico e quant’altro. Ma adesso, te lo devo proprio dire, sei diventato una palla al piede. Sono settimane che va avanti così, vieni quando te lo ricordi, poi sparisci per giorni. Il Questore vuole dei risultati, e tu mi porti una scatola di lenti a contatto comprate da una sciampista?» «Ti porto una teoria» scandisce Luca, la gamba destra accavallata che continua a danzargli seguendo il suo ritmo misterioso. Fissa la scatola che Lo Presti ha preso e spostato dall’altra parte della scrivania, infrangendo di proposito il delicato equilibrio dei suoi rituali. «Attraverso le teorie possiamo avvicinarci a capire cosa pensa questo tipo.» «Ah, sì?» incalza Lo Presti «e cosa pensa? Illuminami un po’.» Luca ignora il sarcasmo. «Lui rapisce delle persone e ci restituisce degli oggetti» dice atono «non si limita a uccidere. Lui trasforma. Dobbiamo cercare un uomo molto intelligente.» Smette all’improvviso di dondolare la gamba destra. A Lo Presti pare di vedere l’intuizione materializzarsi in fondo ai suoi occhi. Il misto di debolezza ed energia di Esposito gli dà sempre più sullo stomaco. Decide di tirarlo giù dal piedistallo. «Sarà pure come dici» taglia corto «ma del nostro uomo non abbiamo ancora niente di tangibile. Niente DNA. Niente impronte. Nemmeno un cazzosissimo identikit. Niente di niente!» «Quel bastardo è un uomo attento» ribatte con calma Esposito, come parlando con se stesso «le stupra, ma usa il preservativo. E poi, per essere sicuro, le lava. Ci sono segni di detergente neutro fino in profondità nella vagina e nell’ano. In tutti gli orifizi. Compresi ombelico, bocca, naso e orecchie. Con scrupolo estremo. Prima di mettere le lenti, lava perfino gli occhi con una soluzione apposita. Gli ci vorranno ore. Infine, per giunta, le trucca.» «Qualcosa sul tipo di make-up?»
23 «Del più comune da supermercato, capo. Insignificante.» Lo Presti sospira, esasperato. «Lo dicevo, no? Non abbiamo niente di niente!» «Salvo un profilo» interviene Luca, grattandosi la testa. Le dita saettano a tamburellare un rapido conteggio contro la tempia. Lo Presti conta i soliti sette colpi, poi Esposito abbassa la mano a frugare nella tasca dei jeans, cavandone un consunto pacchetto di sigarette. Lo fissa costernato mentre, imperturbabile, ne accende una. «Un profilo» ribadisce Luca espirando una fitta nuvola di fumo «è più che un punto di partenza.» «E secondo te dovrei andare dal Questore e dirgli questo?» Lo Presti si sporge, aggressivo, verso Luca. La pancia deborda sopra la scrivania, spostando fogli e penne. «Che siamo al punto di partenza?» Un altro pugno, calato con forza, sul piano di formica. «Qui non siamo alla televisione, cazzo. Questo non è un fottutissimo telefilm americano dove si perde una giornata ad analizzare un bossolo di proiettile. Non abbiamo il tempo, capisci? Questo ammazza una donna a settimana, e ne ha appena presa un’altra. Io lo voglio in galera, quel maledetto!» Lo Presti afferra la scatola delle lenti a contatto colorate e la scaglia addosso a Luca. «E ora vattene con il tuo punto di partenza e trovami quello di arrivo. Sempre che tu non ti perda a metà strada. O ancora prima, forse!» Luca spegne la sigaretta e si alza dalla sedia con lentezza compassata. In realtà, Lo Presti lo sa, sta cercando di centellinare i movimenti per non cadere nel nuovo rituale che la sfuriata ha innescato. Il tentativo è evidente nella tensione dei muscoli del collo e nelle palpebre, che ora sbattono ritmicamente. Lo Presti è a metà tra la fascinazione morbosa e il ribrezzo. “Cazzo, conta anche i battiti delle palpebre.” Un rigido dietrofront, quasi da burattino, quattro lunghi passi per aprire la porta dell’ufficio e richiudersela poi dietro. Ma non è finita. Passa un istante e Luca, la bocca sigillata in una sottile linea di sofferenza, si affaccia di nuovo alla soglia e rientra. Occhi bassi, fa una rapida giravolta su se stesso ed esce una seconda volta. Per un orribile istante Lo Presti è sicuro che lo rifarà ancora. E ancora, finché lui non gli farà finalmente saltare quella testa marcia con la Beretta d’ordinanza. Chiude gli occhi. Li riapre. La porta è rimasta chiusa. Esposito se n’è andato via. Distoglie infine lo sguardo, scoprendosi a studiare la foto incorniciata di Giovanni Falcone. Cosa c’è di peggio di uno sbirro scazzato? le chiede. Uno sbirro finito, risponde il sorriso amaro del giudice ammazzato dalla mafia.
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Adesso ti sta lavando. Un odore di pulito, deciso e insieme neutro, tipo sapone di Marsiglia. Gradevole, ti dice la tua ragione che timidamente sta riaffacciandosi alla coscienza. I ricordi tornano, nitidi come un’alba in montagna. Il rumore metallico di chiavistelli, la grossa porta che si apre di scatto, il battente che cozza contro la parete con un tonfo cupo. Sia pure ancora bendata, avverti nettamente sul volto la luce e il calore. Odi uno scalpiccio di suole di cuoio, e a un tratto lo percepisci accanto a te. Un attimo dopo, con uno strappo secco, lui ti toglie il foulard dagli occhi. Sei abbagliata. L’emicrania raggiunge l’apice mentre il tuo sguardo rimette a fuoco la figura dell’uomo che ti ha spiata per giorni in palestra: alto, e dalla corporatura massiccia, le mani come zampe da orso. Il cranio rasato a zero luccica, il pizzetto nerissimo spicca sul volto pallido. Cosa vuole da te? All’improvviso ti viene in mente che fin dal principio lui ti ha consentito di guardarlo in faccia. “Non uscirò mai più da questo posto” pensi, e sale il panico. Il dolore alla testa scema, contrastato dal montare dell’adrenalina. Così pensi a fuggire. È il momento di mettere a frutto palestra e savate. “Cazzo, lì in Sopraelevata mi ha colta di sorpresa.” Non glielo lascerai rifare. Ti muovi con rapidità e grazia, ma non basta. Non riesci a fare due metri che lui è già scattato come una molla compressa. Ti sgambetta con un lungo stinco da fenicottero, e cadi come un sacco di patate, imprecando perché l’hai di nuovo sottovalutato. Lui evita quasi con noncuranza il calcio che riesci comunque a sferrare a mezz’aria e, con un’elegante quanto inaspettata giravolta, ti colpisce a sua volta con la pianta del piede sulle costole. Il fiato ti si mozza. Riesci infine a gridare, di rabbia e disperazione. Tenti, sopraffatta dal dolore, di strisciare verso la salvezza, quell’uscio semichiuso dal quale, lo vedi distintamente, entra un filo di sole. “Siamo dunque in un capannone industriale, là fuori c’è una strada?” Tutti i pensieri ti si coagulano intorno a quell’unica possibilità di scampo. Quasi ti vedi, una mano a comprimerti le costole offese, alzarti in piedi e correre via, veloce come il vento. Se potessi solo cominciare a correre, ne sei sicura, lo semineresti in poche decine di metri. Fai i 400 in poco più di un mi-
25 nuto o no? Puoi farcela: schizzare via come una lippa, strillare come un’ossessa, richiamare gente e salvarti. Il tuo corpo è però offeso dalle percosse ed è più lento dei tuoi pensieri. Stai ancora strisciando su quel cemento ruvido, quando lui ti afferra per la cintura, ti gira sulla schiena e ti trae a sé come se fossi una bambola di pezza. Quindi, senza nemmeno un accenno di fiato grosso, ti si siede a cavalcioni sul petto. Il bacino che ti schiaccia è massiccio e largo. Gridi ancora per il dolore e la frustrazione e lui, con una di quelle sue mani enormi, ti tappa la bocca, mentre solleva un lungo indice davanti al naso. Il massiccio anello d’oro balugina nell’ombra. Zitta. “Ma allora c’è qualcuno che mi può sentire, là fuori, dannazione!” Il volto inespressivo, lui sposta poi l’enorme palmo dalla tua bocca alla gola, esercitando una pressione graduale e inesorabile. Ti senti quasi subito svenire. La stretta poi si rilascia. Vedi? sembrano dirti quegli occhi inespressivi. Posso ucciderti con una mano sola. A un tratto avverti una pressione insistente fra i seni e la bocca dello stomaco, là dove lui si è accomodato, stringendoti alle costole con cosce che sembrano di ferro. Lo vedi aggiustarsi e, con una mano, armeggiare col cavallo dei pantaloni. Con difficoltà si sbottona la patta, e come un osceno pupazzo a molla ne rimbalza fuori un’erezione. Simile a un frutto maturo, la testa del pene ti si avvicina sempre più al viso, riempiendo il tuo campo visivo e spegnendo nello stesso tempo, quasi con un udibile click, ogni pensiero cosciente. Mentre apri automaticamente la bocca, la ragione si è già rifugiata in una stanza remota. Devi aspettare un’eternità prima che, come un cucciolo spaurito, qualche pensiero si decida a fare capolino. Quanto tempo è passato? Sai solo che il primo spettacolo è finito, e che ora sei dentro a uno nuovo. Sei in una vasca da bagno, immersa in una soluzione detergente che sa di sapone di Marsiglia e lui, con cura quasi materna, ti sta lavando. Sempre con quella strana espressione, tra l’indifferente e l’accigliato. Cerchi di andare indietro col ricordo, a qualche altra sequenza dimenticata. Ecco che arriva… no, lui non cambia faccia nemmeno mentre ti violenta. Prima ti scopa e poi ti incula, cambiando scrupoloso i preservativi. Ti fotte metodicamente, tenendoti prona. Ti senti sbatacchiare avanti e indietro, come una troia di strada. I tuoi gemiti di dolore contrastano con il suo pompare silenzioso, tutto muscolare, solenne e attento, come se stesse seguendo un copione. Come se quel cazzo che ti ficca dentro non fosse un pezzo della sua
26 carne, ma un manubrio di quelli che si maneggiano in palestra. Non fiata nemmeno durante l’orgasmo. Fine della clip pornografica. Adesso, paradossalmente, sei tu a studiare con calma il suo volto immobile, mentre con gesti lenti e metodici lui ti strofina con una morbida spugna e ti fa scolare addosso quell’acqua piacevolmente calda. Di nuovo quel click dentro alla testa. Ti chini in avanti e ti abbracci le gambe con le braccia mentre lui passa, amorevole, a lavarti la schiena. Avverti distintamente che l’ano ti brucia, e che il sesso è gonfio e dolorante. Come se ti avesse letto nel pensiero, il volto sempre impassibile, lui ti fa stendere nuovamente a pelo d’acqua e prende a massaggiarti il pube con delicatezza. Guardi quelle dita, inverosimilmente lunghe e grosse, dita falliche. Quando, in ciascun orifizio, lui infila indice e medio, ti sembra la cosa più naturale di questo mondo.
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La cosa peggiore è tornare a casa. Già. Se può chiamarsi casa il luogo dove l’anima viene torturata, sezionata, frantumata e poi ricomposta nel ripetere in ordine meticoloso ogni piccolo gesto quotidiano. Lo Presti, Dottesio… nessuno poteva capire. Chi può capire, del resto, che anche un’azione banale come aprire la porta del proprio appartamento può costare lacrime e sangue? Si è già ferito un paio di volte con la lunga chiave antifurto, e a furia di apri e chiudi, ne ha spezzate un altro paio nella serratura. Ma il peggio viene dopo, in casa. Una volta aperta la porta bisogna entrare, e oltre il grazioso arco alla genovese si cela un raffinato aguzzino. Il marmo del pavimento è diviso in dieci riquadri e termina in un semicerchio che si insinua in camera da letto. Un disegno che non lascia scampo; ogni volta che rientra in casa, Luca è costretto a giocare alla campana. Un’estenuante partita contro se stesso e il suo male, un match che si è progressivamente allungato fino a coprire ogni sera anche una mezz’ora, prima di arrivare al semicerchio di riposo e pensare infine al sonno. Salta su una gamba! Attento a non toccare le righe divisorie! Cazzo, forse l’ho sfiorata. Daccapo. La prima volta c’era ancora Giulia. All’inizio lei ne aveva riso, poi non più. Era andata via qualche tempo dopo. Contando sommessamente i passi, Luca arriva infine davanti alla sua palazzina, poco lontano dal Mercato del Pesce. Inspira profondamente l’aria della sera, intrisa di umido e rancido. Genova e i suoi odori. Il mare. La libertà, così vicina e nello stesso tempo remota. Le chiavi di casa tintinnano. La mano comincia a tremare, nell’aspettativa dell’estenuante serie di compiti domestici. Le ginocchia cigolano protestando all’idea dell’odioso gioco in corridoio. Basta. Non è possibile continuare così. Ma come evitare il rito della campana? Luca alza gli occhi verso la finestra della sua camera. Come suo solito d’estate, l’ha lasciata socchiusa. Studia l’impalcatura in tubi Innocenti che, dal livello del marciapiede, si alza rugginosa di salsedine, fino al sottotetto al quarto piano. Una piattaforma passa proprio davanti alla sua finestra. Ride fra sé all’idea che qualche malintenzionato possa facilmente entrargli in casa. “Tanto chi si azzarderebbe a venire a rubare in casa di uno sbirro?” gli viene infine in mente, e sul momento ne ride, di gusto. Poi comincia a vederla in
28 maniera diversa. “Ho cinquantuno anni, e allora?” Si concentra, consapevole del suo corpo; è allenato, sì, ma non è più un ragazzino. Si stringe nelle spalle e parte. In pochi passi è sotto al ponteggio. Afferra la prima sbarra trasversale e, saggiatane la resistenza, vi si issa sopra. Luca sospira di sollievo. Nemmeno un minuto e, il cuore che balza nel petto, è davanti alla finestra. Baldanzoso, spinge le ante, scavalca il basso davanzale e si ritrova a guardare il suo letto. L’esaltazione lo avvolge in calde spire. Ha trasgredito le regole. Infranto, anche se per pochi istanti, la propria schiavitù. “Qualsiasi cosa accada, questa sera valeva la pena di essere vissuta!” Si è appena tolto la T-shirt ancora bagnata di sudore quando, con la coda dell’occhio, coglie il muoversi di un’ombra alla sua destra. Carica al massimo la gamba e in un unico movimento istintivo sferra un calcio, arrestandolo a un paio di centimetri da un volto squadrato e da una barba ispida. L’uomo è comodamente seduto sulla poltroncina vicino alla finestra. La linea crudele della bocca si apre in un sorriso falso come i denti bianchissimi, che per un istante brillano nel buio. «Meglit Curri. Ma certo. Me lo dovevo immaginare. Non ti chiederò come sei entrato.» «Nel modo più semplice, ispettore. Dalla porta. Dovrebbe davvero fare come tutti e installarsi una serratura di sicurezza, sa? La tua è in condizioni… pietose, si dice?» «Sì, pietose. Come lo stato della mia pazienza. Cosa vuoi?» «Cosa volete voi da me. Oggi voi sbirri mi avete fatto passare un pomeriggio d’inferno.» «Cosa è successo, perché?» «Oh, andiamo, Esposito! Noi siamo vecchi amici!» «Vecchi conoscenti, piuttosto, e decisamente mio malgrado, Curri.» L’albanese sorride, freddo, alla precisazione. «Insomma, dopo quel casino a Certosa, i ragazzi hanno avuto visite…» “Dottesio.” Quello sbirro testardo è andato avanti senza di lui. “O magari gliel’ha ordinato Lo Presti?” Luca sospira. Squadra l’albanese, studiandolo nella penombra della camera. Sono tramontati, non c’è che dire, i tempi dell’aderente maglietta rossa con l’aquila nera. Il giovane arrogante è diventato uomo, e l’uomo si è arricchito; porta un elegante completo in rigatino. Non fosse per la barba, assomiglierebbe a un boss della mala americana anni ‘30. «Vedo che comunque te la passi bene» si decide infine a dire Luca «e quanto a oggi, lo sai che i tuoi ragazzi ricevono regolarmente nostre visite. Con il ca-
29 sino che fate nel Ponente, un po’ di trambusto ogni tanto ci sta.» «Me lo chiami trambusto, Esposito? Quel tuo collega, Dottesio, ha arrestato mio nipote. Gli ha trovato appena un po’ di polvere. E, va bene, due auto rubate e qualche doppio fondo interessante. Ma sono sciocchezze, e tu lo sai. Cosa state cercando? Non potevi venire da me senza tutta questa commedia?» «Commedia?» Il tono da mafioso deluso imbestialisce Luca. «Sta’ all’occhio, Curri!» abbaia «questa è violazione di domicilio. Senza contare che io sono un poliziotto e tu sicuramente sei armato. Quindi non mi contare cazzate. Che sei venuto a fare? Vuoi farmi paura? Dovresti sapere che è inutile!» «Lo so, lo so, caro ispettore» sospira Curri caricando le erre «ma visto che ero da queste parti…» All’improvviso l’albanese lancia un basso fischio modulato al quale, da fuori la finestra, rispondono alcuni richiami analoghi. «Oh, allora siamo all’intimidazione vera e propria» scandisce Luca in tono pericolosamente basso. Poi decide di reprimere l’ira e di stare a sentire. «D’accordo. Ho capito che non sei solo. Rilassati e parliamo.» «Così va meglio, ispettore. Dovevamo cominciare così, non trovi? Di cosa parliamo?» «Che ne dici di MC54?» «Che cosa?» Curri sembra genuinamente interdetto. «Un tatuaggio. Sull’interno della caviglia di una morta. Sembra il tuo stile.» Curri si agita sulla poltroncina, accavalla una gamba sull’altra. «Ricordo i tatuaggi» ammette «il resto, be’, chi può dirlo? Chiedimi ancora.» «Chi era quella ragazza?» «E io che ne so?» mente Curri sporgendo in fuori le labbra, in una parodia di smorfia capricciosa «me ne sono arrivate una sessantina, da Scutari e Durazzo. Tutte da avviare alla professione, come si dice. Non sanno un cazzo quando arrivano, Esposito. Ci crederesti che dobbiamo insegnargli tutto noi?» Ride. «Mi posso immaginare» sospira Luca reprimendo una smorfia di disgusto. Sente un’ira sorda montargli dentro e, nello stesso tempo, la sua ossessione cercare nuovi appigli. Mentre si sorprende a contare su base sette con le dita dei piedi, decide di sfogare tutta la sua rabbia. «Tuttavia, Curri» riprende «se non ti strappi quel sorriso ebete dalla faccia, ci penso io insieme a tutta la testa. Poi la uso per fare il tiro a segno coi tuoi amici!» «Eh, che carattere, ispettore! Da quanto è che non scopi? Va bene. Si faceva per… come si dice? Sdrammatizzare. Scusami. MC54 hai detto?»
30 Curri cava un foglietto dalla tasca del completo, lo spiega ordinatamente sulle ginocchia. Con un gesto di studiata familiarità accende il lume sulla scrivania lì vicino e comincia a scorrere quella che appare a Luca come una lunga lista. “Il bastardo è venuto qui apposta” pensa Esposito furente. «Dunque, dunque… MC51… 52…53… 54, eccola qui. Khadigia, si chiamava… ti interessa il cognome? Skela. Ecco. Khadigia Skela. Kathy, si faceva chiamare. Una bella ragazza, bionda… aveva trentadue anni. A Scutari faceva… vediamo… era una maestra di scuola. Certo che con noi avrebbe guadagnato di più. Era la più vecchia del gruppo. Me la ricordo bene.» «Fin troppo bene per i miei gusti, Curri!» Luca ricomincia a contare sulle punte delle dita e scopre che la propria indignazione è arrivata al punto giusto. «Quel che hai detto mi basta per arrestarti subito: traffico di immigrati clandestini e sfruttamento della prostituzione.» «Tuttavia non lo farai, giusto?» Il sorriso artificiale dell’albanese torna a stamparsi sul volto squadrato. «Finora mi hai portato solo una storia, Curri» ammonisce Esposito «ma, come dire? Confrontarmi con te potrebbe essere utile.» «Allora cominciamo subito a confrontarci» ribatte pronto l’albanese, sarcastico «con Kathy Skela ci siamo andati leggeri. Non era come quelle ragazzine di campagna che erano arrivate insieme con lei. Era istruita, aveva un non so cosa. Glielo dissi anche: “Chi te l’ha fatto fare a venire a battere in Italia? in Albania eri qualcuno”. Lei è stata zitta e mi guardato in faccia. Non lo fanno, in genere, sai? Hanno troppa paura. Ma lei no. Ha detto che i soldi le servivano per la famiglia, che suo marito era andato volontario in Kosovo.» Il volto di Meglit Curri si scurisce. «Hai presente quella bella guerra in cui anche voi italiani avete partecipato anni fa? Bene, il marito di Kathy ci ha rimesso tutt’e due le gambe. Non può più lavorare. E hanno quattro figli. Così Kathy ha deciso di fare la puttana.» «Adesso spunta il magnaccia comunista… da quando hai il cuor d’oro, Curri?» «Non scherzare tu, adesso, ispettore!» L’albanese scatta in piedi, avvicinandosi a Luca nella penombra. «Lo sappiamo tutti che non ci stai più» dice puntandosi un indice contro la tempia «uno come te, cosa ci vuole perché si cacci dalla finestra?» «E mi ci butti giù tu?» Luca avvicina a sua volta il naso a quello di Curri, fermandosi a meno di un centimetro. «Ti ci buttiamo noi, se insisti» precisa l’albanese, indicando la soglia della camera da letto di Esposito. Sotto all’arco della porta si sono materializzati due uomini in canottiera e
31 pantaloni ampi di cotone. Luca si chiede quando siano saliti «E adesso stammi a sentire» riprende minaccioso Curri. Luca deglutisce e si siede guardingo sulla poltroncina. «Ho trattato Kathy come una persona» scandisce l’albanese contando sulle dita di una mano «non l’ho gettata su una strada. Le ho trovato un appartamento nel Ponente. Ci ha ricevuto clienti per una settimana. Poi ha conosciuto uno sbirro, ed è sparita. Fino a stamattina.» «Chi cazzo è questo sbirro?» «È per questo che sono venuto da te stasera, ispettore. Te lo chiedo io. Chi cazzo è lo sbirro che ha ammazzato Kathy? Perché se non esce fuori un nome, sarò io a prendere te e appenderti per le palle.» Meglit Curri fa cenno ai suoi guardaspalle e si avvia in corridoio, verso la porta d’ingresso. Si ferma con la mano sul pomello di ottone, girandosi a mezzo verso Luca. Sorride, come se non fosse accaduto nulla. «Ovviamente, questa è stata una chiacchierata fra vecchi amici» dice in tono di nuovo impersonale, in curioso contrasto con gli occhi che rilucono di malevola intelligenza «di’ al tuo vice di lasciarci perdere. Indagate in mezzo a voi. E che Dio ti aiuti, ispettore, se non ci porti il colpevole di persona.» Alla fine la porta si chiude con un click sommesso. Luca comincia a ridere fra sé. Dapprima piano, poi sempre più forte, finendo in un singulto isterico. È stato appena minacciato di morte dall’uomo più pericoloso di Genova, e tutto quello che sa fare è invidiarlo come mai nessuno nella sua vita: l’albanese ha appena percorso il corridoio senza degnare nemmeno di uno sguardo la dannata campana sul pavimento
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Quando ti ha spostata da quel capannone? Niente, per quanto ti sforzi non riesci proprio a ricordartelo. Semisdraiata sul quel divano di velluto rosso, simile a un’ottomana, ti pare quasi di avere sempre abitato in quella stanza dall’odore pulito, l’aria appena un po’ secca. Provi ad alzarti, ma non ci riesci. Le gambe non vogliono proprio saperne di muoversi, ma almeno il dolore ai genitali e all’ano è passato. “C’è andato proprio pesante” pensi, saggiandoti con due dita le parti intime. Le ritiri unte e appiccicose. “Crema emolliente. Che uomo premuroso.” Ti passi una mano sull’addome. La pelle è liscia, levigata fino all’impossibile. Ti strofini anche altrove, sulle braccia, sulle gambe. Ti tocchi la testa. “Mi ha depilata. Completamente.” Realizzi all’improvviso di essere nuda, ma di non sentire freddo. Avverti in sottofondo il ronzio regolare di un impianto di termoregolazione. “Da quanto tempo mi trovo qui?” D’istinto interroghi il tuo impianto, ma la testa prende a girarti vorticosamente. “Certo, cazzo. Mi ha isolata e drogata.” Nessuna speranza di soccorso. Sospiri di esasperazione. Il capogiro pian piano passa, come pure il principio di nausea, lasciandoti il modo di esplorare la tua prigione. C’è poco da vedere. A parte l’ottomana rossa, una grossa lampada a stilo che ti proietta addosso una luce bianca e soffusa, e una semplice sedia di legno messa lì vicino. Pareti anonime, intonacate in un opprimente color marrone. Una rientranza nell’ombra, collocata nel muro di fronte, identifica una porta. A metà altezza, una specie di spioncino. Tenti invano di raggiungere la lampada per girarla altrove. Appena in tempo per cogliere un sottile raggio di luce proiettarsi all’interno proprio dallo spioncino. “Abbiamo visite.” Un suono metallico di serrature sbloccate e, simile a un’apparizione ultraterrena o all’effetto di un teletrasporto da Star Trek, nel vano illuminato a giorno si staglia un’alta figura. Il cranio rasato luccica, la mano destra regge quella che appare una valigetta medica. Come se si trovasse all’interno di un ascensore, la silhouette esita per un attimo, poi avanza all’interno della stanza fa-
33 cendosi riavvolgere da una penombra che per contrasto diventa buio fitto. Le suole di cuoio stridono di nuovo, stavolta su un parquet. Con un unico movimento fluido e aggraziato, la figura è improvvisamente seduta sulla sedia a fianco dell’ottomana. Poggia vicino a sé la valigetta medica e infine sporge il volto. La luce bianca lo copre come se fosse un liquido, rivelando le solite fattezze imperturbabili. «Buon… buongiorno!» Ti senti roca e schiarisci la voce. Una fitta ti percorre la mascella. Te la massaggi con delicatezza, aprendo e chiudendo la bocca. Improvviso, un ricordo simile a un lampo, una mano enorme che ti costringe a dischiudere le labbra, mentre un pene eretto… chiudi gli occhi per scacciare l’oscenità. Sospiri ancora. Ti senti come se avessi gridato per giorni. “Probabilmente è anche quello che è successo.” Lui ti fissa per un attimo, sempre con quell’assurda aria solenne, poi si china e prende la valigetta, aprendosela infine sulle ginocchia. «Adesso cosa vuoi farmi?» Non ti risponde. Con gesti esperti, si limita a preparare una siringa con dentro un liquido trasparente. La paura sale, e tenti ancora di comunicare. «Non sei molto loquace, tu.» Deve avere capito l’urgenza nella tua voce, perché china il capo di lato e batte rapido le palpebre. Tutto si sistemerà, vedrai, sembra dirti. Un colpetto esperto con il dito medio alla siringa, un laccio emostatico ti stringe sopra il gomito destro. “Sembra un’infermiera” pensi, istupidita dalla rapidità con cui le cose stanno succedendo. Un lieve pizzicore, che cresce fino al livello di un bruciore moderato: il liquido sta entrando in vena. Con la coda dell’occhio guardi il livello scendere nella siringa. In pochi istanti lui termina l’iniezione, poi sfila l’ago e ti sistema un tampone imbevuto di disinfettante. «Me lo dici cos’è questa roba? No, eh? Ma già, deve essere quello che mi stai dando da giorni…» Esiti, presa da una leggerezza che con una remota parte di te riconosci e saluti come la benvenuta. Vorresti quasi ringraziarlo, e gli parli ancora. «Cazzo, amico, qualsiasi cosa sia è veramente il finimondo. Grazie! Mi sa che adesso non avrò bisogno nemmeno del pranzo. Ma almeno me ne dai, da mangiare?» Lui tira su il mento e ti strizza un occhio. «Già, a che mi serve mangiare, mi dirai. Tanto la tua faccia l’ho vista, no? Non uscirò mai più di qui, vero? Puoi dirmelo, avanti!»
34 Un’altra strizzata d’occhi, stavolta di entrambi. Ammonitrice. “Non perdere il controllo” pensi. Poi riprendi a parlargli. Senti che non devi smettere di farlo, per nessuna ragione al mondo. «Sei proprio uno strano tipo. Oh Cristo, che situazione!» Scuoti la testa e ti passi le mani sul volto. Lui continua a fissarti come studiandoti. Poi apre un altro scomparto della borsa, e ne estrae un kit da trucco femminile. «E questo che significa, ora? Non vorrai mica usare quella robaccia sul mio viso!» Lui china ancora la testa di lato. Per un istante sembra pensieroso. Lascia fare a me, fidati! Un barlume di conforto in quei paurosi occhi neri, senza fondo? Con un batuffolo di cotone, passa quindi a detergerti il volto. Tocchi leggeri, quasi dei battiti d’ala di una farfalla. “O di una falena?” Fissi il massiccio anello d’oro baluginare nella luce della lampada. “Mi ha colpita con questa stessa mano.” Ti meraviglia che a distanza ravvicinata il palmo non sia poi così largo come ricordavi, e le dita si siano come sgonfiate. Lo attribuisci a un effetto della droga. Con movimenti rapidi ed esperti, lui si dedica intanto a passare il fondotinta. «Che bello. Continua così. Ah, potrei addormentarmi adesso. Ma perché mi stai truccando? Vuoi portarmi a cena fuori?» C’è una sfumatura di divertimento in quegli occhi? Non riesci a capirlo. Ma di nuovo lui ti regala una doppia strizzata delle palpebre, e con un nuovo buffetto, leggero come una piuma, ti colpisce scherzoso la punta del naso. «Sì, lo so. Se ci fossimo conosciuti in altre circostanze… magari se non ti avessi guardato così male in palestra, chissà…» gli dici strizzando a tua volta un occhio «ma un vero spasimante sa anche dire parole dolci. Perché non mi parli almeno un po’?» «Non avere paura…» Un sussurro. Lento e scandito. Appena udibile e quasi scorporato, senza il fondo melodioso che hai udito in macchina, e tuttavia inequivocabile. «Ci lasceremo presto, non è vero?» Senti la tua stessa voce strozzarsi in gola, e due lacrime scendere giù per le gote. Lui ti stringe brutalmente un braccio. Gli occhi neri sono tornati a essere due porte aperte sul nulla. «Scusami, scusami. Ti prego, scusami. Ho rovinato il tuo lavoro. Adesso dovrai truccarmi da capo. Perdonami. Non piangerò più. Sarò la tua bambola, lo
35 prometto.» Il dolore cede pian piano il passo a un gelo che ti sale dal cuore. Lui rilascia la stretta sul suo braccio e con l’altra mano drena il poco liquido emesso dai tuoi occhi. Con rapidi e sapienti colpi deterge e poi sfuma, fino a ricostituire un uniforme fondo cereo. Poi passa a ridisegnare il contorno degli occhi, usando la matita e ancora i polpastrelli. Quindi, inopinatamente, dalla borsa estrae uno specchio e lo pone davanti al tuo viso. Ti guardi, curiosa. L’immagine ingrandita ti rimanda un volto sconosciuto. Si nota appena che sei molto dimagrita, ma la faccia ti brilla come quella di un’attrice. «Ehi, ci sai fare. Sei sicuro di non farlo per mestiere? Belin, cazzo, sta’ a vedere che il mio assassino è un estetista!» Le pupille negli occhi neri sembrano allargarsi, fino a coprire l’intera iride. «No, no. Scusa. Non mi interessa cosa fai per vivere. Mi hai reso bella. Più bella di quello che sono. Ma perché questo colore turchese intorno agli occhi? Mi starebbe meglio se li avessi azzurri, e…» Le sue pupille si stringono soddisfatte, mentre con una mano ti mostra un blister. «Lenti colorate. Ma guarda cosa mi doveva capitare!» sospiri quasi salottiera «un gentiluomo che mi vuole cambiare i connotati.» Stordita dalla droga, drizzi la schiena con fatica mentre lui ti tiene una mano alla base del collo e ti avvicina il viso alla luce. Con l’altra mano, ancora più leggero, ti sistema le lenti a contatto. Ti gira il viso da una parte e dall’altra, quindi annuisce solenne. «Hai finito? Sono pronta, allora. Dove mi porti a cena?» Lui ti guarda ancora per qualche istante, le mani posate sulle ginocchia. Poi si alza facendole scivolare in alto, come se stesse per eseguire una coreografia complicata. Unisce le palme davanti al naso e strizza di nuovo gli occhi, poi con lentezza si porta alle tue spalle. «Posso decidere io il menù? Perché a dirtela tutta mi sento un po’ affamata.» La sottilissima pellicola di plastica ti cala sulla testa e sul volto come un cappuccio protettivo. Non ti accorgi quasi della stretta leggera, ma inesorabile, che chiude l’apertura del sacchetto intorno al collo. Dapprima il mondo è come distorto dall’interno di un acquario. La plastica si fa calda e umida per la condensa del tuo espirare. Poi tenti di prendere aria, e ti è impossibile. Lotti solo per qualche istante, la droga e la mancanza di cibo ti hanno prosciugata di ogni energia. Annaspi, le braccia che vorticano, incapaci di fare presa sul corpo che sta in piedi alle tue spalle. La stanza, distorta ora dalla condensa sulla plastica, si trasforma in un lungo corridoio oscuro. Senti gli occhi come gonfiarsi e l’urgenza d’aria ti spinge a un nuovo, disperato singulto. Il conato si arresta contro la superficie del sacchetto, saldamente aderente alla tua boc-
36 ca ormai spalancata. Muta, osservi il corridoio allungarsi e allungarsi, e il buio inseguirlo. Poi, in remota lontananza, la porta si apre. Ne esce un unico, accecante, raggio di luce.