In uscita il 19/12/2018 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre '18 e inizio gennaio '19 (5,99 euro)
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NICOLA RIZZO
DOPPIO INGANNO
ZeroUnoUndici Edizioni
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DOPPIO INGANNO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-259-1 Copertina: immagine Shutterstock. com
Prima edizione Dicembre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Un
tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli imprenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io ormai così imbastardito - a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. Charles Péguy
A quanti credono. Sempre!
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CAPITOLO 1
Ci sono cose della propria vita che si conoscono fin da subito. Alcune non c’è modo di saperle, altre non si possono capire. Altre ancora non si riesce nemmeno a immaginarle. Questo stava pensando T.J. Gibbons quando la voce del cancelliere del tribunale bucò il silenzio dell’aula per annunciare: «In piedi, entra la Corte.» Fu un attimo. Un bisbiglio si alzò tra gli astanti, incuriositi, attoniti, forse elettrizzati per l’attesa del verdetto che sarebbe stato pronunciato a breve. Due giorni. Tanto era durato il processo. Del resto, così era stata la richiesta delle autorità. E fra tutte, quella dell’ambasciatore USA era stata ferma: «L’alto lignaggio dell’imputato, la convinzione del Signor Presidente degli Stati Uniti e mia personale circa la sua completa estraneità ai fatti, la rettitudine morale che quest’uomo ha dimostrato negli anni, il rispetto per la costituzione americana prima e le leggi italiane poi; tutto questo esige e merita un processo giusto e rapido, che restituisca un grande uomo ai suoi affetti, al suo lavoro e al suo Paese.» Due giorni, dunque. Era il momento. Il giudice invitò l’imputato, l’accusa e i presenti ad alzarsi. Lesse in fretta gli articoli del codice richiamati in sentenza e riassunse i capi d’accusa: sequestro di persona, furto aggravato, truffa e atti di terrorismo. «Per i reati ascritti, in nome del popolo keniota, dichiaro l’imputato Tyron Gibbons Junior…» In aula c’era silenzio, ma nella testa di T.J. Gibbons risuonava alto il frastuono, come dei clacson dei taxi di New York, continuo e incessante. Il fiato era sospeso. Rivide in un attimo la strada che lo aveva portato a quel punto di assoluta sospensione.
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CAPITOLO 2
Ci fu un punto preciso, un attimo, un battere di ciglia in cui sembrò che la palla fosse immobile. Poi prese a danzare sul ferro e scelse di cadere nel canestro, facendo sollevare la rete annodata. Il pubblico del Madison Square Garden esplose in un boato, proprio mentre la sirena gridava la fine della partita e sanciva il risultato finale: vittoria dei Knicks. Uscendo dal palazzetto di Pennsylvania Plaza i ragazzi del Goffredo Mameli erano elettrizzati. «Da non credere» proclamò Luca Borelli «un finale così è incredibile. Bellissimo!» «Per me è stato bellissimo l’intero spettacolo» replicò Valeria Calabresi «dalle cheerleaders, agli acrobati, alla lotteria in diretta. Uno show nello show.» «Dici bene» aggiunse Giulia Vittadini «ero così presa dal contorno di spettacolo che a tratti non seguivo neanche la partita.» Ironicamente caustico, come sempre, Enzo Immobile la derise: «Jamme bimbetta, vi siete accorta che i ragazzoni in calzoncini corti giocavano a baskèt?» lo disse calcando sul suo accento smaccatamente partenopeo. Gli amici risero tutti, mentre Marco Foresi propose di bere una birra prima di tornare in albergo. «Vada per la birra» disse il professor Giavarini «magari usiamo la metro sulla Fifth Avenue per essere più vicini all’hotel.» I sette freschi vincitori del concorso “un’idea da impresa” decisero di seguire il consiglio e, accompagnati dal professor Giavarini e da Paola Lucchini, si avviarono alla metro. Erano nella Grande Mela da tre giorni. Finita la scuola e dopo aver passato le vacanze tra riposo, qualche lavoretto per la loro azienda di borse e un po’ di studio, i ragazzi avevano accettato l’invito di T.J. Gibbons, Presidente della Kimberly & Claim, multinazionale del settore biotecnologico, con sede nella loro città, a incontrarsi presso i loro uffici.
9 Alla presenza dei tutor o, per meglio dire, di quanti erano rimasti, data l’ovvia indisponibilità di De Biasi ancora alle prese con la giustizia, li aveva finalmente ricevuti il Presidente in persona. De Biasi era l’ex collaboratore della Kimberly & Claim, che solo pochi mesi prima aveva cercato con l’inganno di circuire Enzo, uno dei ragazzi, convincendolo a rubare per lui una formula chimica di inestimabile valore che era stata sviluppata dal professor De Paoli, docente al Goffredo Mameli. Sulle prime Enzo aveva assecondato i piani di De Biasi, ma alla fine scelse l’onestà e l’amicizia, aiutando i compagni a far saltare il piano di De Biasi e farlo trarre in arresto. Era la prima volta quindi che il Presidente della Kimberly & Claim incontrava i ragazzi del Goffredo Mameli che, con l’aiuto di alcuni suoi collaboratori, avevano partecipato a un concorso nazionale tra scuole superiori di ogni regione d’Italia e lo avevano vinto. Il concorso aveva messo in competizione le scuole d’Italia con il fine di creare un’idea e darle forma fino a creare un’impresa in grado di commercializzare il prodotto da essa nato. I ragazzi del Goffredo Mameli avevano avuto un’idea brillante e originale e si erano aggiudicati la vittoria in una concitata finale in Costiera. Ad accompagnare i ragazzi alla K&C erano stati la professoressa Barbara Toblino, insegnante d’inglese e il professor Roberto Giavarini, professore di italiano, in quanto accompagnatori dei ragazzi alle finali in costiera, ma anche la preside dell’istituto, professoressa Mariangela Tacconi, amica di vecchia data di T.J. Gibbons. Il Presidente era curioso di conoscere i ragazzi e fare loro i complimenti per il successo conseguito. Aveva chiesto informazioni su ciascuno dei ragazzi prima dell’incontro, proprio come faceva prima di ogni riunione d’affari. Aveva letto le loro schede fornite dalla preside e su una in particolare, aveva concentrato la sua attenzione, cercando di scorgere nelle poche righe del documento una traccia della personalità dello studente. Ma l’incontro con i ragazzi, come sempre accade, fu molto diverso da come lo aveva immaginato. Parlarono per più di due ore nella sala riunione al quarto piano del grande cubo di vetro e acciaio che era la sede della K&C. Si parlò della gara, di come erano andati i tre giorni delle finali, ma anche dei clamorosi fatti legati allo sventato furto della formula del professor Tarcisio De Paoli, che avevano portato all’arresto di Degli Esposti e De Biasi.
10 Al termine della riunione T.J. Gibbons diede l’annuncio: «Carissimi ragazzi, il vostro impegno, ma ancora di più il vostro coraggio e la vostra baldanza, meritano un premio. Se non avete nulla in contrario e se i vostri genitori e docenti sono d’accordo, vi vorrei come nostri graditi ospiti per una vacanza premio nella città di New York. Partirete fra tre giorni e tornerete in tempo per l’inizio della scuola. Quest’anno avete la maturità e né io, né la vostra preside vi vogliamo far perdere il tempo necessario allo studio.» Inutile raccontare con che gioia i ragazzi accolsero la notizia e si prepararono al viaggio. *** Il suo viaggio era stato improvviso, convulso, ansiogeno. Degli Esposti ricordava ancora con quanta paura aveva salito rapidamente le scalette del jet privato battente bandiera keniota, sotto una fitta pioggerellina fuori stagione per il mese di giugno e intabarrato per non farsi riconoscere. La lunga auto scura del corpo diplomatico aveva avuto accesso fin dentro l’aeroporto, proprio sotto il jet, bypassando i controlli di frontiera con il salvacondotto dei vessilli diplomatici. Era stato inserito nella lista dei passeggeri sotto falso nome. Ritornando con la memoria a quel giorno di due mesi prima, sentiva ancora ai polsi il freddo metallico delle manette che per ventiquattro ore lo avevano attanagliato nella lunga notte passata al comando della Guardia di Finanza. Per un giorno e una notte era stato interrogato dal Maresciallo Zago e dai suoi uomini, per rispondere delle accuse di tentato furto, spionaggio industriale ed estorsione. Ancora un passo indietro, come un nastro riavvolto, e sentiva ruggire il motore dell’alfetta che lo portava di tutta corsa e a sirene spiegate al comando per interrogarlo e rinchiuderlo, assicurandolo alla giustizia. In un altro ricordo era nell’ufficio di T.J. Gibbons, alla presenza del Presidente della K&C e di Beretta. «Quel maledetto» sibilò a denti stretti. Poteva sentire ancora nelle orecchie la voce del Presidente: «E mi dica, Degli Esposti, secondo la sua esperienza ritiene che De Biasi potesse veramente arrivare a creare e vendere questo prodotto prodigioso?»
11 Era un tranello ben congegnato da quei due omuncoli e con la sicura collaborazione di altri insulsi dipendenti della K&C e di quei mocciosi maledetti. Da lì in poi tutto era successo in fretta: l’aprirsi della porta alle spalle di T.J. Gibbons; l’entrata degli agenti; la messa in stato di arresto; il trasferimento in caserma; le manette ai polsi; gli interrogatori; la notte in cella. Poi, al mattino, quell’uomo di colore in abito kaki. Non capì subito di chi era l’emissario. Sentì le voci di un alterco in italiano, inglese e francese. Poi il clangore della porta della cella di sicurezza e quell’uomo di colore che gli restò impresso per l’enorme smeraldo che campeggiava sull’anello che portava al dito. Era accompagnato da un noto avvocato della città. Avevano ottenuto i domiciliari, in virtù dell’impossibilità di reiterare il reato e della mancanza di precedenti. Il Maresciallo Zago era furibondo, ma dovette cedere alle argomentazioni scritte nel decreto di scarcerazione. La lunga limousine che lo attendeva fuori dalla caserma aveva le insegne del Kenya e apparteneva al corpo diplomatico. Cominciò a intuire. I ricordi svanirono e tornò al jet e al lungo viaggio verso l’Africa. È così si ritrovava nel suo panama a sorseggiare limonata ghiacciata, ai quaranta gradi di quella distesa di lavoranti piegati a raccogliere frutti dai giganteschi baobab. «Alea iacta est1» sentenziò in un ghigno Degli Esposti, voltando le spalle ai braccianti e salendo i gradini della sua abitazione nella savana. *** Salendo i gradini della scalinata del Pincio, sentì il cuore martellargli nel petto e il fiato cortissimo. Arrivato in cima, si affacciò dalla balconata che dominava la grande piazza sottostante. Al centro il grande obelisco con i quattro leoni accovacciati a vomitare acqua limpida nelle vasche ai loro piedi. In lontananza il cupolone e più a sinistra il bianco candore del monumento ai caduti. Le pulsazioni tornarono alla normalità e il sole che lo inondava gli donò un senso di benessere che non provava da molto tempo. 1
Il dado è tratto.
12 Quel cielo terso, blu intenso, gli faceva immaginare… Proprio in quel momento, alle sue spalle, sentì il crepitio dei sassi del selciato, mossi da una vettura in avvicinamento. Si voltò in tempo per notare la targa anonima del corpo diplomatico sul frontale dell’enorme Range Rover nero. L’auto si fermò, scese l’autista e l’altro uomo al suo fianco. Due uomini di colore che nascondevano la loro possente muscolatura sotto impeccabili abiti scuri e occhiali da sole. All’orecchio un filo trasparente, collegato a un auricolare. Sembravano attendere un segnale che evidentemente non tardò ad arrivare. L’autista si avvicinò ai finestrini oscurati e aprì lo sportello. Scese un terzo uomo, anch’esso in abito scuro, camicia chiara e cravatta scura fermata da un pesante fermacravatte in oro. «Bonjour, monsier Gibbons. Merci d’être venu2» salutò l’uomo sorridente, allungando la mano verso T.J. Gibbons. «Avevo scelta?» rispose questi secco, senza tendere la mano all’uomo di colore. «No. In effetti, no» l’uomo passò all’italiano, ritirando la mano sulla quale spiccava l’anello d’oro con lo smeraldo e la infilò nella tasca della giacca. «Andiamo al punto» lo incalzò T.J. Gibbons «perché mi ha fatto chiamare?» «Mio caro ingegnere, che modi bruschi. Non è contento di rivedere un vecchio amico? Io lo sono.» «Non siamo amici e non sono affatto contento di rivederla» rispose alzando la voce. Il tono non sfuggì neppure ai due bodyguard dell’uomo, che fecero un passo per avvicinarsi ai due, ma furono fermati dal loro capo. «N’est pas rien3. Non serve, va tutto bene» disse rivolto ai due alzando la mano senza voltarsi e tenendo i suoi occhi scuri puntati su T.J. «L’ingénieur a oublié d’où il avait besoin de son copain4.» T.J. Gibbons ruppe l’attimo di silenzio e senza distogliere lo sguardo dall’uomo di colore riprese:
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Buongiorno signor Gibbons. Grazie di essere venuto.
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Non è niente.
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L’ingegnere ha dimenticato di aver avuto bisogno del suo amico.
13 «Non ho dimenticato nulla. Ho pagato il dovuto per il favore ricevuto e gli accordi erano che non ci saremmo mai più rivisti.» «C’est la vie» gli sorrise l’altro, mostrando una fila di denti immacolati «ma veniamo agli affari, se così preferisce» aggiunse nel suo forte accento francese. «Cosa vuole?» chiese T.J. Gibbons. L’uomo lo fissò in silenzio, aspettando che cessassero le grida di un bimbo che rincorreva un pallone inseguito dal padre. «Lei ha qualcosa che interessa molto a persone di cui curo gli interessi in questo momento.» «Di cosa si tratta? A cosa si riferisce?» «Oh, monsier l’ingénieur? Gioca a non sapere? Credo che sappia molto bene a cosa mi riferisco.» Lo fissò con le labbra serrate ma sembrava calmo, nel pieno possesso del controllo della situazione. «E se avessi questa cosa, che vorrebbe? Cosa dovrei fare?» «Beh, ovviamente farla entrare in mio possesso affinché io la possa consegnare ai miei committenti.» «Altrimenti?» chiese T.J. Gibbons sempre più innervosito da quel colloquio. «Mio caro ingegnere, perché la vuole mettere su questo piano? Nessuno ha interesse a complicare le cose. Lei un tempo ebbe bisogno diciamo… di un favore…» «Per quello le ho già detto che ho pagato il debito e non vi devo nulla di più» lo interruppe T.J. Gibbons. «E ora» riprese l’uomo, sistemando il fermacravatte e la cravatta di seta nell’abito, senza curarsi minimamente dell’interruzione «chi le ha fatto un favore, le chiede un favore. Tra gentiluomini, senza bisogno di creare problemi.» T.J. Gibbons lo fissò torvo. «Allora dica ai suoi… committenti che non intendo avere più rapporti con loro. Ho commesso questo errore in passato per una situazione di assoluta necessità. Ho pagato a caro prezzo quel… favore e non voglio avere più niente a che fare con voi.» «Oh mon dieu, monsieur l’ingénieur! Sempre e ancora coriaceo, come un tempo. Scorre sangue di marine in quelle vene!» «Lasci stare il mio passato» sussurrò digrignando i denti e stringendo i pugni.
14 Un aereo passò veloce nel cielo azzurro sopra di loro, coprendo in parte le ultime parole dell’uomo di colore ma T.J. Gibbons intese bene il messaggio. «Ci pensi, monsier l’ingénieur. La contatteremo per sapere cosa ha deciso.» Girò rapido su se stesso e salì sul Range Rover. L’autista chiuse lo sportello, attese che l’altro bodyguard salisse e partì veloce. Da dietro i finestrini oscurati a T.J. Gibbons sembrò di intravvedere i denti dell’uomo di colore tirati in un sorriso beffardo.
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CAPITOLO 3
Degli Esposti accolse l’ospite con il suo sorriso migliore e fece immediatamente versare limonata ghiacciata per lui e le sue guardie. «Spero la sistemazione sia di suo gradimento» disse l’uomo rivolgendosi a Degli Esposti in un perfetto italiano dal chiaro accento francese. «Magnificamente. Se non fosse per il caldo asfissiante e le maledette mosche» rispose Degli Esposti, asciugandosi la fronte con un largo fazzoletto color crema a pois bordeaux. «Il caldo e le maledette mosche, come le chiama lei» proseguì l’uomo superando Degli Esposti ed entrando nella casupola di legno «sono elementi caratteristici del mio Paese. Che io servo e amo sopra ogni cosa.» «Chiedo venia, non era mia intenzione… absit iniuria verbis5» balbettò Degli Esposti seguendo l’uomo dentro casa. Per tutta risposta l’ospite rise sguaiatamente e replicò: «Monsieur le docteur, sempre senza senso dell’umorismo.» Ridendo ancora si sedette al modesto tavolino di legno, accostato sotto la finestra. Con un dito spostò di lato la tenda e ammirò la distesa di braccianti intenti a raccogliere i frutti degli enormi baobab. «Che terra magnifica» sussurrò quasi tra sé l’uomo di colore. «Sì, bellissima» aggiunse Degli Esposti senza troppa convinzione. «Tuttavia, non sono qui per parlare delle meraviglie del Kenya» disse l’uomo, lasciando il lembo di tenda e fissando Degli Esposti. «Naturalmente» rispose questi ritto in piedi a pochi passi dal suo ospite, cercando di fuggirne lo sguardo. «Lei ha creato molti problemi al mio Paese e alle persone che rappresento e che sono attivi per rendere questo posto migliore e potente» gli disse, facendo roteare sul tavolo l’anello d’oro con la pietra preziosa che teneva sempre all’anulare destro. «Io…» iniziò Degli Esposti, ma fu zittito da un cenno della mano dell’uomo che proseguì.
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Senza offesa.
16 «Recuperarla e farla uscire dal suo Paese è stato un atto azzardato che avrebbe potuto creare grave imbarazzo al mio, se non addirittura peggio.» «Mi rendo conto…» riprovò a giustificarsi Degli Esposti. L’uomo scattò in piedi, facendo cadere a terra la piccola sedia di legno su cui era seduto e facendo sobbalzare Degli Esposti. Uno degli uomini di scorta si affacciò alla porta per verificare che tutto fosse ok. L’uomo infilò l’anello al dito e riprese: «Tuttavia, ciò si è reso necessario affinché il segreto di quanto stiamo preparando restasse tale e non cadesse nelle mani delle autorità italiane.» «Questo non sarebbe successo…» tentò per la terza volta timidamente Degli Esposti. In un attimo l’uomo di colore scattò in avanti e afferrò Degli Esposti al collo, spingendolo con le spalle sullo stipite della porta e conficcandogli un ginocchio sulle parti intime, che tolse il fiato alla sua preda. «Lei è un incapace, monsieur le docteur. La tengo in vita solo perché non ho ancora avuto ordine contrario. E non è ancora successo perché al momento ci serve. Ma le persone per cui lavoriamo non tollereranno altri errori e ritardi sul programma concordato. Siamo intesi?» «I… i… intesi» balbettò Degli Esposti paonazzo e madido di sudore. «Molto bene, monsieur le docteur» fece l’uomo allentando la pressione del ginocchio e sistemando il bavero della giacca di Degli Esposti «molto bene. Ma veniamo a noi. Come procedono i lavori?» Degli Esposti si riprese e accettò il bicchiere di limonata che l’uomo gli porse. Ne sorseggiò un poco e attese ancora un attimo per riprendere fiato. «Tutto procede secondo i piani. Abbiamo duecento braccianti suddivisi in due turni da dodici ore. Metà dei filari di baobab sono stati già lavorati e i frutti raccolti. Ancora ventotto giorni di lavoro e questa fase sarà completata.» «Magnifique!» sentenziò l’uomo di colore «e la lavorazione della polpa?» «Anch’essa procede come da programma. La lavorazione non ha dato problemi e la quantità prodotta è in linea con le aspettative. Presto avremo le scorte sufficienti per iniziare la sperimentazione.» «Oh no, monsieur le docteur» disse l’uomo in una risata beffarda «non sperimentazione, ma produzione. Lei ha garantito che la formula è efficace al cento per cento.»
17 «Naturalmente» confermò Degli Esposti sorseggiando ancora un po’ di limonata e deglutendo a stento. «Très bien6» disse l’uomo «ha quindici giorni per finire di raccogliere i frutti e farci vedere il primo prodotto finito. Ci rivedremo presto, dunque.» *** Era in effetti presto per la cena, ma T.J. Gibbons pensò di godersi la bella serata romana. Lasciò la stanza dell’Intercontinental dove alloggiava e salutò il concierge che chiese gentilmente: «Le chiamo un taxi, Mr. Gibbons?» «No, grazie Antonio. La serata è magnifica e voglio gustarla.» «A sua disposizione. Buona serata» lo salutò Antonio mentre T.J. Gibbons si tuffava nella città. In pochi passi fu alla balconata che domina la famosa scalinata romana, affacciata sulla via dello shopping. C’erano ancora moltissimi turisti alle prese con le foto tra i magnifici ciclamini che ornavano la scalinata. Altri erano ai bordi della fontana sulla piazza sottostante e una temeraria signora tarchiata, probabilmente tedesca, si era avventurata sulla prua della navicella per farsi immortalare in una posa memorabile, da far vedere agli amici in una fredda serata germanica. Ovunque era un brulicare di mendicanti, venditori ambulanti e artisti di strada. La piazza era gremita di uomini e donne in giacca e tailleur di ritorno da una lunga giornata di lavoro. Su tutto dominavano i colori e i sapori di una città davvero eterna. T.J. Gibbons scese lentamente la scalinata, evitando di intralciare la foto di un gruppo di giapponesi e rifiutando le rose che un ambulante cingalese gli proponeva con insistenza. Arrivato ai piedi della scalinata, accese una sigaretta. Non fumava da molti anni, proprio da quando… «Ha da accendere, per cortesia?» chiese un uomo sulla trentina avvicinandosi a Gibbons che fu preso di soprassalto a causa dei pensieri in cui era assorto. «Oh sì, naturalmente» porse l’accendino acceso al giovane. «Bella serata!» asserì il ragazzo, ringraziandolo con un cenno del capo. «Spettacolare» replicò Gibbons scrutandolo.
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Molto bene.
18 Il giovane, quasi avesse sentito su di sé lo sguardo indagatore di T.J., lo salutò e riprese la strada verso piazza Colonna. T.J. Gibbons restò meditabondo per qualche istante a fissare il trentenne, poi aspirò profondamente la sigaretta. Prese dalla tasca il pacchetto che Antonio il concierge gli aveva procurato. Fissò l’elegante scritta blu e sembrò perplesso. «Ai miei tempi fumavo roba più robusta» sorrise fra sé, incamminandosi verso l’antico caffè che un tempo fu proprietà di un immigrante greco e che si trova a pochi passi dalla piazza. Si sedette a un tavolino con posto singolo, lungo il corridoio tappezzato di quadri e foto d’epoca. La panchetta su cui si era accomodato era di un velluto rosso, in perfetto stile con l’ambiente e forse altrettanto antico. Ordinò un americano che arrivò di lì a poco, accompagnato da olive, pistacchi, arachidi e sandwiches. Bevve mezzo bicchiere dell’aperitivo rosso e prese il telefono dalla tasca della giacca. «Video chiamata» pronunciò rivolto all’apparecchio. Videochiamata, rispose la femminile voce metallica. «Luca Beretta» ordinò T.J. Lucaberetta, rispose la voce La chiamata partì e in due squilli Luca rispose: «Buonasera, ingegnere. Come sta?» «Bene, Luca. Grazie. E lì tutto ok?» «Sì, stiamo lavorando per quel contratto in Canada. Tutto procede per il meglio.» «Che dicono gli avvocati, si può chiudere?» «Sì. Ci sono alcuni punti da limare, ma è tutto ok.» «Ottimo. Bel lavoro.» «Grazie. E lei? Come procede il suo viaggio?» «Oh, bene. Avevo bisogno di riposare qualche giorno e questa città per me è un toccasana.» «Benissimo. Per quando la aspettiamo?» «Credo ancora un paio di giorni al massimo. Notizie dai ragazzi?» «Li sentiremo domani nel pomeriggio, quando da loro sarà prima mattina.» «Bene, me li saluti e dica loro…» restò in sospensione, sparendo dal video. «Pronto» chiamò Luca «ingegnere, è ancora lì?» «Sì, sono qui. Li saluti tutti.»
19 *** Erano tutti pronti. La connessione era attiva e Skype stava avviando la chiamata. «Eccoci!» gridò felice Valeria che guidava le operazioni grazie alle sue indiscusse capacità informatiche, confermate, laddove ce ne fosse stato bisogno, dalla faccenda della “scatoletta duplica dati” che era stata croce e delizia delle note vicende di pochi mesi prima. «Ciao ragazzi, come state? Vi state divertendo? Che ore sono lì da voi?» chiese Stella eccitata, facendosi portavoce del gruppo dei tutor assiepati dietro la webcam nella sede della K&C. «Stiamo da favola!» urlò Sandro spingendo da dietro il gruppo di amici fino a far calcare il naso di Anna e Giulia sulla cam dal loro lato, nella lounge dell’hotel che li ospitava a pochi passi da Central Park. «Sono le undici di mattina qui da noi» rispose Valeria cercando di mettere ordine «quindi da voi sarà pomeriggio… chi c’è lì?» «Ci siamo tutti» riprese Stella «ovviamente senza De Biasi e Degli Esposti.» «Abbasso le canaglie!» strillò Paola Lucchini dal lato degli studenti. «Abbasso le merde» aggiunsero Marco ed Enzo, suscitando le grida e gli applausi dei compagni, mentre l’uomo in livrea verde, appostato sulla porta girevole dell’hotel, si voltò a guardarli e sussurrò: «Crazy italian guys7» prima di rigirarsi a fissare il traffico sulla avenue. «Signori Foresi e Immobile, anche se siete negli Stati Uniti, l’educazione non deve abdicare» gli ricordò la professoressa Tacconi, improvvisamente sbucata nella webcam tra le facce ghignanti di Pietro Cuccato e Gianni Repetto, rispettivamente esperto informatico e responsabile delle finanze alla K&C. Nonostante la severità del rimprovero, né gli studenti, né i loro tutor, riuscirono a trattenere le risate. Avvicendandosi nel racconto spesso interrotto da domande e risate, i ragazzi raccontarono agli amici tutor le meraviglie del loro viaggio. Proprio il giorno prima erano stati al Metropolitan Museum, il gigantesco museo affacciato sul grande parco al centro della città. Due cose avevano colpito i ragazzi: la prima era la straordinaria raccolta di dipinti famosi, visti fino ad allora solo sui libri d’arte e raramente ammirati, se non in minima parte, nelle mostre allestite nel loro Paese.
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Pazzi ragazzi italiani.
20 La seconda era che in quel museo era possibile avvicinarsi alle opere fin quasi a toccarle. Nella Grande Mela nessuno si sarebbe sognato di toccare una tela del Metropolitan o, peggio ancora, rovinarla facendone scempio. Era chiaro a tutti che ogni opera era un patrimonio creato da uno straordinario artista che lo aveva dipinto per farne dono alla gente, perché ricordasse sempre quanta bellezza c’è nel mondo. Così i ragazzi si erano scattati decine di foto vicino ai “Giocatori di carte”, ai “Girasoli”, alla “Siesta” a un “ponte giapponese” e decine di altre che avevano postate sui loro profili Facebook e Instagram. Dopo la visita si erano seduti sulla scalinata del museo, passando il pomeriggio letteralmente a saccheggiare il carretto dell’uomo di colore che vendeva hot dog. «Un hot dog per un dollaro. Cose dell’altro mondo» gioì Luca, che evidentemente aveva apprezzato i panini. «Oggi» riprese Sandro «saliremo sull’Empire State Building per ammirare la città dall’alto. Naturalmente i miei amici mollaccioni saliranno con gli ascensori. Io e il professor Giavarini ce la faremo a piedi. Millecinquecentottantasei gradini!» «Ehi, moccioso» disse Paola alle sue spalle «verrò anch’io a piedi. E dopo la mia ora di jogging nel parco!» Risero ancora tutti di gusto. Paola vestì per un attimo i panni della seria professionista e chiese ai colleghi se le cose alla K&C filassero lisce. Luca la rassicurò in merito, senza scendere troppo nei dettagli: «Sei in ferie. Goditele.» «Sì, hai ragione» annuì Paola «e il capo, T.J., sta bene?» «Non ci crederai, anche il capo è in ferie.» Sembrò quasi esserci un salto nella connessione, un momento di black out. «T.J. Gibbons è in ferie?» chiese Paola sbalordita. «Sì, è a Roma da due giorni e ci resterà per altri due.» «Mai sentito prima che il capo prendesse ferie…» ribatté Paola perplessa. «Mi sono perso qualcosa?» si sentì alle spalle dei ragazzi. Valeria ruotò la webcam per inquadrare il professor Giavarini che teneva sollevato un gigantesco vassoio zeppo dei noti bicchieroni di carta con il disegno della sirena verde. «Ho portato il caffè per tutti» disse, fra le urla di gioia dei ragazzi.
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CAPITOLO 4
Uscì dall’antico caffè e accese una sigaretta. Mentre riponeva l’accendino nella tasca, sentì vibrare il suo telefono, seguito dal suono che annunciava un messaggio. Prese il cellulare e lo lesse. “Sono in ritardo. Ci vediamo dalla Lucia alle 21:30. Piero”. «Sei in ritardo da quando ti conosco» mormorò T.J. Gibbons tra sé, prendendo la strada per l’oltretevere. Calcolò che avrebbe impiegato più di mezz’ora, ma era presto e ne sarebbe valsa la pena. In un altro momento avrebbe goduto a pieno l’immergersi tra i turisti nella sua città preferita: via Del Corso, il Pantheon, Campo dè Fiori, Palazzo Farnese e giù, al Ponte Sisto, per entrare nel rione che è una città nella città, culla delle belle serate romane. Ma quella sera non riusciva a staccare la mente dall’incontro con il Francese. Nella sua testa suonavano ancora sibilline le parole sussurrate sempre al limite tra il ricatto e il disdicevole fraintendimento. Conosceva bene quello stile. Aveva ancora i brividi per quando, ancora molto giovane, si era trovato costretto a conoscere quel mondo e quel modo di agire. Aveva capito tardi in che grosso guaio si era cacciato e che rischio stava correndo. Del resto non aveva scelta. Serviva aiuto per risolvere il problema che si era creato e a quelle latitudini quello era il solo aiuto possibile. Se anche avesse potuto scegliere, avrebbe avuto alternative? Se lo era chiesto di frequente in quei giorni. E se lo chiedeva ancora oggi a distanza di anni. Arrivò oltre le 21:30 alla Locanda della Lucia. Spense la sigaretta gettandola nel posacenere ed entrò. Il ragazzo che serviva ai tavoli si congedò in fretta dalla coppia inglese seduta al primo tavolo di sinistra mormorando un:
22 «Take your time8» suggerendo in tal modo di scegliere con comodo i piatti desiderati. Avanzò verso T.J. Gibbons e lo salutò: «Buonasera. Da questa parte, prego.» T.J. Gibbons fu un po’ sorpreso da quella repentina accoglienza, ma seguì il giovane dai modi educati. Percorsero un breve corridoio, poi una scala a due rampe. Il ragazzo aprì una porta e fece accomodare T.J. Gibbons. «Qui sarete tranquilli, come ha chiesto il signor Piero.» Appena socchiusa la porta, un grosso uomo in maniche di camicia e cravatta allentata spense la sigaretta nel posacenere e si mosse in direzione del nuovo arrivato. «T.J., vecchio derelitto d’oltreoceano! Quanto tempo è passato? Dieci anni?» Così facendo strinse forte a sé T.J., battendogli robuste manate sulla schiena. «Almeno quindici, direi. Ma puzzi sempre di fumo e dopobarba da due soldi» rispose T.J. ricambiando il vigoroso abbraccio. «Ne è passato del tempo, non è vero? E tu? Sempre solo a spaccarti la schiena per quell’azienda americana dove giochi a fare il piccolo chimico? Come te la passi?» «Non mi lamento. E di quell’azienda sono diventato il capo. Almeno per il momento» rispose con la sua migliore aria sorniona. «Allora brindiamo al capo» gridò forte Piero, brandendo un bicchiere di vino rosso e riempiendone un secondo che porse all’amico. «Brindiamo a noi, caro vecchio Piero!» Terminati i convenevoli ordinarono antipasto di salumi e pecorino con il miele, pasta alla gricia, trippe al sugo, vino rosso e acqua frizzante. Attesero i piatti chiacchierando dei tempi andati. Poi mangiarono bevendo e ridendo, ricordando le migliori storie della vita passata insieme. Per dolce gli servirono due belle fette di salame di cioccolato fatto da Lucia. «Lo fa sempre come quindici anni fa» disse Piero. Dopo aver mangiato, i due amici si misero a fumare e Piero mise l’amico alle strette: 8
Prendetevi del tempo.
23 «Bene, vecchio mio. Se era solo per farmi rivedere il tuo culo flaccido, paga il conto e andiamo. Altrimenti fuori il rospo.» Come lo conosceva bene il suo amico Piero. Dopo essersi frettolosamente trasferito negli Stati Uniti con il padre ufficiale di marina e dopo l’università a Stanford, nella vita di T.J. c’era stata ancora l’Italia. Il padre era stato riassegnato alle forze Nato del Sud Europa, con sede proprio in Italia. Il giovane T.J. doveva iniziare il servizio di leva, ma ottenne di essere anch’egli assegnato allo stesso comando del padre per non separarsi da lui. Raggiunse il genitore dopo sei mesi passati in nave e si stabilì a Civitavecchia, sede del suo comando di marina. Frequentando Roma, nelle serate di licenza, aveva conosciuto alcuni militari di leva italiani e tra questi Piero, che stava svolgendo servizio presso l’Esercito Italiano. Si erano frequentati con assiduità per quasi due anni, intervallati solo dai periodi di addestramento in nave per T.J. e in caserma per Piero. Nel 2002 Piero aveva fatto domanda per un posto da Vice Ispettore alla Polizia di Stato e fu assegnato al commissariato di un paesino in Sardegna, in una zona a est, affacciata sul mare, che allora non faceva neppure provincia. T.J. lasciò invece la vita militare e iniziò a lavorare per la società di cui era poi diventato il Presidente della sede italiana. Si erano persi di vista, come accade nella vita, ma la vera amicizia resta sempre sopita sul fondo, come le braci sotto la cenere. Se l’amicizia è vera, basta un refolo d’aria buona per fare una bella vampa di calore e ravvivare il fuoco che scalda il cuore. Senza dimenticare con che intensità erano tornati in contatto quando ebbe quel problema con… «Avanti, vecchio mio. Fuori il rospo» ripeté Piero, ridestandolo dai suoi pensieri. «Oggi ho incontrato il Francese» disse T.J. Gibbons con la sua inconfondibile capacità di andare subito al punto. «Puttanazza la miseria» esclamò Piero, spruzzando ovunque parte del vino che stava tracannando in attesa delle parole dell’amico. «Ti presenti qui, bello come il sole, dopo quindici anni, mangi e bevi e ci metti due ore a dirmi che sei a Roma non per spupazzarti una piacente signora di mezza età, ma per incontrare il Francese?» ***
24
Si dovevano incontrare alle otto precise davanti al teatro, ma le ragazze erano in ritardo. Il gruppo si era diviso: i ragazzi allo store della marca della mela morsicata, capitanati dal professor Giavarini a fare incetta di sofisticate innovazioni tecnologiche, e le ragazze a svaligiare i negozi delle prestigiose griffe affacciate sulla Fifth Avenue. «Sentile su WhatsApp» disse come sempre operativo Marco rivolto a Luca «io prendo i biglietti o non troveremo posto.» Valeria sentì l’inconfondibile suono del suo iPhone appena sbucata dalla fermata della metro. «Ragazze, siamo in ritardo e i ragazzi scalpitano.» «Allora, al galoppo» disse ridendo Paola Lucchini, trascinando borse colorate e fruscianti. In pochi minuti erano sotto la gigantesca insegna dello spettacolo “Singin’ in the rain”, uno dei musical più longevi e di successo della storia di Broadway. Un altro suono avvertì Valeria di un nuovo messaggio. Lo lesse e informò le ragazze: «Sono dentro, entriamo.» «Finalmente, eccovi» le redarguì Sandro che era rimasto ad aspettarle con i biglietti nel foyer del teatro, mentre il resto del gruppo aveva preso posto. «Muoviamoci» le invitò aprendo loro la porta e consegnando i biglietti per tutte all’energumeno di colore che presidiava l’ingresso alla sala. Seguendo le indicazioni dell’uomo, imboccarono una scala piccolissima e molto ripida, sbucando quasi in cima al loggione. Proprio in quel momento si spensero le luci, giusto un istante dopo aver visto Enzo sbracciarsi per fargli vedere i posti dove erano seduti. Si fecero largo tra le persone sedute, si accomodarono sulle poltrone e le prime note diedero il via allo spettacolo. Il teatro era piccolo e i loro posti erano talmente in alto, con sedute così sporte in avanti, che quasi sembrava di poter cadere atterrando proprio al centro della scena. Per pochi spiccioli di dollaro si poteva utilizzare il binocolo inserito nello schienale della seduta di fronte. Il professor Giavarini distribuì le monete alle ragazze e si rivolse a Paola: «Ma dove eravate finite?» Lei per tutta risposta lo baciò prima di aggiungere: «Scusaci, ma è da non credere. Fare shopping a New York è…»
25 «Ssh. Shut up!9» la ammonì la signora alle sue spalle. Paola schioccò un altro bacio al professore, inforcò il binocolo e si tuffò anima e corpo nella trama del musical. Meno di due ore dopo la ciurma felice ed elettrizzata entrò nel ristorante scelto e prenotato per la cena a pochi passi dal teatro. Superata la porta d’ingresso imboccarono un corridoio che esponeva in bella mostra, su vetrine poste su entrambi i lati, delle enormi bistecche di bovino. La parte alta delle vetrine era riempita da mezzi bovini appesi al soffitto e pronti per essere sacrificati per farne straordinarie steak, come chiamano da quelle parti le bistecche da gustare al sangue, accompagnate da patate al cartoccio e birra gelata. L’interno del locale non deludeva certo le attese. Su di un pavimento di legno, erano collocati carinissimi tavolacci di legno, apparecchiati con tovagliette a quadretti, posate e bicchieri. La luce era soffusa e permetteva di intravvedere appena le centinaia di foto appese alle pareti: leggende di ogni sport praticato, vamp e divi del cinema americano e non solo, politici da ogni angolo del pianeta e gente comune. Li accolse un cameriere che li scortò al tavolo e prese le ordinazioni. Gustarono la cena in santa pace, rievocando i passi più incredibili dello spettacolo da poco terminato. «Per me» raccontò Giulia «il momento più bello è stato quando la vera voce protagonista si è svelata e ha intonato la melodia, invadendo la sala con il suo timbro meraviglioso.» «E vogliamo parlare di quando l’acqua ha invaso il palcoscenico?» chiese Enzo. «Hai ragione. Incredibile! Quando ho visto uscire l’acqua dal soffitto e letteralmente inondare il palco, credevo fosse un effetto ottico, una diavoleria fatta al computer» aggiunse Sandro. «Ti posso confermare che non lo era» fece Anna «alla fine del primo tempo, scendendo a prendere i gelati, io e Luca abbiamo controllato.» «Il palco» proseguì Luca «è una gigantesca vasca con bordi alti un centimetro che fungono da sponde per contenere l’acqua.» «In questo modo i ballerini possono eseguire il famoso balletto con gli ombrelli colorati proprio con i piedi inzuppati nell’acqua» completò Valeria. «Del resto» sogghignò Enzo «l’acqua che hanno calciato sulle prime file della platea era vera assai!» 9
Silenzio.
26 Risero tutti in modo sguaiato e ovviamente la professoressa Toblino li redarguì. La cena filò via in serenità in quel vero tempio della steak americana. I ragazzi erano letteralmente elettrizzati per quel viaggio spensierato che stava regalando a tutti forti emozioni e la scoperta di novità quasi difficili da credere. *** Non poteva credere ai suoi occhi. Sebbene la serata fosse iniziata da un pezzo, come sempre i braccianti erano nel pieno del loro turno di lavoro. Alle ventidue precise le lampade fotoelettriche si accesero, illuminando a giorno la distesa di baobab. Il rumore sordo e ritmato del generatore, a tratti copriva la voce dei negus che impartivano gli ordini ai lavoranti. Le nuvole avevano coperto la luna, presagio della stagione delle piogge in arrivo. La luce delle lampade rendeva particolarmente verdi le foglie degli alberi. Da esse si alzava verso il cielo un alone smeraldo sempre più tenue, via via sfumando al bianco riflesso delle nuvole. Degli Esposti si era da poco accomodato in veranda con la sua immancabile limonata. Aveva acceso il condizionatore, puntando il getto d’aria verso le sue gambe. Adorava sentire quel refrigerio salire dalle caviglie verso le ginocchia. Come sempre si sarebbe gustato lo spettacolo serale per un’ora circa, prima di entrare nelle casetta di legno e sigillare porte e finestre, per poi dare ordine al suo aiutante e servitore Kamau di piantonare la porta di casa e finalmente dormire fino alle prime luci dell’alba. Invece non poteva credere ai suoi occhi. Invece… invece ne era certo: sulla linea dell’orizzonte, fissando lo sguardo attraverso il bagliore acquoso delle lampade e dell’umidità notturna, poteva vedere la nuvola di sabbia muoversi. Era una linea fuligginosa, in movimento da sinistra verso destra, proprio dove c’era la strada sterrata che aveva percorso qualche tempo prima, quando venne scortato alla fazenda da dove non si era più mosso. Aveva ricevuto poche visite in quelle settimane, sempre preannunciate dal movimento orizzontale della sabbia ocra. L’unico visitatore che poteva arrivare alla fazenda era l’odiato e temuto Francese.
27 Degli Esposti odiava dal profondo delle sue viscere quell’uomo. Disprezzava l’odore della sua pelle, il luccichio sinistro dei suoi denti, spesso tirati in un sorriso maligno e beffardo; il suo giocherellare incessante con l’anello d’oro che aveva al dito. Chissà quanto valeva lo smeraldo incastonato al centro e come se l’era procurato un uomo simile. Un uomo al servizio di uomini potenti, signori e padroni del Kenya. Tutti alla fazenda temevano il Francese e più di tutti Kamau. Una sera, pochi giorni prima, Kamau aveva raccontato a Degli Esposti una storia tremenda e agghiacciante, che gli aveva fatto perdere il sonno. Era una sera come quella, con le lampade accese per i lavoratori notturni. La serata era calda, sotto un tappeto di stelle che Degli Esposti non aveva mai neppure sognato. Si sentiva triste, aveva nostalgia di casa. Non riuscendo a dormire chiamò Kamau per farsi dire il nome delle stelle più brillanti. Poco dopo Degli Esposti insistette per conoscere la storia di Kamau. Gli piaceva sentire le storie raccontate dal suo servitore. Kamau era nato nella fazenda, dove aveva imparato a lavorare la terra e a raccogliere i frutti dei grandi alberi. Una notte di molti anni prima, Kamau e Kairu, suo fratello gemello, si erano presi una pausa di pochi minuti per bere sidro e dissetarsi. Il Francese al tempo non era ancora l’uomo d’affari di oggi, ma era già a servizio dell’organizzazione di cui poi sarebbe diventato il braccio operativo. Allora il suo compito era gestire quella e altre fazende, garantendo che i braccianti lavorassero come schiavi per ottenere raccolti abbondanti. Era già un uomo crudele, forse più di oggi, perché la giovane età lo rendeva istintivo e assetato d’odio e di sangue. Era temuto da tutti e considerato un demone onnipresente. La leggenda narrava che avesse incontrato Ngai, la divinità ritiratasi sulla cima del monte e avesse rubato la sua forza, potendo quindi vivere due vite. Solo così la gente si spiegava come potesse essere in una fazenda a scudisciare gli operai e poco dopo, a chilometri di distanza, sotto un altro baobab a frustare fino a far perdere loro i sensi due ragazzi colti a magiare i frutti dell’albero. Fu così che il Francese, che al tempo era il negus della fazenda, sorprese i fratelli Kamau e Kairu seduti ai piedi di un baobab per pochi minuti di riposo dal lavoro e iniziò a picchiare selvaggiamente a mani nude Kamau. Il Francese era giovane, forte, atletico e ben nutrito. Kamau invece era solo un robusto bracciante dalle mani callose, non avvezzo alla lotta. Ben presto il Francese si scagliò su di lui, gettandolo a terra e tempestandogli il volto di pugni. Il naso e gli occhi erano una maschera
28 di sangue e Kamau sarebbe morto se suo fratello Kairu non si fosse avventato sul Francese per fermarne la violenza omicida. Il Francese reagì come un animale ferito al colpo ben assestato di Kairu. Si riprese dallo stordimento e si avventò sul ragazzo, colpendolo con calci e pugni. Sembravano colpi di arti marziali e solo più tardi Kamau seppe che erano mosse di Taekwondo. Fu un istante, un lampo. Il Francese alzò la gamba all’altezza dell’anca, fece perno sul piede e ruotò il corpo rapidamente, poi colpì Kairu con tale violenza al volto da scaraventarlo a terra, nella sabbia rossa. Il Francese si ripulì gli abiti dalla sabbia, imprecò e ordinò ai braccianti che stavano assistendo al pestaggio di riprendere a lavorare, perché era lui a dettare i tempi delle pause dal lavoro. Appena si fu allontanato, Kamau corse dal fratello. Ricordava ancora lo sguardo di terrore negli occhi di Kairu, che rimase per sempre deformato al volto a causa delle fratture dovute al colpo tremendo. Da quel giorno nessuno osò più alzare lo sguardo al passaggio del Francese. Erano passati molti anni da quel giorno e il Francese non era più solo un negus della fazenda. Lavorava per uomini ricchi e potenti e vestiva abiti sartoriali eleganti. Ma Degli Esposti sentiva che dentro di sé il Francese era rimasto l’animale di allora e lo temeva dal profondo delle sue viscere. “Barba non facit philosophum10”, pensò. Quella visita notturna era insolita e la sua mente, mentre la scia di sabbia si avvicinava e lasciava intravvedere il grosso Range Rover nero, lo riportò al racconto di Kamau, facendolo rabbrividire.
10
La barba non fa il filosofo.
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CAPITOLO 5
Sporgersi da quell’altezza poteva far rabbrividire chiunque, ma non certo un tipo come Enzo Immobile. Napoletano verace e sanguigno di carattere, spedito al Nord dai genitori per studiare e stare alla larga dalle tentazioni del capoluogo partenopeo, Enzo non “teneva paura ‘e nulla” come diceva lui, nascondendo sotto una scorza da duro un cuore impavido certamente, ma pur sempre di ragazzo. «Dai Giulia» gridava infilando la testa tra le strette sbarre dell’inferriata «sporgiti. È bellissimo! Sotto è pieno di taxi gialli. Saranno nù milione. E poco più in là c’è il grande rettangolo verde del parco. Bellissimo!» «Non sono salita sul grattacielo più alto di New York per sfracellarmi di sotto» gli rispose Giulia, avvinghiata alla schiena di Marco. «Miii, che lagna. Dai Sandro, esci tu con la testa» riprese Enzo, cambiando bersaglio. «Mi dispiace, non ci crederai ma soffro di vertigini» rispose lo “sportivone” del gruppo, tenendo le spalle ben addossate all’edificio, nel punto più distante dal parapetto. «Soffri di vertigini?» domandò Anna «un ragazzone come te? Non c’è più religione.» «Signorina Zamagni! La religione non c’entra proprio nulla. E lei, signor Immobile, si contenga e rientri al sicuro» ammonì la Toblino preoccupata per l’esuberanza del ragazzo. «Ma io sono al sicuro. Guardi, posso volare» continuò Enzo rincarando la dose e sporgendosi con il busto. La professoressa Toblino emise un gridolino di paura e per la verità anche Marco, che ben conosceva l’inconsapevole follia dell’amico e pertanto era preoccupato. La cosa durò poco. Un addetto alla sorveglianza in divisa verde si presentò sul terrazzino del centoduesimo piano del grattacielo, prese letteralmente di peso Enzo, se lo caricò sulle spalle e lo portò all’interno dell’edificio.
30 Dopo un attimo di sgomento, l’intero gruppo del Goffredo Mameli con professori e tutor al seguito si gettò sulle tracce dell’uomo della sicurezza, urlando chi in italiano chi in uno stentato inglese: «Si fermi, possiamo spiegare. Si tratta di uno scherzo.» In realtà non fu proprio uno scherzo e ci volle tutta l’arte oratoria e commerciale di Paola Lucchini per convincere gli agenti della sicurezza che Enzo non si voleva buttare. Dopo quasi un’ora si convinsero, o almeno così sembrò, arrendendosi più alle credenziali di Paola che alle reali intenzioni di Enzo. «Sei un cretino!» lo apostrofò Valeria quando Enzo e Paola li raggiunsero alla caffetteria dove il gruppo si era rintanato ad aspettarli. Enzo doveva essersi spaventato un bel po’, messo sotto torchio dagli agenti, perché bofonchiò solo un “mmh” e si sedette vicino a Marco, suo amico fidato e porto sicuro. Al professor Giavarini bastò uno sguardo d’intesa con Paola per capire che doveva intervenire per mettere fine ai commenti della professoressa Toblino e di Anna, che di sicuro avrebbero voluto presentare a Enzo il conto della loro ansia nell’ora passata. Il ragazzo aveva già avuto la sua parte. «Tutto è bene quel che finisce bene» disse. Poi, rivolto al cameriere, fece un cenno. «Mi sono permesso di organizzarvi un brunch.» «Un che?» chiese Luca. «Un brunch, ignorante» intervenne Valeria, che evidentemente aveva ancora gli ormoni scombussolati dalle prodezze di Enzo. «Signorina, moderi le parole» non mancò di redarguirla la Toblino. «Sì, dai. Diamoci tutti una calmata» tentò di riportare ordine Marco «ci spieghi, professore.» Il brunch è la colazione tipica domenicale degli americani, spiegò Giavarini, e dei newyorkesi in particolare. I migliori locali sono nel quartiere di Chelsea, dove è facile trovare famiglie, coppie o gruppi di amici alle prese con la colazione abbondante della domenica. Non che gli altri giorni della settimana la colazione degli americani sia povera, tutt’altro. Ma il tempo di riposo domenicale ne allunga la durata e ne moltiplica, di conseguenza, le portate. Agli immancabili pancake con sciroppo d’acero, accompagnati da caffè nero in tazza big e succo d’arancia, nel brunch si aggiungono toast spalmati al burro d’arachidi, uova strapazzate e bacon. Ma questa è solo la base di un brunch che si rispetti, perché poi ogni
31 locale lo personalizza con un piatto che lo caratterizza: da pollo ai waffels con panna e nocciole, al salmone affumicato, alle bevande potenti come il ramos fizz, dalle bistecche e uova ai french toast con omelette. «Il brunch, insomma» concluse il professor «è una gigantesca colazione che vale da pranzo, per stare insieme e passare la domenica mattina.» Proprio in quel momento il cameriere arrivò con i primi vassoi e servì il brunch ai ragazzi. Davanti alle pietanze gli animi degli studenti si stemperarono e perfino la professoressa Toblino prese parte con vigore alle chiacchiere e alle discussioni sui prossimi appuntamenti in programma. *** Una visita fuori programma non era buon segno e Degli Esposti ne ebbe subito la prova. “Tuttavia”, pensò “cuius regio, eius religio11”. Il Francese scese dalla vettura scura, sistemò con cura la cravatta nella giacca e si avviò a larghi passi verso Degli Esposti, facendo ruotare il suo anello con smeraldo attorno all’anulare. Arrivato a pochi passi da lui, Degli Esposti si preparò a riceverlo porgendogli la mano. Per tutta risposta l’uomo di colore lo scartò e si infilò in casa. «Mi segua» si limitò a ordinare. Sapeva perfettamente come muoversi. Superò la prima stanza e si infilò nella porta oltre il cucinino. Degli Esposti lo seguì in silenzio. La casetta di legno che lo ospitava dal suo arrivo in Africa era un prefabbricato sollevato dal terreno come una palafitta. Degli Esposti passava le sue giornate sulla verandina con la sua adorata limonata, il condizionatore e la sedia a dondolo. Del resto, la casa non offriva molto spazio. La prima stanza con il tavolino e le due seggiole completava il soggiorno con il cucinino e un divano due posti di fronte a una piccola TV satellitare. Oltre la porta che aveva appena infilato il Francese, c’erano altre tre stanze: la camera da letto di Degli Esposti, il piccolo bagno con doccia, e una camera che avrebbe dovuto fungere da stanza per gli ospiti, ma che era vuota.
11
Di chi è la religione, di lui sia la religione.
32 Il francese entrò in questa stanza, aprì la finestra e fece un cenno ai suoi uomini appostati di fuori. Degli Esposti raggiunse il Francese e lo interrogò: «Posso fare qualcosa per lei?» «Non credo proprio» rispose piccato. Nella stanza entrarono i due uomini del Francese e un terzo con un enorme borsone. «È tempo che lei scopra un piccolo segreto» continuò il Francese. I due sgherri spostarono il tappeto che copriva l’intera stanza e alzarono una botola posta all’angolo estremo. Degli Esposti guardò attonito il Francese. «Prego» disse questi leggendo il suo stupore «dopo di lei» indicò a Degli Esposti la botola. Senza mutare la sua espressione di sorpresa, Degli Esposti si affacciò sulla botola e scorse una ripida scala scendere nell’oscurità. Ancora una volta il Francese sembrò leggergli nei pensieri: «Scenda due gradini. Si aggrappi al corrimano. Stenda la mano a sinistra e prema l’interruttore della luce.» Degli Esposti seguì gli ordini e una luce bianca salì dalla botola, illuminando il volto del Francese. «Ora scenda.» Degli Esposti scese altri dieci gradini e si fermò ai piedi della scala, dove lo raggiunsero il Francese e l’uomo con il borsone. Degli Esposti si stava guardando in giro. La stanza era attrezzata con apparecchiature elettroniche, computer, strumenti per trasmissioni. Una parete era ricoperta da svariati monitor a circuito chiuso che proiettavano immagini sugli schermi LED che davano una luce soffusa e multicolore alla stanza. Degli Esposti riconobbe dalle immagini sui monitor la strada di sabbia che accede alla fazenda, i filari di baobab con i braccianti al lavoro, la casetta soprastante inquadrata da ogni lato, ogni stanza al primo piano e un ultimo monitor spento. Ruotò ancora lo sguardo, scorgendo una porta di ferro sulla parete alle sue spalle. Il Francese si diresse verso quella e fece entrare l’uomo con il borsone. «Sorpreso?» fece rivolto a Degli Esposti. «Beh, direi di sì» rispose «di che si tratta?» «Diciamo che questo è un posto sicuro» rispose il Francese «presto avrà compagnia.» «Chi verrà?»
33 «Questo al momento non la deve riguardare, monsieur le docteur. È tempo di passare alla fase successiva del nostro programma. Se entro due giorni non avremo le risposte attese dall’Italia, agiremo.» «Cosa intende?» «Credo che nemmeno questo la riguardi. Lei si preoccupi della raccolta dei frutti e degli altri compiti a lei assegnati. Al resto penseremo noi.» In quel momento il monitor prima spento si accese, completando la fila delle inquadrature di controllo. Al monitor era collegata la telecamera che l’uomo con il borsone aveva certamente appena installato e attivato nella stanza oltre la porta di ferro. L’inquadratura era nitida e nella fioca luce del neon si notava una stanza di due metri per due, ovviamente senza finestre come l’intero sotterraneo e con un solo letto in ferro ad arredare la stanza. Su di esso erano adagiati un materasso e una coperta. Dalle scale scesero i due uomini del Francese. Uno collocò una brandina da campo sul pavimento, si tolse la giacca, si adagiò e si stappò una birra presa dal frigo da campeggio portato dal suo compagno. Poi si accomodò alla sedia girevole davanti alla parete attrezzata. Si mise delle grosse cuffie con microfono sulla testa, inserì il jack nella presa aux e premette alcuni bottoni. Si accesero quattro monitor a colori. Sul primo c’era una mappa del planisfero con alcuni punti luminosi che iniziarono a pulsare. Sul secondo si aprì una videata a quattro quadranti che sembrava essere la visuale dal satellite di quattro diverse zone che Degli Esposti non seppe distinguere. Un terzo video iniziò a far passare scritte in codice verde su sfondo nero. Il quarto, infine, sembrava un normale televisore sintonizzato sulla CNN. «Tutto operativo, signore» disse l’uomo che indossava la cuffia. «Molto bene» disse il Francese «buon lavoro.» Detto questo salutò i due uomini con un cenno del capo e invitò Degli Esposti e l’uomo con il borsone a risalire la scala. Nella stanza al piano superiore erano apparsi un letto da campo e un uomo di colore. Appena il Francese sbucò dalla botola, l’uomo lo salutò con un gesto militare. «Buona serata» rispose al saluto il Francese. I tre uscirono dalla stanza che l’uomo chiuse a chiave alle loro spalle. «Non capisco» disse Degli Esposti mentre l’uomo con il borsone usciva dalla casa e riprendeva posto sul Range Rover. «Non c’è motivo che lei capisca» disse il Francese «presto conoscerà le novità.»
34 *** Le novità di quella giornata per T.J. Gibbons non erano state né molte, né buone. Dopo la cena della sera precedente con il ritrovato amico Piero, era seguita una lunga nottata in un bar del centro. Dopo il primo drink T.J. era passato a un più sicuro chinotto, mentre l’amico aveva continuato a ingollare un Oban dietro l’altro, alternati solo da acqua liscia con ghiaccio per ripulire le papille gustative e assaporare meglio il suo nettare torbato. Piero era famelico di sapere ogni dettaglio. La verità era che non c’era molto da dire. Qualche giorno prima T.J. era stato contattato con un protocollo che non vedeva da anni: tre squilli al suo cellulare intervallati da dieci secondi di silenzio l’uno dall’altro. Ogni chiamata durava solo uno squillo e il numero era sempre il medesimo, cambiava di una cifra, l’ultima. Prima chiamata uno squillo, numero con finale in sei. Seconda chiamata uno squillo, numero con finale in uno. Terza con finale in zero. Codice 6-1-0. Non gli accadeva da molti anni, da quando era stato messo in contatto attraverso Piero con dei “collaboratori dell’ambasciata keniota”, come li chiamava l’amico poliziotto. La situazione era talmente grave e delicata che T.J. non andò troppo per il sottile. Quegli uomini lo potevano aiutare a risolvere il suo problema e questo veniva prima di tutto. Negli anni si era poi chiesto chi potessero essere quegli uomini e si convinse che fossero elementi dei servizi segreti africani, forse di qualche corpo speciale o dell’antiterrorismo, operanti su scala mondiale. Da qui si potevano dedurre i contatti con l’Interpol e di conseguenza con Piero. Il messaggio che aveva ricevuto T.J. era criptato secondo le regole che al tempo Piero gli aveva spiegato. Il sei indicava il luogo in cui doveva avvenire l’incontro. Il numero uno il tempo che doveva intercorrere tra la chiamata e l’incontro. Zero se il tempo era espresso in giorni oppure ore. Il codice 6-1-0 stava per “appuntamento al posto sei in un’ora”. Non un giorno perché la terza cifra a zero indicava in questo caso il riferimento all’ora. Con un due sarebbe stato un riferimento a giorni.
35 I posti da utilizzare erano in tutto dieci, che T.J. aveva dovuto mandare a memoria. Sparsi in mezza Europa e in ogni continente, al tempo ne avevano usati solo tre o quattro, ma li ricordava ancora bene. E poi, il sei era un posto collocato al centro della sua città. Si recò all’incontro entro i sessanta minuti indicati. Trovò ad attenderlo un ragazzino del posto che gli consegnò un cellulare usa e getta e si dileguò. Il cellulare fu utilizzato ventiquattrore dopo con lo stesso protocollo: 32-2. Significava Roma, entro due giorni. Si era così recato a Roma dove aveva incontrato il Francese, come già aveva raccontato all’amico Piero. «Ma cos’è questa cosa che hai e che loro vogliono?» chiese il funzionario di polizia all’amico, mentre si scolava l’ennesimo drink. T.J. spiegò a Piero della faccenda della formula del professor De Paoli. Raccontò del concorso con i ragazzi del Goffredo Mameli e di come fossero stati coinvolti nel tentato furto della formula. «E questi ragazzotti sono riusciti da soli a far saltare l’operazione?» chiese sbalordito Piero. Lui non conosceva i ragazzi, spiegò T.J. Erano stati aiutati dai tutor, suoi collaboratori alla K&C, ma solo sul finale e solo per coinvolgere l’azienda e quindi la mente: il Responsabile delle Risorse Umane, dottor Degli Esposti. Ma il resto lo avevano fatto tutto da soli. La cimice nell’ufficio di Degli Esposti, la finta consegna di Enzo, l’intercettazione della telefonata per fissare lo scambio. Erano stati dei portenti e Piero non poteva nemmeno immaginare quanto T.J. ne fosse orgoglioso. «Quindi» riassunse Piero «cornuti e mazziati i truffatori si sono dileguati?» In realtà solo De Biasi era stato arrestato ed era in attesa di processo. Degli Esposti invece era stato prelevato da emissari del governo keniota e sicuramente lo avevano fatto fuggire in Africa. «Maledetti africans» bestemmiò Piero prima di ingollare un altro sorso di Oban «quindi, che pensi di fare?» chiese. T.J. non voleva certo cedere al velato ricatto. Non ne vedeva il motivo e non era in debito con quelle persone. Non più. «Quindi» concluse rivolto all’amico «ho bisogno del tuo consiglio e del tuo aiuto.» «È fuori discussione per te scendere a patti con il Francese? Sai quanto sia pericolo…»
36 «Fuori discussione» ribatté fermo T.J. «l’ho fatto anni fa su tuo consiglio per il motivo che sai. Non me ne pento, ma non voglio avere più nulla a che fare con loro. Ho pagato caro il loro aiuto.» «Lo so bene…» mormorò Piero che quindi consigliò di far passare la notte e forse la sbornia, dandogli il tempo di fare qualche telefonata. T.J. aveva passato la giornata ai Musei Vaticani, dove non tornava da tempo. Si era inebriato di sculture e dipinti, aveva gustato la galleria delle carte geografiche, fino a immergersi nella pura bellezza della Cappella di Michelangelo. Aveva avuto per tutto il giorno una brutta sensazione, come di essere seguito e ne ebbe la conferma quando sorprese un ragazzo in un angolo della strada intento a fingere di leggere il giornale. T.J. incrociò per un attimo il suo sguardo, si girò di scatto e fece un paio di passi di corsa. Si arrestò e si girò. Il ragazzo aveva gettato a terra il giornale e si era messo a correre verso T.J. Vedendo questi arrestarsi e voltarsi si fermò anch’egli e fissò T.J. negli occhi. Capì di essere stato ingannato e scoperto e si diede alla fuga. A T.J. non restava che rientrare in hotel fumandosi una sigaretta. Entrato in stanza sentì squillare il telefono sul comodino. Era la reception che gli inoltrava una chiamata. «Ciao Piero, novità?» «Sì, ho fatto qualche telefonata e credo ci serva aiuto.» «Cosa devo fare?» «Devi andare a Londra da un tale che ti può dare qualcosa di utile.» «Persona fidata?» «Offre la casa.» «Senti a proposito, puoi smetterla di offrirmi la tua protezione?» «Di che diavolo stai parlando, pazzo di un americano?» T.J. spiegò all’amico di aver scoperto i suoi pedinatori. Prima il tizio delle sigarette la sera precedente, poi strani turisti ai Musei Vaticani, più interessati a lui che alle bellezze artistiche; e infine il tizio del giornale. «T.J.» fece serio Piero «non erano miei uomini.» «Allora» concluse T.J. dopo un attimo di silenzio «è bene che mi metta subito in viaggio.»
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CAPITOLO 6
Erano poco più di cinque chilometri, ma in quella stagione sembravano di più. La strada che conduceva dal villaggio al centro, sotto l’egida dell’ONU, era una pista di terra rossa costellata di sassi. Bastavano pochi minuti di pioggia intensa, com’era solito in quel periodo dell’anno, e la pista diventava una sorta di palude melmosa. Essendo in leggera discesa verso il Paese, l’acqua scorreva scavando piccoli solchi nei quali s’incanalava e prendeva velocità. A chi si metteva in viaggio dal Paese verso il centro ONU, non restava dunque che immergere i piedi nella melma e lasciare che l’acqua salisse fino alle caviglie, che in alcuni casi superava i cinque o anche i dieci centimetri. Tranne i pochi militari Pakistani rimasti a presidiare il campo, e qualche fotoreporter straniero – sempre meno frequenti –nessuno aveva calzature adeguate. La maggior parte di chi si trovava a percorrere la strada erano abitanti del villaggio a valle che salivano al centro ONU per una visita presso gli ambulatori dell’ospedale o per andare a scuola. Il campo ONU infatti era stato costruito durante gli anni terribili della guerra in Somalia, per dare ospitalità a quanti, fuggendo dalle barbarie, venivano a cercare rifugio in Kenya. L’UNHCR, organismo dell’ONU, aveva impiantato un campo profughi con una tendopoli per ospitare i rifugiati. L’unico edificio che fu eretto in muratura fu un ospedale che fungeva da presidio di primo intervento per i profughi che arrivavano stremati, spesso disidratati. Un anno dopo l’apertura del campo, gli americani chiesero e ottennero dal governo keniota di costruire a fianco del campo profughi una loro base che facesse da centro logistico di appoggio per i militari impegnati in Somalia. Venuti a conoscenza dell’esistenza del presidio medico, gli americani si attivarono per ampliarlo e attrezzarlo come un vero ospedale militare, in grado di effettuare anche interventi chirurgici. In tal modo il presidio poteva essere utilizzato anche per le esigenze dei militari. Arrivarono molti medici, sia da organizzazioni internazionali, sia volontari, per lo più americani, canadesi e inglesi.
38 Furono i medici che ricavarono in una parte dell’ospedale quattro stanze che adibirono a scuola. Tra i profughi infatti vi erano molti bambini e ragazzi, precocemente e ferocemente strappati alle loro case e alle loro vite. I medici organizzarono un campo per i giochi e una scuola attiva per i diversi gradi di apprendimento. I primi docenti furono proprio i medici, quando non impegnati nei turni o per le emergenze in ospedale. Dopo pochi mesi arrivarono anche i volontari e gli inviati dell’ONU. Tra questi c’era Mukami, che si trovava da molti anni in Kenya al servizio del governo americano. Mukami aveva completato la sua missione per gli USA da qualche settimana, quando venne a sapere del campo ONU al confine con la Somalia e del fatto che cercassero docenti per la scuola. Grazie ai suoi contatti con l’ambasciata USA, fece arrivare la sua candidatura ai funzionari ONU in loco, che furono felici di averla come insegnante al campo. La donna non solo sarebbe stata un’eccellente docente, profonda conoscitrice della lingua e delle usanze della popolazione locale, ma avrebbe dato il proprio contributo per creare coesione tra le diverse etnie di profughi presenti al campo, forte delle sue esperienze internazionali. Inoltre, secondo alcuni funzionari, un’ex diplomatica USA, ancora a stretto contatto con l’ambasciata, sarebbe tornata utile. Mukami, da parte sua, cercava solo un lavoro che le consentisse di restare ancora, e forse per sempre, in Kenya, rendendosi utile alla popolazione del Paese che aveva imparato ad amare. Fu così che Mukami si stabilì nel piccolo villaggio ai piedi del campo ONU e prese servizio a scuola. Con il passare degli anni il campo perse la sua funzione originaria, essendo cessata l’emergenza umanitaria nella vicina Somalia. Tuttavia l’UNHCR non volle smantellarlo, e lasciò operativi l’ospedale e la scuola. Le due strutture restarono così a servizio delle popolazioni locali, che dai vicini villaggi impararono a utilizzare le strutture del campo, facendolo diventare un punto di riferimento per l’intera Regione. Quella mattina Mukami si era svegliata tardi. La sera prima non riusciva a prendere sonno, a causa del frastuono del temporale e della pioggia che
39 batteva incessante sul tetto di lamiera e paglia intrecciata della sua capanna. Solo alle prime luci dell’alba si era assopita, risvegliandosi quando qualcuno bussò alla sua porta. Si alzò a sedere sul letto, prese in mano il suo vecchio orologio e balzò in piedi. Erano le otto passate, quasi un’ora più tardi del solito. Avanzò verso la porta per porre fine al battere incessante, la aprì e abbassò lo sguardo. Una bimba di colore, di quattro o cinque anni al massimo, vestita con una tunica azzurra a fiori gialli e viola. Aveva i lunghi capelli crespi, neri come il carbone, legati in due simpatiche treccine. La guardava con i suoi occhioni grandi e scuri dai suoi centoventi centimetri di altezza poggiati sui piedini nudi. «Maestra Mukami, ti aspetto da mezz’ora. Non vieni a scuola oggi?» Le parlava nella sua lingua Swahili, ma Mukami la capiva benissimo. «Sì, Jumapili. Vengo a scuola. Mi sono addormentata. Entra un attimo finché mi preparo.» Jumapili, che nel suo idioma significa “nata di domenica”, era una bimba del suo villaggio rimasta orfana della mamma quando era molto piccola. Viveva con il papà e la nonna materna e da due anni andava alla scuola del campo, dove aveva conosciuto e si era affezionata a Mukami, tanto da aspettarla ogni mattina sotto il baobab appena fuori dal villaggio per salire con lei, mano nella mano, verso la scuola. E mano nella mano salirono anche quella mattina, con i piedi nel fango che cessava solo all’ingresso del campo. Mukami si pulì i piedi dal fango con uno straccio, srotolò i pantaloni che aveva preservato dall’acqua, arrotolandoli fin sopra il ginocchio, si sistemò la camicetta di cotone, riprese da terra la borsa con i libri e seguì Jumapili che aveva spalancato la porte della classe. Appena Mukami varcò la soglia, i suoi trentacinque scolari scattarono in piedi e la salutarono: «Buongiorno signora maestra Mukami. E buon compleanno, signorina Maddalena!» Da quanto tempo Maddalena non si sentiva chiamare per nome. E che emozione! Mukami era il nome che le avevano dato dopo il suo arrivo al campo. In lingua kikuyu significava “fatta di latte” e non era difficile capire dunque l’origine del suo nuovo nome. I suoi ragazzi si erano ricordati che era il giorno del suo compleanno e le avevano preparato una festa a sorpresa in classe. Il suo cuore era colmo di gioia. Non ricordava neppure che fosse il suo compleanno.
40 *** T.J. aveva dimenticato quanto gli piacesse Londra. Non aveva mai passato tanto tempo nella città, solo brevi soggiorni, per lo più viaggi d’affari, tuttavia bastavano pochi istanti, dopo aver messo piede sul suolo britannico, per ricordare tutto ciò che adorava di quella città. Ne apprezzava i colori, sempre così intensi, seppure nella loro deriva autunnale per chi come lui veniva da paesi soleggiati: viveva in Italia e aveva eletto l’Africa come suo Paese ideale. Sapeva trovare soddisfazione negli odori e nei sapori londinesi. Tutto nella city traspirava di multicultura e interrazzialità. Parole difficili per T.J., ma Londra lo aiutava a capirne il senso e gustarne l’essenza. E poi adorava l’accento inglese che, per chi come lui parlava la stessa lingua ma aveva girato il mondo, rappresentava l’essenza della lingua medesima, così carica delle proprie tradizioni e rituali. Riemerso dalla stazione del treno navetta che lo aveva portato dall’aeroporto, si era tuffato immediatamente nella città, vagando senza meta, al solo scopo di gustare quanto più gli era possibile. Il perditempo: così chiamavano T.J. e i suoi compagni di università quel vagare senza meta tra le vie della città. Poco importava che fosse New York, Barcellona o Venezia. Quel che contava era il vagare senza meta gustando ogni centimetro di vita. Quasi senza rendersene conto entrò in un teatro nella famosa zona dei musical. Fu attratto dalla locandina e anche dalla notizia che aveva letto su una rivista durante il volo. Raramente T.J. badava a quel tipo di periodici che si trovano su aerei e treni, che per lo più raccoglievano notizie frivole, proposte commerciali di prodotti di dubbia qualità e lunghi elenchi delle tratte coperte da questa o quella compagnia. Quel giorno invece gradì la rivista che aveva trovato al proprio posto, perché voleva liberare la mente dai pensieri che lo assillavano da quando aveva incontrato il Francese. Tra la proposta di un viaggio in una località esotica e l’illustrazione dei soavi sapori di un doppio malto invecchiato diciotto anni, lesse con stupore e piacere di una ragazza italiana, unica della sua nazionalità, a esibirsi nella city nel cast di un famoso spettacolo, record di incassi al botteghino. Partita giovane dal Paese natale per studiare le arti nella più famosa accademia londinese, era riuscita a ritagliarsi il suo spazio nel sempre florido, ma estremamente difficile, mondo dei musical a Londra.
41 Nella breve intervista diceva che quel successo ripagava lei e i genitori dei sacrifici fatti, e alla domanda se Londra fosse stata una scelta o una fuga dall’Italia, rispondeva “una fuga scelta con attenzione”. «Qui se sai lavorare ottieni lavoro, altrimenti stai a casa. Devi lavorare duro per molte ore al giorno, avendo giusto il tempo per qualche ora di sonno e una doccia, a pochi spiccioli al mese, ma se vali, vali. Ho lavorato e studiato duramente e alla fine qualcuno mi ha premiata perché ho dimostrato di saper fare.» T.J. sorrise per le parole della ragazza, pensando che in Italia era in auge da qualche mese un nuovo politico, un giovane, scagliatosi contro la vecchia casta alla ricerca di un futuro di meritocrazia per i giovani italiani volenterosi e di talento. Che distanza però, pensò T.J. tra la ragazza che ce l’aveva fatta a Londra e le pie intenzioni di un giovane politico. E ancora T.J. non aveva sentito una nuova parola che sarebbe comparsa di lì a poco sul vocabolario dell’umanità, segnandone un nuovo e, forse, nefasto presagio. Segno che la storia poco piace e meno insegna a creature da sempre in lotta e piene di terrore per il lontano e il diverso: Brexit. Si era quindi seduto sulla poltroncina di platea del teatro da poco riaperto, dopo il crollo del soffitto che aveva richiesto una lunga ristrutturazione dell’edificio del 1901. Le quasi due ore di musical erano volate e tutto sommato lo spettacolo, ambientato in Francia e curato da un regista parigino, era stato di suo gradimento, benché le opere, e più in generale, la cultura francese non fossero in cima alle sue preferenze. Il Francese. Quel pensiero lo riportò al motivo per il quale si trovava a Londra. Era ora di andare al suo appuntamento con la persona che gli aveva segnalato Piero. Attraversò rapidamente Trafalgar Square, lanciando una fugace occhiata al museo. Si lasciò sulla destra la residenza regale e salì al secondo piano dell’anonima palazzina meta del suo viaggio. Suonò all’interno indicato come da istruzioni, uno studio dentistico. Fu accolto da un’infermiera che, senza rivolgergli la parola, lo accompagnò attraverso un lungo corridoio affacciato su sale ambulatoriali nelle quali solerti dentisti stavano svolgendo la loro professione. L’inconfondibile suono degli strumenti e i profumi di menta e citronella lo accompagnarono fino alla porta in testa al corridoio. L’infermiera digitò un codice numerico sulla tastiera a lato della porta e questa scattò aprendosi.
42 La donna fece cenno a T.J. di entrare, chiuse la porta alle sue spalle e ritornò sui suoi passi ripercorrendo il corridoio con un lento tacchettio. «Nice to meet you, Mr Gibbons12» dalla penombra emerse un uomo di trent’anni circa, magro, allampanato, con capelli rossi scompigliati e una barba non rasata di almeno quattro giorni. «I’m Mr 46, but you can call me Jack, if you prefer. It is for your and my safety, of course13» proseguì il giovane «io parlo uno poco italiano… buongiorno» aggiunse sorridendo. «Lieto di conoscerla, Jack» lo salutò T.J. «per sua comodità possiamo parlare inglese, se preferisce.» «Oh thanks, but io preferisco chosare… si dice chosare?» «Si dice scegliere» lo aiutò T.J. «Oh fuck, sorry. Io preferisco scegliere l’italiano con lei, Mr. Gibbons, per esercitare.» «Ok, come preferisce.» «Io imparato guardano partite di calcio italiano in TV su vostro canale satellite. Io craccato mia scheda di UK. Please, segue me» disse il rossiccio, facendo entrare T.J. in una sala attrezzata di tutto punto con strumenti elettronici. Il giovanotto fece accomodare T.J. su una comoda poltrona che doveva far parte della fornitura di poltrone da dentista acquistate per creare la copertura a quel posto. Comoda, comunque. «Per cortesia, mi dia il cellulare» disse Jack sfoderando finalmente una frase in italiano perfetto, certamente figlia di numerose prove nei giorni antecedenti l’incontro con T.J. Gibbons estrasse dalla tasca del trench il suo telefono con la mela morsicata, sbloccò con un passaggio di pollice la tastiera e appose il dito sul lettore di impronta digitale. Porse l’iPhone a Jack che lo collegò a un cavetto che usciva dal suo portatile, anch’esso Mac. «Solo pochi minuti» disse Jack «would you like some coffee?14» «No, thanks» rispose T.J. 12
Piacere di conoscerti, signor Gibbons.
13
Io sono Mr 46. Ma lei può chiamarmi Jack se preferisce. È per la mia e la sua sicurezza, naturalmente. 14
Gradirebbe del caffè?
43 Jack lavorò sulla tastiera del PC e sullo schermo dello smartphone di T.J. Dopo un paio di minuti accese con un comando vocale un grande schermo appeso alla parete. La luce dello schermo illuminò la stanza, che era stata in penombra, senza finestre, con le pareti tempestate di luci a LED delle apparecchiature. La luce emanata dallo schermo fece emergere dal buio il tavolo di Jack, un coacervo di cavi, PC, telefoni e scatolette vuote di un noto take away cinese della città. Jack notò lo sguardo di T.J. e bofonchiando delle scuse gettò i cartoni in un cesto. In quel momento il PC di Jack emanò un blip di fine lavoro e sullo schermo a muro apparve una cartina della city con un punto lampeggiante. «Well done15» fece Jack «punto rosso è tuo telefono, ora io so sempre dove tu sei» ridacchiò, porgendo a T.J. il suo cellulare. «Tu ora avere app qui in tuo telefono per seguire altri due telefoni a tua scelta. Basta inserire numeri. Ecco, così. Io da qui posso controllare telefonate e sms tu ricevi per rintracciare telefono. Ho copertura satellite militare. Non mio, of course. Preso in prestito.» «Craccato come la card della TV satellitare?» scherzò T.J. «Oh yes, funny, man16» rise Jack «mio lavoro finito. Mi saluti Piero, buona fortuna.» «E si ricordi» aggiunse picchiettando sul telefono di T.J. e facendogli l’occhiolino «io sento tutte le tue telefonate.» ***
&ŝŶĞ ĂŶƚĞƉƌŝŵĂ͘ ŽŶƚŝŶƵĂ͘͘͘
15
Ben fatto.
16
Oh sì, divertente, amico.
AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.