Dove ballano le ragazze

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In uscita il 31/3/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine mrzo e inizio aprile 2017 (2,99 euro)

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ALESSANDRO CARTONI

DOVE BALLANO LE RAGAZZE

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DOVE BALLANO LE RAGAZZE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-066-5 Copertina: Foto di Carmen MD

Prima edizione Marzo 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Alla giraffa



L’esercito di Giulia



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Quando ci pensavo mi veniva da ridere. Mi pareva talmente assurdo quello che mi accadeva che l’unica risorsa era prenderla in ridere. Infatti mi mettevo davanti al computer e sorridevo. Mentre stavo lì, con gli occhi che mi bruciavano in attesa che qualcosa succedesse, fissavo il monitor bluastro e aspettavo. Aspettavo innanzitutto che mi passasse la voglia di scrivere. Non ci voleva molto. Era la prima ad andarsene, la voglia di scrivere. Così insensata, così maledettamente stupida. Poi aspettavo anche la voce di Giulia, sapevo che prima o poi si sarebbe fatta sentire da sotto, oppure mi sarebbe arrivata diretta negli orecchi qui nello studio, con loro e lei qui davanti, come ombre. «Sei fissato», mi diceva Sandra, mia moglie, poi, dopo aver misurato il grado della mia disperazione, mentre ero di spalle aggiungeva tranquilla: «Con una bimba piccola e con tutto il resto cosa vorresti fare?» Appunto: cosa volevo fare? Allora, per esempio, quando è cominciata questa storia avrei spaccato tutto. Anche questo era fare qualcosa. Ogni tanto ho ancora qualche rigurgito. Poi mi passa, perché in fondo sono cambiato, ho smesso di resistere. Anche questo è un risultato. Il problema è rinunciare alla coscienza, mantenersi sotto controllo anche se tutto precipita, assecondare la realtà.


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Mi sono sforzato molto. È stata una prova lunga che avrebbe abbattuto chiunque. Tuttavia qualche volta, di sera, quando mi lasciano solo, ho ancora qualche dubbio su che cosa sia la realtà.

Giulia, mia figlia di sette anni, non può sapere nulla di questo complicato travaglio e, tuttavia, è lei la causa di tutto. Ancora oggi quando torno da scuola mi aspetta sul divano circondata dai suoi bambolotti. «Vieni papino, siediti vicino a me», mi dice con l’espressione innocente. «Certo Giulia», rispondo io, già prostrato. Mentre lo dico capisco che questa frase è l’inizio di qualcosa che difficilmente riuscirò a fermare. Nel frattempo, Sandra ci guarda deliziata. È più forte di lei, non capisce le intenzioni della figlia, tutto deve avere un sapore familiare, intimo, rassicurante. Mentre sparecchia la tavola sorride da lontano e si crogiola nel suo orgoglio di madre. Ma in definitiva il problema non è lei, è Giulia. Mia figlia ha degli alleati fedeli e pericolosi, sono i suoi bambolotti. Li amministra lucidamente anche se in modo tirannico. Deve aver capito molte cose di me, soprattutto quello che bisogna fare o dire per umiliarmi. I bambolotti sono molti, ma solo alcuni godono delle sue preferenze. Di solito è Franceschino che manifesta le prime intolleranze. «Papino, Franceschino è arrabbiato…» «Sei sicura Giulia, a me sembra tranquillo.»


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«Non è vero», risponde lei, guardandomi di traverso. «È arrabbiato con te…» Io guardo Sandra in cerca di aiuto. Ma dalla cucina Sandra sorride scrollando le spalle. Vorrei un minimo di solidarietà, una parola ferma o ragionevole che chiuda questa farsa assurda. Eppure mia moglie non capisce, sono più di tre anni che si rifiuta di capire. Per lei tutto questo è un gioco innocente. Giulia intanto mi incalza. «Franceschino mi ha detto che sei stato cattivo coi bimbi.» Vorrei non ascoltarla, non prenderla sul serio. Allora mi alzo, mi precipito in cucina a prepararmi qualcosa. Ma è inutile. Sandra mi si avvicina col preciso intento di farmi sentire in colpa. «Non puoi fare così, devi ascoltarla tua figlia.» È una scena che dovrei conoscere bene, eppure anche oggi ha la capacità di svuotarmi. Prima di salire in camera, guardo mia moglie e non capisco se devo schiaffeggiarla o mettermi a gridare. Alla fine non faccio nulla, mi limito a fuggire di sopra col desiderio di nascondermi nel letto. Nel pomeriggio di solito torna un po’ di agitazione, non riesco a scrivere e nemmeno a scendere di sotto, dove Giulia mi aspetta coi suoi bambolotti.


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Prendiamo Franceschino. Tre anni fa quando lo trovammo nel parco, buttato nel bidone delle cartacce, fui io che insistetti per portarlo con noi. Ero del tutto ignaro di quello che avrei provocato. «Che dici… Se lo puliamo per bene, poi te lo metti nel letto quando vai a nanna.» Detto fatto, Franceschino diventò l’amichetto prediletto di Giulia. Ma bisognerebbe vederlo. Franceschino è orbo in un occhio, qualcuno glielo ha asportato lasciandogli un buco vuoto nella parte sinistra del viso. L’altro c’è, ma è decisamente rovesciato all’interno. L’impressione d’insieme è dunque raccapricciante, acuita dal fatto che al posto della mano destra ha un moncherino rosicchiato. Ogni tanto, quando lo guardo penso a quei derelitti di Calcutta che si vedono al telegiornale. Nonostante questo, non pare soffrire di particolari complessi d’inferiorità. È il prediletto di Giulia e mia figlia prima di prendere qualsiasi decisione deve consultarsi con lui. Ho cercato spesso di tagliarlo fuori, di fargli capire che deve farsi da parte, ma inutilmente. Franceschino è un osso duro e nulla è meno efficace che tentare uno scontro diretto. «Smettila, brutto…» mi ha urlato una volta Giulia, mentre lo spingevo di malagrazia nel portapacchi del passeggino. «Gli fai male… è un bimbo anche lui…» Non bisogna comunque credere che Franceschino sia l’unico responsabile della mia condizione. Sarebbe ingiusto nei suoi confronti.


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Degli altri bambolotti parlerò tra breve. Il giovedì e il martedì Sandra ha il rientro in ufficio quindi spetta a me rimanere con Giulia. Quando abbiamo deciso questa scansione settimanale ero in preda a uno strano ottimismo. Pensavo addirittura che col tempo avrei convinto Giulia a lasciar perdere i suoi bambolotti e a diventare una bambina normale. Il risultato è stato che Giulia adesso mi odia e io detesto il martedì e il giovedì. I giorni precedenti il martedì e il giovedì sono uno strazio. Cerco di prepararmi, di convincermi che tutto passerà liscio, che stare con mia figlia può essere anche bello, ma un bruciore fisico che parte dalle tempie e arriva al dorso mi avverte che è pericoloso farsi illusioni.

La strategia di Giulia è l’isolamento dell’avversario. Quando non c’è la madre, cioè il martedì o il giovedì, studia esattamente i miei potenziali spostamenti e in quei punti della casa, dove suppone che io stazionerò, lì colloca i suoi bambolotti. Questa cosa non ha niente di innocuo. Non è, come si potrebbe credere, un passatempo creativo di mia figlia. Col tempo ho cercato di farmene una ragione, ma non è stato facile. I bambolotti infatti vivono di vita propria anche se è Giulia a prestar loro la voce. Il lato sinistro del divano è costantemente occupato da Franceschino che da quella posizione sorveglia la TV e i nastri dei cartoni.


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«Non puoi metterti qui, questo è il posto di Franceschino», mi ricorda Giulia mentre mi aggiro per il salotto in cerca di uno spazio per sedermi. «Posso vedere il telegiornale delle quattordici? Almeno quello…» chiedo quasi pregando. «Va bene, ma dopo… quando Franceschino ha finito di vedere il cartone di Dumbo.» «Ma dopo quando, Giulia? Dopo finisce, il telegiornale. Fai la brava con papà, per favore.» A nulla servono le suppliche. Se Franceschino interpreta i desideri e i pensieri di Giulia, Sara invece è la sua sentinella. È lei che sorveglia i movimenti della casa e la informa sui miei umori quotidiani. «Vattene spia», le ho gridato l’altro giorno in un attacco di collera, quando l’ho scovata arrampicata sopra il bordo alto del computer. «Chi cazzo ti ha messo qui, eh? Era meglio se rimanevi alla Caritas.» Continuava a guardarmi con aria di sfida. Il fatto che Giulia le abbia rigato completamente la faccia con la biro la rende ancor più minacciosa. Ha anche una cresta bionda, frutto della “giornata della parrucchiera”, lo sfogo settimanale di mia figlia con forbici e spazzole. Ho aspettato un minuto per calmarmi, poi ho chiamato di sotto. «Giulia per favore, portala via.» Mia figlia è schizzata di sopra, preoccupata. «Papino, Sara vuole una favola. Devi scrivere una favola…»


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“Ma io non scrivo le favole”, avrei voluto dirle, tuttavia sono rimasto zitto. Le ho guardate entrambe in silenzio. Sembravano Thelma e Louise. «Allora vieni di sotto con noi a vedere i cartoni.» Non ho avuto la forza di oppormi.

Un paio di anni fa, durante le giornate di sole, ho provato a portare mia figlia al parco sotto casa. Lo facevo più per me che per lei. Magari, mi dicevo, riesco a farla giocare con qualche amichetto vero. Ce ne sono tanti di bimbi nel quartiere, basterebbe che si convincesse a considerarli come compagni di giochi. Ma è stato inutile, i bambini la odiavano, perché oltre a rifiutarsi di giocare con loro, Giulia occupava le altalene e lo scivolo dei piccoli. Li riempiva di bambolotti e poi se ne stava lì a guardarli con le mani sui fianchi. «Mi scusi…» mi aveva chiesto un vicino, un pomeriggio d’estate, «perché sua figlia non fa giocare nessuno? Lei è il padre, dovrebbe fare qualcosa.» Mi ero sentito un cane. Ero corso ai giochi allora e, senza parlare, avevo sequestrato tutti i bambolotti. Gli altri bimbi mi avevano guardato come un liberatore. «Gioca con i bimbi veri, Cristo, smettila con questi dannati pupazzi…» mi era sfuggito di bocca. Giulia fremeva dalla rabbia, ma quel giorno non si degnò di rispondermi. Prima di aprire la porta di casa, mi aveva tirato la giacca.


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«Non devi fargli del male ai miei bimbi. Perché non sono pupazzi. Altrimenti…» «Altrimenti cosa?» avevo esclamato irritato. «Altrimenti lo dico alla maestra… che ti mette in punizione.»

Dopo quell’episodio, forse proprio a causa della minaccia di Giulia, ho cominciato a pensare che l’unico rimedio fosse farli sparire. L’idea m’era venuta da un pezzo, ma non osavo ammettere che potesse essere attuabile. Così, una mattina di settembre che ero solo in casa, ho deciso di agire. Nessuno mi avrebbe visto, la madre in ufficio e la figlia a scuola, una situazione ideale per fare quello che andava fatto. Li ho raccolti tutti, uno per uno, e li ho infilati in uno di quei sacchi bianchi della Caritas. Ricordo che quel giorno parlavo da solo per l’euforia. «Adesso vedremo come andrà finire… te li do io i bimbi come gli altri. Piccola nazista che non sei altro…» Mentre affrettavo il passo verso il contenitore di raccolta all’angolo del quartiere, mi sentivo più leggero, era come liberarsi di un gran peso. Franceschino naturalmente ebbe il privilegio di entrare per primo. “Almeno serviranno a qualche bambino che ha voglia di giocare sul serio”, ricordo di aver pensato mentre li introducevo uno per uno nella grande bocca del contenitore. Devo aver faticato per farceli stare tutti, saranno stati una ventina. Il sole era ancora caldo e mi sentivo stranamente bene.


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Probabilmente se la cosa fosse finita lì, tutto sarebbe tornato al suo posto. Invece, tre giorni dopo era scoppiata la tragedia. Non potevo immaginare che le conseguenze di un atto ragionevole arrivassero a incrinare le basi familiari. «Dove hai messo i bambolotti di Giulia, delinquente?» mi aggredì mia moglie sul pianerottolo di casa, mentre uscivo. L’avevo guardata come se fosse pazza. «Non fare il furbo con me… non lo vedi che tua figlia non mangia da tre giorni?» «Cosa c’entro io coi suoi bambolotti?» «Sei proprio un idiota, ti hanno visto i vicini di fronte al contenitore della Caritas.» A quel punto smisi di negare, cercando di assumermi la responsabilità di un atto doloroso ma necessario. Quando penso a tutta questa storia mi viene una rabbia disumana, soprattutto per la figura da demente che dovetti fare con gli obiettori della Caritas. Non era valsa a nulla l’offerta di comprare a mia figlia dei bambolotti nuovi. «Non ci pensare nemmeno, Giulia vuole i suoi», mi aveva risposto acida la madre. Alla fine, a malincuore mi ero trascinato al centro di raccolta “Don Orione”, in via Grandi, con un pacco di bambolotti nuovi di zecca, pensando di proporre uno scambio. I due obiettori con le barbe lunghe e le camicie a scacchi ci misero un po’ per capire. In effetti lo scambio in sé aveva qualcosa di incomprensibile. Alla fine compresero e per ringraziarmi della


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generosità mi invitarono al congresso cittadino sui “diritti dei bambini e la pace”. Mentre uscivo salutando, diedi un’occhiata al pacco. Mi si gelò il sangue. «Sì, ma qui non c’è Sara.» Giulia mi avrebbe odiato per tutta la vita. «Può essere in effetti…» aveva risposto l’obiettore più basso, «un bambolotto è stato già consegnato a una bimba albanese.» In una frazione di secondo provai a immaginare la faccia di Giulia.

Per qualche tempo mia figlia fece finta di non conoscermi. Non mi rivolse più la parola per due settimane, poi finalmente quando tutto sembrava compromesso arrivò Emanuele. O meglio, dato che c’era sempre stato, Giulia si accorse finalmente di lui. Un po’ come succede nella vita reale. Nel frattempo era tornata anche Sara, perché la bambina albanese l’aveva giudicata “brutta e particolarmente cattiva”. Questo ritorno comunque non ebbe conseguenze sulla nuova passione. Naturalmente anche Emanuele è un bambolotto. Giulia in definitiva si era innamorata del più vecchio dei suoi pupazzi, ricevuto dalla nonna materna a un anno e mezzo di età. A dire il vero, essendo il più vecchio del gruppo, ormai assomiglia a una specie di bruco. Non ha più indumenti, gli straccetti che portava fino a un anno fa sono caduti da soli, per consunzione. Adesso è un piccolo verme con la testa di plastica e quattro appendici di pezza. Ha mantenuto solo il sorriso, un po’ melenso, dei bam-


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bolotti da mercato. Ha un ricciolo proprio in mezzo alla fronte e gli occhi di un celeste slavato. Di fatto è un invertebrato, perché non riesce a star seduto e nemmeno a mantenere la testa dritta. È come se non avesse spina dorsale. Ho provato a palparlo accuratamente, ma in quel suo corpo flaccido non c’è nemmeno un pezzetto di fil di ferro. Ti guarda cercando di ispirarti pietà e devo dire che ci riesce. Non posso dirlo a Giulia, ma ogni volta che lo osservo mi fa tornare in mente il bambino idrocefalo che viveva di fronte a casa mia quando avevo la sua età. Mia figlia, del resto, nutre un immenso spirito di protezione nei confronti di Emanuele. Non che sia fastidioso, è la cura che pretende che diventa ogni giorno più onerosa. Nelle sue condizioni non può mangiare le stesse cose degli altri. Così Giulia ha preteso prima le crocchette dei gatti, poi anche il latte in polvere dei neonati. Ogni tanto mi rifiuto di assecondarla e sbotto: «Questo è un assurdo», dico alzando la voce, ma in casa nessuno mi calcola. Sanno bene che non posso concedermi altro. Così, la sera dopo cena ci sediamo tutti sul divano con Sara, Emanuele, Franceschino tra le mie gambe e quelle di Giulia. Mentre Giulia racconta le favole ai suoi bimbi io do da mangiare a Franceschino, poi infilo il biberon nella bocca di Emanuele che grida per un po’ e poi si calma. Ogni volta che succede mi dico sempre “questa è l’ultima volta”, ma capisco che in fondo mi sto abituando. Ieri mentre li tenevo in braccio mi son scoperto a pensare che, in fin dei conti, non c’è niente di male in un passatempo del genere.


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Cerco comunque di non deviare. Il culmine di questa storia è arrivato col neuropsichiatra circa due anni e mezzo fa. Mi ero reso conto d’improvviso che il consenso attorno a mia figlia e ai suoi comportamenti era cresciuto a macchia d’olio. Tutti l’assecondavano, soprattutto gli adulti. Era stata una guerra all’ultimo sangue, ma alla fine avevo avuto la meglio con Sandra. «Non mi interessa se per te è una bambina normale…» le avevo detto a brutto muso. «Per me non lo è, quindi voglio consultare qualcuno…» «Non ti azzardare a farmi questo… anche le maestre dicono che è perfettamente sana. Sei tu il fuori di testa», mi aveva urlato mia moglie. «Senti, pensa quello che vuoi, ma io domani prendo Giulia e la porto con me.» «Dovrai cercarti un’altra famiglia… mia figlia non va da nessuno specialista.» «Bene», le avevo detto. «Allora puoi cominciare a telefonare a tua madre, perché o mi lasci portare Giulia, o te ne vai da casa mia.» L’indomani mi sentivo meglio. Capivo che forse con l’aiuto di un professionista l’incubo sarebbe passato. Avevo scelto un neuropsichiatra infantile di una certa età, che aveva esercitato a lungo a Milano. Volevo una persona equilibrata, estranea all’aria della provincia, libera da pregiudizi, capace in-


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somma di affrontare un problema come quello di Giulia con un briciolo di oggettività. Mi fece attendere di fuori, gli avevo già spiegato per telefono qual era il problema. Mentre Giulia lo seguiva nello studio con Emanuele e Franceschino nella borsa, mi aveva sorriso fiducioso. Era un buon inizio. Dopo un’oretta Giulia era tornata a chiamarmi. «Riccardo vuole che vieni dentro, papino.» Ero entrato con un po’ d’ansia nello studio, mi metteva in agitazione quella familiarità improvvisa nata dal nulla. «Allora, questi sono i risultati del Rorschach.» Mentre mi mostrava i diagrammi con le annotazioni sulle risposte di Giulia, “Riccardo” aveva posato Franceschino sulla coscia destra e lo teneva lì come un nano. Emanuele invece se ne stava seduto sopra la scrivania con la testa che gli pendeva sopra il Rorschach. L’avevo fissato preoccupato. «Non c’è nulla di anormale o inquietante… a meno che non si voglia…» «Che non si voglia cosa?» Voleva tenermi sulle spine. «A parte una minuscola tendenza monomaniacale. In ogni caso…» «E non può essere la ragione di tutto?» Il neuropsichiatra mi aveva freddato con un’occhiata. «In ogni caso, dicevo, tipica in tutti i bambini dell’età di Giulia, soprattutto se di sesso femminile…» Poi si era interrotto e aveva cominciato a fissarmi. «Lei innanzitutto deve stare calmo.»


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«Ma sono calmissimo…» «No che non lo è…» cominciava anche lui. «Forse sarà per la tensione… sa, da quasi tre anni…» «Ma lei prende psicofarmaci?» Ero diventato io l’oggetto del consulto. «No che non li prendo…» «Dovrebbe invece…» «Per quale motivo?» «Non ha il controllo sulle sue emozioni, se ne rende conto?» Mi ero sentito offeso e avevo deglutito guardandolo. Il neuropsichiatra si era accorto del mio stato e mi aveva sorriso. «In ogni caso, cerchi di rilassarsi con Giulia… non la prenda di petto anzi, guardi, collabori ai suoi giochi, entri nei suoi mondi… e si ricordi soprattutto che fra un po’ sarà finita.» «Che significa questo?» avevo domandato con speranza. «Semplice, che il periodo di mistificazione e narcisismo egocentrico può durare al massimo fino al quinto anno, quindi, dato che Giulia ne ha quattro e mezzo, di sicuro fra non più di sei mesi questa favola sarà già nel dimenticatoio.» Mentre mi spingeva fuori dallo studio il neuropsichiatria aveva dichiarato: «E si ricordi che i bambini sono i primi ricettacoli delle nostre nevrosi…»

Giulia nel frattempo è cresciuta e oggi ha sette anni. L’ultimo tentativo per ricondurre mia figlia alla ragione è di poco tempo fa. So adesso che era davvero l’ultimo. In una sorta di estremo atto di disperazione, una domenica sono entrato in casa


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con un pacco enorme. Mi ero convinto che forse il problema era impedire a Giulia di umanizzare i suoi “amici”. Bisognava tentare coi peluche. Con questa enorme confezione, insomma, avevo fatto il mio ingresso in casa. Giulia mi aveva guardato prima sorpresa, poi sempre più disgustata mano a mano che apriva l’involucro. «Che cos’è questa cosa schifosa?» «Ma come? È un cane. Può essere un amichetto come gli altri.» «Portalo subito via.»

Adesso mi scopro a pensare alla lunga guerra che abbiamo combattuto, io e Giulia. Forse è vero che mi sono comportato male coi suoi bimbi. Il mio ostinato rifiuto oggi mi sembra un lungo spreco di tempo. Di giorno in giorno riesco a capire meglio mia figlia. Stamattina a scuola, tanto per dirne una, per caso ho aperto la borsa in sala insegnanti. Dentro, oltre ai compiti da correggere, c’era anche Franceschino cui Giulia ultimamente concede dei permessi di uscita. «Vai a scuola con papino», gli dice, «così impari a scrivere.» Ormai si fida del suo papà professore. Io prendo Franceschino dalla borsa e delicatamente me lo metto vicino, seduto sopra i compiti corretti. Cerco di leggere sussurrando in modo che ascolti. I colleghi mi guardano allibiti, ma non ci faccio caso. Meglio parlare con un bambolotto che sa ascoltare piuttosto che a quelle teste d’uovo dei nostri alunni.


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Capita ogni tanto che i bidelli vengano a cercarmi nelle aule vuote. Mi trovano sopra un banco, vicino a una finestra semichiusa, che me ne sto quasi al buio, col taccuino e la penna accanto. Ma non scrivo. Non saprei cosa. Piuttosto ascolto. Insieme a Franceschino. Lo guardo nella penombra e gli sorrido perché so che sta imparando. Mi piace toccargli il moncherino rosicchiato, perché a lui fa piacere, è Giulia che me lo insegnato. Anch’io imparo molto da Franceschino. Così, in quello strano silenzio, ascoltiamo insieme i rumori della scuola senza esserci dentro. Le urla dei colleghi, le risate dei ragazzi, gli scoppi d’ira, i passi concitati degli Ata, lo sciacquone dei bagni, il suono molesto delle campanelle. Se ci va tiriamo fuori una poesia di Rimbaud e la leggiamo, soffermandoci su ogni parola. È allora che il bidello, con la faccia funerea, mi si avvicina e dichiara: «Prof. È ora.»


I vermi



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Mentre aspetta nel salottino, il prof. Luca Spalletti è inquieto. Osserva alle pareti le pessime riproduzioni degli impressionisti, per la maggior parte dal Musée d’Orsay. Chissà dove le ha trovate la dottoressa, si domanda. Cerca di ricordare l’ultima volta che è stato a Parigi, otto, nove, dieci anni fa, non ricorda bene. Comunque è successo prima di sposarsi, di questo è sicuro. La vita prima del matrimonio appare sempre più semplice. O più felice. Forse. Ogni tanto guarda l’orologio da polso, per vedere se l’altra paziente lo farà aspettare come al solito. In effetti c’è già un orologio a muro sulla parete, basterebbe quello. Le quattordici e dodici. «Siamo già fuori tempo», sospira Luca. Ha sempre avuto la fissa per la puntualità. C’è il condizionatore in funzione, ma le mani gli sudano e vorrebbe asciugarle. Cerca nelle tasche, ma non trova il fazzoletto: pantaloni appena lavati. «Mettiti questi…» gli ha detto Nora, la moglie, «non puoi andare in terapia coi pantaloni dell’altro ieri…» Luca sospira ancora. Nell’attesa si volta a fissare il portone di ingresso, magari entra qualcuno, pensa. Gli piacerebbe scambiare qualche parola con altre persone come lui, cioè nella sua stessa condizione. Potrebbe


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essere di conforto. Ma chi sta come lui? E comunque non c’è mai nessuno alle due del pomeriggio. Lei, cioè la terapeuta, gli fissa questi appuntamenti alle ore peggiori. O primo pomeriggio, o prima mattina. Per la mattina non c’è problema, lui si sveglia presto, o perché non dorme o perché se ne va al lago a pescare o perché ovviamente c’è la scuola. Certo ci andrebbe più spesso, a pescare, se non ci fosse la scuola. Questo è un pensiero fisso che ha dovuto confessare alla dottoressa. «Non si preoccupi», ha risposto lei, «è un pensiero comune tra i suoi colleghi. A proposito, lo sa che il quaranta per cento dei pazienti in terapia nel nostro Paese è costituito da insegnanti?» No, non lo sapeva, ma poteva anche immaginarselo. Luca ha fatto finta di non preoccuparsi. Le quattordici e diciotto. Il tempo scorre. Avrebbe voglia di andarsene, ma non può. Adesso è nervoso, non solo per l’attesa, ma anche per quel maledetto compito delle vacanze, così lo ha chiamato sorridendo la terapeuta, che ha voluto consegnargli prima di andarsene in ferie. «Mi raccomando, quando ci rivedremo dovrà essere in grado di spiegarmi che cosa la fa star bene e cosa la fa star male nella sua esistenza… voglio degli esempi. Usi un quaderno, se la può aiutare.» E allora ecco il quaderno. Che si è portato appresso tutta l’estate. Lo tiene al fianco come un oggetto pericoloso, molto vicino a sé, ma non lo tocca. Ha l’impulso di alzarsi, fare le scale e gettarlo nel cassonetto.


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«Ma cosa fai, che stai sempre a scrivere? Era tanto tempo che non ti capitava…» gli ha domandato Nora all’inizio di luglio. «non è che scrivi un romanzo?» Lui aveva sorriso enigmatico. Avrebbe dovuto dirle: “No… non è un romanzo del cavolo. È solo quello che mi fa incazzare.” Ma certe cose si dicono solo alla terapeuta. Per esempio, pensa Luca: “Ore quattordici e ventiquattro del 28 agosto 2007, mi fa incazzare che lei, dottoressa, mi faccia aspettare ore intere come un cretino, soprattutto perché mi ritornano in mente le anticamere che ci infligge Radetzky davanti alla porta della presidenza…” La vita pare tutta un’attesa. Di cosa poi? Luca non l’ha ancora capito. Già, Radetzky. Solo l’idea di rivederlo lo fa sudare. Rimangono quattro giorni, ma se si esclude oggi, che è già passato, ne rimangono solo tre. E poi? Verboten, pensa Luca, non ci devo pensare. Guarda il quaderno e poi il piccolo block notes che ci ha infilato dentro. Immagina la sorpresa della terapeuta: “Perché due? Non avevamo detto uno, con quello che va e quello che non va?” La fa semplice, lei, ma Luca ci ha pensato molto: quello che va non può stare con quello che non va. È una questione di igiene. Sarebbe come tenere la camicia sporca sopra i pantaloni puliti. Finalmente eccole tutte e due, paziente e terapeuta, che escono dallo studio. Le quattordici e trentuno. E giù abbracci prima di separarsi. Le donne fanno così. Come se non fosse già abbastanza tardi. La paziente è una magrolina nervosa con una gran massa di capelli giallo canarino, vestita come una velina.


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«E mi raccomando…» dice la terapeuta, «piano con le pillole, Fiorenza», che sarebbe poi la paziente. Mentre apre il portone, la paziente si lascia andare a una risatina isterica: «Hihihi, va bene Mina… proverò a fare la brava…» Mina, cioè la terapeuta, la guarda ancora e, prima che scompaia all’esterno, le dice affettuosamente: «Però ti sta bene quella gonna… in gamba, eh?» L’ha chiamata gonna, quella specie di fascia che non riesce a coprirle le natiche. Luca cerca di guardare ancora alle pareti, come fa di solito; davanti ha la stampa della “Senna ad Argenteuil” di Monet. Fa schifo come riproduzione. Ma si può immaginare l’originale. L’acqua e il ponte e il sole e l’increspatura delle onde. Sarebbe bello in fondo rimanersene lì a scaldarsi. In fondo, pensa Luca, si può immaginare quasi tutto. «Allora professor Spalletti… eccoci qua. Mi scusi per il ritardo, entri pure.» Luca si alza, saluta e segue la donna nello studio.

Gli ha domandato come sta mentre accavallava le gambe, ora apre l’agenda e lo fissa con sguardo professionale. Le finestre sono aperte e dall’esterno giungono i rumori dei lavori sul viale; non c’è la minima corrente d’aria, nemmeno a pagarla. Tanto varrebbe tenerle chiuse. Prima che possa aprire bocca, la terapeuta insiste: «E il sonno? È come al solito? Mi rendo conto che d’estate…»


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Luca alza lo sguardo e dice: «Come al solito. Cioè pessimo. Ma alla fine ci si abitua.» «Già, in effetti ci si abitua a quasi tutto, anche se non si dovrebbe…» dichiara lei. «Non si dovrebbe?» chiede Luca. «No, perché adattandoci troppo ci allontaniamo dalla possibilità di cambiare…» Mentre lo dice pensa a quello che sta dicendo, trovandolo interessante, quindi si ferma, annota qualcosa sull’agenda e riprende a fissarlo. «E i compiti li ha fatti?» Luca arrossisce di colpo. Lo ha preso in castagna. Non ha il coraggio di dirle che la faccenda dei sogni è rimasta in alto mare. Non può parlarle dei vermi. E poi generalmente i sogni non li ricorda, a parte quelli dei vermi. Una mattina gli è capitato di rimanersene lì per un’ora a pensare a cosa aveva sognato. Buio totale. A meno di non cominciare a inventarli. Sai che romanzi. No, niente sogni, a parte i vermi, ma non è il momento di parlarne. «E dunque?» La terapeuta fa un ghignetto, poi dice: «Non posso rubarle il mestiere…» Luca si schiarisce la voce e dichiara: «Fatti a metà.» Fissa la terapeuta e aggiunge: «Nulla per i sogni, ma ho portato questi.» Tira fuori il quaderno e il notes. «Sarebbero?» «Mi aveva chiesto quello che va e quello che non va…» «Infatti… perché sono due?» «Perché bisogna tenere le cose distinte…»


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«Va bene lo stesso… ma come mai c’è un quaderno voluminoso e un notes piccolino?» «Perché le cose che non vanno sono di gran lunga più numerose di quelle che vanno…» «Ah…» Si guardano e cala il silenzio nello studio. A Luca sembra di aver detto il necessario, non ha nulla da aggiungere. La terapeuta invece riflette ad alta voce. «Quindi secondo lei non c’è nessun collegamento tra ciò che va e ciò che non va?» Luca scuote la testa. La terapeuta prova a sfogliare il quaderno. Poi lo richiude. «Dalla prossima volta avremo qualcosa di concreto di cui parlare. Questo mi sarà utilissimo…» Luca non commenta e si prepara ad andare perché il suo tempo è finito. E, tuttavia, c’è ancora qualcosa di sospeso tra loro, la donna lo fissa con una domanda inespressa, come se attendesse una conferma. Luca ha provato a distogliere lo sguardo, non ha voglia di parlare delle pillole, sperava che anche la dottoressa se ne fosse dimenticata, ma questi, riflette, non si dimenticano mai, di nulla. Poi prima che sulle sue labbra si disegni l’ombra di una risposta, è la dottoressa che lo anticipa. «Vede, professor Spalletti, è inutile che glielo nasconda, per certi pazienti le pillole non vanno, non funzionano proprio, anzi, se posso essere sincera, direi che hanno un effetto contrario, invece per altri ci vogliono, aiutano a sopportare le crisi, rendono tutto meno minaccioso, e lei direi che si trova in questo secondo grup-


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po. Del resto lo sa, non c’è bisogno che le ricordi che deve prenderle, tutti i giorni secondo la posologia che abbiamo concordato. Non se lo scordi mai, per favore.» Luca fa di sì con la testa, cercando di imprimere al suo cenno una certa convinzione. Poi respira e pensa che finalmente è finita. Mentre si salutano, lei fa una proposta: «Perché non cominciamo a chiamarci per nome. Ok, Luca? Mi chiami pure Mina.» Luca le dà la mano ed esce. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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