Collana LaGialla Serie BIG‐C Grandi Caratteri
La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in particolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). Assieme a questo libro e fino a esaurimento scorte, viene dato in omaggio un audiolibro su CD (anche di diverso titolo) che permette in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, di ascoltare il racconto anziché leggerlo. Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo.
La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. Gli audiolibri forniti, offerti in omaggio a scopo promozionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. www.jukebook.it www.labandadelbook.it www.0111edizioni.com
DOMENICO PANETTA
DOVE FINISCONO TUTTE LE STRADE
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www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it DOVE FINISCONO TUTTE LE STRADE Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978‐88‐6307‐436‐9 In copertina: “Memorie” di Marcello d’Adamo Prima edizione Maggio 2012 Stampato in Italia da Logo srl Borgoricco ‐ Padova
A Lorenzo e Martina, che incontrano il mondo A Paola, che il mondo lo fa
PROLOGO Questa storia è amara. Come il sapore di certe notti calde d’estate, la finestra della camera spalancata su un cielo pece, e i troppi ricordi che armano trappole per i rimpianti. Questa storia narra di un viaggio senza scampo, racconta di addii senza parole. Incrocia i giorni di un’infanzia leggera e i giorni di un’adolescenza rubata. Giorni di vite appese a destini fragili. Giorni che plasmano anime in balìa di quei destini, senza strumenti per guidarne il corso verso una meta propizia. È anche una storia sul tempo. Dove il tempo presente pretende di ignorare gli echi del tempo passato.
Quello futuro dirà, invece, se è valsa la pena di raccontarla e se ha meritato finanche di essere ascoltata.
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UNO BRACCATO Piana di Gioia, 21 giugno 2010 Stava correndo a perdifiato da almeno dieci minuti e gli scarponi, che prima avevano prodotto tonfi pesanti sul terreno arido, ora affondavano tra i solchi umidi del campo arato, mettendo a dura prova le caviglie sottili. Con le braccia punte dagli insetti, si faceva largo tra gli arbusti bassi dell’agrumeto: la fronte stillava lacrime di sudore che scivolavano sul viso senza barba e la vista era annebbiata dallo sforzo. Il cuore batteva in gola all’impazzata e ogni tanto lo ricacciava, deglutendo, nel mezzo del petto. Chissà se quelli erano vicini.
10 In qualche momento di lucidità rubato alla fatica, rivedeva i brevi momenti in cui aveva realizzato il disegno che aveva preparato, nei giorni appena passati, nell’afoso casotto perso nella piana. Non era risultato troppo difficile, alla fine. Masi gli aveva procurato la pistola, avvolta in un canovaccio scuro, umido d’olio e usurato dal tempo. Era una calibro 9 Beretta, lubrificata con cura, che era stata scelta perché univa al vantaggio di una estrema maneggevolezza la possibilità di piazzare colpi precisi anche senza essere tiratori scelti. Per andare dal sud della costa fino al vecchio casotto abbandonato tra i rovi e le immondizie aveva utilizzato la vecchia Fiat Punto di sua madre; due ore di strada, ma il giorno dell’azione aveva dovuto nasconderla e andare a piedi attraverso i campi. La vecchia masseria, che era il suo obiettivo finale, era lontana tre o quattro chilometri al massimo e l’aveva raggiunta camminando senza fretta, svegliatosi di buon’ora, dopo essersi assicurato che nessuno potesse scorgere i segni della sua presenza. Una volta sul posto, aveva rasentato silenzioso il logoro muro di cinta e lo aveva
11 scavalcato all’altezza delle due grandi finestre sul retro, dove non era alto più di un metro e mezzo. L’edificio era antico e già da una superficiale osservazione si poteva intuire che veniva abitato soltanto saltuariamente, da avventori occasionali che ne usufruivano per riposarsi o, come in quel caso, per trovarsi lontano da occhi indiscreti. La pietra e le travi mostravano, assieme ai segni del tempo, quelli di una negligente manutenzione. Non era quella la prima volta che vedeva la masseria: la sera prima vi si era recato per studiarne indisturbato ogni particolare e programmare nei dettagli l’azione. Le voci dalle inflessioni gravi, che trapelavano dalle finestre aperte, dovevano appartenere a non più di quattro persone, come aveva previsto, e la conversazione alternava note severe a risa grossolane. Si era avvicinato poco alla volta al lato principale della masseria, dove c’era l’ingresso, socchiuso davanti allo sterrato sul quale sostavano quattro utilitarie coi finestrini abbassati. Aveva spinto il basso portone con un piede, molto lentamente, con la certezza che un eventuale cigolio sarebbe stato sovrastato dai toni
12 alti dei convenuti. L’interno della masseria aveva un odore buono, intriso di campagna, e l’ambiente era mantenuto fresco dai larghi muri di pietra. Qua e là sulle pareti campeggiavano
dipinti
di
ingenua
composizione,
raffiguranti paesaggi agresti, e un calendario fermo sulla pagina di novembre del 1999. La pistola stretta in pugno, era avanzato, trattenendo il fiato, nel piccolo atrio che dava sulla grande cucina. Le parole che udiva diventavano sempre più chiare e raccontavano di molto improbabili battute di caccia. Con la schiena appoggiata alla parete, accanto alla porta spalancata, aveva studiato per un interminabile minuto il suono delle voci per intuire la provenienza di ognuna e aveva calcolato che, molto probabilmente, “il Capra” doveva essere seduto dall’altra parte del tavolo, col viso rivolto verso di lui, e di fronte aveva almeno due dei suoi compari. Passarono dei secondi interminabili, scanditi da un vecchio orologio a parete che segnava le sette e quaranta. Incrociò gli occhi per guardarsi la punta del naso, reiterando un tic che gli allentava la tensione, e quindi, con un agile movimento, rotolò con la
13 schiena attorno allo stipite della porta e serrando le palpebre, il braccio teso sotto il mento, scaricò in direzione della vittima predestinata tutti i colpi che aveva nel caricatore. Il Capra fu colpito per tre volte in mezzo al petto e una alla testa, mentre gli altri tre uomini, lanciando urla sguaiate, si buttavano giù dalle sedie per evitare gli altri colpi che si erano persi nel vuoto. Il finimondo terminò in un attimo e allora gettò la pistola ai suoi piedi con un gesto deciso, si voltò senza guardare e, dopo aver guadagnato l’uscita, cominciò a correre a lunghe falcate come da piccolo aveva imparato a fare, senza scarpe, quando i grandi mettevano in palio una moneta per chi attraversava più veloce la spiaggia e tuffava per primo nell’acqua del mare i piedi scottati dalla sabbia rovente. Correva, il petto in fuori e la fronte alta, e dietro di sé sentiva ancora le urla e il motore di una macchina che si avviava. «Corri Spina, corri.» L’incoraggiamento pulsava nella sua testa confortante come un mantra e intanto incespicava ancora nel terreno irregolare con gli scarponi troppo pesanti per quella estate incendiata dall’afa. Nonostante
14 adesso corresse, il tragitto di ritorno gli sembrava ben più lungo di quello che, all’inverso, aveva percorso a piccoli passi pochi minuti prima. Alla fine raggiunse trafelato il casotto e ne percorse per metà il perimetro raggiungendo il retro, dove aveva lasciato la macchina. Schiuse la portiera infilando il braccio nell’apertura del finestrino abbassato, poiché la maniglia esterna non funzionava, e si sedette pesantemente, girando la chiave che aveva lasciato infilata nell’accensione. L’auto si mise in moto col frastuono della marmitta usurata e percorse veloce il viottolo di sassi che portava alla stradina di campagna che lo avrebbe condotto alla vecchia statale e, da lì, dopo dodici chilometri, all’imbocco della A3. Quando fu sull’autostrada, prese l’asciugamano appoggiato al sedile del passeggero e con un rapido gesto terse il sudore che si condensava in piccole gocce tra le ciglia, impedendogli di vedere nitidamente. Adesso poteva dire di aver cominciato il suo viaggio. Cinque ore dopo, dovette concentrarsi un momento, affinché tutto quello che era accaduto gli sembrasse reale. Dopo tutto il Capra aveva raccolto quello che si meritava,
15 che diamine! Non era che uno sbruffone di quarant’anni e di cento chili, dalle sopracciglia folte che componevano un unico arco sopra la fronte e il doppio mento che gli conferiva un aspetto buffo, lo sguardo acquoso che tradiva una segreta inaffidabilità; non aveva famiglia e, probabilmente, non sarebbe mancato a nessuno. Lui invece era Spina, stimato e rispettato, a dispetto della giovanissima età, e riguardo alla sua personale integrità chiunque lo conosceva avrebbe messo una mano sul fuoco. Con questi pensieri cercava di tenere lontani i fantasmi di una colpa fin troppo evidente. In questo modo, nella monotonia dell’autostrada che gli annebbiava i ricordi, il viaggio che aveva intrapreso non somigliava nemmeno a una fuga. Nelle piazzole di ristoro delle aree di servizio, famigliole organizzate e gruppi di giovani apparentemente senza pensieri gli rammentavano che l’estate cominciava quel giorno. Si era accorto soltanto adesso, guardandosi distrattamente nello specchietto retrovisore, di come i suoi riccioli neri fossero rimasti scompigliati nell’azione e cercò di sistemarli con un gesto delicato della mano destra. I
16 brufoli sul suo volto acerbo tradivano i suoi diciassette anni più dei suoi vestiti, che invece sembravano quelli di un contadino di mezza età. Era un ragazzone alto, dalle spalle robuste, con il volto bello dai lineamenti gentili e gli occhi svelti di chi è abituato a contendere, occhi neri sulla pelle scura, ancor più scura perché bruciata dal sole. Il naso era regolare, le labbra carnose e sanguigne. L’aspetto era quello di una persona che interpretava con imperturbabile distacco le cose della vita. Gioia, dispiacere, entusiasmo, rammarico, passione, fastidio: nulla sapeva procurargli una reazione che gli stampasse sul viso un’espressione particolarmente intensa, una smorfia capace di modificare quella sfuggente maschera di chi sembra essere sempre capitato lì per caso. Il piede spingeva sull’acceleratore più di quanto la vecchia vettura potesse sopportare e le vibrazioni producevano un brontolio fastidioso, come quello di chi è costretto a fare qualcosa contro ogni voglia. Il giorno era ancora lungo e la meta lontana: aveva tutto il tempo per riflettere sul da fare ma, intanto, spontaneamente, indugiava ancora su quello
17 che era stato fatto. In cuor suo cominciava a capire quale prezzo amaro dovesse pagare per potersi sedere a condividere il tavolo dei grandi.
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DUE UNA MISTERIOSA TELEFONATA Collecchio, 21 giugno 2010 «Quattro euro e settantacinque.» La fornaia ripiegò il lembo del sacchetto che aveva terminato di pesare e vi incollò lo scontrino adesivo stampato dalla bilancia. «Come sta Alice?» chiese poi consegnandolo nelle mani di Filippo. «Bene. Oggi è tornata all’asilo.» «Cosa è stato alla fine?» «Una tracheite, niente di grave, certo che di questa stagione…» «Capita, quando vanno all’asilo…»
19 «Già» rispose Filippo, per nulla appassionato da quella conversazione. Poi appoggiò il sacchetto nel cestino, salutò con un gesto della mano e si diresse verso la corsia dei vini. Non era mai stato un grande intenditore di alcolici, ma quando stava a tavola non riusciva a rinunciare a un bicchiere di buon rosso. Alla cassa del mini market all’ora di pranzo non c’era quasi mai nessuno: la signora Irma aveva il solito faccione sorridente sotto il cerchietto che raccoglieva i capelli ispidi. «’Giorno signor Magiani. Manca tanto alle vacanze?» «Ancora un mesetto, Fiorella non può stare in ferie prima della fine del prossimo mese.» «Mare?» «Montagna.» Pagò velocemente le poche cose che aveva comprato consegnando una banconota da venti euro e si diresse verso l’uscita. Nel piccolo parcheggio assolato c’erano poche macchine, per lo più appartenenti ai pochi dipendenti del negozio. Aveva lasciato la sua Audi sotto le rare fronde di uno dei piccoli tigli che erano stati piantati da pochi mesi
20 lungo il marciapiedi perimetrale. Era stato nel mini market soltanto qualche minuto, per cui, nonostante la scarsa ombra, l’abitacolo risentiva ancora dei benefici effetti del climatizzatore spento da poco. Avviò il motore e accese la radio, a volume molto basso, su un canale che diffondeva musica classica. L’auto lasciò, silenziosa e veloce, la stretta strada alberata che partiva dall’area di sosta. La sua abitazione non era molto lontana e la raggiunse in meno di dieci minuti. Era una villetta bifamiliare, situata nella sconfinata pianura poco fuori dal paese, sobria, tinteggiata da poco su una tonalità molto chiara di verde. Raccolse la posta infilata nella buca delle lettere e, dopo aver separato la poca corrispondenza dagli inutili volantini pubblicitari, frugò nella borsa in cerca delle chiavi del cancello. Ollie gli era venuto incontro, come sempre, e gli scodinzolava intorno, strusciandosi ai pantaloni e facendolo avanzare a fatica lungo il vialetto che portava all’uscio. La cosa gli strappava tutte le volte un sorriso e qualche benevolo borbottio indirizzato al cucciolo di labrador; il
21 cagnolino, dopo aver guadagnato la soglia, anticipava ogni volta l’ingresso del padrone e con un salto elegante si accomodava sul divano del salone, accucciando la mandibola sulle zampe anteriori allungate e guardandolo dal basso in alto con occhi teneri che supplicavano attenzione. Dopo aver posato la posta sul tavolo della cucina, Filippo aprì il frigorifero e bevve qualche sorso di succo d’ananas dal contenitore già aperto, poi tirò fuori una confezione di bresaola e una scatola di mais consumata per metà e protetta da un foglio di pellicola trasparente. Si sciacquò le mani, si sedette comodamente e consumò pigramente il suo pranzo frugale dando nel contempo un’occhiata all’avviso della compagnia assicuratrice che gli rammentava l’imminente scadenza della polizza auto; intanto, offriva pezzettini dell’affettato al cagnolino che gli allungava il muso tra le ginocchia. Avrebbe compiuto quarantanove anni a settembre ed era quella che all’apparenza si giudica una persona dalla vita sostanzialmente tranquilla, che si era guadagnata col tempo una posizione di discreto benessere.
22 Era un bell’uomo, coi capelli biondo cenere che cedevano un po’ al brizzolato, vestito sempre in maniera molto essenziale ma elegante al contempo; qualche sottile ruga sul collo abbronzato tradiva l’incipiente mezza età e l’uso abitudinario delle lampade a ultravioletti. Godeva dei frutti un po’ tardivi di una famiglia che era nata dal matrimonio con Fiorella, di sette anni più giovane, dalla quale aveva avuto due affettuose bambine che risultavano il suo massimo orgoglio. La più grande, Lisa, aveva otto anni e frequentava le elementari del centro; Alice, di quattro anni, era iscritta alla materna, dall’altro lato della strada, e godeva di una salute un po’ cagionevole, per via di quei frequenti problemi di carattere respiratorio che l’avevano afflitta fin dal suo primo anno di vita. Erano due bambine dall’intelligenza vivace, che i genitori seguivano con passione cercando di affinarne i rispettivi talenti: Lisa, che amava la musica e il canto, aveva cominciato a seguire le lezioni private di un anziano maestro di pianoforte. Alice manifestava, invece, una chiara predisposizione per le arti figurative, lasciando trasparire progressi costanti e,
23 malgrado la tenera età, una inconsueta creatività. Fiorella era una donna volitiva, con lineamenti ruvidi ma un aspetto nel complesso piacevole. Non era molto alta, ma ben tornita e dal portamento aggraziato, e i capelli ariosi le scendevano sulle spalle gonfi di boccoli rossi. Gestiva un punto vendita di articoli per la casa in un centro commerciale di un paese vicino e di solito non tornava a casa prima delle due del pomeriggio, dopo che la sua socia arrivava in negozio per darle il cambio. Pertanto, quel giorno si sarebbero incrociati col marito per un rapido saluto, perché Filippo sarebbe dovuto uscire di casa più o meno alla stessa ora per tornare in ufficio a Parma, dove lavorava come funzionario del Comune. Quando ebbe consumato gli ultimi resti del pranzo, Filippo si avvicinò al piano della cucina. Lo squillo del telefono di casa lo sorprese mentre stava terminando i resti di una torta di mele preparata dalla moglie il pomeriggio precedente e lasciati accanto al piano cottura, coperti da un piatto rovesciato. Si ripulì gli angoli
24 della bocca con un tovagliolo di carta e andò a recuperare il cordless nell’altra stanza. «Pronto?» Dall’altro capo della rete non giunsero né parole, né fiati. Solo un sottofondo uniforme, come di debole vento. Dei rumori metallici, poi il click che interruppe il collegamento. Filippo non si curò un solo momento di fare inutili congetture sull’identità del mancato interlocutore di quella chiamata. Se si trattava di cose importanti, chiunque fosse avrebbe di certo richiamato. D’altra parte era abituato a ricevere decine di telefonate di operatori di marketing, così pensò che anche quella volta potesse trattarsi di una chiamata di quel tipo, non andata a buon fine per un qualche motivo. Ciò
nonostante
quella
telefonata
gli
lasciò,
inspiegabilmente, una irrazionale inquietudine, come se portasse con sé i segni di un amaro presagio. Ripose il telefono là dove lo aveva trovato e tornò in cucina a scaldarsi una coppa del caffè che era avanzato dalla
25 colazione, poi lo bevve in un solo respiro e si sedette sul divano, dove Ollie lo raggiunse bramoso di carezze. «Cosa c’è piccolo brontolone? Tra un po’ devo andare, ma arriva la tua Fiore e potrete stare insieme tutto il pomeriggio. Accompagnala a prendere le bimbe e ricordati di averne cura.» Come a voler annuire a quella spiritosa raccomandazione, il cucciolo di labrador emise un guaito, schiacciando la fronte sotto il palmo della mano di Filippo, che intanto aveva allungato l’altra sul telecomando del televisore. Aveva l’abitudine di scorrere i principali canali televisivi e di cercare informazioni sul televideo, visto che non era solito comperare quasi mai quotidiani in edicola. Anche quel giorno si soffermò, come sempre faceva, sulle pagine di politica e su quelle di cronaca, che di solito gli restituivano notizie poco confortanti, così prima di spegnere dedicò un’ultima occhiata alle notizie sportive. Non appena udì il trillo del citofono, Ollie si precipitò davanti al portone chiuso sbattendo con colpi decisi la lunga coda sul tappeto
26 davanti alla soglia. Filippo diede una rapida occhiata all’orologio da polso. Fiorella era tornata.
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TRE LA ISLA San Lorenzo mare, 12 settembre 1999 «È stato Hernán, guarda come me l’ha conciato.» Il sangue scorreva copioso dal naso tumefatto del piccolo Tommaso e la donna lo teneva per mano cercando di tamponare l’emorragia con un fazzoletto di carta. Ana Isabel uscì da dietro il bancone scostando lo sportello basculante e si inginocchiò davanti al piccolo di otto anni, poi scostò le mani della donna dal volto del bambino per rendersi conto della consistenza della ferita. Senza parlare, si rialzò, riempì un bicchiere di acqua fresca e lo porse a Tommaso accarezzandogli la fronte. Il bambino lo accostò
28 alle labbra continuando a singhiozzare, mentre sua madre impostava la voce su un tono minaccioso: «Ana, se non sei capace di frenare tu quel piccolo diavolo, giuro che…» Il piccolo diavolo era il bimbo di Ana Isabel, un furetto di sei anni e quattro mesi dagli occhi vispi, di cui la madre riusciva a governare a fatica l’esuberanza. Era un compito molto difficoltoso, poiché la donna gestiva giorno e sera il bar sulla spiaggia e c’era soltanto suo padre a darle una mano, il vecchio Cosimo, che era afflitto da una menomazione alla gamba sinistra, retaggio di una frattura mal sanata nell’adolescenza, che lo costringeva a vacillare nell’incedere appoggiandosi all’inseparabile bastone. Ana Isabel era una ragazza di una bellezza prepotente, sublimata da tratti vagamente esotici e levigata pelle di ebano. Il volto era un ovale perfetto, contornato da morbidi e setosi capelli corvini raccolti in una lunga coda di cavallo, sul quale, al posto degli occhi, si incastonavano due preziosi smeraldi, leggermente a mandorla, di una brillantezza accecante; la bocca era un frutto succoso che si schiudeva
29 sovente in sorrisi luminosi che scoprivano bianchissimi denti di lucido avorio; il naso, piccolo e regolare, era leggermente schiacciato in punta, a conferire al volto un'aria piacevolmente sbarazzina, senza disturbare l'equilibrio armonioso dei lineamenti; le sopracciglia disegnavano due archi appena accentuati che si avvicinavano infoltendosi all'origine del naso; le orecchie erano sempre impreziosite da grandi anelli da gitana. Era nata nel 1968 a Belèn de Escobar, un paese della provincia di Buenos Aires, sulla strada per Rosario. Cosimo Basile si era trasferito in Argentina dodici anni prima, quando aveva ventitré anni, alla ricerca di una fortuna migliore di quella che la Calabria poteva promettergli in quegli anni. Lì aveva trovato lavoro come fioraio presso il negozio di Beatrisa Perosa, una signora attempata e senza eredi che dopo tanti anni, al momento di andare in pensione, gli aveva ceduto l’attività per pochi soldi. Si era trattato di quello che si definisce un colpo di fortuna, che lo aveva messo nella condizione di vivere più che dignitosamente, frequentando nel tempo libero la comunità
30 di italiani che come lui avevano chiesto al Sudamerica una vita migliore. Bazzicava spesso il suo negozio Rosa, di origini molisane, ma oramai argentina da due generazioni; una ragazza dallo sguardo fiero poco più giovane di lui, che soleva adornare di gigli e di lilium le tombe dei suoi genitori, i quali in Argentina avevano trovato purtroppo anche la fine della loro rinata esistenza. Cosimo e Rosa si erano sposati senza troppo sfarzo in una chiesetta di Rojas, con rito cattolico, ed erano andati ad abitare a Belèn, in una casetta al pian terreno con un piccolo giardino, dove Rosa aveva imparato a coltivare i crisantemi. Dopo un solo anno di matrimonio era nata la loro unica figlia, che cresceva forte e orgogliosa, circondata dall’affetto e dalle attenzioni dei suoi genitori. Era diventata una ragazza procace, ammirata da tutti e di una allegria contagiosa, almeno fino a quando Rosa non fu insidiata da un male incurabile che se la portò via, tra sofferenze indicibili, nel breve giro di otto mesi. Cosimo non seppe resistere a tanto dolore e alla fine del 1990 decise di abbandonare quella terra che tanto gli aveva dato e
31 qualcosa pure tolto e di rimpatriare, con sua figlia e una piccola fortuna che aveva accumulato con mille sacrifici, al suo paese d’origine, al quale non era più ritornato, nel corso di quei lunghi trentaquattro anni. Qui Cosimo si era sistemato nella vecchia abitazione dei genitori e aveva poi comperato da un vecchio pescatore un piccolo appezzamento di terra affacciato alla spiaggia dove, con la compiacenza di una amministrazione comunale molto indulgente, aveva tirato su a mattoni un piccolo edificio basso di due stanze. Una volta ottenuta la licenza per esercitare l’attività commerciale, ne aveva fatto un bar da regalare ad Ana Isabel che, vista la difficoltà di farsi riconoscere in Italia la maggior parte degli esami che aveva conseguito, aveva deciso nel frattempo di abbandonare l’università. «Ana mi stai ascoltando?» «Sì Elvira, sono dispiaciuta tremendamente. Dov’è Hernán adesso?» «Dove vuoi che sia. L’ho lasciato alla spiaggia, stava litigando con gli altri due.»
32 «Mio padre non c’è. Puoi guardarmi il banco un momento?» «D’accordo.» Si slacciò il lungo grembiule verde da barista e lo gettò stizzita su un tavolino vicino all’ingresso, quindi affondò i piedi nella sabbia tiepida del tardo pomeriggio e si diresse verso il mare, guardando le barche ormeggiate di fronte, a qualche metro dall’arenile. Vicino al bagnasciuga, Hernán era seduto sui sassi bianchi e le dava le spalle armeggiando con due lunghi pezzi di legno. Poco lontano, due bambini appena più grandi di lui erano assorbiti da una conversazione molto animata, infarcita di termini dialettali e parolacce. «Cosa è successo?» «Tommaso mi ha picchiato.» «Ah sì, e come avrebbe fatto? Ti ha colpito col suo naso?» Sapeva di rivolgere un’inutile ironia a un bambino troppo piccolo, ma le era scappata. «Mi ha picchiato.» «Adesso alzati e vieni con me al bar, così cerchiamo di capire bene com’è andata tutta la faccenda.»
33 «Io al bar non ci vengo. Stiamo facendo una cosa, io, Nino e Leonardo.» Ana, che non aveva tempo da perdere in discussioni che si sarebbero rivelate sicuramente improduttive, prese il piccolo da sotto l’ascella e lo tirò in piedi con forza. Gli assestò una pacca ben sostenuta sul sedere e quasi lo trascinò, piangente, verso il locale, che era ottanta metri più a monte. Il bar si apriva alla spiaggia con un terrazzino di legno sul quale erano poggiati otto tavolini circondati da seggiole riciclate; da qui si accedeva all’interno attraverso un’apertura sull’ampia vetrata che la sera consentiva ai clienti di osservare dei meravigliosi tramonti sorseggiando l’aperitivo. Sopra l’ingresso, campeggiava un’insegna artigianale, sulla quale, accanto al disegno di uno scoglio sovrastato da una palma, si poteva leggere il nome del locale: “La Isla”, scritto con pennellate di verde su una larga asse di legno dai contorni irregolari. L’insieme era di una impressione gradevolissima, sebbene costruito con componenti improvvisati e senza troppe pretese. Forse per
34 la luce serena che lo avvolgeva a tutte le ore del giorno e della sera, forse per la centralità della posizione, forse per le tapas sfiziose che accompagnavano le bevute dei clienti o forse per l’indubitabile avvenenza della proprietaria, la Isla godeva di un bel giro di clienti molto affezionati, cui si sommavano occasionali avventori che, nel passare nelle vicinanze, venivano attratti dalla musica e dal clima di rilassata allegria che vi albergava. Era chiaro che i mesi estivi erano quelli in cui bisognava approfittare il più possibile e far cassetta anche per la stagione più sonnolenta, durante la quale il bar apriva principalmente dal lato della strada e l’atmosfera vacanziera era solamente un ricordo. Quando giunsero all’interno del locale, con la mano libera Ana prese una sedia dal tavolo più prossimo e la roteò ponendola di fronte a Tommaso, che finalmente aveva smesso di piangere. Con un gesto molto brusco, vi fece sedere Hernán che manteneva lo sguardo sul pavimento di legno. «Di cosa si è trattato?» chiese Ana con tono spazientito.
35 Hernán non distolse lo sguardo dalle assi che si allungavano da sotto la sua sedia e non disse nessuna parola. Allora la donna si rivolse a quell’altro: «Tommaso?» «Ci siamo menati.» «Questo si era capito, volevo conoscere il motivo e assicurarmi che la cosa non abbia a ripetersi.» «Cose di pesca.» Tommaso stava insegnando da qualche tempo al suo più piccolo compagno di giochi a innescare l’amo e lanciare in mare la lenza senza canna, facendola roteare sopra la testa. Hernán ruppe il suo ostinato silenzio. «Mi ha detto che sono imbranato, perché non riesco a lanciare il piombo verso il mare.» Aveva ereditato dalla madre il carattere orgoglioso e impulsivo e forse soltanto la presenza di un padre gli avrebbe consentito di temperarlo. Ma Hernán non aveva mai conosciuto suo padre e questo stava complicando enormemente la sua formazione, compromettendo l’equilibrio della sua crescita in una maniera che si sarebbe rivelata determinante.
36 «Con che cosa lo hai colpito?» «L’acqua di Nino.» L’acqua di Nino non era altro che una borraccia militare coperta di stoffa verde, che uno zio ufficiale dell’esercito aveva portato al loro amichetto assieme alle immancabili barrette di cioccolata fondente. «Adesso chiedigli scusa, poi stasera io e te faremo un certo discorso.» Hernán si alzò dalla sedia e con tre passi fu davanti a Tommaso. «Scusa.» Parlò meccanicamente, come se già stesse pensando a cosa avrebbe fatto subito fuori da lì. L’altro si asciugò gli occhi ancora umidi e schiacciò la schiena sulle cosce della madre, che uscì dal locale senza salutare. Tommaso la seguì, lanciando un ultimo sguardo nella direzione del piccolo compagno. Quando furono soli, Ana guardò con aria di rimprovero il suo piccolo, tenendo i polsi sui fianchi generosi. «Vai a lavarti le mani e quel brutto muso da zingaro, poi vieni a sederti dietro il banco con me.»
37 Hernán si diresse allora verso il bagno, strascicando le infradito sul pavimento, col capo piegato da una parte, come se si annoiasse. Nello stesso momento entrarono due signori attempati, parlando del campionato di calcio da poco cominciato, si sedettero sugli alti sgabelli adiacenti al bancone e ordinarono con tono pacato due Biancosarti. Ana si voltò verso gli alti scaffali e ne ricavò una bottiglia trasparente, dal contenuto giallo paglierino, con la scritta obliqua sul campo rosso. Ne versò generosamente il liquido in due bicchieri da aperitivo che spinse delicatamente sulla liscia superficie del bancone, in direzione dei clienti che intanto tacevano. Poi, come in un gioco di prestigio, fece apparire tre piattini di fritte golosità che sottopose al languore dei loro sguardi e, come soddisfatta dalla reazione che aveva percepito, andò a sedersi dietro al registratore di cassa mal celando un seducente sorriso.
FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...