Esseri Umani

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In uscita il 30/6/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2017 (3,99 euro)

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MARIAPIA GUERRIERI

ESSERI UMANI

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ESSERI UMANI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-114-3 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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LA TIGRE DI CIOCCOLATO

Il padroncino Timmy sarà davvero entusiasta di gustare il suo dolce preferito, oggi che è il suo settimo compleanno. Di sicuro gli tirerà su il morale, dopo la terribile delusione di aver ricevuto solo un semplice gattino striato al posto della tigre che tanto desiderava. Certo tutti gli altri regali gli sono piaciuti davvero moltissimo, soprattutto il nuovo smartphone, con quello spettacolare orologio supertecnologico collegato. Quello che è così avanzato e preciso da avere bisogno di essere messo in carica esattamente ogni sei ore. Tutti doni magnifici, però lui quella tigre la voleva così tanto... Comunque, la torta gli ridarà il buon umore, ne sono sicuro! Parola di maggiordomo! Se ne avanzerà un pezzetto, lo porterò al mio John, che anche compie sette anni proprio oggi. D'accordo, lui preferisce il cioccolato alla crema di limone, ma saprà accontentarsi. Del resto nessuno può avere sempre tutto ciò che vuole.


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IL SUPERMERCATO

“Tonno, Philadelphia, zucchine, pane e cereali…” pensava Sofia mentre si avvicinava all’entrata del Todis più decrepito di tutta la città. “Andiamo, non è difficile!” ripeté a se stessa, mentre la porta del famigerato discount si faceva sempre più grande, “compri sempre le stesse cose! Non puoi dimenticartene!”. Sofia con i supermercati non aveva mai avuto un buon rapporto: la mettevano a disagio e la facevano sentire stupida. Ogni volta che pensava di dover fare la spesa le saliva l’ansia. Faceva una lista di cosa comprare e passava il tragitto casa-negozio a ripetersela in mente, consapevole che, nel momento esatto in cui avesse messo piede nel locale, tutti i nomi di qualunque genere alimentare sarebbero andati a farsi benedire nell’oblio confusionario della sua memoria. Tutto tranne il tonno. Quello non poteva dimenticarlo. Praticamente da che era approdata all’università mangiava solo quello, con pasta e olio. La domenica aggiungeva anche il Philadelphia, se si era ricordata di acquistarlo. “La carta igienica! Anche quella! Se te la scordi Rita ti ammazza!” si riprese, attraversando una delle tante squallide strade di quella terribile città. Rita era un po’ come sua madre, quando si trattava di fare la spesa. Era esigente: non bastava ricordarsi di comprare il prosciutto cotto, c’era bisogno anche che fosse buono e senza grasso, altrimenti la colpa sarebbe stata la sua, perché non aveva saputo scegliere. Suo padre non aveva mai capito la differenza tra pasta rigata e liscia ed era morto ancora ignorandola, ma sicuramente ricordando


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perfettamente le urla della signora Gilda, sua consorte, che tirava giù un santo dal calendario per ogni pacco di pennette lisce come il sedere di un bambino. “Carta a cinque veli, non quella economica… ricordatelo!” si ammonì silenziosamente Sofia, talmente immersa nei propri timori da rischiare di accasciarsi sullo specchietto di una vecchia panda nera parcheggiata. Terrorizzata com’era dalla fila di carrelli che l’attendeva all’entrata, non si accorse neanche dello sguardo torvo rivoltole dai due occupanti della vettura che aveva appena tamponato col suo fianco. “Non ti serve un carrello… devi prendere poca roba…” cercò di calmarsi, senza riuscirci. “Tonno…” pensò, in preda al panico. “Che altro c’era?”. Il commesso che la vide entrare le rivolse un sorriso furbesco, di quelli che le riservavano invariabilmente tutti i dipendenti di qualunque supermercato al mondo. Brutta razza, quelli. Sembravano avere un radar per gli inetti come lei e, di questo Sofia ne era certa, si divertivano in segreto a osservarla ripassare cinque volte davanti allo scaffale del tonno, prima di accorgersi effettivamente di averlo sotto al naso. Quasi li sentiva, quei diabolici commessi, mentre sghignazzavano alle sue spalle! “Tonno…” ripeté mnemonicamente a bassa voce, con una nota di disperazione dovuta al fatto di aver dimenticato tutto il resto della lista. Lo sapeva dove si trovava, lo aveva imparato nel corso delle sue sortite settimanali nello stesso negozio, perciò si diresse a passo spedito verso il Rio Mare, con la stessa sicurezza di un pirata verso il tesoro. “Che altro c’era?” tentò inutilmente di riportare alla memoria la cantilena che l’aveva accompagnata fin nel negozio. Un viscido commesso le passò dietro, sparendo nel reparto dei detersivi e facendola sentire accerchiata come un animale in gabbia.


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Afferrò un barattolo di sottaceti, fingendo la stessa tranquillità di una vecchia signora, regina del discount, poi si allontanò a passo malfermo, guardando gli scaffali pieni senza scorgervi nulla. “Concentrati! Il sale! Sicuro ci serve il sale…” Sofia agguantò un pacco e lo guardò con terrore. “Fino o grosso?” si domandò, precipitando nel baratro dell’indecisione. Una gocciolina di sudore le scese lungo la fronte. Odiava quel tipo di dilemma: il 50 e 50. Aveva l’insolita capacità di scegliere sistematicamente l’opzione sbagliata, a prescindere dalla situazione, e la cosa diventava un problema quando, nel controllare la spesa, sua madre, oppure Rita, si accorgeva dell’errore, poiché la costringeva a tornare al supermercato per cambiare il prodotto, esponendola al dileggio più smaliziato degli infernali commessi. Si caricò tra le braccia quello grosso, tanto al massimo lo si poteva macinare per farlo diventare fino, e lanciò un’occhiata disperata al resto dei reparti di alimentari, per i quali si accingeva a vagare tramortita, senza la più pallida idea di cosa comprare. «Ehi, Vomito? Un’altra volta?!». Edoardo alzò lo sguardo avvilito su Alessandro e lo vide sghignazzare divertito mentre scompariva dietro lo scaffale dei surgelati che aveva dinanzi. Odiava quel soprannome, ma i suoi colleghi glielo avevano affibbiato il giorno in cui l’ennesimo bambino pestifero aveva svuotato le proprie viscere sul pavimento del reparto dei prodotti da bagno, il suo reparto. Non sapeva perché, ma se qualcuno doveva sentirsi male in quel maledetto Todis, doveva farlo invariabilmente davanti alle scatole di Tampax e ai detersivi che lui meticolosamente accatastava ogni mattina. Questa volta il piccolo diavolo lo aveva centrato in pieno, verniciandogli di verde le scarpe nuove e la divisa bianca con il logo


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del discount. Era il decimo quell’anno. Era come se il caso gli avesse disegnato un bersaglio invisibile in fronte, percepito da tutti i deboli di stomaco del quartiere, i quali avvertivano il suo potente richiamo a chilometri di distanza, nei giorni in cui ogni specie di Salmonella minore avesse deciso di esercitare la propria supremazia sul resto della flora intestinale. «Mi dispiace tanto… Credo che non abbia digerito la merenda!» andava scusandosi l’ennesima mamma contrita, mentre frammenti di biscotti ancora intatti gocciolavano giù dalla sua maglia verde. «Non si preoccupi signora, sono abituato» mormorò Vomito, tirando fuori i guanti in lattice che ogni mattina si infilava nella tasca posteriore dei pantaloni, insieme alla mascherina. Si avviò verso lo spazzolone che teneva appoggiato perennemente all’ingresso del suo reparto, vicino alla carta igienica, e lo interpellò con rassegnata abitudine. «Puliamo questo disastro…» gli propose sottovoce, dirigendolo, armato di detersivo, verso la pozza acida, la quale sembrava allargarsi di propria sponte, come se le salmonelle in essa contenute stessero accampando diritti di conquista sul territorio dei fusti di Dash economico. «Mi scusi…?». La richiesta gli giunse così incerta che quasi credette che fosse stata la pozza di vomito a pronunciarla. Dopo un attimo di indecisione, Edoardo alzò la testa dal suo mondo e si girò, aspettandosi in realtà di non vedere nessuno. Qualcuno c’era, invece. La stramba. Quella che ogni settimana metteva piede nel Todis, aggirandosi per i reparti come una sonnambula e chiedendo informazioni a tutti gli addetti del discount. «Sì?» la esortò, consapevole che fosse il colore e l’odore della sua maglia a farle storcere il naso. «Non riesco a trovare il deodorante spray» confessò timidamente la ragazza.


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Edoardo guardò la stramba con una certa indecisione, poi guardò lo spray che era sull’espositore proprio di fianco a lei, poi di nuovo la stramba e gli sembrò che anche il deodorante li stesse guardando silenziosamente, divertendosi. “Ci sta provando con me?” si chiese Vomito, poi la macchia di vomito sulla sua maglietta gli suggerì la risposta: “è solo matta”. «Alla sua sinistra, signorina» le rispose, indicando il Dove in offerta a 1.99 euro. La stramba arrossì, si voltò di scatto e quasi si spaventò nello scorgere improvvisamente le varie bottigliette che erano sempre state lì. «Grazie…» mugugnò imbarazzata, afferrò un flaconcino e scappò via dietro i surgelati. Edoardo la guardò per un momento, aveva un bel culo, poi se ne tornò alla pozza maleodorante che era riuscito a confinare nel secchio. Lo avrebbe scaricato nel parcheggio, come al solito. La strada già la sapeva e ci si avviò sconfitto, scortato dalle risatine incredule di Alessandro e Giada, che se ne stavano nascosti dietro il bancone dei salumi, lì dove nascondevano il cane randagio che avevano preso in simpatia. Non si degnò neanche di guardarli, li odiava. Odiava tutti lì dentro, odiava l’intero Todis e, più di qualunque altra cosa, odiava il maledetto reparto delle gastroenteriti croniche. Pensare che era stato più che contento, dodici mesi prima, di essere assunto in quell’inferno. Poteva finalmente guadagnare qualche spicciolo per conto proprio. Dio solo sapeva quanto ne avesse bisogno per soddisfare tutti i vizi della sua fidanzata. Minny era una ragazza troppo bella per stare con lui e questo aveva un costo. Per il resto, era stupida come una gallina in un pollaio, ma questo gli faceva comodo fino a che gli permetteva di convincerla con estrema semplicità a fargli cose che nessun’altra avrebbe accettato così ben volentieri.


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Trascinò il secchio nel parcheggio e lo svuotò nel solito posto, lì dove non batteva mai il sole, espressione che, secondo lui, poteva andare bene per definire l’intera città. «Ehi stronzo! Butta quella merda vicino alla tua di macchina!» urlò Domenico, affannandosi con la levetta che abbassava il finestrino della vecchia panda di suo fratello Gianni. «Mi scusi signore, non mi ero accorto di voi…» tentò di giustificarsi il patetico commesso con la divisa sporca di una maleodorante melma verdastra. «Sì sì… sparisci, va!» lo liquidò, rialzando faticosamente il vetro per chiudere fuori dall’abitacolo la puzza che veniva dal contenuto del secchio. «Che schifo…» commentò Gianni, seduto di fianco a lui, alla guida. «Come tutto il resto di questa schifosa città…» osservò disgustato Domenico, estraendo dal cruscotto il suo vecchio passamontagna sbiadito. Gianni lo guardò con un’espressione più beota del solito, mentre tirava fuori con estremo compiacimento il proprio, nero come la notte. Domenico lo notò con stupore. «È nuovo quello?» volle sapere, ammirando l’indumento con una certa invidia. «È lavato con Perlana!» gli rispose suo fratello, mostrano in un sorriso la scarna schiera di denti gialli che custodiva gelosamente in bocca. Domenico sentì il proprio stomaco contorcersi a quella orrenda visione. «Questa battuta è diventata vecchia più o meno il giorno dopo l’invenzione del Perlana» borbottò, nascondendo la faccia dietro il passamontagna. «Tu dici?» gongolò Gianni, con quel suo fare idiota. «Secondo me invece è un evergreen!».


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Domenico lo guardò attraverso i fori per gli occhi e suo fratello fece lo stesso. «Evergreen?» chiese, incapace di immaginare quel termine in bocca a quello zotico di suo fratello. «Sì, evergreen» gli rispose Gianni. «Quando l’hai imparata questa parola?» si informò, alitando attraverso la lana stinta. «Me l’ha insegnata ieri mia figlia, l’ha imparata a scuola!». Domenico alzò gli occhi al cielo. “Ida non è tua figlia, coglione! Sono esattamente dieci anni che mi scopo quella troia di tua moglie!” pensò dentro di sé e la cosa lo fece sorridere, protetto dal passamontagna. «Dai, si è fatto buio, andiamo…» disse quindi, facendo per aprire lo sportello. Gianni si fece sfuggire un risolino eccitato, ma Domenico lo fermò prima che potesse metter piede fuori dalla panda. «Ti sei ricordato di caricare la pistola questa volta?» volle sapere, memore dell’ultima rapina andata a segno, durante la quale aveva dovuto improvvisare con una sola arma, contro due meccanici incazzati tanto quanto gli arnesi che stringevano nei pugni. «Cazzo, sì!» lo rassicurò Gianni e i due si decisero a scendere dalla vecchia Panda nera, diretti verso la loro preda. «I due sospettati sono entrati nel Todis, maresciallo!» gracchiò il giovane brigadiere Caralli. Il maresciallo Nomento spense il sigaro e sputò rumorosamente, così che un grumo di catarro annerito andasse a spiaccicarsi sull’asfalto. “Odio questo schifo di città…” pensò, guardando il parcheggio desolato del discount nel quale era stato appostato per quasi un’ora, nell’attesa che quei due cretini dei fratelli Gastici si decidessero a fare la loro mossa. Era stata l’ora più lunga della sua vita, costretto ad ascoltare le chiacchiere insulse di quel deficiente di Caralli, quando l’unica cosa


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a cui riusciva a pensare erano le emorroidi infiammate che non gli davano tregua. «Vediamo di sbrigarci!» comandò al suo sottoposto e scese dalla vettura, seguito da Caralli e dagli altri agenti in borghese che si era portato dietro per compiere l’ultimo arresto della sua carriera. Poi finalmente sarebbe potuto andare a spalmarsi la sua pomata. Non vedeva l’ora! «Insomma alla fine è morto anche il cane che bazzicava di straforo dietro il bancone dei salumi!» sghignazzò il dottor Morve, schioccandogli un'occhiatina incredula. Aldo fece spallucce, abbottonandosi il camice fino alle ginocchia e facendo bene attenzione che le pieghe della stiratura terminassero perfettamente dritte sui pantaloni puliti. «Povera bestia! Si è beccata una pallottola proprio in fronte, mentre volavano sale grosso e sottaceti per tutta la stanza!» continuò incurante il suo logorroico collega, con quella voce insopportabilmente nasale. «Una pallottola se l'è beccata anche il nostro amico qui! Più d'una anzi!» tentò di inserirsi Aldo, scoprendo il cadavere del maresciallo che campeggiava sul suo tavolo settorio. Enzo Morve fischiò sorpreso alla vista del corpo bucherellato di quel vecchio baffuto e brizzolato. «Cazzo, in una sera in quel benedetto Todis è successo di tutto!» osservò, affiancandosi all'uomo morto con un coltellaccio affilato in mano, come a volerlo uccidere di nuovo. «Sarà stata la serata più movimentata degli ultimi cinquant'anni in questa fogna...» commentò Aldo, annotando la posizione dei fori e ripensando nostalgico alle belle spiaggette della sua città natale; un paradiso in confronto alle strade luride del buco di mondo in cui lo avevano infognato per sempre, dove il centro cittadino era uno squallido discount. Non se lo meritava quello scherzo! In fondo si era soltanto limitato a


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dire in faccia al dottor Scanzi, primario di medicina legale del suo precedente ospedale, che lo considerava un emerito idiota e un dannato incompetente! Non glielo dovevano fare, di mandarlo in quel purgatorio dimenticato da Dio... «Se ci penso, ancora mi viene la pelle d'oca!» continuò il dottor Morve, che riusciva a essere, se possibile, ancora più cialtrone di Scanzi, oltre che più molesto. «Perché?» gli domandò comunque, suo malgrado. Intanto lo sterno del vecchio maresciallo giaceva su un ripiano, mentre lui con un mestolo raccoglieva il sangue dal suo torace e lo gettava via nella griglia di scarico. «Mia moglie era uscita da quel Todis proprio pochi minuti prima della sparatoria!» eruppe Enzo, dandogli uno spintone e facendogli lanciare una mestolata di sangue all'aria. Aldo lo fulminò con lo sguardo e per un momento fu tentato di suonargli l'attrezzo su quel testone calvo. «Scusami... è che proprio la cosa mi ha scioccato! Se il bambino non avesse dato di stomaco, Livia non lo avrebbe mai riportato di corsa a casa!» si giustificò il collega, grattandosi la pelata. «Che fortuna!» dovette ammettere Aldo, rinunciando all'idea di aprirgli il cranio in due per cercarci dentro un cervello. «Non dirmelo! Credo che l'unica a potersi ritenere ancora più graziata sia la ragazzina che abbiamo ricoverato su in ortopedia!» lo assecondò Enzo, agguantando il cuore traforato che gli veniva passato e piazzandolo sulla bilancia. «Che le è successo?» chiese curioso ancora Aldo, che tentava di mascherare il fatto di essersi ormai interessato all'intera vicenda. «Pare che nella foga del momento, i due rapinatori si siano messi a sparare a zero su tutti quelli presenti nel locale, credendoli tutti poliziotti in borghese, e un paio di pallottole hanno raggiunto anche lei: una a una gamba e l'altra dritta nella scatoletta di tonno che teneva vicino al cuore! Il Rio Mare le ha letteralmente salvato la vita!» lo informò Morve, strappandogli una risata sotto i baffi.


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«Che fine hanno fatto i due ladri, quindi?» continuò Aldo, mentre asportava un grosso paio di polmoni anneriti di fumo. «Uno ce lo abbiamo qui pronto in frigo» lo informò Enzo, «ce lo conserviamo per dopo pranzo». «L'altro?». «Credo che lo tengano di sopra in osservazione, sembra che uno dei commessi lo abbia steso con uno spazzolone mentre tentava di ricaricare la pistola». Il dottor Morve sembrava aver assistito personalmente alla rapina, tanta la sua precisione. Non per niente sua moglie aveva la fama di essere la capo pettegola dell'intera città. Aldo era pronto a scommettere che alla donna fosse quasi dispiaciuto di aver dovuto lasciare il discount prima che questo diventasse teatro del migliore avvenimento che si sarebbe potuto sognare in quel secolo, in quella discarica a cielo aperto di città. «La cosa strana in realtà è che la vedova del ladro defunto si è fatta un bel po' di risate nell'apprendere la notizia della morte del consorte!» aggiunse Enzo, prendendo a tagliuzzare un fegato teso e bitorzoluto. «Ma davvero?» lo incitò distrattamente Aldo, srotolando meccanicamente metri di intestino, come se stesse filando della lana. «Oh sì! L'allegra signora adesso non si stacca dal letto del cognato neanche un momento! Ha stampata in faccia la stessa espressione di qualcuno che ha vinto una fortuna alla lotteria!» confermò Enzo, estraendo un proiettile da ciò che restava di un vecchio pancreas. Aldo sorrise sornione, appuntandosi mentalmente di annotare sul prossimo referto anche il grosso paio di corna che sicuramente spuntavano dal capo nel misero ladro, poi il suo pensiero corse alla lotteria e si immaginò anche lui, felice come una pasqua, con un bel biglietto vincente in mano e un gruzzolo in tasca abbastanza grosso da permettergli di passare il resto della sua vita a sorseggiare latte di cocco su una qualche bella isoletta sperduta nell'oceano. Tanti saluti a tutti i cadaveri di quell'ospedale e soprattutto addio a quello schifo di città!


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Agguantò un rene pieno di cisti che gli scoppiarono in mano e si decise con estrema risoluzione. Alla fine del suo turno sarebbe andato a comprarsi un bel mucchio di biglietti della lotteria e avrebbe passato la serata a grattarli e sperare. Se non andava errato, la tabaccheria che li vendeva era proprio di fronte al famigerato discount.


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UNA SCARPETTA PER IL SIGNOR CALOCCIA

«Oggi Andrea non ti dà molta retta…» le disse la specializzanda, vedendola ciondolare abbattuta vicino al carrello delle cartelle cliniche. “Quando mai…” pensò lei stizzita. Il dottore non le aveva mai chiesto neanche il suo nome, figuriamoci degnarla di una qualche considerazione. Si ricordava di lei solo quando c’era da chiudere una porta, andare a prendere dei guanti o partire alla ricerca della fantomatica bilancia o del leggendario saturimetro. «Fa’ un po’ di esercizio, va’ nella stanza 28-29 e scrivi l’anamnesi dei due pazienti, alla fine portamela e te la correggo» le propose la giovane dottoressa, cercando di rendersi utile. Alessia avrebbe preferito continuare a mantenere il muro, piuttosto che essere costretta a intervistare altri due vecchietti, ma apprezzò il tentativo e tirò fuori penna e blocchetto. «Vado» annunciò, sforzandosi di apparire entusiasta. Del resto l’anamnesi era la parte più importante del lavoro. «Un’anamnesi fatta bene è l’unica cosa che ci permette di curare un paziente!» le avevano ripetuto in coro almeno mezza dozzina di docenti, in altrettanti corsi inutili, come filosofia della medicina. Il problema era che in qualunque reparto si ritrovasse a reggere le pareti, l’anamnesi cambiava filosofia. C’era chi si profondeva in noiosissimi sproloqui, risalendo fino all’età di svezzamento del paziente; mentre altri, più pragmatici, si limitavano a scrivere le patologie correnti, seguite dalla lista interminabile di farmaci con cui esse erano in trattamento. Era impressionante il numero di pillole che un vecchietto medio si trovava a dover ingoiare ogni giorno, a


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diverse ore del giorno, tutti i giorni. Della serie: dimmi cosa prendi e ti dirò che hai, quanto hai, ancora! Entrò nella stanza designata e subito si accorse che il lavoro sarebbe stato più difficile del solito, perfino più complicato di quando aveva cercato di estorcere a un paziente il motivo del suo ricovero, mentre questi si ostinava a domandarle se preferisse lo yogurt al latte per la colazione. L’aria nella stanza era pesante, stantia, come se qualcosa ci stesse marcendo dentro. Si portò i capelli profumati al naso e inspirò profondamente. «Buongiorno» salutò, rivolgendosi ai due uomini che giacevano nei loro letti. Uno, quello vicino alla finestra, si limitò a fissarla insistentemente, mentre quello dal lato della porta le ricambiò l’augurio. «Sono una studentessa e per esercizio vorrei rubarvi qualche minuto per farvi delle domande, per l’anamnesi» li informò meccanicamente, come aveva fatto per decine di volte. Il signore vicino la finestra le esibì un sorriso, sdentato ma allegro, e quello dal lato della porta si sentì lusingato. «Sarà un piacere!» esclamò infatti, commosso dal ricevere quel genere di attenzione. Il modo in cui ogni paziente si animava nel sentirla interessarsi a loro la stupiva ogni volta, quasi che vederla avvicinarsi e dedicare loro del tempo li facesse sentire accuditi. Non desideravano altro, in fondo, in quel luogo dove la solitudine e la disperazione erano sempre in agguato, per lo più ignorate dal personale affaccendato. Prima di accomodarsi, Alessia sentì il bisogno di aprire la finestra. Ci si avvicinò e un dubbio l’aggredì prima di poter fare entrare un po’ d’aria fresca. I pazienti negli ospedali erano fragili e malmessi: un venticello leggero bastava a regalare loro un altro malanno. Si girò titubante e rivolse uno sguardo di supplica agli inquilini della camera, valutando mentalmente le loro condizioni psicofisiche.


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«Posso?» domandò timidamente, facendo cenno alla finestra. L’uomo più loquace le sorrise generosamente. «Certo, apra pure!». Il piccolo signore al suo fianco la fissò ancor più intensamente e scosse la testa su e giù con convinzione, accompagnando il gesto con incomprensibili mugugni: «yaa, gna gna guà». Alessia lo guardò interdetta. «Lo prendo per un sì…» azzardò quindi, decidendosi a sollevare di poco il pesante battente. Prese la sedia e la piazzò al centro tra i due letti. A quel punto realizzò che intervistare il mugugnatore sarebbe stato impossibile e con sollievo si rivolse al signore più sveglio e compliante, termine che aveva imparato a utilizzare per confondere i comuni mortali. Per dire, per esempio, che il vecchietto della 35 era un maniaco impertinente, infatti, le bastava rivelare al medico che egli non era compliante e tanto sarebbe bastato per evitarle di passare anche solo un altro minuto in stanza con lui. «Ho qui una lista di domande che devo porle per raccogliere accuratamente tutta la sua storia clinica. Le sembreranno molto strane, ma sono state concepite proprio così» iniziò, tirando fuori della tasca del camice un foglietto con sopra un elenco scritto a mano. Avrebbe dovuto passarlo al computer, dato che la sua grafia diventava ogni giorno più incomprensibile. «Per cominciare, lei come si chiama?». L’uomo stette al gioco, felice di quel momento di notorietà. «Pelino Caloccia» dichiarò, strappandole un sorriso. Sembrava il nome di qualche protagonista di fumetti per bambini. «Bene signor Pelino, cominciamo dall’anamnesi patologica prossima» gli spiegò, scrivendo APP sul suo blocchetto. «Come mai è stato ricoverato?». «Sono diabetico» confessò Pelino. «Mi devono amputare il piede» aggiunse, visibilmente rattristato.


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Alessia sembrò accorgersi solo in quel momento della enorme fasciatura che dimorava al termine della sua sottile gamba destra. Era da lì che veniva l’odore… Le occorse qualche secondo per fare mente locale su ciò che aveva letto da qualche parte sul piede diabetico e tutta la storia della microangopatia e neuropatia e via dicendo… Tutte cose che non le erano proprio chiarissime, ma che si limitava a dare per scontate. «Da quanto tempo ha scoperto di essere diabetico?» proseguì, andando a braccio. «Saranno almeno trent’anni!» esclamò il signor Caloccia, enfatizzando il numero con le mani: un tre e un pugno alzati. «Bene…» mormorò Alessia, sovrappensiero, cercando di annotare qualcosa che fosse comprensibile. Il suo commento non piacque molto a Pelino, che dovette dissentire. «Mica tanto, non è una bella cosa il diabete». Alessia cadde dalle nuvole e si sentì imbarazzata. «No! Certo… mi scusi!» biascicò, arrossendo e legandosi i capelli. Cominciava a sudare. «D’accordo… credo si possa passare direttamente all’anamnesi patologica remota allora» deliberò frettolosamente, cercando di apparire calma e risoluta, come se sapesse davvero ciò che stava facendo. «Come vuole lei…» acconsentì Pelino, sorridendole benevolo. «Bene, ha altre malattie, oltre al diabete?» gli domandò, sperando di non essere sembrata troppo vaga. Il signor Caloccia ci pensò un po’, indeciso. «Be’, ho la pressione alta e l’anno scorso mi hanno anche tolto una cataratta, proprio qui nell’occhio sinistro» spiegò, alzandosi la palpebra con le dita. Alessia fissò imbambolata il pallido bulbo oculare, scorgendosi dipinta nella sua pupilla dilatata: una ragazzina minuta, con i capelli in disordine e il camice un po’ stretto. Quando si accorse di esser rimasta con la bocca aperta si risolse per ridarsi un contegno.


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«Certo, ottimo… voglio dire sì, non ottimo. D’accordo, lo scrivo» balbettò, scarabocchiando sul taccuino segnetti cuneiformi. “Ho avuto anche la polmonite, da bambino, nel ‘46” la informò Pelino, seriamente intenzionato a riferirle finanche il più minimo acciacco contratto nell’estate del lontano 1500 e chissà cosa. Alessia si scoprì a sbirciare demoralizzata la lunga lista di domande che le rimanevano da porre. C’era ancora l’anamnesi familiare, dove avrebbe dovuto interessarsi di vita morte e miracoli di tutti i suoi congiunti. Per non parlare dell’anamnesi fisiologica, indispensabile per scoprire quante volte il signor Pelino andasse al bagno in un giorno e di che colore fossero le sue feci. Sempre meglio che dovergli chiedere se avesse mai contratto malattie veneree o se facesse uso di droghe e di stupefacenti. Aveva comunque deciso di saltarle quelle domande, poteva inventare le risposte. La sua mente annoiata si ritrovò a fantasticare sull’ultima parola ascoltata: ‘46. «Signor Caloccia, quando è nato, lei?» volle sapere. «Il 18 giugno del ‘33» dichiarò questi, orgoglioso. Alessia sbatté le palpebre, affascinata. «Lei ha vissuto la guerra!» realizzò ad alta voce, eccitata al pensiero. La seconda guerra mondiale esercitava un fascino inspiegabile su di lei. Aveva letto libri di storia e ascoltato testimonianze. Aveva perfino decifrato il diario del nonno della sua amica, che aveva vissuto esperienze incredibili in Grecia. In più, si era guardata e riguardata ogni film dedicato al tema, da Salvate il solato Ryan a Il mandolino del Capitano Corelli, passando per tutte e venti le puntate delle due serie televisive Band of Brothers e The Pacific. Nonostante tutti i documentari visti su History, comunque, era ben altro che un’esperta, ma si lasciava pur sempre affascinare dal tema. «Ero solo un bambino all’epoca, ma sì, l’ho vissuta» le confermò Pelino, assicurandosi anche l’attenzione del mugugnatore di fianco.


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Alessia avvicinò la sedia al suo letto e si preparò ad ascoltare le sue favole. «Mi racconti» pretese, sorridendo. Pelino si sentì lusingato e frugò nella memoria, cercando qualche aneddoto interessante. «Sono sopravvissuto a un bombardamento!» affermò, sicuro così di guadagnare almeno un’esclamazione di ammirazione e sorpresa. Alessia lo esaudì, immergendosi con entusiasmo nei suoi ricordi. «Gli apparecchi, così a quei tempi chiamavamo gli aerei, avevano sorvolato il mio piccolo paesino pugliese, lasciando piovere giù qualche bomba. Non può neanche immaginare il baccano che provocano quelle esplosioni. Le macerie e la polvere, poi, ti si infilano nell’anima!». «Ci sono stati molti morti?» curiosò lei, ricordando le scene cruente dei suoi film. Pelino si lasciò sfuggire una risata, aveva un bel suono, gentile e pacato. «Un asino! Si è visto cascare la bomba in testa, povera bestia!». Alessia rise anche lei, divertita. «Solo l’asino? Che fortuna!» dovette ammettere. Anche il paziente nel letto di fianco biascicò qualcosa: «Gna gna guà yah!». Pelino e Alessia gli fecero cenno di sì con la testa, sorridendo di circostanza. «Com’erano i fascisti?» domandò nuovamente lei, preda della propria curiosità. «Li detestavo! Ero solo un bambino e non capivo niente. Mi alzavo quando me lo dicevano e ripetevo ciò che mi ordinavano di dire, quando volevano loro. Avrei potuto rimanergli indifferente se la cosa si fosse limitata a quello! Invece un giorno, dopo che avevo aiutato mio papà in campagna, ero andato a comprarmi un gelato con i pochi spiccioli che mi ero guadagnato. Ero rimasto a gustarmelo nel bar ed ero talmente assorto dal suo gusto da non accorgermi della voce del


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Duce alla radio. Visto il mio comportamento, un uomo in uniforme nera mi venne vicino e con uno schiaffo mi fece cadere a terra il gelato, rimproverandomi per non essermi alzato mentre il Duce parlava» raccontò il signor Caloccia e ancora un’ombra di infantile risentimento si agitò nei suoi occhietti chiari. Alessia scoppiò a ridere. «Che cattiveria!» commentò. «I fascisti, comunque, erano sempre meglio dei nazisti!» le rammentò Pelino, scovando nella memoria un'altra storia tristemente divertente. «La sua città è stata sotto l’occupazione tedesca?» gli chiese lei, con quella sua aria affascinata. «Prima eravamo alleati e loro ci ignoravano, freddi Crucchi che erano. Poi, da un giorno all’altro, si scoprì che invece eravamo nemici e le cose cambiarono. Improvvisamente si fecero più severi e minacciosi. Ricordo ancora il povero barbiere del paese, Mario, che un giorno fu costretto da un ufficiale tedesco a seguirlo fin nella città vicina, per far barba e capelli a una cinquantina di soldati. Il poveretto si sbrigò a tarda notte e fu lasciato da solo in mezzo al nulla. Dovette camminare al buio per chilometri prima di riuscire a tornare a casa, dove sua moglie lo aveva già dato per morto!». Alessia si lasciò travolgere dalle sue parole, ritrovandosi catapultata nel 1943, vestita di stracci, in piedi nel bel mezzo di una stradina polverosa, circondata da avvenenti soldati biondi, con i fucili spianati. «Gli Americani, invece? Loro com’erano?» chiese, eccitata. Pelino ridacchiò. «Gli Yankee erano tutt’altra cosa. Misero i Crucchi in fuga nel giro di una notte e si appropriarono delle loro postazioni. Presero a distribuire jeans e cibo in scatola. Le donne confezionavano camice bianche con la stoffa dei loro paracadute…». Tutti e tre nella stanza indugiarono qualche secondo in quella fantasia. «Pensi che quella fu la prima volta che vedemmo gli uomini di colore, i neri!» confessò quindi, allegramente.


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Il mugugnatore strillò qualche altro gna gna gna, come per confermare. A giudicare dall’età, forse anche lui aveva vissuto qualcosa del genere. Alessia metabolizzò quell’informazione con un’occhiata incredula. «Come facevate per la lingua?» domandò poi, saltando alla domanda successiva, che non era scritta in nessuna lista stropicciata. Pelino si sentì particolarmente orgoglioso di quella curiosità. «Mio padre faceva da interprete. Aveva vissuto in America, lui. Apparteneva a quella generazione di meridionali con la valigia in mano, proprio come i migranti che ci arrivano oggi sui barconi…» dichiarò, sinceramente commosso al pensiero del genitore. Alessia stette per porre il quesito successivo, ma l’atmosfera venne spazzata via dall’entrata del dottore, accompagnato dal carrello per le medicazioni. Questi era un uomo sulla quarantina, alto e biondo, con gli occhi verdi e il mento definito. Orologio al polso, camicia infilata nei jeans a vita bassa e camice sbottonato, con il fonendoscopio al collo. Bello, come di rado se ne vedevano in giro. Alessia era tornata lì ad ammirarlo ogni giorno per mesi, solo per farsi ignorare da lui, che era particolarmente bravo nel mestiere. «Che stai facendo qui?» le domandò questi, stupendosi nel vederla accoccolata sulla sedia, con aria sognante. Alessia si scosse e scattò sull’attenti. «Mi esercito a raccogliere l’anamnesi» rispose, da brava recluta. «Ah, allora che ha il signor Caloccia?» la interrogò lui, infilandosi dei guanti. “Una gran bella storia!” pensò lei. «È diabetico» disse, invece. «Sì, come la gran parte dei nostri pazienti. Qualcosa di più specifico?» la esortò il magnifico dottore, attaccando con delle forbicine l’enorme fasciatura al piede di Pelino. «Gli devono amputare il piede…» mormorò Alessia, fissando il pavimento.


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«Direi pure tutta la gamba. All’eco-doppler si è visto che non ha un’arteria decente fino alla coscia» la corresse lui e Alessia non riuscì a non rivolgere uno sguardo dispiaciuto al signor Caloccia, incontrando i suoi occhi afflitti dalla paura. «Infilati dei guanti e dammi una mano» le ordinò il dottore, mentre le bende venivano via, rivelando uno spettacolo terribile. «Prima, chiudi la porta» si affretto ad aggiungere lui, immancabilmente. Alessia obbedì e gli si fece vicino, attendendo istruzioni. «Tienigli la gamba sollevata, dobbiamo ripulire la zona, che già si è infettata». Questo di sicuro spiegava l’odore che impregnava la stanza. «A cosa è dovuto il piede diabetico?» la sorprese quindi, cogliendola in fallo mentre si addossava il peso della gamba. «Ehm…» mugugnò lei, desiderando di aver approfondito meglio l’argomento. «Microangiopatia?» azzardò meccanicamente. «Sì, e che significa?» le chiese il dottore, fermandosi e indagandola con quei magnifici occhi verdi. Alessia impallidì e sentì di arrampicarsi su di uno specchio. «I vasi sanguigni non servono più bene l’arto, dando origine a ulcere che possono infettarsi» arrabattò, lasciando molti spazi vuoti nel discorso. Il dottore le rivolse una smorfia insoddisfatta. «I vasi si deteriorano progressivamente, fino a obliterarsi quasi del tutto. Perciò non arriva più abbastanza sangue al piede, che quindi va progressivamente incontro a necrosi. Si aprono prima le ulcere, che non guariscono perché non c’è sangue, e alla fine tutti i muscoli e i tessuti si decompongono» le spiegò, risolvendole più di qualche dubbio. A quel punto entrambi si concentrarono sullo spettacolo putrescente del calcagno di Pelino. La pelle era morta e la carne viscida, come liquefatta.


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«È infetto, dobbiamo pulire la ferita, altrimenti non potrà andare in sala operatoria» le ripeté il dottore, testando la sua capacità di rimanere impassibile dinanzi a tanto orrore. Fortunatamente lei lo stomaco ce l’aveva di ferro, perciò si avvicinò di più alla ferita, per guardarla meglio. «Un caso così non lo rivedrai facilmente» le rivelò il medico, chinandosi vicino a lei e avvicinando la lama di un bisturi al tallone in questione. Iniziò a raschiare e la carne molle venne via come gelatina maleodorante, andando a depositarsi su di una garza, mantenuta sotto al piede. «È una fortuna che pazienti come lui non sentano dolore…» osservò quindi, quando l’osso annerito fu completamente esposto, mentre brandelli di poltiglia giacevano sul letto. Alessia guardò Pelino e lo sorprese con le braccia incrociate dietro la testa, a godersi lo spettacolo. “La neuropatia…” pensò. “Non hanno più sensibilità dolorifica nella zona”. Sentì una goccia di sudore scivolarle lungo il collo, fino a tuffarsi sotto la camicetta, dritta fra i seni. La gamba pesava parecchio ed era già un quarto d’ora che la manteneva. Le braccia le tremavano e improvvisamente sentiva di voler prendere una boccata d’aria. Il dottore si accorse della sua fatica e con una grossa mano agguantò ciò che rimaneva del piede, sollevandolo senza sforzo. «Sei stanca?» si interessò. Alessia si asciugò la fronte e riprese la postazione. «No, no. Possiamo continuare» dichiarò stoicamente. «Abbiamo quasi finito, dobbiamo solo rifare la medicazione» la rassicurò lui comunque, prendendo delle bende pulite dal carrello.


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Quando il piede fu nuovamente rivestito di fasce, Alessia si congedò per andare a lavarsi le mani e al suo ritorno nella stanza scoprì che il medico se ne era già andato. Vide che Pelino non sorrideva più come prima. «Come si sente?» gli domandò, andandogli vicino. Gli occhi chiari di lui si posarono su di lei, tremolando per il turbamento. «Il dottore mi ha letto i risultati dell’esame delle coronarie. Dice che i vasi sono aperti solo al 30%» la informò mestamente. Alessia si immaginò un cuore affaticato, annaspante. «Dice che l’anestesia sarà pericolosa…» aggiunse Pelino, cercando in lei sostegno, forse conforto. “Anche di più… altro che emodinamicamente instabile” pensò lei, affranta dietro la maschera di freddezza. «Cosa ha deciso di fare, quindi?» gli domandò. Il signor Caloccia abbassò lo sguardo sulla sua nuova scarpa fatta di bende, contemplando il pensiero di poter convivere con essa. «Non voglio operarmi» decretò, risoluto. «Ho paura di rimanere sotto i ferri» aggiunse e di nuovo i suoi occhi imploranti si puntarono su di lei, mettendola a disagio. Cosa mai poteva rispondere lei a quella dichiarazione. Dall’alto dei suoi ventitré anni, che ne capiva di quel tipo di paura. Non aveva certo vissuto un bombardamento, né trattato con dei soldati nazisti. Non riusciva neanche a immaginare cosa volesse dire avere attaccato al corpo un arto che andava già decadendo. «È sicuro di ciò che sta facendo?» chiese, sapendo di non poter dire o fare nulla per influenzare la sua scelta, non potendo caricarsi di una tale responsabilità. Pelino sembrò tremare. «No, ma se non posso continuare semplicemente a medicare il piede, ho sempre la possibilità di farmi operare, più in là…» pensò ad alta voce. Alessia guardò pietosamente la sua medicazione bianca e pulita. «La ferita è già infetta, peggiorerà. Se non sarà l’intervento a farti


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addormentare, ci penserà la sepsi...» realizzò nella mente e la consapevolezza le si appoggiò delicatamente sul cuore, come un macigno. Pelino continuò a fissarla, aspettandosi che gli dicesse qualcosa, che lo rassicurasse o che almeno provasse a fargli cambiare idea, ma lei non poteva farlo. Come studente non aveva né le competenze, né l’autorità necessaria a dirgli cosa fare. Disarmata, sentì il bisogno di allontanarsi da quella stanza, per non tornarci. «Ho capito…» mormorò, sforzandosi di sorridere e facendo per andarsene. «Sa, conservo ancora la camicia fatta con il paracadute! Mia madre me la cucì addosso in un pomeriggio solo» sentì Pelino gridare, mentre era già sulla porta. «Se solo mi stesse ancora, si abbinerebbe alla perfezione alla mia nuova scarpetta!».


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TEMPO SCADUTO

La mensa dei dipendenti era piena come ci si aspettava che fosse all’ora di pranzo. La fila di camici bianchi e tutine verdi si dispiegava tortuosamente fin fuori delle porte di entrata e tutti chiacchieravano beatamente di lavoro, esami, famiglia e amici. Lei, invece, se ne stava in silenzio con il vassoio arancione stretto in mano, a osservare scetticamente quella pallida fettina rigida che spacciavano per platessa. I suoi compagni discutevano animatamente di chissà cosa intorno a lei, ma lei non stava ascoltando. Un altro pensiero, impronunciabile, timido, riprovevole, covava nella sua mente. Si chiedeva se a quell’ora anche lui avrebbe pranzato. Magari avrebbe approfittato della pausa tra un intervento e l’altro e si sarebbe presentato in mensa insieme all’intera equipe di chirurghi, con la loro solita aria onnipotente stampata in faccia. Era stato proprio in sala operatoria che lo aveva incontrato per la prima volta. Come studentessa era stata assegnata al Professor P. per svolgere il proprio tirocinio di chirurgia generale e tra gli specializzandi che non la degnavano di uno sguardo c’era anche lui. Alto e magro, dall’aspetto asciutto e nodoso. Aveva i capelli neri tagliati corti e i suoi piccoli occhietti scurissimi studiavano con aria guardinga da dietro un paio di spesse lenti convesse.


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Non era affatto bello, a questa conclusione era giunta piuttosto rapidamente, eppure la attraeva. Le aveva prestato attenzione quando il professore si era stufato di lei, l’aveva guidata a inserire i suoi primi cateteri, le aveva insegnato a fare le medicazioni e a mettere i punti. Una volta l’aveva fatta lavare e vestire per fare da terzo operatore al tavolo chirurgico. Si era trattato semplicemente di mantenere qualche valva e spostare delle anse intestinali, per poi ricucire l’incisura, eppure il tocco delle sue calde mani guantate sopra le proprie, mentre la aiutava a maneggiare gli strumenti, era stato emozionante, intenso. Durante tutti gli interventi sapeva che, quando non era lei a fissarlo, erano i suoi occhietti neri a non perderla d’occhio. Quando i loro sguardi si incrociavano, poi, sentiva un fremito nel petto, fugace come un’extrasistole. Era fidanzato, purtroppo, ma non le importava. In fondo non credeva di doversi sentire in colpa per qualche semplice sguardo in sala operatoria, dove per via delle mascherine si riusciva a comunicare quasi esclusivamente con gli occhi. Entrambi erano profondamente introversi e solitari, due singolarità circondate dal vuoto astrale, dal quale gli altri si tenevano a debita distanza di diffidenza. Forse era proprio per quella strana affinità che se ne sentiva attratta. La signora che serviva la richiamò dal baratro dei propri pensieri, costringendola a scegliere a caso, così da comporre nel vassoio i più improbabili tra gli accostamenti. D’altronde con il cibo di ospedale non faceva molta differenza: era tutto insipido e colloso.


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Insieme ai suoi compagni prese posto al tavolo, quello che con ogni semplicità avrebbe potuto essere etichettato come riservato agli sfigati. Ce ne era uno in ogni mensa e sembrava che loro possedessero un infallibile radar apposito per scovarlo. La conversazione fluiva lontana anni luce dal suo interesse, mentre punzecchiava ostinatamente la strana poltiglia che nel menù figurava col nome di purè. Il suo sguardo sfuggiva furtivo tra gli avventori seduti agli altri tavoli, studiando speranzoso ogni tutina verde in vista. Sapeva che era sbagliato, ma i suoi occhi evadevano ogni tentativo di controllo. D’un tratto, poi, eccolo lì. Il cuore le fece una giravolta nel petto. Era solo e le era sfilato di fianco col vassoio in mano senza vederla. Aveva dato un’occhiata in giro e finalmente si era accomodato a un tavolo davanti a lei, dandole le spalle. Era l’unico in tutta la mensa a pranzare in solitudine. Il fatto che fosse girato la faceva impazzire. Desiderava incrociare il suo sguardo e lasciare che i loro occhi si specchiassero gli uni negli altri senza vergogna. I suoi amici continuavano a blaterare stupidaggini, mentre lei moriva dalla voglia di parlargli. In realtà non erano proprio tutti suoi amici; ne conosceva forse tre mentre tutti gli altri le erano stati presentati davanti alla mensa e aveva già dimenticato i loro nomi. A pensarci bene quindi, erano in due, in quella mensa, a pranzare da soli. Lo stomaco le si chiuse irrimediabilmente, mentre un pensiero insistente le rimbalzava da una tempia all’altra.


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Voleva alzarsi e andare a salutarlo, magari fare finta di passare di lì per caso e fermarsi a scambiare due parole. Se avesse avuto abbastanza coraggio, avrebbe potuto anche sedersi di fronte a lui e fargli compagnia fino alla fine del pranzo. Quel desiderio era un tormento. Le gambe erano pronte a scattare, gli occhi erano fissi su di lui, ma nella sua mente continuavano a dipingersi tutti gli scenari peggiori possibili. Cosa avrebbe fatto se fosse arrivato il resto dell’equipe? Cosa avrebbe detto ai suoi amici? Cosa avrebbero pensato tutti quei pettegoli in camice bianco nella sala? Ma soprattutto, come avrebbe reagito lui? Le avrebbe dato corda, oppure l’avrebbe messa in imbarazzo? Le sembrava di impazzire e nel frattempo i minuti scivolavano via veloci, lasciandola paralizzata. C’era quasi. Aveva deciso. Si sarebbe alzata. Al diavolo tutto il resto! C’era quasi. Mani sul vassoio, era pronta a spiccare il volo verso il suo tavolo. Il cuore le era arrivato fino in gola e sentiva di essere pallida e madida di sudore freddo. Prese coraggio e fece per alzarsi. Prima però che il comando potesse giungere alle sue gambe, fu lui a mettersi in piedi, con il vassoio vuoto in mano. Lei si sentì il cuore ricadere nel petto con un tonfo sordo e profondo. Le gambe le si intorpidirono e si accorse di avere bisogno di riprendere a respirare.


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Il giovane specializzando le passò nuovamente di fianco senza vederla e sparì alle sue spalle, facendo sì che la delusione le inondasse il palato di amarezza, mentre si afflosciava sulla sedia. I suoi commensali discutevano ancora allegramente, totalmente ignari della sua tragica sconfitta, che si era appena consumata proprio sotto i loro occhi. Alla fine uno di loro spiò l’orologio e propose a tutti di bere un caffè, di quelli velenosi che servivano al bar, prima di tornare a lezione. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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